di Ennio Abate
La questione del rapporto tra poesia e realtà (o storia, o politica) riaffiora in modi più o meno carsici nelle nostre discussioni: in quella della redazione di “Poliscritture” che ha riguardato alcune poesie sulla guerra per il n. 12 della rivista (e che appena possibile pubblicheremo), nel mio saggio su “La Poesia secondo Gianmario Lucini, in miei precedenti ( e numerosi, fin troppo per alcuni) commenti e post dai tempi del «Laboratorio Moltinpoesia»; e più indirettamente anche in alcuni commenti di Luciano Aguzzi.
Per approfondirla, faccio riferimento al post “Su Paul Celan” di Salzarulo e ai successivi commenti e rileggo più attentamente il saggio di Zanzotto su Celan da me segnalato qui. Lo faccio – lo dico subito – mettendomi dal punto di vista di un ipotetico io/noi politico.
«Perché quella di Celan è una via probabilmente impercorribile e inimitabile» ma di questi tempi ancora abbastanza affascinante? [1] Risponderei: perché la storia ci ha trascinato, sì, “altrove” rispetto ai tempi del nazismo che Celan dovette affrontare, ma questo nostro “altrove”, che stentiamo a comprendere, sembra avere una continuità (ma molto più complessa) con quei tempi.
Celan ha risposto indubbiamente con la sua opera alla domanda famosa di Adorno sul dopo Auschwitz; e, come dice Zanzotto, ha dimostrato che «scrivere poesia dopo Auschwitz, è possibile, ed è possibile farlo […] scrivendo «dentro» queste ceneri». Eppure, a me resta la convinzione che la domanda di Adorno (anche dopo che egli la corresse; c’è – da notare – un «forse» in quella sua correzione…) non si rivolgesse tanto ai poeti ma all’umanità pensante. E in fondo Salzarulo, richiamando la poesia «Lukács» di Fortini, dubbiosamente la riprende ancora: «Gli uomini sono esseri mirabili.» Davvero?… Il filosofo, al quale dedica la poesia, indubbiamente, ma tutti gli altri? E in che senso poi sono straordinari? In che senso destano ammirazione o meraviglia? Forse anche perché sono capaci di progettare, organizzare e far funzionare Auschwitz?».
Decenni fa ormai, ai tempi della guerra in Vietnam, con più decisione avremmo risposto, che malgrado Auschwitz, una parte degli uomini erano, come Lukács, davvero «esseri mirabili». Perché decenni fa, un po’ dovunque, avevano imboccato strade coraggiose [2] e contrastavano i produttori di nuove Auschwitz o delle Auschwitz disseminate sul pianeta. E noi stessi, nel nostro piccolo, uscendo dalle nostre «tiepide case», li contrastavamo. Oggi non mancano gli Arrigoni, i Regeni, le varie forme molecolari di opposizione, ma noi siamo più vecchi e soprattutto molto incerti sulla nostra storia e soprattutto sul che fare. Ecco perché la posizione di Celan, al quale la storia appare «svolgimento di una feroce e insaziabile negazione» fa più presa di allora. Donato [Salzarulo] (qui) commenta: «Sono parole da sottolineare, da tenere ben fisse in mente. La storia nega continuamente l’umano, la poesia; la storia è una macelleria, un mattatoio, il luogo di un’animalità bieca, feroce, crudele…«Restiamo umani!…» diceva Vittorio Arrigoni. Ma lo siamo?». E Annamaria [Locatelli] (qui) si chiede: «C’è uno spazio possibile, anche come poesia esodante, di rivendicare la propria umanità, se non almeno per tener vivo un ricordo di “esseri mirabili” oltre gli orrori? ».
Come? Attraverso la poesia (che ha a che fare con la lingua), pare la risposta. Riprendo allora un’affermazione di Cristiana [Fischer]: «Ecco, con cos’altro abbiamo a che fare se non con la lingua, qui, in Poliscritture». Lingua, linguaggio, poesia, poesia magari “esodante”, come mossa di resistenza? Ci attestiamo sul fortiniano: «E tu scrivi…», sapendo che non basta? Anche se «il linguaggio sa di non potersi sostituire alla deriva della destrutturazione per trasformarla in altro, per cambiarle segno»? Anche se sappiamo che la poesia non cambia il mondo?
La tentazione di rispondere sì, di fermarsi a questa stazione (quella del linguaggio, quella della poesia o della cura della lingua), di mantenersi «in zona poetica», come scrissi nel 1978, dopo la presa d’atto della definitiva sconfitta politica delle speranze del ‘68-’69, e considerare dunque la poesia la nostra “ultima spiaggia”, è forte. Disse sì Zanzotto. Fece una scelta simile Gianmario Lucini.(Cfr. ancora qui). Vi resistette Fortini, ma poi negli ultimi anni di vita dovette rassegnarvisi. E a malincuore. Perché al di fuori di tanta retorica estetizzante e di apologie miopi della Poesia, tornate di moda (come ricordato nella nota [1]) per il predominio culturale dell’heideggerismo, Fortini, come ricorda Velio Abati nel brano che ho riportato (qui), sa che « la poesia e in genere l’opera d’arte nella società capitalistico-borghese soffre di una doppia mistificazione, che acceca il lettore così come il suo autore», proprio perché «la forma artistica dà l’illusione di attuare quella pienezza di senso del mondo cui solo una riappropriazione reale del destino comune e di ciascuno può effettivamente approssimarsi».
Ora io mi sento di dire che un (residuale) io/noi politico non potrà mai accettare fino in fondo e senza esitazioni questa scelta. E la ragione del suo no la trovo in queste parole di Zanzotto: «Celan del resto aveva da sempre avuto la consapevolezza che quanto più il suo linguaggio avanzava, tanto più era destinato a non significare; l’uomo per lui aveva già cessato di esistere. Anche se non mancano nei suoi scritti i continui sussulti di nostalgia per un’altra storia». Se, infatti, si riconosce il fallimento totale dell’umanesimo (o di quel che di esso ancora resta in giro; e, cioè, del tentativo di comunicare – anche in poesia – in un linguaggio ambivalente e polisemico quanto si vuole, ma che *significhi* e che solo significando, permetterà di costruire una intesa tra umani, se la poesia va invece verso il «non significare» dopo aver dato per spacciato «l’uomo», credo che ai poeti resterà soltanto la magra consolazione di «rovesciare» la storia e qualcosa di più della storia» ma esclusivamente nel linguaggio; e a tutti gli altri resterà soltanto un mondo visto dall’ottica del darwinismo sociale e del nichilismo (ben adatti entrambi al dominio capitalistico).
La posizione di Zanzotto, dunque, malgrado l’opinione di Velio Abati, che l’accosta fin troppo a quella marxista di Fortini, a me pare, invece, quasi coincidente con quella di Celan, impegnato in «una specie di “braccio di ferro” in cui una forza deteriore lentissimamente ma inesorabilmente prevale». E cioè, nei pressi di Heidegger o, al massimo, del Leopardi de «La ginestra». Specie quando scrive che «la storia ormai non può comunque essere sopportata né espressa, né direttamente né indirettamente, nella sua fuga multidirezionale dal senso». Facciamo attenzione, dice proprio: né «sopportata, né espressa»!
È vero, allora, – e riprendo qui la questione che ha posto Aguzzi sul ruolo della mistica e della ricerca fuori da ogni obiettivo prefissato del “pensare comune”, che Celan, come sottolinea Zanzotto, «si inoltra negli spazi di un dire che si fa sempre più rarefatto e nello stesso tempo quasi mostruosamente denso, come in una «singolarità» della fisica». Ma a questo punto dobbiamo capire in tutte le sue implicazioni (poetiche e politiche) che, trovatosi di fronte al bivio che impone un aut aut, credo io, e cioè: via “mistica” della poesia verso l’ “Altro” e si muove nel Sacro o via “politica” per cui la poesia è veicolo per “altro” (che possiamo chiamare: realtà, storia, azione collettiva, politica), Celan scelse la prima.
Come sottolinea Zanzotto (e a me pare che parli di se stesso e non solo di Celan), troppo forte era in lui la «pulsione a una forma di sublimità, per quanto più volte sconfessata» che gli veniva dalle «sue» tradizioni (linea «hölderliniana», e linea ebraica, specie chassidica). E troppo forte era il suo timore di «appiattirsi» nella realtà, pur se «la» realtà Celan «fin dall’inizio si era imposto di voler perseguire ed aveva fatta propria fino ad arrivare all’ultimo sacrificio di sé». Così finì per «gravitare su un’identità «eccelsa», di eccelso come vuoto ed eccelso perché nulla». (Brutalmente si potrebbe dire: si mosse nel nichilismo). E restò «pur sempre nel cono d’ombra di un verticalismo, come «al cospetto di» [diciamolo: Dio!], a differenza di quanto poteva essere avvenuto ad altri». E questo fu il suo destino. Sebbene tutto il suo lavoro si fosse svolto «a stretto contatto con le più varie forme di sperimentalismo, anche col più profanizzante, favorito dal suo aver voluto Parigi come città di elezione per la sua vita quotidiana, egli aveva dimora esclusiva in una sua fedeltà incatenata ad una Parola che, per di più, si configurava per lui nella materna/assassina lingua tedesca».
La sua ricerca poetica e la sua lotta, dunque restano in una lingua concentrata, se non rattrappita, in sé. E a me pare – e non c’è nessun moralismo o svalutazione del suo valore poetico in quel che dico – che, così, Celan finiva per staccarsi tragicamente dalla lingua comune: quello strumento “sporco” – affidabile/inaffidabile, veritiero/menzognero – per agire con gli altri e sugli altri politicamente (fosse pure per quel minimo che è possibile in poesia, come tentò di fare un Brecht, ad esempio). E questo suo limite (dal punto di vista del mio ipotetico io/noi politico!) è ben chiaro allo stesso Zanzotto (che non ne trae, però, le conseguenze – di poetica e di politica – che ne traeva Fortini e ne trarrei anche io). Dice infatti:
«in ogni movenza del discorso di Celan si insinua tuttavia qualche cosa di definitivo, di lapidario, ma come di lapide che sia metafora tanto di una eternità mancata quanto di una morte che resta pur sempre «inquieta», inulta. Non vendicata. Non ci sono più né nascite né ritorni veramente salvifici, né c’è «Heimat» per quanto anelata, soprattutto nel senso di forti riferimenti culturali, sia lungo una linea della tradizione tedesca che va da Hölderlin a Trakl, sia per un profondissimo elemento ebraico progressivamente assunto e patito in tutto il suo straordinario e atroce destino».
