di Dinamo Seligneri
Quell’anno, poteva essere poco prima di Carnevale o forse addirittura Pasqua, non ricordo, andai alla prima ‘ssemblea sindacale della mia vita.
La scuola morta dove facevo servizio aveva, come si dice, aderito in massa (e già questa era una grande novità). Che è che non è, alla fine mi risolsi ad andarci pure io.
Da giovanissimo avevo partecipato ad alcune riunioni politiche nelle vecchie case del popolo del quartiere industriale del paese, a quel tempo già convertite a sedi di partito, si chiamava DS il partito, e le sezioni sezioni della Sinistra giovanile, mi pare… che io che andavo là più che altro perché mi piaceva girare con lo scuterino per il paese e fare dei soldi con la distribuzione dei giornali del partito, anagraficamente ero giovane sì, politicamente ed emotivamente ero sicuro di sinistra sì, anche sinistra spinta, ma non mi consideravo davvero e in effetti non ero un giovane di sinistra come si chiamavano allora i ragazzi che facevano parte del vivaio della Sinistra giovanile, nel senso che non ero granché come militante, ero un militante semplice, semplicissimo e in realtà non ricordo né che mi iscrissi né che facessi degli interventi come altri giovani, pertanto forse non ero nemmeno un militante semplice, non ero niente e nonostante questo me ne andai a sfregio, come si dice da me, e abbastanza presto, un giorno che si doveva votare per l’elezione di qualcuno lì nel nostro collegio (che fu, come si dice, silurato, inculato), me ne andai giusto in tempo insomma per capire che l’associazionismo non faceva per me…. ma che cosa faceva per me?
Mi aspettavo un’atmosfera simile, all’ssemblea sindacale, con gente da tutte le parti, con i maglioni un po’ sdruciti, un po’ bucati, a fumare e discutere, a giocare a carte e tirare la tombola, qualcuno che ci allungava duemila lire per portargli le patatine o il caffè.
Ma non andò affatto così.
Eravamo grandi, ormai. Non c’era tempo per gli scherzi o i giochi alle carte.
La riunione fu preparata in uno stanzone grande con dei banchi molto piccoli, e delle sedie ancora più piccole.
Mi sedetti sopra uno di questi banchi, ma in fondo, perché davanti c’erano pochi posti.
Naturalmente eravamo nella mensa dei piccoli dell’asilo, infatti quando ero arrivato si sentiva odore di sugo e spinacine. Poi, a riconferma di questo, durante l’ssemblea dalla porta laterale entrò un signore in grembiule bianco che disse sottovoce “Scuuusaaateee”, cercando di entrare tenendosi la porta aperta con il piede perché aveva le braccia impegnate da un paniere ricolmo di rosette che uscivano fuori. Siccome nessuno lo aiutò (io a mia discolpa voglio subito dire che ero molto lontano), una rosetta gli cadde e rimase lì fino alla fine, tra la porta laterale e l’ssemblea sindacale. La fissai a lungo. Penso di non aver mai fissato tanto a lungo una rosetta in vita mia. E dire che non avevo nemmeno fame (avevo la tosse però).
Di colleghi ce n’erano pochi ma quei pochi si erano divisi in due gruppi: vicino a quello che sembrava un volenteroso ed accalorato sindacalista il primo troncone, quello dei più interessati; lontano da quello che sembrava un volenteroso e accalorato sindacalista il secondo troncone, quelli che erano lì senza un vero interesse oppure quelli che, come me, erano arrivati poco più tardi dell’inizio e non avevano avuto la voglia di cercare posto più avanti.
La maggior parte di quelli del mio gruppo aveva delle facce con una brutta cera, una cera da morti verrebbe da dire, ma a dispetto di questo o proprio per smentire la natura moritura delle facce, quelli del mio troncone ciarlavano in continuazione, alzando un muro di menefreghismo assurdo contro le parole del sindacalista. Il sindacalista, essendo una persona oltre che volenterosa e accalorata anche molto educata, si permise una sola volta di dire “Scusate signori… non vorrei… potete abbassare un po’ il tono di voce?”. Qualcuno dal primo troncone ogni tanto diceva “Scccccc” ma quelli del secondo continuavano comunque a parlare.
Al corso di specializzazione all’insegnamento, mi venne da pensare, era tutti i giorni così. Il professore spiegava e noi aspiranti professori parlavamo tra di noi. I professori che c’erano lì, però, essendo pure professori universitari, dopo un po’ si indispettivano, anche i più democratici e filo-deweyiani, e ci urlavano frasi irriguardose del tipo “E voi vorreste rispetto dai vostri alunni e siete i primi a non dare rispetto ai vostri professori? Ma la conoscete un po’ di vergogna?”.
