di Ennio Abate
Meglio la malinconica consapevolezza di una sconfitta. Meglio la dignitosa riflessione di un intellettuale che contribuisce alla lotta con l’esperienza maturata in un’altra epoca. (Fabrizio Billi e William Gambetta, Massimo Gorla una vita nella sinistra rivoluzionaria, pag. 90, Centro Documentazione di Pistoia)
«Volevamo cambiare il mondo. Storia di Avanguardia Operaia (1968-1977)» a cura di Biorcio e Pucciarelli colma sì un vuoto storiografico[1] ma non è il libro di storia che aspettavo. Per diverse ragioni è soltanto una sua prima traccia. Infatti, la cronaca spesso frammentaria degli eventi vi prevale[2]; «i capitoli scritti dai diversi autori non sono […] legati da un filo cronologico» (lo dichiara lo stesso Biorcio) e a volte sbandano verso l’autobiografico e l’aneddotico, come se non si volesse o potesse assumersi la responsabilità di una sintesi comune, magari scarna e problematica. E questo a me pare il suo limite più grande. Non si tratta tanto del mancato approfondimento di alcuni aspetti particolari di quella storia[3]. Le testimonianze (un centinaio) raccolte da Fabrizio Billi sono ricche di riflessioni e d’interrogativi oltre che di richiami a fatti vivi e puntuali e restituiscono un po’ della polpa viva dell’esperienza di tanti militanti di Avanguardia Operaia. E, però, compaiono nel libro in laconiche e frammentarie citazioni, che fluttuano – spesso contraddittorie tra loro – senza relazionarsi. Tra le testimonianze degli ex dirigenti di Avanguardia Operaia tuttora viventi, manca poi proprio quella di Aurelio Campi, che fu non a caso il segretario politico di Avanguardia Operaia e forse più di altri avrebbe potuto fornire un rendiconto ragionato della formazione del gruppo dirigente e del suo dibattito interno, che è la questione fondamentale da chiarire per arrivare a quella sintesi di cui si sente la mancanza o per inquadrare meglio le interpretazioni spesso discordanti degli autori dei saggi pubblicati [4].
Non esito a dire poi che la storia di Avanguardia Operaia andrebbe raccontata e ripensata fuori da ogni visione ottimistico-progressista come segmento di una storia di sconfitti [5]. La nostra è stata pesante e precoce. E appare come anticipata (al pari di quella di Lotta Continua) con un atto suicida e non imposto dall’esterno ma dall’interno: la scissione appunto del partito in costruzione in due tronconi avvenuta – si tenga presente – proprio l’anno prima della grande tragedia del caso Moro. E’ questo peso, credo, che ci ha costretti ad attendere ben 50 anni per arrivare a un primo doveroso tentativo di strappare quella esperienza di militanti, che si vollero rivoluzionari, alla rimozione e alla svalutazione di fatti e relazioni e ragionamenti che avevamo vissuto appassionatamente[6].
Scrivere una storia di sconfitti da sconfitti è operazione ben più difficile che scriverla da vincitori o accomodandola – più o meno consapevoli – ai canoni sottilmente imposti dai vincitori, anche quelli più tolleranti e benevoli. Oltre a non cedere agli amarcord stereotipati, il compito più arduo è soprattutto fare i conti coi momenti che prepararono il disastro; e saper giudicare quanto esso sia stato inevitabile o se dovesse accadere proprio in quella forma della scissione con strascico di odi e incomprensioni delle due “anime”, che relativamente unite o sopportandosi avevano permesso l’espansione nelle fabbriche, nelle scuole e nei quartieri di un tipo di militanza capace di evitare sia l’eccesso di anarchismo che l’eccesso di dogmatismo.