Celan resta imprigionato nella dimensione del sacro:
«Quello di Celan si può dire allora in ogni suo momento un dramma-azione coattamente sacro (soprattutto nel senso di sacer latino) in cui la maledizione permea la benedizione di ogni inventum poetico e umano».
E allora torno a chiedermi: il risultato poetico di Celan può essere accettato fino in fondo e senza riserve da un io/noi politico? « Restava sulla pagina la traccia di una immane fatica e di un eccelso dono creativo e amoroso in ossessiva auto frustrazione». Certamente. E anche un io/noi politico non può negare a Celan e alla sua poesia una grande ammirazione, se non proprio la «devota gratitudine» di Zanzotto. Però, per contrasto e a pensare a riportarci all’inquietudine nei confronti anche della più alta poesia, di fronte a tanta bellezza, viene in mente l’aneddoto su Lenin di fronte alla “Sonata a Kreutzer” (o per altri alla “Appassionata” di Beethoven) [3]. (E quell’inquietudine fu – non lo si dimentichi – pure di Adorno, Benjamin e Fortini).
E l’altra via diversa da quella percorsa da Celan? Fu quella delle avanguardie poetico-politiche o, più recenti, delle varie forme di sperimentalismo. Che, in una logica antiermetica e orizzontale, hanno considerato «dati come quelli dell’esperienza celaniana quasi inclusi in una specie di sfera da investire dal di fuori, da smontare e profanizzare (profanare) incrinandola nel confronto con una serie di atteggiamenti psichici e soprattutto di codici che le fossero profondamente alieni, desunti da ogni campo del sapere (o dissapere) attuale […]per cogliere anche le più improbabili possibilità di instaurare un diverso rapporto fra storia e parola-poesia» (sempre Zanzotto). Non sono convinto che questa altra via abbia più ragioni dalla sua parte o abbia prodotto risultati più memorabili. Ma ora, concludendo questi miei appunti e evitando aut aut drastici, mi sento di dire che ha senso riproporsi oggi il medesimo dilemma di Celan tra verticalità e orizzontalità, tra mistica e azione politica in questo nostro “altrove” che sappiamo diverso e più complesso del suo; e che ciò che Celan ha tratto dalla «zona poetica» “oscura” in cui ha scavato non va trascurato, ma dev’essere vagliato criticamente da chi sceglie di scavare, invece, in zona poetica e/o politica “chiara”. Ammesso che le scelte si possano fare in modi netti, davanti al bivio di cui ho appena detto, io mi spingerei per attraversare la lingua in vista di un contatto con persone vive (o morte), che scrivono o hanno scritto, che la parlano o l’hanno parlata; che si sono intesi, s’intendono o no. E con l’intento e la consapevolezza di entrare in una rete di rapporti reali e difficili, quasi sempre conflittuali, di amicizia e inimicizia, di convergenza e divergenza, di collaborazione e non collaborazione: tutti tendenzialmente politici. Quindi riconoscere e accettare che rimaniamo in «zona poetica», non disfarsi della poesia, non attribuirle falsi compiti (terapeutici o addirittura salvifici), ma usarla nel confronto/scontro con gli altri/le altre e tentare di conservarvi la possibilità di volgerla a un progetto più ampio. Quello che ha visto la poesia come “promessa di felicità”? Forse, ma a patto di non accontentarsi solo della promessa. Finché la felicità non s’intravvede e l’orrore (auschwitziano sempre) resta come un macigno sul cuore e la mente dei poeti e dei non poeti, poesia e politica non faranno che contendere tra loro. E va bene così, perché da questa contesa qualcosa di più può nascere.
Note
[1]
«Negli ultimi vent’anni s’è riformata una tendenza abbastanza autorevole di autori che hanno continuato la figura del poeta lirico in conflitto radicale con il mondo, quale si era stabilita in Europa tra la fine del Sette e l’inizio dell’Ottocento, e proseguita poi dai grandi simbolisti. Questa forma che fa della poesia una specie di area di combattimento per la vita e per la morte, e quindi correda il fare poetico di valenze etico-religiose, e spesso mistico-salvifiche, è stata presente nella poesia italiana anche in alcuni dei nomi più famosi, Montale, per esempio, oltre agli ermetici, e ha dato risultati anche molto notevoli in Europa negli ultimi cinquant’anni, si pensi a Celan. E’ vero che questi poeti hanno l’aria di essere sempre più epigoni, ma questo è soltanto la conferma del piétinement sur place [sbattere i piedi, dimostrare stizza o impazienza] della condizione generale, cioè del fatto che non c’è stata nessuna rivoluzione. Ed è la conferma del fallimento simmetrico dei due maggiori tentativi di fuoriuscita da questa linea, non a caso proprio nel periodo in cui si riteneva possibile una trasformazione rivoluzionaria, cioè negli anni venti. Per un verso infatti ha fallito l’avanguardia, e per l’altro l’opposta e parallela tendenza a dare già per avvenuto il mutamento di fondo, così che sarebbe stato possibile cominciare a costituire nuovi linguaggi e nuovi testi, fondandosi, alludendo a qualche cosa di precedente l’era di cui si annunciava la fine. E’ il caso del Bauhaus, e di un Klee o di un Brecht.
Non essendosi data trasformazione rivoluzionaria, è stato possibile tornare a vedere nella poesia, nell’arte o nella musica una via di assoluto: la violenza storica ci pone di fronte alla necessità di ricominciare le nostre ricerche del tempo perduto, dei “cigni glaciali” o delle forme criptiche di fabbricazione di amuleti, “sull’orlo del suicido” come diceva Celan. Certo si tratta di una coazione a ripetere»
(Intervista di Gianni Turchetta a Franco Fortini, Vale ancora la pena. Incontro con Cesare Cases e Franco Fortini, in «Linea d’ombra», V, 20, ottobre 1987, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952 – 1994 , a cura di Velio Abati, Bollati Boringhieri, Torino 2003)
[2]
uomini puliti,
miti, oscuri nostri gemelli,
fra noi ancora vanno;
e, operosi, su incerti sentieri,
accendono luci tutto tatto
nelle celle cupe di sera,
dove ondula austera,
minacciosa, la biblica mela.
[E. A. L’albero gramo, 2010]
[3]
Ci sono poche composizioni in grado di incidere profondamente sullo stato d’animo di chi le ascolta, ma una di queste è senz’altro l’«Appassionata» di Ludwig van Beethoven. E’ rimasto leggendario, infatti, ciò che usava dire Vladimir Lenin, a proposito della celebre composizione per pianoforte: «Devo smettere di ascoltare questa sonata “Appassionata”, o potrei non portare a termine la rivoluzione».
(http://tribunatreviso.gelocal.it/agenda/2011/03/14/news/la-sonata-che-incantava-lenin-1.1536616)
Ma Celan ed altri.
1.
Il testo di E.A. suscita in me la tentazione – cui cedo – di fare alcune osservazioni. Ritengo che occorre rispettare la realtà cioè trarre da essa , così come si presenta, alcuni elementi di riflessione. Da millenni assistiamo, tra le altre cose, alla convivenza di due fenomeni : il persistere delle esperienza poetica e la continua presenza della guerra. Anche quando la prima – lodevolmente – si attesta sulla condanna delle armi e sulla deprecazione delle stragi che seguono l’uso di esse, si costata che ciò non produce alcun effetto benefico. Tutt’al più il lettore di versi può dimenticare per un attimo il fragore delle battaglie. Niente di più. Di fronte a tale coesistenza perde ogni valore – perchè smentita dai fatti – la famosa domanda di Adorno. In un certo senso diventa perentoria la risposta: sì, la poesia è possibile anche dopo Auschwitz. Se non altro perché DI FATTO si continuano a scrivere testi poetici. Ed è chiaro che non è un’obbiezione porre l’interrogativo circa la qualità cioè il valore dei testi prodotti dopo la carneficina degli Ebrei. Essa determinerebbe una petizione di principio introducendo subito un criterio estetico.
Se è vero quello che si dice di Lenin e di Beethoven, bisogna aggiungere che l’arte – e dunque anche la poesia – non serve neppure a sviarci da determinati compiti politici né a fornire strumenti per la loro migliore esecuzione. Lenin avrebbe risposto, come di fatto rispose: majora premunt.
Ma anche la guerra è un fenomeno persistente nella storia dell’uomo. I periodi chiamati di pace sono visioni parziali conseguenti ad un sezionamento di parti del mondo. Chiamo tempi e luoghi di pace quelli abitati da popolazioni che, per avventura, non si combattono in quel momento. Nulla di più. Nel mondo ci sono sempre guerre e la Storia, da questo punti di vista, è davvero un incubo dal quale vorremmo essere svegliati ( J. Joyce ).
Poesia e guerra sono esperienze umane. Se della prima diamo una valutazione altamente positiva e non ci sogneremmo mai di far qualcosa per impedire ai poeti di scrivere, della seconda diamo una valutazione negativa e, a volte solo a parole e a volta anche con i fatti, ci industriamo di evitarne lo scatenarsi. E’ giusto così. Ed è anche giusto che contrapponendo esperienze positive ed esperienze negative si pieghino le prime ( e tra questa anche la poesia e le arti in genere ) a contrastare le seconde. Non si può, non si deve avere mai un atteggiamento negativo verso una poesia che celebrando la pace e condannando le guerre cerchi di spiegarne le cause e, attraverso tale analisi,
tenda a diminuirne la quantità e la portata.
Personalmente credo che la poesia e le arti in genere abbiano, debbano avere, una portata etica ma ciò non significa affatto che debbano essere trattati di etica. La ( relativa ) autonomia dell’esperienza poetica sembra suggerire ( e questa limitazione mi sembra contenuta anche nel testo di E.A ) una sorta di compresenza di eticità e di “ altro “. Se vi è autonomia dell’esperienza poetica ci deve essere un principio di individuazione così come c’è in tutte le altre esperienze umane. Posta questa premessa, è un problema l’individuazione di questo “ altro “ che fa della poesia una cosa diversa – non necessariamente contrapposta – ad altre esperienze.
2.
E’ impossibile o quasi, a mio giudizio, sezionare un essere umano e leggerne separatamente gli strati che compongono la sua complessiva struttura. Questa si scompone spesso nell’attività pratica che a volte suggerisce ed altre volte rende necessari determinati comportamenti, ma essa NON E’ l’esperienza vitale globale del soggetto ma solo una particella della sua complessità. Sarei molto cauto, dunque, ad appiccicare ad un poeta etichette legittimate solo dall’adesione ad un determinato sistema di valori ( vizio che si riscontra spesso nei critici di ispirazione cattolica : a volte – pur di salvare un poeta – ricorrono alla finzione della sua conversione in articulo mortis )
Anche “ a sinistra “ si è assistito a stroncature di tipo analogo.
