di Ennio Abate
” Sui confini della poesia” si legge in “Nuovi saggi italiani 2” alle pagg. 313 -327 del volume della Garzanti pubblicato nel 1987. E’ una lezione tenuta da Fortini presso l’università del Sussex nel maggio 1978. Il testo non è di agevole lettura, anche perché rivolto ad un pubblico di studiosi. Usa espressioni concentrate e le tesi non vengono spiegate ricorrendo ad esempi. Questi sono gli appunti che ho steso in questi giorni dopo una ennesima lettura e avendo in mente la questione del rapporto poesia/moltinpoesia. I numeri tra parentesi rimandano alle pagine. [E. A.]
1.
Tu scrivi, noi scriviamo. Le parole che usiamo tra pochi anni o decenni saranno sconquassate «dal contesto feroce che la storia contemporanea gli prepara» (315). L’ avete mai pensato? Fortini ci pensava. Questa sua lezione era sulle «alterazioni subite dalla recezione delle opere letterarie nel corso della loro esistenza temporale» (316). E aveva come obiettivo polemico non tanto lo strutturalismo (316), corrente di pensiero alla quale Fortini riconosceva «eccellenti risultati» (317) ma l’abbandono della «dimensione storica negli studi letterari» sostituita dal «chiacchiericcio nevrotico dell’industria culturale».
2.
Subiamo – per Fortini «da circa dieci anni» (315), per noi ormai da circa un cinquantennio (e molti senza accorgersene, altri senza più considerarlo un problema o il Problema) – «quella che viene chiamata la “crisi del marxismo”» (315). Ne abbiamo percepito le conseguenze. (Fino a quali livelli culturali?) Ce ne siamo accorti dagli articoli di giornali che ci hanno proposto, dalla scomparsa dalle vetrine delle librerie di certi autori sostituiti da altri, dalle interviste ad X invece che a Y. Fortini accenna alla «ripresa d’interesse per la cultura dell’esistenzialismo tedesco (Heidegger quindi e Nietzsche), per quella della crisi e della negatività (ossia per l’arte e il pensiero viennese degli anni Dieci), per quella che potremmo chiamare la Scuola di Parigi, arco assai ampio che va da Lacan a Derrida, da Bataille a Foucault» (315).
Taluni hanno considerato questo mutamento una liberazione da un modo di pensare troppo rigido, ma io condivido l’opinione di Fortini: è stato un disastro. Che ha comportato «frustrazione sociale e politica» nelle forze operaie e intellettuali a cui ci eravamo legati, la cancellazione di una prospettiva (quella di «rovesciare gli equilibri di potere del ventennio precedente», «perdita di memoria del passato» (soprattutto quello prossimo) anche nelle «esistenze individuali» (315), la facile imposizione di una «sfrenata manipolazione da parte dei mezzi di comunicazione di massa», tutti indirizzati «nella medesima direzione: distruggere l’avvenire sostituendolo col “sempre eguale”»; e soprattutto una «incapacità o non-volontà di previsione e di progetto» (316). (Penso al fallimento di tutti i miei tentativi di costruire riviste, tutti).
2.
Cos’è accaduto di riflesso nel campo della letteratura, della poesia e della critica letteraria?C’è stato o no questa «brutale divaricazione di posizioni: vitalismo esasperato, che si potrebbe chiamare neosurrealista […] oppure formalismo esasperato, indifferente agli aspetti referenziali», di cui parla Fortini? O la loro convivenza o giustapposizione? (317) Si è avuta questa «progressiva scomparsa degli “oggetti” artistici e poetici» e della loro «latente funzione pedagogica» che ancora sapeva alludere ad «un fondamentale “problema della vita”» (Lukàcs)? Fortini non ne dubita: non c’è nessun spazio più per questa funzione dell’arte o della poesia, non è più possibile la «via estetica all’umanesimo», scopo che aveva ancora avuto valore per la sua generazione. C’è stata una «distruzione radicale di quella prospettiva» (318). E a distruggerla è stata «la realtà socioeconomica del presente». Rammaricarsene? No. Bisogna, invece, «domandarsi se tale distruzione non sia benefica»; e se non permetta di riproporre, cancellando «due secoli di estetica borghese», il «tema antichissimo e futuro» della – potremmo dire – pienezza della vita o delle «sue più profonde possibilità» (318).
(Rientra in questo discorso il fenomeno che ho chiamato dei moltinpoesia? O vi sfugge e rimane marginale o secondario? Credo di sì.)
3.
Trattandosi di una lezione, Fortini si diffonde, seguendo Jakobson. in «precisazioni terminologiche». Ne fa sui concetti di testo (letterario o poetico) (318) e di contesto (a cui non dà un «significato esclusivamente linguistico» intendendo invece «l’ambiente e l’insieme delle determinazioni socioculturali» (319). Non approfondisco questa parte del saggio e vado subito al punto che mi e ci riguarda oggi, come poeti o scrittori o moltinpoesia. Lo riassumerei così: scrivere (poesia, prosa) o fare arte significa dare forma a qualcosa che è informe. Ciò «comporta caratteri severi di sforzo e di progetto» (321). Banalmente: fatica, studio. Fortini, per la precisione e più rigorosamente, dice: «organizzazione, volontà, ascesi, selezione», insistendo su un fatto:«il valore di ogni forma è anche etico-politico» (321) e non, dunque, soltanto estetico. La forma «si oppone in generale alla proliferazione “produttiva” dell’inutile» e, specificamente oggi, alla «dissolutio vitae della produzione capitalistica e della sua fabbrica di spettri» (321).