Per quanto detto finora, dovrebbe essere chiaro che il tema della storia di Avanguardia Operaia sul quale vale la pena di riflettere ancora oggi resta per me quello della formazione e poi spaccatura del suo gruppo dirigente. Ed è proprio questo problema che mi pare eluso o appena sfiorato dal libro di Biorcio e Pucciarelli. Credo che non a caso, tra i commentatori del libro, a parte gli elogi e gli amarcord che dovrebbero contare di meno, sia riaffiorato con vigore il contrasto che portò alla spaccatura . E, a distanza di ben cinquant’anni, colpisce che i superstiti di Avanguardia Operaia che si divisero in due tronconi ripropongano due letture dei fatti ancora contrapposte. O che Il disastro, la sconfitta, la diaspora infelice delle energie politiche allora accumulate venga ancora imputato soprattutto alle posizioni prese dalla frazione avversa. Tanto che verrebbe da dire una cosa amara: si scrivano due storie di Avanguardia Operaia e le cose saranno più chiare per tutti.
Ho letto, dunque, il libro combattuto tra volontà di difenderlo e volontà di criticarlo. Da parte mia sono ostile alla tesi esposta da alcuni ex compagni, i quali sostengono che, invece di un disastro, si debba e possa parlare di quella storia in modi tutto sommato positivi [7]. O che presentano la scissione quasi come l’inizio di un rinsavimento o di un sano ritorno alla realtà, prima travisata dal miraggio di un’astratta rivoluzione, arrivando (magari senza dirlo apertamente) alla conclusione che quanto meritava di essere salvato o ricordato dell’esperienza di Avanguardia Operaia è stato preservato dal loro operato e che, quindi, esisterebbe una continuità tra quella esperienza e la loro successiva alla scissione.
Eppure il dilemma di allora non mi pare sia stato approfondito. L’ha ben riassunto Vincenzo Vita nel suo intervento: «La discussione sul futuro della nuova sinistra era incentrata su una questione: la nuova sinistra doveva avere un rapporto di distinzione ma di unità col Pci, o doveva essere un’alternativa polemica con il Pci?». E oggi la rielaborazione della memoria, appena si torna a riflettere su quel passato, mostra le stesse divisioni di allora. Ad esempio, sulla questione della violenza, che è la ferita che forse più brucia. Da una parte le dichiarazioni di Basilio Rizzo, Franco Calamida, Emilio Molinari, Vincenzo Vita, i quali insistono in un esorcisma retrospettivo e danno di Avanguardia Operaia una immagine di moderazione e responsabilità. Che è una mezza verità [8] in contrasto con l’altra mezza verità delle affermazioni di Paolo Miggiano (ma anche di altri che hanno polemizzato sulla pagina FB «Avanguardia Operaia»).[9] In una riflessione storica, però, si dovrebbe pur affrontare il discorso più ampio di quale cultura avevamo tutti in comune allora – noi di Avanguardia Operaia e quelli delle altre formazioni extraparlamentari (ma il discorso valeva anche per il PCI) – e quanto essa ci avvicinava e allo stesso tempo ci distanziava e contrapponeva duramente all’Autonomia, ai lottarmatisti e ai brigatisti rossi[10].
Per quanto si possa subodorare in alcuni interventi d’oggi una rimozione o un accomodamento al presente da parte di alcuni o un furore astratto (comunque da sconfitti) da parte di altri, il fatto evidente e incontrovertibile è che nessuna delle due risposte che furono date e poi praticate per conservare e salvare l’identità di Avanguardia Operaia – quella di Campi e dei dissidenti di Rocca di Papa, che confluirono nel Pdup e poi nel Pci; quella di Vinci o dei fondatori di Democrazia Proletaria entrati poi in Rifondazione Comunista – può pretendere una continuità tra la scelta della propria frazione e il progetto di Avanguardia Operaia portato avanti fino ad allora. O può sostenere che il salvataggio del meglio dell’esperienza dell’organizzazione sia stato opera della propria frazione.