3.
Scomporre e ricomporre i vari strati che costituiscono l’identità di un soggetto è – a mio avviso – operazione necessaria per individuare da un lato i fattori condizionanti tale identità e dall’altro stabilire concretamente la misura e le modalità del loro reciproco condizionamento. Le esperienze soggettive restano tali e incomunicabili, ma come esse reagiscano sulla “ forma poesia “ è un punto problematico da chiarire. Ci può essere un rapporto diretto tra esse e la forma ma non è sempre così. Gli scarti tra “ vita “ e poesia sono un dato non trascurabile. Certo l’esperienza tragica di Celan non può essere esportata in altri soggetti ma non tutte le esperienze tragiche portano a un Celan.
Il percorso tra vita-meditazione- testo ha – a mio giudizio – un andamento che differisce ( può differire ) da soggetto a soggetto. Ma è illegittimo – a mio giudizio – fare dell’esperienza esistenziale un metro di giudizio sulla sua esperienza poetica. Il “ come si risolve la prima nella seconda “ è – sempre a mio giudizio – fertile campo di indagine e, con essa . un invito alla prudenza.
Non contesto che si possa preferire – nell’ambito di una esecrazione della guerra ,che è moralmente auspicabile – una poesia che espressamente ne aggredisca gli aspetti, le cause e i colpevoli, ma io mi fermerei a definire tale atteggiamento o un atteggiamento di gusto o un atteggiamento “ politico “ . Magari il nostro poeta – censurato come “ idillico “ – sa esprimere molto meglio del “ poeta indignato “ e in altro modo le sue idee contrarie alla guerra e fornire di questa in altro modo analisi penetranti sulle cause di essa. Ammetto che la preferenza per la poesia di denuncia possa essere giudicata più “ coerente “ e “ più conveniente “ allo “ stato delle cose “ ,ma forse con questo siamo già in un altro campo di indagine.
Mi sembra che a questo accenni E.A quando iscrive il suo scritto “ in un tempo di lotta politica bloccata “.
Cosa significa questa espressione in via generale se non che nelle modalità del fare poesia entrano, possono entrare, anche fattori più o meno contingenti come – ad esempio – una certa struttura politica della società. I modi di queste ed altre influenze si vedono solo nel testo.
Giorgio Mannacio.
SEGNALAZIONE
Claudia Ruggeri: un ricordo a vent’anni dalla morte
di Rossano Astremo
*Celan, Ruggieri: analogia?
Stralcio:
In vita la Ruggeri cercò, partendo dalla bodiniana “perifieria infinita” nella quale viveva, di far conoscere a “chi di dovere” i suoi versi, spedendoli ad influenti intellettuali del tempo. Importante fu il contatto con Franco Fortini, con il quale intrattenne una corposa comunicazione epistolare. In una di queste lettere Fortini diede un consiglio alla Ruggeri: abbandonare i suoi versi ingioiellati, la sua poesia barocca, complessa, indecifrabile per un ritorno alla “leggerezza” della scrittura. Dietro questo consiglio da critico, se ne celò un altro che aveva poco da spartire con la letteratura. Fortini individuò la forte instabilità della Ruggeri (“il punto non è di scrittura ma di esistenza”) e le disse che un allentamento di questa tensione psichica era la prima meta da raggiungere. Il consiglio di Fortini cadde nel vuoto. La sua poesia si fece sempre più complessa ed enigmatica, seguendo le onde smerigliate della sua mente luminosa e contorta.
(https://vertigine.wordpress.com/2016/11/02/claudia-ruggeri-un-ricordo/)
@ Giorgio Mannacio
E forse nell’Eden delle guerre,
troveremo risposte leggere
come bombe disinnescate.
Cercheremo la mina di quel sapere
che, esplosa, ora insegna il sentiero.
Le case arse dal fuoco del nemico,
le stesse di chi si diceva amico,
si sollevano ora su prati verdi
in attesa che qualcuno semini
fiori.
Emy
@ Mannacio
So che a toccare certi argomenti mi condanno al monologo e costringo i miei potenziali interlocutori o a un silenzio imbarazzato o a snobbarmi o a certi svolazzi lirici di contorno. Ma posso a questo punto, senza alcuna pretesa di convincere qualcuno, solo insistere. E comunque ti ringrazio di aver ceduto alla tentazione di fare in questo post alcune osservazioni.( Anche se forse sono più riferibile alla discussione della redazione di Poliscritture sulle poesie sulla guerra arrivate per il n. 12 cartaceo della rivista che prima o poi – spero – riusciremo a pubblicare anche sul sito).
Il nodo guerra/poesia (o Guerra e Pace?) è irrisolto «da millenni» e condannare le armi o deprecare le stragi serve poco o nulla. Pienamente d’accordo. Ma, poiché « la poesia è possibile anche dopo Auschwitz. Se non altro perché DI FATTO si continuano a scrivere testi poetici», cosa se ne dovrebbe dedurre necessariamente? Che quel rompicoglioni di Adorno non doveva neppure osare fare quella domanda? Che prendersela con la poesia o i poeti (come insisto a fare pure io) è ingiustificato, essendo – a tuo parere – attività mai evasiva e, dunque, mai in grado né di «sviarci da determinati compiti politici» né atta a «fornire strumenti per la loro migliore esecuzione».? Insomma, tu dici: se la poesia è neutrale o impotente, perché insistere a colpevolizzare la poveretta e i suoi innocenti o innocui seguaci? E poi, sulla stressa linea di pensiero: « anche la guerra è un fenomeno persistente nella storia dell’uomo». Non è, dunque, che il rapporto tra questi due tipi di «esperienze umane» non esista affatto e solo degli intellettuali cervelloticamente dialettici se lo inventano? Non è che entrambe le «esperienze umane» siano “naturali” e quindi inevitabili e irrimediabilmente coesistenti nella loro positività ( poesia) e negatività (guerra)? È solo da questo tuo punto di vista – per me adialettico e “naturalistico” – che le scritture poetiche in nome della loro «autonomia» e, specie poi quando celebrassero la pace e condannassero le guerre, non possono «mai» essere sottoposte a giudizio o suscitare reazioni” negative” (come le mie, per essere esplicito fino in fondo). Non essendo d’accordo, ti anticipo un pezzo del mio intervento sulle poesie sulla guerra del n.12 di Poliscritture che critica proprio questa volontà (tua e d’altri) di sottrarre la poesia al giudizio *anche* politico:
AUTONOMIA E SPECIFICITA’ DELLA POESIA. SI’, MA…
È vero, la poesia e le arti in genere hanno una loro autonomia e specificità che non può essere trascurata. Com’è vero che a volte il giudizio negativo su determinati aspetti della vita può essere manifestato in poesia anche attraverso l’ostentata indifferenza verso di essi. Ed è sempre vero che a volte il non parlare delle cause di un fenomeno non significa sempre e comunque essere disinteressati ad esse o non conoscerle. Attenzione, però, a non esagerare in questa difesa dell’autonomia. A me pare che quella che sta in fondo più a cuore è sempre *l’autonomia del singolo poeta*. Temo però che oggi non abbia più senso difenderla contro un avversario che pretenderebbe che si scriva una poesia “impegnata” o sottoposta a qualche “regola”. Tale avversario non esiste più. Nessuno vuol tornare alla poesia “impegnata” ( e ai suoi equivoci); e personalmente io ho criticato chi ha tentato questi “ritorni”(Cfr . https://www.poliscritture.it/vecchio_sito/index.php?option=com_content&view=article&id=145:critica-ennio-abate-sullantologia-qcalpestare-loblioq&catid=7:arte&Itemid=24). C’è invece un’esigenza più alta e urgente: spingerci oltre i *confini della poesia* (sia quella fatta dai poeti “impegnati” sia quella che va a caccia della Bellezza e della Forma); accorgerci – lo dico senza veli – dei *limiti del far poesia*. Specie oggi e specie rispetto agli sconvolgimenti mondiali. E con quest’affermazione forse sono più vicino alla posizione di Adorno del “non è possibile scrivere poesia dopo Auschwitz”, che riproporrei nella sua radicalità.
Vedere se la poesia, nella sua autonomia e specificità, raggiunga sempre l’obbiettivo di misurarsi con l’orrore della storia, di risvegliarsi e risvegliare dal torpore e dalla rimozione che prende la gente comune ma anche i poeti (o i filosofi, o gli scienziati) di fronte a quell’orrore: mi pare un compito poetico e critico fondamentale. Chiedersi: scrivere poesia (in autonomia!) ci fa aprire gli occhi o invece non fa che aiutarci a chiuderli (nel sonno della ragione)? Si deve pur rimettere in discussione questo strumento a cui ci siamo assuefatti, sia che l’abbiamo ricevuto in dote sia che ce lo siamo faticosamente conquistato. E a volte pensando allo scarto tra l’esperienza del «Laboratorio Moltinpoesia» e quella di «Poliscritture», mi chiedo se le nostre *poliscritture* non debbano andare proprio in direzione di un ridimensionamento critico del valore della poesia; e se anche la mia idea di ‘poesia esodante’ non sia un distacco dalla Poesia o da una certa poesia.
Riecheggiando idee non solo di Fortini ma di tutta una tradizione marxista antielitaria e antipopulista, ho scritto che «l’autonomia e la specificità della poesia può essere anche uno scudo (a volte necessario, altre volte no) di fronte alla realtà». E ho posto già altre volte l’esigenza di *una critica della poesia*, poiché non credo che essa (compresa quella “impegnata”) abbia una funzione sicuramente positiva o illuminante. In altri termini, l’ambivalenza del linguaggio ( e di quello poetico in particolare) a volte aiuta ad uscire da quello superficiale e opaco del senso comune (e dei mass media) stracciando il velo della “realtà” (e dei suoi orrori), ma altre volte si riduce, proprio alla poesia della parola innamorata di sé, che induce al sonno (e non certo dei giusti). Certamente, tra i poeti che non hanno sfuggito il tema della guerra o dell’orrore storico, i modi di affrontarlo sono vari; e tra questi modi c’è anche quello di chi parla apparentemente di rose – ad esempio Celan – ma quelle rose sono state davvero bagnate nei veleni della storia, sia pur attraverso l’ostentata indifferenza dell’autore verso di essi. Da questa mia posizione che considero in mezzo al guado, perché non è ancora del tutto rinuncia alla poesia, ho contrastato l’idea (che comunque mi rode e inquieta), che non ci possa essere uno spazio autentico fuori dalla partecipazione reale ad un conflitto. Il poeta che andasse a combattere in Afghanistan o in Siria dovrebbe smettere con tutta probabilità di fare il poeta.