4.
Oggi non abbiamo più il pubblico borghese, che aveva «una familiarità esistenziale con le lettere e le arti», un pubblico cioè che si era «allontanato dalle liturgie religiose» e si era educato ai valori dell’arte e della poesia (321). Abbiamo, invece, un pubblico fatto da acquirenti e consumatori dei «prodotti dell’industria culturale di massa» (322). In esso possiamo trovare sia persone attente agli «aspetti tecnico-retorici delle lettere e delle arti» sia persone che hanno perso ogni capacità di distinguere tra «letteratura, contro letteratura, Vulgåliteratur, insomma fra “opere d’arte” e “opere di consumo”»(322).
E qui de te fabula narratur, o moltinpoesia, nella cui nebulosa ho imparato a riconoscere quelle spinte che Fortini con precisione definisce:« formalismo di origini strutturaliste e semiologico» o «vitalismo preterrazionale» (322)!
5.
Guardiamo questa “foto di gruppo culturale” scattata da Fortini nel 1978, data di questo saggio:
«Le classi oppresse e sfruttate (o alienate o reificate) sono, per eccellenza, esposte alla storia come labilità e come carenza di legittimazione; e per questo tendono a porre al primo posto le funzioni referenziali del linguaggio, i contenuti emotivi e ortativi. Dagli oggetti del discorso poetico o artistico esse guardano ai contesti, al caos storico in cui sono immerse. Oppure, dal fondo della sala schermiscono gli austeri ascoltatori delle prime file. O magari si abbandonano ad una forma qualsiasi di oppio culturale, di alta e bassa poesia, Hölderlin o la canzone di juke-box; forma, certo, ma ormai forma vuota (anche quella del classico se letto senza prospettiva) cui l’ascoltatore offre il proprio sangue senza riceverne» (322-323).
Ai poeti non piacerà, ai moltinpoesia neppure. Figuriamoci chi oggi accetta di essere classificato tra le «classi oppresse e sfruttate»! E credo che, su 10 poeti o moltinpoesia che ho incontrato, ancora 7 o 8 sono disposti a condividere l’opinione di Adorno, così riassunta da Fortini: «l’oggetto estetico con la sola sua presenza nega e avversa e tende a sconvolgere tutto quel che è accettato, quotidiano e ripetuto» (323). E, dunque, la poesia ha in sé valore. Se non tutti sono oggi pronti a giurare che «la funzione sociale della poesia sarebbe sempre rivoluzionaria» (324), concorderanno facilmente che essa è sicuramente liberatoria o salvifica o terapeutica o consolatoria o civile. Insomma un valore di per sé e, già così com’è, insostituibile. Come lo fu in passato? Se non proprio, quasi. Sciocco sarebbe ironizzare su queste credenze. Fortini non lo fa. Anzi ammette che lui pure, «ancora pochi anni fa», era convinto che «la forma poetica avesse una sua autonoma forza liberatrice relativamente indipendente dai suoi contenuti, ossia dal suo “oggetto”» (324). Eppure non era così cieco o coi paraocchi da non vedere che «la poesia, proprio in quanto forma che si oppone al mutamento, ha anche una sua dimensione conservatrice o conciliatrice» (324). Né erano ciechi e coi paraocchi pensatori come Horkheimer e Adorno, che, come Fortini ricorda, erano pur essi consapevoli che «il canto della poesia e dell’arte è al servizio del dominio non solo perché è frutto dell’agio e del consumo come spreco e piacere ma perché la promessa di felicità e l’immagine di pienezza, che arte e poesia portano con sé, non possono essere che promesse e immagini, fiori sulle catene» (324). Ovvio che a queste parole sorriderà chi vede nel «mutamento» solo una minaccia o troppi rischi. Meno ovvio che sorridano quanti si sono riconosciuti, almeno in passato, nel mutamento, progressivo o rivoluzionario.
6.
Gli acritici appassionati della Poesia non sopportano che la loro amata Dea o Musa possa rivelare nel tempo e per la precisione nell’epoca post-borghese ( o postmoderna) un volto ambiguo o non sicuramente benefico. E reclamano più Poesia, più attenzione (e soldi) per la Poesia da parte dei Governi o l’apertura di altre Case della Poesia, dove i suoi riti possano essere officiati dai più riconosciuti sacerdoti. Mentre i moltinpoesia saranno sconcertati dal veder demolire un Idolo, a cui finalmente pure loro si erano potuti avvicinare. Sentirsi rispolverare da Fortini le idee del vecchio Lukàcs irrita o fa incazzare. Ma come faceva il filosofo ungherese a guardare preoccupato «l’importanza crescente attribuita alla letteratura e all’arte dall’età romantica ad oggi»? Come faceva a sospettare che l’«estetizzazione del mondo» (325) o, in altri termini, con Debord, la «società dello spettacolo» riduca tutto a «apparenza e fantasma» o all’ «autonomia dei significanti» (326)? E vedere addirittura un legame pericoloso tra questo processo di Inno alla Bellezza e «la crescita del processo di reificazione in ogni altra parte dell’attività umana»? Cavilli, intellettualismi da veterocomunisti, signora mia! Lasciateci lavorare o almeno provare! E così molti moltinpoesia si aggrappano all’affermazione che la poesia è ancora una nicchia, «l’ultimo luogo che la sclerosi della reificazione non ha ancora totalmente invaso» (325). E quindi teniamocela stretta, no, la nostra “vocazione poetica”. Perché metterla in discussione?