La discussione sul libro sta facendo riemergere tanti nodi irrisolti: l’operato del servizio d’ordine o il richiamo al suggerimento di Vittorio Foa [11]; la linea di Avanguardia Operaia in fatto di violenza nel saggio sull’intervento di Avanguardia Operaia nelle Forze armate di Claudio Madricardo [13]; le attese di un governo delle sinistre che circolarono anche tra noi [14]; una certa dipendenza dal PCI [15] anche in campo culturale, come risulta – a me pare – anche dal resoconto di Vita quando parla della Commissione culturale; l’esplosione del femminismo [16] e del vitalismo dei giovani [17]. E in fondo tutte ripropongono la domanda scomoda: quanta autonomia dal PCI e dalla sua tradizione riuscì ad esprimere Avanguardia Operaia? E per me la risposta è: meno di quel che credemmo o pensassimo. Anche se non mi sento di affermare che altre formazioni nate in quegli anni “a sinistra del PCI” ne espressero di più o ressero meglio di Avanguardia Operaia alla repressione che costantemente, fin dal loro sorgere, incombeva su noi e loro come una spada di Damocle. Prevista e prevedibile, però.
Ad un certo punto ci accorgemmo che il terreno su cui ci eravamo spostati rispetto a PCI e PSI non era così solido e franava. E qui rispunta la questione che ancora mi tormenta e che in questo libro non ha trovato risposta: di fronte alla durezza dello scontro in cui eravamo ormai implicati, abbiamo agito responsabilmente, con coraggio e intelligenza? Non c’era un’altra possibilità? Si poteva non disperdere quel patrimonio di energie e intelligenze che avevamo raccolto? E a volte mi dico: come mai Lenin, pur sapendo i limiti della classe lavoratrice (del suo “tradunionismo”), trovò lo stesso la forza di scommettere e tentare una rivoluzione socialista in un paese come la Russia zarista? E perché, di fronte al fallimento del comunismo di guerra, riuscì a pensare la NEP, mentre noi non siamo riusciti nemmeno ad avviare quel ripensamento che avrebbe potuto portare ad una nuova visione del “soggetto del cambiamento” e ci avvitammo in quel discorso suicida?
Note
[1] «Se l’attenzione della ricerca storica sulla nuova sinistra è stata limitata, ancora più ridotta è stata quella per Avanguardia Operaia. Questo volume si propone di colmare un rilevante vuoto storiografico e editoriale» (Biorcio, pag. 15).
[2] Come ci sono le letture che sembrano rimaste ancorate al clima degli anni ’70 e incapaci di distanziarsene. Ad esempio, Marco Paolini, nel parlare del movimento degli studenti, riporta interi documenti di allora e nel linguaggio di allora, soffermandosi ad analizzare le posizioni di Lotta Continua o del Movimento Lavoratori per il Socialismo ma come se si fosse ancora a quei tempi.
[3] Come, ad esempio, il milanocentrismo (sottolineato da Enrico Pugliese e Angelo Orientale); il fabbrichismo-operaismo-consiliarismo con l’esaltazione – in parte movimentista in parte parasindacalista – dei CUB, ora presentati come «“strumenti della lotta di classe”» ora visti come «funzionali alla costruzione del partito, “scuola di comunismo”»; il confronto-scontro-concorrenza con gli altri gruppi; le oscillazioni nel governo della violenza difensiva da parte di Avanguardia Operaia, divenute drammatiche con l’omicidio di Ramelli e che la costrinsero ad una prima “autocastrazione” in senso pacifista o “correzione di linea”; lo stritolamento del progetto di nuovo partito comunista preso in mezzo alla tenaglia del lottarmatismo e poi terrorismo delle Brigate Rosse da una parte e della repressione dello Stato sostenuta poi apertamente dal PCI.
[4] Né va dimenticato che non c’è nessun accenno agli scritti, carteggi o altri documenti lasciati da altri dirigenti nel frattempo defunti: Luigi Cipriani, Massimo Gorla, Attilio Mangano, Michele Randazzo, Giampiero Rota, Vittorio Rieser. Solo per nominarne alcuni che ebbero peso in determinati momenti o per tutti gli anni di quella storia. Ma colpisce anche l’assenza tra i testimoni di Silverio Corvisieri e forse di altri i cui nomi mi sfuggono. Per valutare l’incompletezza dei contributi e della documentazione, basterebbe il confronto con un qualsiasi vero libro di storia di una formazione politica. Non dico la «Storia del PCI» di uno Spriano ma solo quella recente dei tre volumi «Gli autonomi» a cura di Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti uscita per DeriveApprodi.