@ Ennio Abate
Allora il poeta deve condannare se stesso? Come potrebbe essere possibile visto che è la sua natura, come del resto quella del pittore, del musicista ecc. .
Possono gli eventi urtare l’arte al punto di annullarla?
Io non riesco a crederci, o non voglio crederci.
@ Ennio.
Sono molto interessato alle tue osservazioni. Breve chiarimento sulle mie.
1 ) Non ho dato del rompicoglioni a Adorno. Mi sono limitato a rilevare che la sua affermazione, ancorchè dubitativa, non tenta neppure di spiegare perchè ” in natura ” si continui a scrivere poesia anche dopo i forni crematori.
2 ) Non mi disturba affatto l’etichetta di ” naturalista e di antidialettico ” con la quale mi
cataloghi. Se ciò significa che io sono un osservatore della realtà e cerco di spiegarla – magari sbagliando – mi può fare solo piacere. Ma forse anti o poco dialettico non è appropriato.
Vd. la mia propensione a vedere in ciascuno una stratificazione interattiva di fattori.
3 ) Ascrivo l’esperienza poetica al campo delle esperienze vitali ( o se preferisci:
esistenziali ) vale a dire a quelle che cercano di dare un senso alla vita. Penso che esse possono coesistere – più o meno pacificamente – con una serie di altre esperienze
4) Penso che nella ” scelta ” dei modi per raggiungere tale coesistenza ciascuno si orienti- più o meno consapevolmente – secondo il proprio ” vissuto ” passato, presente
(e magari futuro )
5 ) Attestato su tale convinzione cerco di non creare automatismi tra esperienze politiche e esperienza poetica.
Un cordiale saluto.G.
@ Ennio : raccolgo questo spunto dal tuo ultimo scritto :
“. Il poeta che andasse a combattere in Afghanistan o in Siria dovrebbe smettere con tutta probabilità di fare il poeta. ”
e intervengo anche se in modo molto terra terra, com’è nel mio stile e nelle mie possibilità.
E allora Ungaretti non avrebbe dovuto scrivere dal fronte, se avesse accettato questa tua affermazione ?
E tutti i libri sulla guerra ( uno per tutti ” nulla di nuovo sul fronte occidentale ” che ho appena riletto ), e i film sul tema ?
Io credo che non sia obbligatorio dichiararsi ” impegnati ” ( penso che questa questa terminologia da epigoni sartriani in disarmo non ci appartenga più ) per poter scrivere sulla guerra e contro la guerra, oppure sugli sbarchi o sul referendum.
E’ la voglia che ( e parlo per me ) manca di prendere la penna e affrontare questo argomento, perché sono convinto che la poesia non serve che a fornire qualche momento di riflessione nel lettore, a poi basta, ma non cambia di certo né il mondo, né la storia, perché la poesia la leggono solo i soliti quattro gatti.
La poesia è un lusso, un regalo, come i fiori, i bei quadri, i buoni libri, un dono dell’intelligenza ( quando c’è ) agli altri uomini, e credo sia inutile farsi il sangue cattivo se non è abbastanza impegnata o in linea con il pensiero dell’ortodossia di qualche critico che amiamo.
Scriviamo per il piacere di fare luce anche dentro noi stessi, e per avere la conferma da qualche lettore che può aver trovare nei nostri versi la connessione con un certo suo modo di sentire.
Questo per me è l’unico modo per accettare il 95 % della poesia che viene pubblicata al nostro tempo.
io sono convinto che della politica, della guerra, della crisi si possa parlare anche osservando il proprio ombelico, come spesso succede a me, scrivendo.
p.s. sono intervenuto per dimostrarti che non parli da solo, ma che hai lettori ed amici che ti seguono.
un caro e affettuoso saluto
luigi
@ Banfi
« Allora il poeta deve condannare se stesso?».
No, questa non è la conclusione che può trarre dal mio scritto su Celan o dai miei commenti una persona che li legge attentamente. Non invito nessuno a suicidarsi come poeta o a flagellarsi perché scrive poesie mentre il mondo è dilaniato da guerre e bande di prepotenti assassini. Invito semmai a svegliarsi, a non continuare a ricamare all’uncinetto prati verdi e fiori nei propri versi se questi prati e fiori o rose non «sono state davvero bagnate[i] nei veleni della storia». Preferisco un poeta sveglio ad uno sognante, un poeta che s’interroghi sulla propria ambivalenza e sull’ambivalenza ingannatrice dello strumento linguaggio-poesia ad uno che crede di essere poeta “per natura”, come fosse una pianta di mele che non può che produrre mele. Se poi gli eventi non “urtassero” l’arte, non ci sarebbero state trasformazioni nell’arte stessa né la scomparsa di opere d’arte, stili, tecniche, ecc.
@ Mannacio
1. Il rompicoglioni ad Adorno gliel’ho dato (affettuosamente) io non tu. Il fatto che si continui a scrivere poesia anche dopo Auschwitz e mentre ancora avvengono guerre e stragi «lontano lontano» è – per me – dovuto alle complesse trasformazioni della vita sociale, economica e culturale (di ogni tipo, dalle più evidenti alle più capillari e sotterranee) e non – come mi pare di capire dalle tue parole – a una “natura” che comunque prevarrebbe e spingerebbe l’uomo a poetare.
2. Indipendentemente dalla giustezza delle mie etichette ( antidialettico, naturalista) conta capire che – a me appare così – mentre tu pensi separate e non interferenti poesia e guerra (o storia) io tendo a vederne le relazioni (più o meno strette). Oppure: io sottolineo le interazioni tra io e contesto (sociale,storico); tu, e solo «in ciascuno», « una stratificazione interattiva di fattori».
3. Appunto. Se le esperienze poetiche ( il poetare ecc.) dipende da “spinte vitali” ( o “esistenziali”), cioè – dico io – soltanto o soprattutto da spinte soggettive/individuali i fattori più storici ed “oggettivi” tendono ad essere trascurati. E di conseguenza a me pare più facile, così pensando, al posto di una contraddizione, vedere «coesistere», invece le esperienze poetiche « coesistere – più o meno pacificamente – con una serie di altre esperienze» (comprese quelle della guerra, ecc.).
4. Appunto. Per te è il «ciascuno» ed è « il proprio ” vissuto ” passato, presente (e magari futuro)» a orientare la « ” scelta ” dei modi per raggiungere tale coesistenza». Non (o molto meno) il contesto storico con le sue trasformazioni, le sue rotture, le sue tragedie.
5. Neppure io vedo « automatismi tra esperienze politiche e esperienza poetica». Ma non esonero la poesia o i poeti dalle loro responsabilità *anche* politiche.
@ Paraboschi
Grazie dell’attenzione. Ed evviva anche l’intervento che tu insisti a definire «terra terra».
Nel merito delle obiezioni:
1. Ho detto che «con tutta probabilità» il poeta implicato in un campo di battaglia ecc. Non l’ho dato per certo. Ungaretti e altri libri abbozzati durante una guerra impediscono di fare affermazioni ultimative. Distinguerei però tra «libri sulla guerra» e libri scritti sui campi di battaglia ( che mi paiono, appunto, improbabili).
Questo termine ‘impegno’, poesia ‘impegnata’ torna ossessivamente. Ma è un fantasma che viene agitato appena io metto in discussione « *l’autonomia del singolo poeta*». E mi viene rinfacciata, malgrado io abbia scritto: «Temo però che oggi non abbia più senso difenderla contro un avversario che pretenderebbe che si scriva una poesia “impegnata” o sottoposta a qualche “regola”. Tale avversario non esiste più. Nessuno vuol tornare alla poesia “impegnata” ( e ai suoi equivoci); e personalmente io ho criticato chi ha tentato questi “ritorni”» (https://www.poliscritture.it/2016/11/03/celan-e-la-poesia-in-tempi-di-lotta-politica-bloccata/#comment-46146). Non capisco bene perché. Ma non dipende dalle cose che io scrivo. Semmai dalla tendenza a ricacciare la mia posizione, che a me pare fin troppo chiara («C’è invece un’esigenza più alta e urgente: spingerci oltre i *confini della poesia* (sia quella fatta dai poeti “impegnati” sia quella che va a caccia della Bellezza e della Forma); accorgerci – lo dico senza veli – dei *limiti del far poesia*.») in quelle – ai tuoi/vostri occhi – del tutto compromesse del passato (Sartre, Fortini). Ti sbagli a vedere in me una sorta di obbedienza al « pensiero dell’ortodossia di qualche critico che amiamo». Non c’è continuità (neppure ideale) tra i discorsi fatti sull’impegno in una certa epoca (diciamo da Guerra Fredda) e i miei. Però come dovrei reagire quando – oltre a Banfi e a Mannacio ( e ad altri redattori di Poliscritture – anche tu non fai in fondo che difendere « *l’autonomia del singolo poeta*» o ti dici convinto che « della politica, della guerra, della crisi si possa parlare anche osservando il proprio ombelico»?
A me pare una scelta sbagliata. Che porta a un ridimensionamento della funzione della poesia. Che per me non può ridursi a « un lusso, un regalo, come i fiori, i bei quadri, i buoni libri, un dono» e non è scritta (tutta?) « per il piacere di fare luce anche dentro noi stessi».
Ai tempi della Guerra Fredda e dell’impegno, quando c’erano ancora spinte “rivoluzionarie” queste sarebbero state definite posizioni “piccolo borghesi” e sbeffeggiate dai “noi” politicizzati di allora. Oggi, visto che siamo tutti “piccola borghesia” (impoverita) o “cetomedisti” (in via d’impoverimento) e non esiste nessun Partito- guida che indichi la “giusta strada” per uscire dalla crisi, una tale etichetta non avrebbe senso ( e nel 2012 ho cercato di mettere a fuoco la nuova situazione: http://www.poesia2punto0.com/2012/09/25/appunti-per-una-poesia-esodante-sulla-ex-piccola-borghesia-o-ceto-medio-in-poesia-di-ennio-abate/). Ma l’esigenza di non appiattirsi sull’«*autonomia del singolo poeta*» per me resta intatta. No, non si può accettare così com’è « il 95 % della poesia che viene pubblicata al nostro tempo».
@ Ennio
Osservo, solo sul tuo punto 5: è sufficiente al poeta per assumere responsabilità politiche di fronte alla guerra condannarla con roboanti parole ? Se la risposta è NO resta sufficientemente in piedi il mio discorso sulle diverse modalità di assumere atteggiamenti politici anche parlando – in altro contesto – di rose e cuori infranti. Sei per l’aut aut o per il et-et ? Un cordiale saluto. Giorgio.
@ Giorgio
Qualcuno in Poliscritture ha chiesto al poeta di “assumere responsabilità politiche di fronte alla guerra” condannandola “con roboanti parole”? Non credo.