7.
Fortini ai poeti, ai moltinpoesia, agli artisti in questo scritto pone un problema. E io lo riassumo e lo metto proprio in forma di predicozzo o lezioncina così: mentre voi state a discutere su come «formare» le vostre opere d’arte, altri stanno dando forma a loro modo alla «vita medesima». (Dice niente – aggiungo oggi – la parola «biopolitica»?). Lo capite o no che, occupandovi soltanto di dar forme alle vostre opere, date per fallita ogni «ipotesi di una trasformazione degli uomini» o una «proposta di integrità umana» (325)? Non v’importa più nulla di questo? Come dite? Il «grido» dell’arte e della poesia non deve restare inascoltato? D’accordo. Ma volete capirlo che esso «è un segno di miseria oltre che di grandezza; ma soprattutto è la prova di una ripetuta sconfitta umana»? E che: «Come la religione per Marx, l’arte e la letteratura sono “il cuore di un mondo senza cuore”»? (325). E cioè contengono l’illusione « di essere usciti dal mondo della prestazione», cioè del lavoro obbligato. Non vedete che «l’antico sogno schilleriano di una “educazione estetica dell’umanità” si è trasformato in una crescente demolizione dell’universo dei significati a favore di un universo dei significanti» (326)?
8.
Chi però orecchiasse questo “vecchio” discorso potrebbe chiedere: non c’è alcun rimedio a questa crisi? Bisogna abbandonare poesia e arte e sostituirle con qualche altro valore? Chiarisco subito che non sono queste le conclusioni di Fortini. Alla fine del suo saggio egli delinea una via possibile, che spiega anche il titolo del saggio stesso. E’ una via suggerita dalla sua visione dialettica. Dice che non bisogna contrapporre «forma» e «vita». O «forma e non forma». O «passato formato» e «futuro da formare» (327). Perché si tornerebbe all’«antitesi cara al naturalismo e al decadentismo di ottant’anni fa» (327). Bisogna, invece, pensare la forma come «tensione ad inglobare, affrontare ed elaborare quel che sta oltre le frontiere della forma poetica» (327). Insomma, qualcosa di dinamico e non di statico. Che si spinge verso il fuori e non il dentro. Si deve, cioè, forzare «la tendenza centripeta di ogni opera, il suo tendenziale rifiuto ad altro da sé». Allora «l’opera proprio perché chiusa potrebbe essere arma a comprendere la realtà aperta e informale» (327). In conclusione, Fortini, lasciando perdere «la sovversiva promessa di felicità» tanto spesso associata alla poesia, sostiene che essa, «se si porta ai propri confini, riafferma l’esigenza che gli uomini raggiungano controllo, comprensione e direzione della propria esistenza» (327). Io continuo ancora a provarci.
Significative e ancora attuali le riflessioni di Franco Fortini proposte, con generosa apertura al dialogo, da Ennio Abate in una sua personale sintesi speculativa. Scrissi, a suo tempo, proprio ad Ennio Abate che la funzione dello scrittore debba essere quella di fornire una visione della vita che orienti il lettore verso un nuovo umanesimo, verso il bene. Sarà una visione riduttiva, moralistica forse, ma appartiene a tanta tradizione della letteratura che, per me, è anche la migliore. Così dovrebbe essere del poeta, che testimonia del proprio ‘io’.
Da una matrice di ermetismo, al confronto con lo sperimentalismo, al protagonismo nel campo di una poesia esistenziale, connotata da un impegno civile e politico, si snoda l’esperienza poetica di Franco Fortini, valorizzato dalla sua resistenza, eroica e tenace, al tentativo di ridurlo a un intellettuale ‘organico’, come accadde a suo tempo a Elio Vittorini nei confronti di Palmiro Togliatti (ma di questa storia Ennio Abate ne sa più di me).
I temi affrontati da Fortini in questi saggi diventano, a mio vedere, ancora più problematici e stringenti rispetto ad allora (1978), a confronto col fenomeno attuale della globalizzazione, con gli effetti fausti e infausti che essa comporta, non solo a livello di comunicazione (quale lingua?), vedi come il recente romanzo Di Roberto Bugliani, commentato in questo sito, comporta per una efficace e attuale comunicazione l’uso di tre lingue, italiano, spagnolo e inglese; ma anche la tendenza per cui spazi più ampi tendono a saturarne di più circoscritti ma ancora praticabili, quelli della nostra terra, della memoria ecc.