Purtroppo in mezzo a noi nessuno conosceva la vergogna e dopo una manciata di secondi di silenzio, per altro rovinati da qualche risata trattenuta malamente, si ritornava alle nostre scemenze.
E dire che non eravamo proprio più dei fanciulli. Molti di noi erano sposati e imbabbiti da tempo….
Io non lo so, ma il mondo è strano e delle volte agisce sulle persone una forza portentosa che ci viene dagli altri, nonostante anche gli altri ne siano travolti. Allora, da chi parte? Mbò. Son dei misteri.
È una forza che ti porta a piangere perché gli altri piangono o a ridere perché gli altri ridono o a parlare perché gli altri parlano e la forza di quel momento è così forte che per non assecondarla devi storcere la bocca, morderti le labbra, darti dei pizzicotti e delle volte non basta, ti travolge ugualmente.
E’ incredibile come la Natura, per la sua e la nostra sopravvivenza, sappia opporsi con tanta ferocia a questa forza portentosa: voglio dire che delle volte davanti alle tragedie o alle catastrofi si crea una tale forza, di una qualità magari non eccelsa come è per l’appunto la forza empatica ma ad ogni modo enorme, che se si riuscisse ad assecondare fino in fondo, questa forza potrebbe tranquillamente bastare a rivivere un morto, (diciamo pure un appena morto)… eppure non ci riesce. Questo perché la Natura è quasi sempre più forte di noi o perché nella trasmissione di questa nostra stramba energia ci sono delle falle, come nei tubi per irrigare i campi, o ci sono dei dislivelli di terreno creati da portatori più stanchi o da veri e propri disertori che dopo i primi istanti di incantamento fanno mancare i loro pezzi di tubo… pertanto, nella maggior parte dei casi, la volontà di questa forza non arriva a effetto, il morto rimane morto e l’energia si scarica un po’ qua e un po’ là, dispersa… neutralizzata.
Guai allora se non ci fossero i portatori più stanchi o i disertori! mi viene ora di pensare… è grazie a loro che siamo tutti vivi e nel ciclo vitale. Senza di loro, l’uomo rischierebbe con la sola forza della volontà di vincere la Natura sul campo dove essa è più cinica e competente: la vita e soprattutto la morte! Riusciremmo insomma a vincere la morte col solo pensiero e ciò non potrebbe che essere letale per tutto il genere umano che ne rimarrebbe schiacciato peggio che soggiacendo alle leggi di Natura.
Tutto questo per dire che il giorno della ‘ssemblea sindacale la forza più attiva era la forza chiacchierina. Tra tutte le forze la forza chiacchierina è una delle più becere, una forza che non arriva nemmeno a immaginare le vette della forza della risata collettiva. La forza chiacchierina si era impadronita di tutto il secondo troncone. A disertare c’ero io, il solito punto molle della catena, debole e fasciato nel mio malanno di stagione e qualche altro sporadico collega, di fianco a me, colleghi con i quali condividevo il guardare fisso davanti a me, come una banda di idioti a passeggio per la città, ognuno incantato e ammutolito da qualche insospettabile attrazione (una rosetta a terra, un sacco nero dell’immondizia, un semaforo spento, una luce sbilenca dal cielo).
Ad un certo punto, alle spalle del sindacalista apparve una proiezione di schermo del pc. Purtroppo però lo schermo era talmente piccolo che a malapena si intravedevano le icone. Fu chiamato un signore calvo per riparare il problema ma pur dimenandosi non riuscì a fare molto ed anche il volenteroso e accalorato sindacalista fu costretto a gettare la spugna, provando a dire tutto con la voce e con i gesti e le mani, come i grandi oratori sanno fare, ma tutto questo lavoro era comunque ostacolato dai colleghi in discorso che non riuscivano proprio a starsene in silenzio.
C’era una maestra del comparto elementare che nonostante fosse avanti con gli anni – sui sessanta abbondanti – era truccata e vestita un po’ da troia. Un collega al mio fianco (destro), anch’egli un disertore, almeno fino a quel momento, quando la maestra ci passò davanti mi disse: “Quessa va ancora in cerca…” e mi fece il gesto del colpetto con il gomito. Non mi sorpresi dei suoi commenti. Lo vedevo affaccendarsi spesso e volentieri dietro le gonne delle (poche) giovani professoresse della scuola… fare il simpatico… allungare le braccia attorno al collo o alla vita. Insomma, un piccolo cascamorto di provincia.
Alla mia sinistra c’era invece un altro collega, molto particolare, un disertore di grandissima qualità. Per lui negli ultimi mesi avevo coniato un nuovo termine: il collega patibolare. Questo soprannome nasceva dalla semplice constatazione che quando doveva entrare in classe sembrava stesse per salire sul patibolo.