[5] E suggerirei: alla luce del pensiero di Walter Benjamin ed evitando l’immedesimazione con i vincitori: «L’immedesimazione con i vincitori torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. […] Chiunque abbia riportato sinora vittoria partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale, [il quale] rivela una provenienza che non [si] può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatto, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo della trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico, quindi prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo». (W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia , in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962).
[6] Il ritardo nel produrre una storia di Avanguardia Operaia non mi pare possa spiegarsi con la natura di AO operaista e leninista e dunque tutta proiettata verso l’azione e poco propensa a riflettere storicamente nel processo in cui era coinvolta o a preparare documenti o piccoli monumento per quel che andava facendo. Mi parrebbe una spiegazione troppo ottimistica. Avevo già scritto sulla storia di Avanguardia Operaia ben prima che uscisse questo libro. Per la precisione il 5 aprile 2018 quando pubblicai una lunga riflessione sul libro di Luca Visentini. «Sognavamo cavalli selvaggi» (qui ). Quel libro conservava quasi intatte le passioni partigiane di quel decennio e persino alcune chiusure settarie e competitive di allora; e tentava soprattutto di salvaguardare la gioia, la vitalità e la bellezza di quella rivolta partita nel ’68-‘69, distinguendola dagli anni successivi, i cosiddetti anni di piombo. Salvava soprattutto il sogno comunitario e rivoluzionario giovanile; e si è fermato – non credo solo perché lì si chiudeva la militanza dell’autore – al 1977 , scrivendo pagine secondo me abbastanza dilaniate su alcuni scontri tra Avanguardia Operaia e l’Autonomia; e senza affrontare il resto, e cioè il nodo del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro. Fino al 2018, per quel che ne sapevo, il romanzo di Visentini era una delle pochissime testimonianze di carattere letterario di un ex militante di Avanguardia Operaia. Un’altra – tra diaristica e saggistica – è stata quella di Claudio Cereda sul suo blog “Pensieri in libertà” (qui). E a lungo mi sono chiesto perché così poche. Mi aveva colpito la scarsa o mancata rielaborazione pubblica dell’esperienza di Avanguardia Operaia, specie se facevo un confronto con le memorie, i romanzi, le storie (Ricordo la «Storia di Lotta Continua» di Luigi Bobbio) di militanti di altre organizzazioni politiche attive negli anni Settanta. Sapevo che erano state avviate anche raccolte di storie di vita. E che la storiografia era pur andata avanti coi lavori di Giovanni De Luna, Paul Ginsborg e Guido Crainz, magari in modi sfasati rispetto alle raccolte di storie di vita e alle testimonianze individuali, anche letterarie (o cinematografiche: Bellocchio, Giordana, ecc.), per cui i risultati faticano ancora ad incrociarsi e ad integrarsi. L’impressione è che tuttora manchi una cornice storica abbastanza chiara entro la quale una singola vicenda autobiografica o un bilancio anche con i suoi elementi di soggettività possa collocarsi.
[7] Non condivido pertanto il bilancio di Franco Calamida che ha scritto: «Infine e in sintesi. Cosa conquistammo? La politica. Cosa abbiamo perso? La politica». Ed ha poi aggiunto: «È stata un’avventura straordinaria; ha segnato la vita di compagne e compagni; noi tutti e tutte, ancor più che le parole, l’abbiamo scritta. Noi, che volevamo cambiare il mondo, non abbiamo vinto, ma abbiamo fatto, in quegli anni, la storia». A me pare una rilettura consolatoria e generica. E verrebbe appunto da obiettare: ma se l’abbiamo persa la politica, che conquista è? Anche l’altra sua affermazione: «siamo stati una generazione fortunata. Abbiamo vissuto la libertà» mi pare criticabile. Una libertà ridotta a ricordo (nostro) di libertà? E che se ne fanno i giovani di una libertà (nostra) non vissuta da loro e non trasmessa da noi a loro? Più condivisibile e realistico quanto ha scritto Riccardo Barbero: « Non credo si possa parlare di cambiamenti nella politica e nella società di quegli anni attribuibili in particolare ad AO: fu tutto quel movimento di quel periodo che cambiò sì la società, ma non la struttura del potere politico ed economico. Così quel cambiamento è valso per la nostra generazione che se lo è portato dietro per tutti questi anni; ma non essendo riusciti a cambiare la struttura del potere quei cambiamenti non sono stati trasmessi alle generazioni successive e si sono progressivamente esauriti». Meglio ancora il vecchissimo Dante: « libertà va cercando, ch’è sì cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta» (Purgatorio, Canto I, vv. 70-72). Mi hanno anche stupito i commenti sui risultati delle elezioni del 20 giugno, che – è stato scritto – «furono percepiti, da molti attivisti e militanti, come la fine di un’intera epoca, l’esaurimento di un percorso politico ormai quasi decennale. Erano cadute le attese e le speranze che avevano caratterizzato la generazione del Sessantotto e alimentato l’impegno sociale e politico. Molti militanti sospesero la loro attività politica». Questo conferma la mia ipotesi che il progetto di un altro tipo di partito comunista da parte di Avanguardia Operaia non che aveva raggiunto una sua autonomia ed è stato fin troppo condizionato alla logica elettoralistica del tanto criticato PCI.