Il poeta e lo scrittore devono alzare l’asticella del proprio salto, per rendersi appetibili a un pubblico più vasto e, nel contempo, lanciare a maggiore profondità lo scandaglio della ricerca interiore per valorizzare l’esito di un confronto tra culture, filosofie e religioni diverse sempre più vicino, stringente e serrato. C’è anche un grosso ostacolo in più rispetto al passato; il fatto che l’editoria è diventata per larga parte un’industria, un’impresa commerciale che mira a soddisfare la domanda più che selezionare e privilegiare l’offerta (belli e irripetibili i tempi in cui le grandi Case Editrici erano sinonimo di cultura; quando, ad esempio, la collana dello ‘Specchio’ Mondadori rappresentava un piccolo Pantheon della poesia italiana, e chi vi entrava poteva considerarsi un poeta ‘laureato’). Questa funzione, oggi, di scoperta e di valorizzazione degli autori la svolgono, forse, e in modo frammentario, i piccoli editori, ai quali deve andare la nostra attenzione e sostegno.
E ancora, dello strapotere attuale della scienza e della tecnica dovremmo sentirci impegnati, noi poeti e scrittori, a contro bilanciarne il peso con un umanesimo che attinga dal profondo, dalla cultura della tradizione, aperto a tutte le tendenze e ai più svariati indirizzi. Solo in questo modo potremo ancora fare nostro il messaggio etico che Franco Fortini affida alla poesia.
“Scrissi, a suo tempo, proprio ad Ennio Abate che la funzione dello scrittore debba essere quella di fornire una visione della vita che orienti il lettore verso un nuovo umanesimo, verso il bene. Sarà una visione riduttiva, moralistica forse, ma appartiene a tanta tradizione della letteratura che, per me, è anche la migliore.” ( Casati)
Caro Franco,
ho davvero troppi dubbi su una prospettiva di nuovo umanesimo ( e li aveva anche Fortini; vi ho accennato in questo passo: ” Come faceva a sospettare che l’«estetizzazione del mondo» (325) o, in altri termini, con Debord, la «società dello spettacolo» riduca tutto a «apparenza e fantasma» o all’ «autonomia dei significanti» (326)?”).
La questione è molto dibattuta e io non voglio chiuderla. Non riuscendo a tornarci sopra, dopo questo tuo intervento, stavo quasi per rimanere in silenzio. Ma siccome in questi giorni sto sistemando vecchie cose, ho trovato questo mio vecchio intervento che riporto di seguito:
2011 Ennio Abate – UMANESIMO POST-CRITICO, “DISINTERESSATO” E “CULTURA MARXISTA”
Lunedì 14 Novembre 2011 09:22 Ennio Abate
Intervento in riferimento al post di Pierluigi Pellini PERCHE’ GLI STUDI UMANISTIC/2 (http://www.leparoleelecose.it/?p=1662) sul blog LE PAROLE E LE COSE
Come promesso, ritorno sul tema del post di Pellini, […]e vado per punti:
@ Pellini (anche se non seguisse più…)
Avevo apprezzato il suo post perché riportava in termini aggiornati i problemi affrontati da Romano Luperini ne «Il professore come intellettuale» del 1998. Se la discussione non si fosse interrotta, avrei aggiunto nei commenti delle obiezioni, che in parte ricalcavano quelle della mia lettera-commento a Luperini (qui: http://immigratorio.blogspot.com/2011/08/su-romano-luperini-il-professore-come.html). Le riassumerei ora così:]
1. Il «disegno neo-liberista e oligarchico di destrutturazione», di cui lei ha parlato, non ha mirato a destrutturare soltanto «la classe media occidentale», ma l’intero “mondo del lavoro” e l’intera società messa “sotto controllo” e oggi del tutto depoliticizzata;
2. Avendo ristretto il suo campo di riflessione al solo peggioramento della condizione della classe media – operazione a cui, secondo me, è stato spinto proprio dall’eclissi totale del pensiero di Marx nella sinistra italiana -, lei può permettersi soltanto una mezza critica all’«umanesimo “post-critico”». Se la prende, infatti, con «De Mauro, Bloch, gli apostoli di Toni Negri», la stessa pragmatica Nussbaum e Citton, che si sforzano di «dimostrare – alla politica, al mercato – l’utilità pratica dei nostri studi», ma può poi contrapporgli soltanto una cultura umanistica idealizzata, dedita esclusivamente a «indagare disinteressatamente il funzionamento, i significati, le ambiguità delle attività umane e dei loro prodotti».
3. Non è forse la sua una riproposizione della solita “torre d’avorio”? Che venga fatta nell’epoca delle «città di quarzo», rimodellate dagli immobiliaristi, in preda alle ossessioni securitarie nei confronti di disoccupati, immigrati, nuovi poveri e ceto medio in via d’impoverimento, la rende a mio avviso particolarmente miope ed elitaria. «(Ri)legittimare la letteratura come scavo conoscitivo nell’indicibile della condizione umana: di qua da ogni pratica utilità», coltivare in chiostri appartati dai conflitti quei «saperi che non servono (né alle democrazie né al profitto)», mentre attornoa lei le “democrazie del profitto” proseguono indisturbate la loro opera di mistificazione e di distruzione (come mostrano le “guerre democratiche”), è davvero una scelta datata, «perfino idealista, etnocentrica e alto-borghese», come lei in fondo ben sa, pur facendo spallucce («Può darsi»).