Qualcuno ha negato che in altro ( ma ben preciso!) contesto il poeta X o Y possa con “diverse modalità […] assumere atteggiamenti politici anche parlando […] di rose e cuori infranti”?
Si tratta di verificare possibilmente caso per caso.
“Sei per l’aut aut o per il et-et ?”.
Anche se fossi portato per temperamento all’aut aut, non ne farei un principio assoluto e analizzerei le situazioni. Ad es. fossi stato più informato delle vicende letteraria e abbastanza adulto da seguirle nel secondo dopoguerra, quando, almeno a sinistra, dominava la precettistica zdanoviana dell'”impegno” e tutti dovevano parlare di proletari alla “Metello” di Pratolini, forse avrei – aut aut – dato ragione a Fortini che rifiutava il “metellismo”, cioè l’edulcorazione piccolo borghese ( e buonista, diremmo oggi) dei proletari e dava spazio a tematiche esistenziali ( ad es. nel suo romanzo “Giovanni e le mani). Sto adesso in una situazione “cetomedista” in cui « il 95 % della poesia che viene pubblicata al nostro tempo» è narcisista, intimista, cinico-disincantata, da camera da letto esposta in vetrina o ancora coi fiorellini, i prati e i tramonti rosso fuoco, o “oscura” in modi ambigui, ecc. l’aut aut lo porrei a costoro.
E l’et et?
Come sai è difficile trovare “compagni” oggi.
Propio ieri su LE PAROLE E LE COSE ( ho commentato sarcasticamente una recensione elogiativa della poetessa Anna Maria Carpi così:
4 novembre 2016 a 15:10
“Solo quelli che camminano da soli si comprendono fra di loro”.
E vabbè, “Ognuno riconosce i simili”…Continuiamo così, con questo pigol-io, io, io!
Non mi oriento bene nella posizione di Ennio Abate nel suo post iniziale e nel commento di risposta a Mannacio (4 nov 14.34). Pur consapevole che semplificando potrei equivocare, cerco di riassumere per punti il suo ragionamento.
Si può scrivere poesia, oggi come dopo Auschwitz?
Si scrive e si è scritto, ma Celan e Zanzotto in direzione che si estranea (sublime-eccelso-vuoto) dal contesto storico-sociale e dalla lingua comune (lingua concentrata/rattrappita di Celan).
Allora scrivere come?
Ci sono due riposte nel testo: 1) in “‘via politica’ per cui la poesia è veicolo per ‘altro’ (che possiamo chiamare: realtà, storia, azione collettiva, politica)”, restando quindi ben confitti nella nostra umanità terrestre e finita, piuttosto che “nel cono d’ombra di un verticalismo, come «al cospetto di» [diciamolo: Dio!]”. Nella comune umanità in cui accanto a “esseri mirabili”, ci sono i crudeli, gli avidi, i sanguinari – e gli ignavi (il “torpore e la rimozione”), le anime belle, le oche giulive e altro.
2) in “lingua comune… per agire con gli altri e sugli altri politicamente (fosse pure per quel minimo che è possibile in poesia, come tentò di fare un Brecht, ad esempio)”, perchè la poesia è ambigua e mistificante, offre una pienezza raggiunta solo nel linguaggio.
Molti punti mi sollevano dubbi, non perchè non capisca l’istanza che sostiene le parole di Ennio, di “agire con gli altri”, come scrive. Ma, per esempio, già per Brecht egli ammette che un minimo di azione è possibile per la poesia, e abbiamo letto della poesia dell’Isis e della sua importante funzione anagogica.
(Poichè viene riportata una mia frase: “Ecco, con cos’altro abbiamo a che fare se non con la lingua, qui, in Poliscritture?”, preciso che la scrittura per me è azione critica ma so che non basta, non solo perchè coinvolta dalle contraddizioni sociali, ma anche perchè è storicamente precaria, perfino impedita.)
Credo che sia in parte morale l’esigenza di Ennio di “spingerci oltre i *confini della poesia*”, così come la critica ai poeti della Bellezza, della verticalità, agli illusi della pienezza: non è un richiamo morale “risvegliarsi e risvegliare dal torpore e dalla rimozione”?
Invece Mannacio, che a me pare antimoralista, insiste sulla legittimità di posizioni differenziate nell’espressione, anche dove sia comune la partecipazione a fatti e temi che sono davanti agli occhi di tutti.
Se, come credo, c’è un tono morale nella critica, così mi spiegherei meglio l’invito finale a:
* “attraversare la lingua in vista di un contatto con persone vive (o morte), che scrivono o hanno scritto, che la parlano o l’hanno parlata; che si sono intesi, s’intendono o no. E con l’intento e la consapevolezza di entrare in una rete di rapporti reali e difficili, quasi sempre conflittuali, di amicizia e inimicizia, di convergenza e divergenza, di collaborazione e non collaborazione: tutti tendenzialmente politici”;
* usare la poesia “nel confronto/scontro con gli altri/le altre e tentare di conservarvi la possibilità di volgerla a un progetto più ampio”;
* consapevoli che: “Finché la felicità non s’intravvede e l’orrore (auschwitziano sempre) resta come un macigno sul cuore e la mente dei poeti e dei non poeti, poesia e politica non faranno che contendere tra loro.”
Mi paiono posizioni etiche perché, rimandando a quello che Ennio Abate chiama “mio ipotetico io/noi politico”, quel noi non è dato ma è una meta da raggiungere. La meta di un “progetto più ampio” da raggiungere con un “agire possibile” rispetto a cui agire nel linguaggio non basta.
In realtà progetto più ampio è anche quello verticale, dove di nuovo il linguaggio “concentrato/rattrappito” di Celan non basta. Invece per Abate non basta perchè, come ha scritto Fortini, “non c’è stata nessuna rivoluzione”.
…riguardo alla responsabilità storica e politica dell’uomo-donna poeta nell’attuale situazione mondiale, Ennio da anni segnala la via stretta, strettissima per porsi “…la meta “di un progetto più ampio” da raggiungere con un “agire possibile” rispetto cui agire il linguaggio non basta” (Cristiana, Ennio)…Condivisibile. Da parte mia, però, non mi è ben chiaro lo spartiacque tra poesia “impegnata” e quella “esodante” oltre i confini della poesia a “stracciare il velo degli orrori”. Su facebook, è vero, sono comparsi scritti di Ennio sui nuovi immigratori, che hanno quella grinta da buonista “cattivo”, nel senso di determinato a scuotere le coscienze…giusti. B. Brecht e altri autori ci potrebbero offrire altri esempi…Ma forse una maggiore abbondanza di esempi ci manca per capire. Quanto poi si possa seguirli è un altro problema.
Un’altra cosa: non penso che sia possibile escludere del tutto la soggettività, scoppierebbe come un palloncino troppo compresso. In essa avranno spazio l'”autonomia del singolo poeta”, ma anche esperienze comuni, come: la povertà, la malattia, la solitudine di cui soffre la nostra società, quanto una ricerca nel “trascendente” e del mistero…
Per me, per esempio, la realtà-natura è come un porto franco (sempre più ristretto) che ci chiama ad un confronto e segnala una sconfitta…Non la vedo, tuttavia, separata da altre lotte
@ Ennio
E’ chiaro che le mie osservazioni sono di carattere generale. Mi sembra però giusto precisare che Poliscritture non ha mai chiesto “al poeta di assumere responsabilità politiche di fronte alla guerra condanandola con roboanti parole “. Dunque le mie convinzioni e quelle tue restano presupposti per un dialogo-confronto che ha tutte le carte in regola per essere proseguito. Buona domenica. Giorgio.
@ Fischer
Credo che il tuo montaggio di (mie) citazioni riassuma correttamente le mie posizioni. Parlo per me e devo ammettere che resta in effetti problematico questo agognato «agire con gli altri» nel campo della scrittura. (Le vicende complicate e rallentate di Poliscritture lo confermano). E ancora più in campo politico. Definirle «posizioni etiche», perché possono solo ipotizzare quell’«io/noi politico» che non c’è e non si sa se potrà essere costruito, è sottolineare realisticamente un limite innegabile. Resterebbe da riflettere su un problema che mi pare solo accennato nel tuo commento: tra le due etiche possibili «in tempi di politica bloccata» (e ammettendo che entrambe mirino a un «progetto più ampio») quale delle due scegliere? O si possono in fondo conciliare? Come si vede: aut aut o et et. Ancora…
@ Locatelli
Lo spartiacque tra poesia “impegnata” e quella “esodante” è quello che possiamo tracciare tra un’esperienza storica compiuta, che ci mostra ora le sue luci e le sue ombre, e un’esperienza che è da farsi e non si sa ancora bene come. Offrire degli esempi di esodo o di poesia esodante è una richiesta legittima. Me l’aveva fatta anche Ezio Partesana nella sua intervista. Ma, come allora, posso solo quasi ripetere la mia risposta (Cfr. Appendice). Non ho «una maggiore abbondanza di esempi».
Resisto invece alla tua tendenza all’ et et. Cioè a mettere assieme troppe cose per me diverse e contrastanti come: «la soggettività» (sapessimo quante ce ne sono!); «l’autonomia del singolo poeta» (che in parte è sinonimo di soggettività e in parte è, secondo me, territorio diambivalenze); le «esperienze comuni, come la povertà, la malattia, la solitudine»; e, infine, « una ricerca nel “trascendente” e del mistero». Troppo, troppo. Temo che si tratterà di scegliere. O che la scelta, in sostanza, l’abbiamo già fatta; e non siamo però in grado di sopportare lo strappo della parte mancante o che abbiamo dovuto abbandonare. Perché una scelta significa abbandonare, perdere qualcosa che una volta è stata nostra. O conservarla trasformata. Ma è comunque altra cosa.
Appendice
Quindi “esodo” per uno scopo? Continuo a credere che il termine possa dar luogo a equivoci, ma per chiarire, a noi stessi in primo luogo e poi anche a altri, il concetto, forse è più semplice che tu ci mostri qualche verso e ci faccia vedere questa uscita dalla poesia…
Non dispongo di prototipi di poesia esodante da mostrare (le mie tesi, infatti, s’intitolano banalmente Per una poesia esodante…). Posso, però, scegliere la poesia di un autore in cui scorgo tratti o buone premesse per avviarsi a una poesia esodante.
Leggiamo questa poesia di F. Fortini:
Gli ospiti
I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari.
La sola cosa che importa è
il movimento reale che abolisce
lo stato di cose presente.
Tutto è divenuto gravemente oscuro.
Nulla che prima non sia perduto ci serve.
La verità cade fuori della coscienza.