Il collega patibolare era una persona davvero stremata dalla vita. Secco secco e cianotico, sempre con la sigaretta in bocca o per le mani (se le arrotolava da sé), con pochi capelli tinti ai lati della testa e la ricrescita bianco fiammante in agguato. Aveva una figlia drogata che entrava ed usciva dalla comunità e quando la incontravi per strada, sapendo che lavoravi con il padre, ti mostrava il medio.
Così, o per una cosa o per un’altra, il collega era spesso assente malato e i suoi alunni ormai facevano spallucce quando entrava la sostituzione in classe. Un mese prima aveva spaccato con una testata il centro della lavagna, no quella multimediale, la Lim, ma quella di ardesia, nera, dura, classica – avevo pensato a un atto simbolico contro il muro (la lavagna) della tradizione ma poi mi dissero che non c’entrava niente.
Chi c’era diceva che era stata una testata tremenda, forse perché i ragazzi stavano facendo commedia, o perché non gli ridava un problema (insegnava matematica), di quei problemi, avevo immaginato, con i contadini che lasciano le uova sotto i sacconi delle patate (ché per forza poi se ne rompono a dozzine), e a causa di queste uova rotte, a causa di questi contadini imbecilli, pure il collega patibolare si era mezzo rotto la testa, lasciando un rigo di sangue rosso (suppongo chiaro, anemico) da metà della lavagna fino a giù al pavimento. Un altro filo di gesso.
Poi aveva bestemmiato la madonna, in classe erano rimasti tutti zitti per un po’ ma giro qualche minuto s’era dovuto sedere perché gli girava il mondo e i ragazzi invece di chiamare Gabriele si erano rimessi a chiacchierare.
Un giorno, durante l’ora buca, mi disse che l’estate precedente gli era morta una sorella, io gli espressi a modo mio le condoglianze, lui disse ”no no… a me mi spettano comunque tre giorni di lutto… non è che mò perché era luglio non mi spetta più niente… qua una sorella morta è una sorella morta…”, un morto di peso! ridacchiai… “mi spetta lo stesso il lutto… io tre giorni me li prendo… mica glieli lascio, scusa”.
Era un professore così, patibolare.
All’ssemblea, dimostrò di non provare simpatia per i sindacati che considerava pezzi d’antiquariato e dimostrò anche di avere delle animosità liberiste.
Chi l’avrebbe mai detto…
Spesso, dopo le parole del sindacalista, diceva ”Non sono d’accordo. Quessi lavorano per l’appiattimento! Dopo lo dico che non è così… eeehhh mi spiace ma se dicono le cazzate lo dico. Non c’entra solo quello che fai in classe… in classe so’ bravi tutti… ma fuori che fai?”.
Sosteneva anche che alcuni corsi di formazione erano facoltativi e non obbligatori come sosteneva invece il sindacalista per colpire il potere ministeriale. A me sembrava avesse torto il mio collega patibolare ma gli davo comunque ragione per non dover discutere.
Era venuto all’’ssemblea soprattutto per sentire delle pensioni e quando aveva capito che non se ne sarebbe parlato, trac, se ne andò, senza nemmeno fare l’intervento che mi aveva promesso di fare.
La cosa che mi dava fastidio del sindacalista era che parlava sempre bene degli insegnanti. Non capivo se lo faceva onestamente, ché ci credeva proprio, oppure cercava di non indispettire iscritti e cooptarne di nuovi (come me) e pensai pure, a dire la verità, che uno come me, non che io sia chissà chi ma per dire una cosa, uno come me lo convinci più facile se gli dici male, se gli dici che capisce poco, no se lo accarezzi che è bravo e capisce tanto.
Il sindacalista dimostrò pure poco senso logico durante la tessitura del suo panegirico degli insegnanti, perché se da una parte diceva che lavoravamo tutti bene in classe (su questo in sintonia per giunta con il collega patibolare), poi dall’altro diceva che non andavamo valutati in nessuna maniera, né dalle prove ministeriali nazionali né dal dirigente né da nessun’altra forma o commissione se non dai titoli che i nostri alunni avrebbero conseguito in futuro… dei migliori di essi però, perché “se uno studente è un ciuccio stracciato o è scemo”, diceva il sindacalista, “hai voglia a essere bravo a fare le spieghe di storia e matematica, non è che l’insegnante gli può aprire la testa e buttarci dentro i libri”… insomma, l’insegnante, per lui, era proprio come il cliente al ristorante che ha sempre ragione… quando in realtà, se uno non sa insegnare niente niente proprio ai ciucci, agli stracciati o agli scemi, allora che cazzo di bravo insegnante sarebbe? ai figli della borghesia sono boni tutti a fargli imparare i verbi le desinenze Dante e le equazioni… o no?