4. Diventa inevitabile chiedersi: per quanti anni o decenni si potrà prolungare questo «scavo conoscitivo nell’indicibile della condizione umana»? ed è poi vero che questi «saperi che non servono né alle democrazie né al profitto» non servono davvero a qualcuno? Magari – risponderei – servono a quegli umanisti che si adatteranno a una condizione da “specie protetta in estinzione”. E per farli durare nel tempo, bisognerà pure che qualcuno li finanzi. E sarà poi davvero disinteressato questo Mecenate (pubblico e/o privato) che decidesse di farlo?
5. I valori in sé, al di fuori dai conflitti sociali reali, non esistono. L’umanesimo (post-critico o “disinteressato”) non è un valore in sé. È stato storicamente valore concreto quando era veicolo (in parte ideologico) di classi o gruppi sociali inquieti e in cerca d’espressione simbolica dei loro interessi e bisogni. Diciamocelo: lo è stato ai tempi del fascismo o quando c’era la sinistra più o meno nazional-popolare e “comunista”. Ma quella “classe operaia” o quel “movimento operaio”, che avrebbe dovuto, secondo il vecchio Lukács, essere l’«erede della filosofia classica tedesca», non s’è mai fatto davvero avanti. Ed oggi, purtroppo, l’umanesimo è valore per un gruppo ristretto di docenti e forze politiche di apparente “opposizione”. Non lo è neppure, ad esempio, agli occhi degli studenti massa delle facoltà di lettere, di cui, mi pare, anche lei si lava le mani dicendo che sono “in esubero”. Per cui alla drammatica domanda del post «Perché gli studi umanistici oggi» non mi sentirei di rispondere né facendogli indossare una divisa finto pragmatica né finto sacerdotale («scavo conoscitivo nell’indicibile della condizione umana»). Direi semplicemente: per una scommessa. In attesa che i conflitti reali riportino in primo piano forze sociali e politiche simili a quelle che in un passato ormai lontano hanno tentato di praticare quei «valori di verità e giustizia» dell’umanesimo cristiano e poi socialista e comunista, anche se “ideologizzati”. Come accade per la poesia, oggi quei valori alludono, e per pochi soltanto, a una «promessa di felicità». Nulla di più.
Caro Ennio, cerchi sempre di seppellirmi sotto un mare di documenti e di citazioni, ma io sono un buon nuotatore. La mia formazione ‘umanistica’ nasce dalla lettura dei testi degli autori e non della critica o della teoria letteraria o della speculazione ideologica o politica che se ne può fare. Torre d’avorio, ricerca della felicità (per altro contemplata anche nella Costituzione degli Stati Uniti), dimensione estetizzante, autonomia dei significanti, tutte colpe attribuite alla cultura umanistica. Ci sono, non si può negare, anche queste componenti; ma vorrei che simili contestazioni tu le ponessi (idealmente) ad autori come Cervantes, Victor Hugo, Manzoni o, fatte le debite proporzioni, al tuo amico Roberto Bugliani (della cui opera ho parlato come di romanzo-saggio, documento di denuncia), se erano questi i propositi che li hanno mossi, se il loro atteggiamento mentale non era quello, invece, di scandagliare la realtà, di evidenziare gli scenari in cui si svolge la vicenda umana per indicarne di nuovi e di veri… (così come a tanti storici, filosofi, etnologi, sociologi ecc.).
Oggi la cultura umanistica non è più cultura elitaria, il sapere è ‘democratico’ perché è alla portata di tutti, non è più riservato a classi privilegiate. Si potrà discutere sul valore della cultura universitaria, ma gli strumenti della conoscenza sono a disposizione di chiunque, non si acquistano coi soldi, ma con l’applicazione allo studio.
Esiste invece da sempre, dai tempi di Omero e di Virgilio, un contrasto fra la cultura e il potere politico: questo potere oggi si è allargato alla grande finanza, alle multi-nazionali, alla scienza, alla tecnica oltre che alla politica in senso lato. La cultura umanistica in tutti i suoi diversi rami deve controbilanciare questi poteri, manifesti od occulti che siano. Ed è quello che tu stesso, credo, ti stai proponendo di fare portando avanti il progetto di un’opera in ‘lingua’ napoletana, consapevole o no.