Non sapremo se avremo avuto ragione.
Ma guarda come già stendono le loro stuoie
attraverso la tua stanza.
Come distribuiscono le loro masserizie,
come spartiscono il loro bene, come
fra poco mangeranno la nostra verità!
Di noi spiriti curiosi in ascolto
prima del sonno parleranno.
Tenendo sott’occhio le mie «14 tesi» (di cui citerò tra virgolette dei passi), mi pare di trovare, in buona parte e soprattutto nei primi otto versi di questa poesia, molti punti in sintonia con la mia idea di poesia esodante.
Li riassumo quasi a mo’ di titoli:
– attenzione vigile a «pensare l’orrore del mondo e della storia» che viviamo e subiamo, ma allo stesso tempo convinzione che «pensare in poesia l’orrore del mondo non può significare cedere a tale orrore, al Niente». (Vedi qui il verso: I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari), anche se Tutto è divenuto gravemente oscuro);
– sforzo di destarsi dal «sogno della poesia» (non esiste in questi versi nessun abbandono all’«oasi di piacere-libertà-bellezza della Poesia». Piuttosto piena consapevolezza che la poesia, di per sé, non è libertà. E – aggiungerei – che i poeti esodanti «sanno di non essere liberi». E che, quindi, devono anche “uscire dalla poesia” (se questa finisce per combaciare con la gabbia di cui dicevo prima); ed essere, in altri termini, poeti-critici, evitando la dissociazione impostasi – direi dopo gli anni Settanta del Novecento – tra poesia e critica;
– tenacia nello stare addosso alla realtà e ai conflitti sociali (La sola cosa che importa è / il movimento reale che abolisce / lo stato di cose presente); il che non comporta una ottimistica o volontaristica «ripresa dell’impegno (etico, politico) in poesia». In questi versi, anzi, si insiste sia sulla necessità destruens (Nulla che prima non sia perduto ci serve) sia sulla modestia e l’assenza di tronfiezza e sicumera nel lottare: Non sapremo se avremo avuto ragione»;
– la capacità di «maneggiare la politicità del linguaggio» mira interamente a un dialogo, a un discorso persuasivo e problematico, da condurre tra persone che agiscono nella storia e hanno problemi da affrontare in comune; da qui un lessico concreto, la solida sintassi, la coincidenza tra metrica del singolo verso e frase compiuta nei versi più asseverativi: I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari; tutto è divenuto gravemente oscuro; La verità cade fuori della coscienza);
– la scelta di muoversi in una zona lirico-politica, che io chiamerei dell’«io/noi», evitando sia il puro lirismo, sia il discorso politico diretto; anche perché questo poeta «sa che la realtà sfugge alla forma»; e lo ricorda qui nel verso: La verità cade fuori della coscienza.
Ecco, resterebbero da aggiungere oggi – ma in questo contesto è secondario – alcune mie riserve verso il contenuto “utopico” presente nell’ultima strofe, che evoca, sia pur sobriamente, un’allegoria di comunismo.
Ancora qualche elemento di discussione sul post di Ennio Abate.
1) “trovatosi di fronte al bivio che impone un aut aut, credo io, e cioè: via ‘mistica’ della poesia verso l’ ‘Altro’ e si muove nel Sacro o via ‘politica’ per cui la poesia è veicolo per ‘altro’ (che possiamo chiamare: realtà, storia, azione collettiva, politica), Celan scelse la prima.”
La via politica sarebbe l’ipotesi che storia/pensiero/politica coincidano, che tutto si possa svolgere e collegarsi in un comune anche se contraddittorio agire politico, che la storia sia la cronaca di questo agire collettivo/contraddittorio, che le energie mentali costruttive umane siano interamente coinvolte in questo processo.
Laddove la via mistica introdurrebbe una separazione tra vita di tutti e mete individuali/soggettive/verticali, verso un oltre non definibile, che viene anche chiamato vuoto o nulla.
2) Vuoto o nulla sono parole impiegate, tanto dai critici, che da quelli orientati appunto verso il o dal vuoto. Per i primi vuoto e nulla rappresentano la dimensione squisitamente soggettiva di quell’orientamento, ove soggettività significa manco di elementi comuni, significa pari pari soggettivismo e, sul piano del fuori di sè, del per gli altri, ineffabilità. Quello a cui forse Abate allude parlando di lingua concentrata/rattrappita di Celan. E a cui contrappone queste caratteristiche, fra altre, riguardo la poesia esodante (5 nov 22.45): “la capacità di ‘maneggiare la politicità del linguaggio’ mira interamente a un dialogo, a un discorso persuasivo e problematico, da condurre tra persone che agiscono nella storia e hanno problemi da affrontare in comune; da qui un lessico concreto, la solida sintassi, la coincidenza tra metrica del singolo verso e frase compiuta nei versi più asseverativi”.
I contemplativi invece hanno del nulla e del vuoto un’idea positiva, il vuoto o nulla sono un pieno, un pienissimo, sono il varco per afferrare la relatività di storia, società umane, pensieri, per comprendere che il cambiamento è passaggio. (E’ l’immagine dell’ultimo cielo dantesco, e aristotelico, veloce allo spasimo per voler coincidere con l’immobile eternità divina.)
Naturalmente invece la spiegazione materialistica del cambiamento sono le contraddizioni reali. Anche qui, però, si possono riportare le contraddizioni della realtà al loro supporto umano: la malvagità umana, personale e ineffabile; o i vizi consueti, l’avidità l’ira la violenza la superbia l’ignavia, basi concrete per società di sfruttamento, di dominio, e di accomodamento.
Se si elimina il supporto umano nel ragionare di società e di storia, si immagina una dinamica storica autonoma, meccanicistica, che procede da sola. Il tema viene bene identificato da Finelli: “il paradosso di fondo dell’opera di Marx è, […] proprio a muovere dalla matrice antindividualistica del suo pensare, che l’essenza del capitale consiste in una connessione obbligata di passaggi e funzioni, di protocolli di comportamento, la cui intima necessità non dipende dalla scelta e dalla volontà degli esseri umani … ma appunto dal carattere astratto e impersonale della ricchezza in questione, la cui natura solo quantitativa non può che imporre all’intero processo, perché abbia un senso, l’obbligo della propria crescita […] non è un caso che nel Capitale i soggetti umani compaiano come privi di ogni rilievo e autonomia personale, ossia non come soggetti dotati di libera volontà e capaci con la loro iniziativa di modificare il corso delle cose, bensì solo come Charaktermasken, cioè maschere teatrali, che rappresentano solo personificazioni di ruoli e funzioni economiche.
http://www.consecutio.org/2013/10/editoriale-karl-marx-e-il-suo-deficit-originario/
3) “La sua ricerca poetica e la sua lotta, dunque restano in una lingua concentrata, se non rattrappita, in sé. E a me pare – e non c’è nessun moralismo o svalutazione del suo valore poetico in quel che dico – che, così, Celan finiva per staccarsi tragicamente dalla lingua comune: quello strumento ‘sporco’ – affidabile/inaffidabile, veritiero/menzognero – per agire con gli altri e sugli altri politicamente (fosse pure per quel minimo che è possibile in poesia, come tentò di fare un Brecht, ad esempio).”
“‘Restava sulla pagina la traccia di una immane fatica e di un eccelso dono creativo e amoroso in ossessiva auto frustrazione’. Certamente. E anche un io/noi politico non può negare a Celan e alla sua poesia una grande ammirazione, se non proprio la ‘devota gratitudine’ di Zanzotto.”
L’immane fatica e l’eccelso dono creativo e amoroso in ossessiva auto frustrazione non significano affatto, per me, la mancanza di traduzione politica della sua poesia, ma il suo sforzo di fissare la mente su una verticalità che può dare senso al reale, quel trascendente, o divino, difficilmente dicibile ma pensabile, e che non si esaurisce nella contraddittorietà del reale.
In questo caso le riflessioni di Lucini, sulla poesia civile e il vero il bene e il giusto, mi paiono adeguate. E’ poesia civile quella che cerca la forma del vero e del giusto per comprendere il reale. Anche quindi la poesia non “della lingua comune”, la poesia concentrata, e forse rattrappita, del dolore e dell’orrore. Il giusto il bene e il vero sono idee che tutti possiedono. Tradotte nella medietà di Aristotele, diventano una via praticabile di incontro tra le differenze, via sociale quant’altre, ma sempre relativa a una comunità ristretta, quella delle virtù dei cittadini ateniesi maschi e liberi, nel caso.
Oppure, concepite come un ideale regolativo trascendente, si figurano un incontro possibile oltre la contraddizione radicale.
4) In questo senso l’accenno che Ennio fa alle due etiche “Resterebbe da riflettere su un problema che mi pare solo accennato nel tuo commento: tra le due etiche possibili ‘in tempi di politica bloccata’ (e ammettendo che entrambe mirino a un ‘progetto più ampio’)” lo espliciterei così.
A un’etica dell’impegno tra noi, un noi sociale, concreto, quello dei corpi sociali come sindacati, partiti, come gli ordini monastici di carità e assistenza della controriforma, o del cattolicesimo del 900, e come oggi di gruppi e singoli, religiosi e non (l’etica dell’operare concreto di Marta, per ricorrere alla nota figura evangelica), si può accostare vicino ma non escludente, e neppure in contraddizione con la prima, un’etica del distacco, del lavorio della riflessione, che cerca un’unione più ampia e soprattutto possibile. Certo Maria, la sorella, non preparava il pranzo, se ne stava assorta a contemplare il divino. Sono due componenti, spesso intrecciate, che ci sono da sempre presso tutti i popoli (insomma, da un centocinquantamila anni…), per questo in generale l’aut aut, che è un dato nella storia, è anche solo apparenza, nella storia del pensiero umano (perché, con un po’ di autoironia, tutti i salmi finiscono in gloria).
@ Fischer
Il bivio (tra « via ‘mistica’ della poesia verso l’ ‘Altro’ [che] si muove nel Sacro e via ‘politica’ per cui la poesia è veicolo per ‘altro’ (che possiamo chiamare: realtà, storia, azione collettiva, politica») lo vedo io, se e quando mi metto – come ho detto – dal punto di vista di un io/noi politico. E, a seconda delle circostanze storiche, la scelta d’imboccare l’una o l’altra strada può essere drastica (l’esempio di Lenin) o conservando – diciamolo e senza nessun scandalo! – un piede nella scarpa “religioso-mistica”e un altro in quella “politica”, come mi paiono aver fatto in modi diversi e originali Ernst Bloch, Bertolt Brecht, Walter Benjamin, Franco Fortini e tanti altri. Anche perché quando si affronta questa materia, che sta al confine tra il certo e l’incerto (il verificato e l’inverificabile; il condiviso con altri, come accade nel sapere scientifico, e il soggettivo, che può presentarsi oscuro o insondabile ma è creduto e vissuto con passione) nessuno potrà avere l’ultima parola. (O almeno finora non è mai accaduto).