Solo in un caso il sindacalista disse male alla categoria quando raccontò un servizio della televisione che aveva fatto vedere un insegnante che con il bonus Renzi aveva comprato una lavatrice invece che il tablet o i libri o i corsi di aggiornamento.
Poi però si era ripreso e aveva detto che non era comunque giusto dare addosso a tutti gli insegnanti se ce n’era uno che aveva comprato la lavatrice con il bonus. Gli altri erano onesti. Io fortunatamente essendo supplente il bonus non lo meritavo però se mi avesse interpellato avrei potuto dire che alcuni insegnanti avevano acquistato i libri scolastici per i figli o il cellulare o un televisore, con il bonus, mentre un collega mi aveva detto che se volevo lui con il bonus comprava un pc che mi piaceva e poi me lo prendevo io ridandogli i soldi con uno sconto di 50 euro.
“Ci guadagno io e ci guadagni tu”.
Ma io il computer ce l’avevo.
Dietro di me intanto si era formato un terzo troncone, cresciuto principalmente su dei pezzi anarchici del comparto Ata: bidelli e segretari. Ad un certo punto il sindacalista arrivò a dire che i bidelli avevano ancora il contratto di una volta… il contratto che era destinato a quelli che avevano la quinta elementare e quindi prendevano come quelli che avevano la quinta elementare, mentre i segretari prendevano di stipendio come quelli che avevano la licenza media. “Pure gli operai del comune ora c’hanno il contratto da licenza media… meglio dei bidelli… come i segretari. Ma ci rendiamo conto?” si sbracciava il sindacalista.
Dopo questa notizia, sentii che dietro di me un pezzo di Ata si muoveva. Era un pezzo grosso, il bidello Aldo. Aldo era il bidello delle elementari, un Mangiafoco ma di quelli cattivi davvero, con la barba e le maniere scorbutiche. Prima bestemmiò – sottovoce -, poi disse – sempre sottovoce – ”Sti stronzi, loro gli stipendi se li alzano e noi i contratti della quinta elementare… ma lo so io che ci vorrebbe… a dargli fuoco ci vorrebbe… ma tutti… tutti quanti!”.
La segretaria gli diede ragione e per un momento le fiamme si impossessarono delle loro menti e del Parlamento. Solo più tardi, scartabellando in segreteria per altri documenti, scoprii per puro caso che il titolo del bidello Aldo era la quinta elementare.
Dopo questi momenti così caldi, c’era una confusione incredibile attorno al sindacalista. Non si sentiva più niente. Il proiettore si era definitivamente spento. Mancava ancora un quarto d’ora alla fine ma pure quelli del primo troncone si erano alzati in piedi e andavano a stringere la mano al volenteroso e accalorato sindacalista. Io rimasi imbambolato un altro po’ di tempo, indeciso se andare a salutarlo anche io (mi aveva aiutato a prendere alcuni stipendi, quell’anno) o filare direttamente in classe. Alla fine come al mio solito uscii senza salutare e mi infilai al bar dove vidi che al bancone s’era riunita buona parte del secondo troncone, anche se ormai avevano ben poco da dirsi, e una minima parte del primo troncone, con tutte le professore più accanite che parlavano di diritti e di scarpe; ordinai il caffè, lo bevvi con calma e mani in tasca e fischio in bocca uscii, lasciandomi alle spalle la prima assemblea sindacale della mia vita.
Mi ritrovo, in quella scuola fuori dalla classe, nella noia divertita di assemblee consigli colleghi nella desolazione di domande futuro regolamenti circolari. Bella scrittura, sempre tesa. E in classe? Con i ragazzi uguali a Dinamo, scettici come Dinamo, e pazienti come lui?
Gentile Cristiana, grazie per l’interesse.
Questo racconto fa parte di un libro bastevolmente ampio che parla molto anche di studenti, probabilmente più scettici e pazienti del narratore… sicuramente molto più beati e splendidamente semiaddormentati.
Un caro saluto
…Dinamo Seligneri ci presenta una narrazione in prima persona molto simpatica ed efficace nel ritrarre la figura di un lavoratore precario della scuola, che, un po’ nello stile del Giovane Holden cinico e tenero insieme, ci introduce in una disastrata assemblea sindacale…A tratti, la lettura, suscita una sorta di mal di mare, come se fossimo stati immessi in un mare burrascoso su zattere (“tronconi”) di fortuna, alla deriva…Non c’è tra i naufraghi un capitano credibile a indicare la rotta o l’approdo in una lontana terra ferma, così l’eroe non può che essere il “disertore”, capace di resistere alle reazioni epidermiche…se ho ben capito, sembra che la “Natura” lanci tranelli e ancora la “Natura” si difenda…Interessante!
Mal di mare mi rincuora. Temevo di essermi calmato come narratore.
Grazie per il suo commento, Annamaria.