…”il sapere è ‘democratico’ perchè è alla portata di tutti..” (Franco Casati)
non trovo questa affermazione molto aderente al vero poichè è vero che l’istruzione è obbligatoria e gratuita sino ai 14 anni, ma ne sono esclusi per esempio molti figli di immigrati clandestini che vedi elemosinare nelle vie del centro o sul metro e, di fatto, anche i figli di autoctoni di famiglie molto deprivate a cui non basta la buona volontà per concludere gli studi obbligatori, in l’evasione scolastica…Invece, purtroppo, mi sembra alla portata di tutti la cosidetta cultura di massa che filtra anche attraverso il respiro ormai, attraverso il cibo, attraverso ogni forma di consumismo, prospettato come ricerca della felicità…ingannevoli anche molte vere e proprie proposte culturali…C’è da chiedersi: di quale libertà godiamo? Intendo se non abbiamo già sviluppato un nostro senso critico? E quanti oggi, anche modesto come puo’ essere il mio, hanno l’opportunità e gli strumenti per arrivarci? Le nuove generazioni, in particolare…
A proposito di: “Fortini ai poeti, ai moltinpoesia, agli artisti in questo scritto pone un problema. E io lo riassumo e lo metto proprio in forma di predicozzo o lezioncina così: mentre voi state a discutere su come «formare» le vostre opere d’arte, altri stanno dando forma a loro modo alla «vita medesima». (Dice niente – aggiungo oggi – la parola «biopolitica»?)” (Cfr. sopra)
SEGNALAZIONE
Il diritto e la vita
di Giorgio Agamben
Stralcio:
Quel che è avvenuto a partire dai primi decenni del Novecento è che il diritto ha progressivamente teso a includere in sé la vita, a fare di essa il suo oggetto specifico, di volta in volta da tutelare o da escludere. Questa presa in carico della vita da parte del diritto non ha soltanto, come si potrebbe credere, degli aspetti positivi, ma apre invece la via ai rischi più estremi. Come gli studi di Michel Foucault hanno efficacemente mostrato, la biopolitica tende infatti fatalmente a convertirsi in tanatopolitica. Quanto più il diritto comincia a occuparsi esplicitamente della vita biologica dei cittadini come un bene da curare e promuovere, tanto più questo interesse getta immediatamente la sua ombra nell’idea di una vita che, come recita il titolo di un’opera celeberrima pubblicata in Germania nel 1920, «non merita di essere vissuta [lebensunwertes Leben]».
Ogni volta che si determina un valore, si pone infatti necessariamente anche un non-valore e l’altra faccia della protezione della salute è l’esclusione e l’eliminazione di tutto ciò che può condurre alla malattia. Dovrebbe farci attentamente riflettere il fatto che il primo esempio di una legislazione in cui uno Stato si assume programmaticamente la cura della salute dei cittadini è l’eugenetica nazista. Subito dopo l’ascesa al potere, nel luglio 1933, Hitler fece promulgare una legge per proteggere il popolo tedesco dalle malattie ereditarie, che portò alla creazione di speciali commissioni per la salute ereditaria (Erbgesundheitsgerichte) che decisero la sterilizzazione coatta di 400.000 persone. Meno noto è che, ben prima del nazismo, una politica eugenetica, potentemente finanziata dal Carnegie Institute e dalla Rockefeller Foundation, era stata programmata negli Stati Uniti, in particolare in California, e che Hitler si era esplicitamente richiamato a quel modello. Se la salute diventa l’oggetto di una politica statuale trasformata in biopolitica, allora essa cessa di essere qualcosa che riguarda innanzitutto la libera decisione di ciascun individuo e diventa un obbligo da adempiere a qualsiasi prezzo, non importa quanto alto.
Come Yan Thomas ha mostrato per la storia del diritto che il diritto e la vita non devono essere confusi, così è bene che anche diritto e medicina restino separati. La medicina ha il compito di curare le malattie secondo i princìpi che segue da secoli e che il giuramento di Ippocrate sancisce irrevocabilmente. Se, stringendo un patto necessariamente ambiguo e indeterminato con i governi, si pone invece in posizione di legislatore, non soltanto, come si è visto in Italia per la pandemia, ciò non conduce a risultati positivi sul piano della salute, ma può condurre a inaccettabili limitazioni delle libertà degli individui, rispetto alle quali le ragioni mediche possono offrire, come dovrebbe oggi essere per tutti evidente, il pretesto ideale per un controllo senza precedenti della vita sociale.
( DA https://www.quodlibet.it/letture/giorgio-agamben-il-diritto-e-la-vita)
“Caro Ennio, cerchi sempre di seppellirmi sotto un mare di documenti e di citazioni, ma io sono un buon nuotatore. La mia formazione ‘umanistica’ nasce dalla lettura dei testi degli autori e non della critica o della teoria letteraria o della speculazione ideologica o politica che se ne può fare. Torre d’avorio, ricerca della felicità (per altro contemplata anche nella Costituzione degli Stati Uniti)” (Casati)
No, Franco. Non vorrei seppellirti (né seppellirmi) “sotto un mare di documenti e di citazioni”. Penso, però, che sia giusto guardarsi attorno, sentire le varie campane che suonano (alcune a morto, altre come se fossimo sempre in un paesaggio da Mulino bianco). E ragionarci su. Perché la storia ha le sue rotture e non pare che esse siano tutte previste e comprensibili con l’aiuto dei Classici.
Io non amo gli “apocalittici”, sono per il principio Speranza (alla Bloch), ma li voglio ascoltare. Senti questo….
SEGNALAZIONE
Il diario del lockdown di Bifo: “Svegliatevi ragazzi, l’apocalisse è in corso”
https://www.fanpage.it/cultura/il-diario-del-lockdown-di-bifo-svegliatevi-ragazzi-lapocalisse-e-in-corso/
Stralcio:
L’irrompere del coronavirus ha costretto tutto il corpo sociale a una mobilitazione in difesa, con tutti suoi limiti, non dei profitti ma della salute. Questa esperienza apre nuove prospettive all’ineluttabile fine verso cui ’umanità corre con la convinzione di un branco di lemmings? Apre la possibilità di cambiare “il finale delle fine”?