Ecco perché non mi aspetto che il mio aut aut valga necessariamente per altri, più disposti all’et et. ( E viceversa). Non mi meraviglio pertanto – anzi lo dò per scontato in partenza – che i contemplativi « hanno del nulla e del vuoto un’idea positiva». Non penso però che quello da loro praticato sia l’unico o il più valido «varco per afferrare la relatività di storia, società umane, pensieri». Storia, società umane e pensieri possono essere relativizzati sia alla luce di un Principio trascendente (da qui le religioni) che alla luce della spiegazione materialistica (da qui le scienze). Quest’ultima, rispetto al materialismo degli antichi, ha colto le «contraddizioni reali» (non riducibili però, secondo me, a una spiegazione univoca come «la malvagità umana, personale e ineffabile; o i vizi consueti, l’avidità l’ira la violenza la superbia l’ignavia») che generano nel tempo conflitti e cambiamenti sia nel singolo individuo che nelle società. E soprattutto non le vede più destinate a scomparire o ad armonizzarsi secondo uno scopo certo e immutabile.
Non mi pare poi che sia inevitabile che questa concezione materialistica e scientifica, nel ragionare di società e di storia, cancelli il «supporto umano» e s’immagini « una dinamica storica autonoma, meccanicistica, che procede da sola». Semmai essa mostra quanto l’«autonomia personale» dei soggetti umani invece che condizionata da un Principio trascendente (Dio) lo è dalle situazioni (clima, economie arcaiche o moderne, culture, ecc.) create dalla storia delle generazioni precedenti. Quindi va bene esaminare le critiche di Finelli a Marx o ai marxismi, ma non cancellerei mai l’attenzione di Marx ai condizionamenti materiali della vita umana per tornare a teorizzare dei « soggetti dotati di libera volontà e capaci con la loro iniziativa di modificare il corso delle cose», cioè assolutamente liberi. [1]
Che si possa parlare di «traduzione politica» della poesia ein particolare di quella di Celan non mi convince per nulla. Perché dubito che « il suo sforzo di fissare la mente su una verticalità» possa necessariamente «dare senso al reale». Non capisco poi perché considerare sinonimi ‘trascendente’ e ‘divino’. Mi pare implicito nel tuo discorso che, se non si ammettesse il «divino», qualsiasi ‘trascendenza’ (che io intendo come astrazione o distanziamento dal vissuto, dal reale, dalla vita, ecc.) sarebbe impossibile o difettosa.
Quanto al condividere « le riflessioni di Lucini, sulla poesia civile e il vero il bene e il giusto», perché ritieni (in accordo con lui) che vero e giusto (e persino bene) già siano – « come un ideale regolativo trascendente» – addirittura in tutti («Il giusto il bene e il vero sono idee che tutti possiedono») obietto che non credo affatto che essi siano scolpiti per così dire nell’uomo o nell’animo umano. Al massimo vengono fuori – mano mano e faticosamente e in maniera mai duratura – dai conflitti della storia.
Anche il discorso tra le due etiche possibili mi pare ricondotto a un divino che è dato come presupposto (dimostrato?) e comunque considerato sicuramente positivo. Scrivi: «Certo Maria, la sorella, non preparava il pranzo, se ne stava assorta a contemplare il divino». A me pare che da secoli le due componenti siano sì «intrecciate» presso tutti i popoli, ma producano anche contrasti e attriti. E non è detto che tutti i salmi finiscano in gloria. Spesso portano invece a tragedie…
Nota
[1]
In singolare coincidenza ho letto in questi giorni questo articolo di Romano Luperini che affronta, a partire da un episodio di cronaca, i temi di cui stiamo qui discutendo. Lo riporto per comodità:
Il terremoto e la punizione dei peccatori
Scritto da Romano Luperini – 07 Novembre 2016 – Categoria: Il presente e noi
http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/il-presente-e-noi/576-il-terremoto-e-la-punizione-dei-peccatori.html#comment-11330
Un monaco teologo ha dichiarato a Radio Maria che il terremoto è la punizione dei peccatori, specificando anche il tipo di peccato commesso: la legge per le unioni civili e il matrimonio fra gay. Il Vaticano ha reagito sostenendo che un simile argomento era offensivo per le vittime del terremoto e richiamando all’ordine il monaco. I mass-media hanno riportato l’episodio ostentando uno scandalizzato laicismo e un giornalista del telegiornale ha ironizzato: se Dio ha punito i peccatori, perché il terremoto ha distrutto anche le chiese?
Ma c’è poco da scherzare. La questione posta grossolanamente dal monaco teologo è serissima e un credente come Manzoni ci ha meditato tutta la vita scrivendoci sopra anche un bel romanzo. Se esiste un Dio giustiziere (anche se misericordioso), se la Bibbia è piena di punizioni terribili per chi si ribella alla vera fede (sino alla strage non solo degli umani, bambini compresi, non solo di un popolo colpevole che per castigo divino deve essere estinto alle radici in modo che non se ne dia più possibilità di nessuna generazione futura, ma persino di tutti i suoi armenti), perché i colpevoli non dovrebbero essere punti già sulla terra? D’altronde, essendo Dio onnisciente e onnipotente, tutto ciò che accade sulla terra è da lui voluto o almeno permesso, anche i terremoti o la peste. Insomma esiste o no una Provvidenza?
Manzoni rispondeva che sì, esiste la Provvidenza, ma l’uomo non è in grado di capirne i movimenti. La Provvidenza, insomma, è argomento di fede, ma non si può leggere nelle vicende umane, o, come ha scritto un grande critico cattolico, non è leggibile storicamente. Perché di peste muoia fra Cristoforo e dalla medesima si salvi invece don Abbondio, non è dato sapere; il credente può solo credere che una ragione superiore ci sia e intanto darsi da fare fra gli uomini perché la civiltà e la educazione cattolica sviluppino solidarietà sul piano sociale attenuando così il tasso di ferinità che per natura le creature umane portano con sé (si ricordi il significato allegorico della vigna di Renzo).
Naturalmente la questione è ancora più complicata, perché chiama in causa la possibilità che esistano contemporaneamente libero arbitrio da parte dell’uomo e onniscienza e onnipotenza da parte di Dio. E poi, si sa, il potere di Dio può essere limitato dalle forze del male, si chiamino Lucifero o Arimane…Ma, ridotta all’osso con una brutale semplificazione, la questione rozzamente posta dal monaco-teologo è tutt’altro che priva di senso.
La religione dovrebbe dichiararsi impotente a spiegare il male, ma se lo facesse la sua autorità e il suo stesso diritto di esistere sarebbero messi in discussione. E’ nata infatti per fornire risposte positive ai grandi problemi ontologici della umanità e così rassicurarla. Il suo limite conoscitivo è quello stesso della scienza, ma la scienza lo ammette apertamente, la Chiesa non può farlo, e così ci ha costruito su un castello ideologico volto a spiegare tutto senza spiegare nulla. Invece di fare come alcuni intellettuali cristiani o cattolici hanno avuto il coraggio di fare in passato ammettendo l’impossibilità di spiegare ciò che non sappiamo (non solo Manzoni, anche Pascal per esempio), la Chiesa pretende di dare una ragione dei mali del mondo, una ragione morale (magari facendo capire o sostenendo apertamente che Dio metterebbe alla prova gli uomini sottoponendoli a queste immani sventure) o una ragione teologica e ontologica (ci sono intere biblioteche che mirano a salvare insieme il libero arbitrio e l’onnipotenza divina).
Giornali e televisioni in queste settimane hanno interpellato decine di scienziati italiani, giapponesi e americani che di terremoti s’intendono, e tutti dicono che è impossibile prevedere un terremoto o controllarlo, si possono solo limitarne gli effetti negativi. Insomma, avvisa la scienza, c’è un limite alla conoscenza umana che va accettato, senza annebbiarlo mai.
Uno scienziato italiano che è anche un fisico fra i maggiori in Europa e da anni lavora al CERN di Ginevra (è uno dei cosiddetti ricercatori del “bosone di Higgs”), Guido Tonelli, ha scritto un libro uscito qualche mese fa La nascita imperfetta delle cose(Rizzoli), in cui sostiene che l’uomo, dopo diecimila anni di studi e di indagini del cosmo, conosce sì e no il 5% della propria galassia, ma il guaio è che la galassia in cui si trova la Terra è solo una fra i milioni di galassie oggi esistenti. L’unica cosa che si sa, conclude, è che in realtà non si sa nulla. Nulla della posizione e della ragione dell’uomo sulla Terra, nulla sul destino che attende il nostro pianeta, nulla dei terremoti, maremoti, alluvioni, cambiamenti climatici, malattie che possono investire da un momento all’altro la popolazione del mondo e sterminarla.
Pirandello, nella Prefazione al Fu Mattia Pascal aveva detto la stessa cosa più di un secolo fa, parlando della scoperta di Copernico e di quella minuscola e insignificante trottolina che è il nostro pianeta.
La superba pretesa di ignorare questo limite ontologico accomuna il rozzo monaco che crede di poter leggere nella volontà di Dio e la Chiesa che lo condanna dall’alto del castello di dottrine, ideologie, leggende, che ha costruito nei secoli mossa dalla stessa vana presunzione. Accettare questo limite e lavorare sull’unico orizzonte che l’umanità può interpretare e cambiare, quello storico e sociale: questo dovrebbe fare un’umanità consapevole. Creare un’etica planetaria, ha detto Morin. Su questo punto l’ateo Leopardi e il credente Manzoni sarebbero stati dalla stessa parte.
SEGNALAZIONE
Su “Le parole e le cose” è stato pubblicato un interessante articolo su Celan. Particolarmente ricche sono le note esplicative alle singole poesie presentate. A me pare che quest’articolo provi due cose: – che si può penetrare di più nella poesia “oscura” di Celan usando, come fa Mario Pezzella, riferimenti teorici ( Benjamin, Bloch, Jung) più prossimi alla cultura “mistica” di Celan stesso; – che venga rafforzata la mia idea di una estraneità di Celan ad una prospettiva di un io/noi politico. Mi limito per ora a segnalarlo, ma non posso commentarlo come sarebbe necessario.
Celan e l’alchimia
10 novembre 2016 Pubblicato da Daniele Balicco
di Mario Pezzella
http://www.leparoleelecose.it/?p=24999#more-24999
su alcuni punti:
* “Storia, società umane e pensieri possono essere relativizzati sia alla luce di un Principio trascendente (da qui le religioni) che alla luce della spiegazione materialistica (da qui le scienze).”