L’ho pensato per un paio di mesi, ora non lo penso più. È bastato poco per rendersi conto del fatto che in assenza di una rottura rivoluzionaria che cambi il modo di produzione e la distribuzione delle risorse, il profitto di alcuni è molto più importante della vita di tutti. Solo che adesso non stiamo più parlando di ammazzare qualche migliaia di persone o qualche milione di persone, come il capitalismo ha sempre fatto con il sorriso sulle labbra. Ora si parla dell’estinzione della civiltà umana, dello scatenarsi di un inforno di violenza e di miseria. L’estinzione rapida della specie biologica homo sapiens è molto improbabile, e questo non mi pare una buona notizia perché forse la repentina scomparsa dei bipedi ci eviterebbe di dover attraversare un oceano di orrore su una barchetta dalle vele stracciate. Abbiamo già iniziato ad attraversare questo oceano.
Scrivi: “Ma se dunque i baci diverranno uno spettro di paura per il nostro inconscio, non sarà forse recisa la sola fonte di energia che ci muove all’azione, alla scoperta e all’avventura. (…) Se avremo paura, fin quando avremo paura di avvicinare la guancia alla guancia e le labbra alle labbra, temo che la barbarie prevarrà sulla civiltà, e temo che l’estinzione sarà il solo orizzonte del nostro futuro”. Dietro la retorica dello “state chiusi in casa” e dello state “distanziati” imposti dalla lotta al Covid-19 si nascondono quali rischi?
La pandemia è reale, il contagio è reale, il terrore è reale. Non stiamo parlando di una invenzione del potere. Il potere non inventa quasi niente, si limita a mettere a frutto. Nella ‘Storia della follia all’età classica’ Michael Foucault analizza le forme di internamento controllo e normalizzazione con cui il potere “mette a frutto” la follia nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, così come in precedenza aveva messo a frutto la peste. Che il potere abbia messo a frutto la pandemia di coronavirus lo dimostra Amazon. Ma adesso stiamo ponendoci un altro problema. Un evento imprevedibile, la diffusione di un virus che si intrufola nelle vie respiratorie passando attraverso le mucose del naso e della bocca, ha interrotto la storia tardo-moderna in modo brutale. Il nucleo di questa rottura sta nella pericolosità del contatto: l’avvicinarsi delle labbra è obiettivamente un pericolo (potenzialmente mortale). Non sappiamo se questo pericolo verrà meno fra tre mesi sei mesi due anni… ma sappiamo benissimo che una situazione come questa produce mostri sul piano inconscio. Per esempio produce una sensibilizzazione fobica per la pelle dell’altro.
Credo che andiamo verso un’epidemia di suicidio, e quando questa si sarà stabilizzata andremo verso una mutazione di tipo autistico della mente relazionale: rifiuto di percepire desiderio, incapacità di interpretare l’emozione. C’è un libro di Octavia Butler, ‘The Parable of the sawyer‘, che racconta di un mondo distopico (che assomiglia molto agli Stati Uniti di oggi, di ieri, di sempre) in cui la violenza, l’aggressione, l’omicidio si confondono con la miseria, la disperazione, al punto che la maggioranza della popolazione ha raggiunto una normalità totalmente anempatica. Il romanzo racconta la storia di una ragazzina di tredici anni che soffre di una brutta malattia: percepisce il dolore dell’altro come fosse proprio. Soffre di empatia.
Capisci? Stiamo entrando in una condizione in cui sopravviveremo solo liberandoci dell’emozione, della percezione desiderante del corpo dell’altro, dell’amicizia, della compassione. Solo la spietatezza ci permetterà di sopravvivere, a meno che il signore iddio non sia clemente con noi e stermini la razza umana nell’arco di una nottata. Non credo che qualcuno ci rimpiangerà.
Un altro esempio di consapevolezza di una rottura e di una discontinuità col passato colgo anche in questa testimonianza che in parte mi ha sorpreso ( e che non penso sia riducibile a strategia pubblicitaria per un suo libro in uscita)…
SEGNALAZIONE
Post scriptum sull’epidemia
di Antonio Negri
https://www.dinamopress.it/news/post-scriptum-sulla-quarantena/?fbclid=IwAR3KRnP0A-wSK7wSB5emroUZVUgSeD2lhtg625QBIofNt6pl7smB0slA1_g
Stralcio:
Ho consegnato all’editore questo ultimo volume della mia storia poco prima che scoppiasse l’epidemia da coronavirus e prima che si propagasse, e si determinassero notevoli trasformazioni coatte del vivere quotidiano. Sono ora in casa, come tutti, in regime di confino, a Parigi, dove si attende nelle prossime settimane il picco del contagio. Ho chiesto all’editore di poter aggiungere le pagine che seguono a quelle già stampate, perché un’urgenza di esprimermi su quanto stava accadendo e una specie di affanno per questa vicinanza della morte mi avevano preso alla gola, e dovevo tirarli fuori. Quello che avevo scritto in questi volumi di Storia di un comunista – nel primo e nel secondo ma anche nel terzo – mi era di colpo sembrato lontanissimo. Remoto, confinato in un altro tempo, non nella maniera nella quale è per un vecchio la vita passata – vicina, affiatata, comprensibile – ma come è il secolo passato per un giovane – sfumato, spesso imbalsamato e/o caricaturale nel racconto di terzi. La guerra, il ’68, gli anni Settanta, le lotte francesi del ’95 e poi il ciclo di Seattle-Genova, e Occupy e gli indignados, piuttosto di far parte del mio vissuto, di essere eventi della continuità della mia storia, mi apparivano nella stessa distanza nella quale, giovane, avevo immaginato… che ne so… le cinque giornate di Milano, o avevo studiato i moti risorgimentali. Una distanza insuperabile, una temporalità scavata da un abisso, intransitabile, fra la mia presenza e quelle realtà… archeologiche. È questa distanza che ora, scrivendo nel mezzo dell’epidemia, debbo spiegare a me stesso.
[…]
La crisi del coronavirus – che non è una semplice influenza e non è neppure la peste bubbonica – ha comunque prodotto la coscienza di un’infezione universale che attraversa la nostra civiltà. A risvegliarci non è stato il panico diffuso davanti all’eventualità della morte, che pure ha invaso lo spirito di popoli malviventi ed eccitato gli animi in contrasto a essa; e neppure il fatto che la morte da contagio si presenti come una condanna per gli innocenti, una decimazione bellica o una pena di morte per «lesa maestà» di un sovrano occulto. È stato piuttosto il sentimento che noi non eravamo più quell’uomo che panicava per la morte annunciata, e tantomeno per una morte di Dio che aveva già lontanamente vissuta. Quel noi era irrecuperato dalla crisi: non poteva esser recuperato.
Così si apre la riflessione su quella distanza, che sentiamo, da quello che abbiamo vissuto come da quello che avviene. Una distanza abissale.
Quando ho commentato gli scritti di Fortini, cercando di attualizzarli, mi sono volontariamente astenuto dal citare il problema della pandemia, per non aprire orizzonti dei quali anch’io non so cogliere l’estensione, che vivo da contemporaneo, in uno stato di mortificazione, di incertezza e di paura, in attesa di sviluppi futuri. In coscienza non mi sento di esprimermi, colgo tanti effetti negativi già in atto, cerco di nascondere a me stesso e agli altri un giustificato pessimismo. Sfido chiunque ad avere delle certezze su questo tema, a cominciare dagli ‘esperti’. Se poi qualcuno è tanto figlio di buona donna da volere strumentalizzare anche questa situazione: ‘peste’ lo colga.
Allora, fingendo di vivere ancora in una situazione di normalità, mi sono proposto di rispondere alla gentile Annamaria Locatelli in merito al suo attento e personale commento. In quanto alla denuncia sui pericoli della cultura di massa questa sensibile e colta signora sfonda una porta aperta, credo di essere una fra le persone più infastidite e sofferenti per questa situazione; un veleno capace di inquinare menti diversamente orientate verso obiettivi migliori. Basta guardarsi attorno e, mi dispiace dirlo, sembra che le prime e più numerose vittime siano proprio fra i giovani, che hanno in mano il futuro, ma che, come dice lei, non hanno ancora avuto il tempo di sviluppare ‘un senso critico’.
Concordo altresì che, ancora oggi, non tutti hanno la possibilità di godere degli strumenti della cultura. Ma la mia affermazione era solo indicativa e non perentoria. Questa situazione l’ho toccata con mano negli anni di insegnamento: nelle scuole di quartiere, nei tanti corsi che ho tenuto per studenti lavoratori, nel volontariato che ho fatto per gli immigrati di colore come insegnante di lingua italiana, per dargli la possibilità di poter accedere a un lavoro, nei tanti ragazzi in difficoltà che ho sempre aiutato privatamente. Questo lo dico non tanto per attirarmi delle simpatie, non sappia la mano sinistra quello che fa la destra, ma per significare che non ho vissuto e non vivo fuori da una certa realtà. Come insegnante, da subito ho abbracciato, quasi istintivamente, l’esperienza di don Milani, della scuola di Barbiana e ho avuto modo, in quegli anni, di riflettere a lungo sul pensiero di don Primo Mazzolari. La scuola deve essere a portata di tutti.
Realisticamente, mi sembra che oggi le cose siano cambiate in meglio, anche se non del tutto. Il tasso di analfabetismo non è più quello spaventoso del dopoguerra, le Università come la maggior parte delle altre scuole italiane sono statali e non private, e questo garantisce una maggiore facilità di accesso ( mi piace pensare al caso di Gavino Ledda, anche se non farà testo, che da pastore è diventato docente universitario). Ci sono i nuovi poveri, non solo stranieri ma anche italiani, una politica degna del proprio nome dovrebbe cercare di porvi rimedio. Quelle che Ennio Abate chiama le fratture della storia continuano a ripetersi, e non cesseranno mai. Cerchiamo di darci una mano, siamo tutti nella stessa barca.
Ringrazio Annamaria Locatelli per la cortese attenzione; e l’indomito Ennio Abate che, con questo sito culturale, mi aiuta a tenere attiva la mente.