La scienza, nel suo continuo inseguire la conoscenza (o la realtà) è lei stessa trascendente, mai data, potenzialmente infinita: “La nostra conoscenza del mondo continua a crescere. Ci sono frontiere, dove stiamo imparando, e brucia il nostro desiderio di sapere […] Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l’oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato.” C. Rovelli, le righe conclusive di “Sette brevi lezioni di fisica”.
* “la spiegazione materialistica, rispetto al materialismo degli antichi, ha colto le «contraddizioni reali» … E soprattutto non le vede più destinate a scomparire o ad armonizzarsi secondo uno scopo certo e immutabile”
Ma le contraddizioni reali le coglie anche la metafisica che anzi, in modo *scientifico* cioè con generalizzazioni e astrazioni concettuali, ipotizza il dualismo e l’uno (si pensi alla matematica).
*”contraddizioni reali … non riducibili però, secondo me, a una spiegazione univoca come «la malvagità umana, personale e ineffabile; o i vizi consueti, l’avidità l’ira la violenza la superbia l’ignavia») che generano nel tempo conflitti e cambiamenti sia nel singolo individuo che nelle società”
La malvagità o i vizi non spiegano le contraddizioni reali, ma sono il modo in cui sentiamo e agiamo nei confronti di quello che dobbiamo conoscere e gestire. Spiegano non “che cosa è” ma “come”, i sassi sono rotolati invece noi interagiamo con tutto, ciò che ci riguarda passa attraverso di noi che abbiamo passioni. Quello che avviene, avviene attraverso vizi e virtù.
* “non cancellerei mai l’attenzione di Marx ai condizionamenti materiali della vita umana per tornare a teorizzare dei « soggetti dotati di libera volontà e capaci con la loro iniziativa di modificare il corso delle cose», cioè assolutamente liberi”.
Assolutamente liberi io non lo penso, ma che la volontà libera e l’iniziativa esistano non si può negarlo, altra cosa è capire di che si tratta.
* “Non capisco poi perché considerare sinonimi ‘trascendente’ e ‘divino’. Mi pare implicito nel tuo discorso che, se non si ammettesse il «divino», qualsiasi ‘trascendenza’ (che io intendo come astrazione o distanziamento dal vissuto, dal reale, dalla vita, ecc.) sarebbe impossibile o difettosa.”
Penso proprio come te, che il trascendente è essenziale per non restare ai fatti slegati e bruti. Poi che il trascendente diventi il divino è ipotesi delle religioni, un Divino persona, o un Divino impensabile, per via negativa, quindi quel nulla pieno, ecc.
* “perché ritieni (in accordo con Lucini) che vero e giusto (e persino bene) già siano – «come un ideale regolativo trascendente» – addirittura in tutti («Il giusto il bene e il vero sono idee che tutti possiedono») obietto che non credo affatto che essi siano scolpiti per così dire nell’uomo o nell’animo umano. Al massimo vengono fuori – mano mano e faticosamente e in maniera mai duratura – dai conflitti della storia.”
Il vero e il bene “scolpiti”? Come figure, statue… cioè come cose? No, tutti hanno in sé l’aspirazione, il desiderio, o la negazione, di quel che intendono bene e giusto per loro. Ma tutti lo chiamano così, bene e giusto, pur sapendo che corrisponde a contenuti diversi per ciascuno. Ma è l’idea che è comune, un’idea astratta. Vuota, ma uguale.
* “Anche il discorso tra le due etiche possibili mi pare ricondotto a un divino che è dato come presupposto (dimostrato?) e comunque considerato sicuramente positivo”
Alla fine, sì, ho fatto coincidere distacco con contemplazione del divino, perché avevo già tirato in ballo le due sorelle. Preciso: due etiche, una che prende parte, del prendere parte; una che sa la parzialità delle parti, una etica storica. Si pensi a Canfora quando scrive dell’antica Grecia. Partecipante ma con distacco verso quella società schiavista e aristocratica.
L’etica storica rischia però di diventare storicismo, relativismo, perciò a volte facilmente si rifugia in un trascendente religioso. Penso a Roberto Buffagni, spero di non sbagliare.
L’ Auschwitz di oggi la conoscono bene soltanto i senza tetto, gli esclusi, quelli che non ce la fanno.
Ormai tutte le partite che si giocano sul fronte sono tra finanza che impera e consenso popolare. La tanto sbandierata Democrazia.
Sono dell’idea che il fattore determinante che può determinare l’esito dell’incontro-scontro sia il “dubbio”. I governi cadono e cambiano in base a quanto dubbio si riesce ad immettere nel sistema che crea il consenso. Di fronte al dubbio, macchine e sistemi non possono che andare in tilt: nessun sistema informatico può sopportare azioni tra loro contrastanti. Tutto si basa sul consenso, è il loro lubrificante.
Poesia da che parte sta? Non certo dalla parte della finanza, ché a numeri quasi non la vede. Quindi, se proprio volesse rendersi utile, non cerchi di contrapporsi a Moloch ma si dia da fare per creare dubbi; possibilmente su ogni argomento, dove “ogni” va da Shakespeare alle primule che immancabilmente spuntano a primavera. Se oggi il parlar comune è l’esibirsi, non tema di farlo meglio di qualsiasi politicante. Non sia sdegnosa. Faccia le pulci, separi il sacro dal profano, l’umano dal merchandising; se tutti guardano da un lato si occupi dell’altro, non dia nulla per scontato. E malgrado tutto si diverta: sì, se è poesia viva, anche in un sonetto. Se morta non serve a nulla.
Celan è un poeta che più di tanti altri ho avvicinato muovendomi come in un buio e protendendo verso alcune delle sue poesie le mani (della mente, del cuore) come un cieco che palpa qualcosa di sconosciuto. L’ultima volta lo feci proprio con questo articolo nel 2016. Poi ho sempre letto – in una sorta di apprendistato illimitato e senza scopo preciso – quel tanto che mi è capitato di trovare in rete su di lui.
Oggi, 6 novembre 2021, mi limito a segnalare un altro testo critico su Celan di un suo appassionato studioso.
L’ho appena letto su ANTINOMIE:
“Siamo una sola carne con la notte”
LUIGI REITANI
31/10/2021
https://antinomie.it/index.php/2021/10/31/siamo-una-sola-carne-con-la-notte-2/
Ancora una dritta per chi troverà il tempo per studiare la poesia di Celan…
SEGNALAZIONE AL VOLO DI QUESTO BRANO NEL SAGGIO DI FRANCESCO DEOTTO: UNA CERTA “SPERANZA NEL PASSATO”. PETER SZONDI E IL FUTURO DELL’ERMENEUTICA LETTERARIA
https://www.leparoleelecose.it/?p=42793
In secondo luogo, ci sembra inoltre possibile affermare che la lettura proposta da Szondi in Lettura di “Stretto” permette di concludere che anche il rapporto di Celan con la storia si colloca dalla parte di Benjamin piuttosto che da quella di Proust. Ciò può essere osservato in particolare nell’ultima parte del saggio, nella quale vengono analizzate le ultime sezioni di Stretto (Engführung). Precedentemente, commentando le prime parti di questo poema del 1959, Szondi aveva mostrato come in esso sia in gioco nientemeno che la possibilità di creare “un nuovo mondo”, o più precisamente di “ri-creare” il mondo: una possibilità apparentemente destinata all’insuccesso, visto che i primi tentativi messi in campo (evocati nelle sezioni centrali di Stretto) falliscono piuttosto miseramente. Un simile fallimento è però legato a una loro caratteristica specifica: la loro astrattezza, o meglio al fatto che essi siano nati a partire da elementi troppo puri e cristallini («questo mondo è troppo puro»[23], come sintetizza Szondi a proposito del mondo che sembra nascere nella sesta e nella settima sezione di Stretto).
A dispetto di tali fallimenti, nelle ultime due sezioni di Strette – la ottava e la nona – emerge però anche un’altra possibilità che Szondi mette in evidenza commentando, insieme ad altri elementi, l’uso del termine “Osanna” da parte del poeta tedesco, a proposito del quale va ricordato come Celan non si limiti a rappresentare la tragedia storica della Shoah[24]. Celan riprende in questo poema letteralmente le ultime parole degli ebrei vittime dei campi di sterminio: parole che – malgrado tutto – erano ancora parole di speranza:
«È noto che spesso gli ebrei deportati, proprio nel momento del loro supplizio estremo, si mettevano a pregare e cantavano dei salmi. “Osanna” in ebraico significa “salvaci” o “orsù salvaci”. Questa preghiera oltrepassa il limite segnato, verso l’alto, dal “parapalle”. Coloro che la dicono, oltrepassano con essa l’ambito del loro supplizio: la preghiera è in qualche modo essa stessa un parapalle. La loro salvezza è la parola, il verbo. Certo il poeta non dice nulla di tutto questo. Ma ciò che esprime è l’insegnamento da trarre dalla condotta dei deportati che andavano alla morte. L’evocazione dei fatti che appartengono alla realtà storica si trova nella poesia, di cui costituiscono la fine e il fine, perché serva da insegnamento».[25]
Alla luce di questa e di altre osservazioni, continua Szondi, è possibile comprendere meglio come dopo Auschwitz la poesia per Celan sia ancora possibile, ma «solo sulla base di Auschwitz». Ciò equivale a dire che per Celan non è più praticabile una forma di poesia associabile all’idea di una parola misteriosa quale era ancora la parola alla base dei primi tentativi di costruzione di un mondo presenti nella parte centrale in Stretto. La poesia – come una certa forma di speranza – è possibile solo a condizione di non rimuovere il passato e di ricordarsi dei crimini di cui gli uomini sono stati capaci nel corso della storia e, ancora più precisamente, a condizione di ricordarsi del punto di vista delle vittime. Solo così qualcosa come una «ri-creazione del mondo» è possibile, una «ri-creazione» che resta molto fragile, e che non potrà mai essere certa d’essere al riparo da nuove distruzioni, ma che non per questo non corrisponde a un compito assolutamente necessario:
«Dopo Auschwitz si può fare poesia solo sulla base di Auschwitz. Mai come in Stretto, Celan ha dimostrato in modo chiaro e convincente il fondamento reale dell’insegna segreta della sua opera, il suo carattere essenzialmente non confessionale, non personale. La parola creatrice non è dunque la parola misteriosa di cui si dice, nella prima strofa della parte V, che “scese, / scese attraverso la notte, / volle risplendere, volle risplendere”. È invece quella detta dagli ebrei deportati in punto di morte – una parola i cui “solchi” ridiventano “visibili” al termine della poesia».[26]