[8] «Ao era un gruppo duro, ma equilibrato nei giudizi critici, senza gli schematismi o la filosofia “emme-elle” o avventurista di altri noti segmenti della “sinistra rivoluzionaria” (Vita, pag. 176).
[9] «Il risultato sono quattro ore di duri scontri a Milano, in cui le forze del disordine governativo, semplicemente, le prendono: una cinquantina di poliziotti e carabinieri feriti, tra cui diversi ufficia[9]li; trentacinque pantere, gipponi e camion del governo distrutti; un’ottantina di civili arrestati, la maggior parte dei quali non c’en[9]tra niente».( Miggiano, pag. 206).
[10] Di fronte alle mezze verità preferisco le considerazioni chiare di uno storico come Enzo Traverso, che di recente commentando l’arresto in Francia di Pietrostefani e altri ex lottarmatisti ha scritto: «La violenza politica degli anni settanta era parte di una stagione politica che si è conclusa con una sconfitta della sinistra, del movimento operaio, dei movimenti alternativi. Questa sconfitta non è mai stata elaborata. Questo passato è stato rimosso. Ad alcuni decenni di distanza, il congresso con il quale il Pci decise di cambiare nome non appare come la sua “Bad Godesberg” ma piuttosto come una cerimonia di esorcismo. Potremmo parlare, in termini psicoanalitici, di “rimozione”. Gli anni di piombo sono stati inghiottiti da questa rimozione e sono entrati nelle cronache (e in archivi incompleti o inesplorati), non nella nostra coscienza storica. Non voglio schivare la domanda personale, per quanto del tutto secondaria. Ricordo bene gli anni settanta, che sono gli anni della mia giovinezza. Ho partecipato alla mia prima manifestazione nel 1973, quando avevo sedici anni. Non ho mai avuto la tentazione del terrorismo e ho sempre criticato la scelta della lotta armata, non per ragioni di principio ma perché mi sembrava strategicamente e tatticamente sbagliata. A partire dal 1979, buona parte della mia attività politica consisteva nel partecipare ad assemblee e manifestazioni contro la repressione. Non mi piaceva lo slogan “né con le Br né con lo Stato” perché stabiliva un’equazione tra due entità incommensurabili che non potevano essere combattute con gli stessi metodi. Retrospettivamente, credo sia evidente non soltanto che la scelta della lotta armata fu nefasta e suicida, ma anche che contribuì largamente ad affossare i movimenti di protesta e a congelare una conflittualità politica diffusa. Le Br erano nate in una stagione di lotte come uno spezzone del movimento operaio, un gruppo che si considerava un’“avanguardia” e praticava l’“azione esemplare” o la “propaganda del fatto” per radicalizzare lo scontro sociale. Tendenze simili erano già apparse da almeno un secolo in diversi paesi, soprattutto in seno all’anarchismo. Uno storico come Mike Davis ne ha fornito un repertorio impressionante (2007). In Italia queste pratiche sono passate al setaccio della memoria della Resistenza e della cultura comunista, ed è per questo che le Brigate rosse non facevano esplodere bombe ma selezionavano i loro bersagli. A poco a poco, per sfuggire alla repressione poliziesca, quindi per ragioni pratiche che furono teorizzate soltanto a posteriori, le Br si trasformarono in un’organizzazione clandestina, separata dai movimenti, che conduceva da sola la sua guerra contro lo Stato. È così rimasta risucchiata da una spirale il cui esito non poteva essere che il suo annientamento da parte dello Stato. Una parte della sinistra radicale si illuse di poter “cavalcare” o “usare” il terrorismo: le Br scardinavano lo Stato, bisognava tenersi pronti alle sollevazioni che ne sarebbero seguite. Questi calcoli erano sbagliati e il prezzo di questi errori è stato molto alto. Ma questa è saggezza retrospettiva. Io ero trotskista, ossia facevo parte di un movimento che criticava la lotta armata. A differenza di altri paesi, il trotskismo era minoritario in Italia, dove rimaneva intellettualmente insignificante rispetto alla creatività teorica dell’operaismo e politicamente marginale rispetto a movimenti che sperimentavano pratiche nuove, come Lotta continua. Il trotskismo possedeva tuttavia una coscienza storica più profonda che metteva in guardia contro alcuni rischi, come una sorta di vaccino. Ma dire questo non significa vantare dei meriti. In quegli anni, l’adesione a un gruppo politico non era soltanto il frutto di una scelta ideologica, dipendeva da mille circostanze, spesso non immediatamente ideologiche (le emozioni e le forme della socializzazione svolgono un ruolo molto importante nella politica) e talvolta puramente casuali. Non ho difficoltà ad ammettere che, in circostanze diverse ma perfettamente possibili, mi sarei ritrovato non soltanto con un casco durante una manifestazione ma anche con una pistola nella borsa. Perciò non posso sentirmi estraneo a questa vicenda e credo che, facendo prova di un minimo di onestà intellettuale, lo stesso debbano dire alcune decine di migliaia di persone che appartengono alla mia generazione»(qui).
[11] «Ricordo che Foa voleva proporre una manifestazione “con le mani alzate”, segno di presa di distanza dalla violenza. Io non ebbi il coraggio di sostenerlo» (Calamida, intervista).
[12] «Il 1978, col sequestro brigatista di Aldo Moro e la strage dei cinque uomini della scorta, rappresenta l’apice del terrorismo rosso e l’inizio della sua fine. Una parte di Ao è già andata col Pdup per il comunismo, quella più consistente crea, nei giorni del sequestro, il partito della Democrazia Proletaria. “Il Servizio d’ordine è stato sciolto quando siamo entrati in Dp”», racconta nella sua intervista Saverio Ferrari.
[13] «La nuova sinistra, e in essa Avanguardia Operaia, era invece convinta che un superamento dell’assetto capitalistico in Italia non sarebbe potuto avvenire agendo soltanto sul piano della formazione del consenso: lo scontro a un certo punto sarebbe sfociato anche su quello della forza» (Madricardo, pag. 229).
[14] «… Ci sarebbe dovuto essere, tra il ’77 e il ’78, un altro scontro elettorale dal quale sarebbe dovuto emergere un governo di alternativa[14](possibilmente anche con una parte della Dc spaccata). Allora avremmo dovuto affrontare problemi, prove, rischi ben più difficili di quelli che ci si erano presentati prima, e la “questione della for[14]za” – il Cile insegnava – sarebbe balzata in primo piano. Ma prima che ciò potesse avvenire, un Pci portato dai movimenti della società civile “sulla soglia” del governo (non del potere) cominciò a tirare il freno e a provocare le prime fratture nel blocco politico-sociale dell’alternativa». (Madricardo, pag. 242).
[15] : «Né il Pci, né noi, ancora troppo impastati d’ideologismo, saremmo riusciti a superare questo stallo. Quando le sedicenti Br s’impossessarono della scena – strappandola ai movimenti, con il rapimento e l’uccisione di Moro e della sua scorta – il Pci che aveva accettato la sovranità limitata dell’Italia in nome del compromesso storico e dell’autonomia del politico non ebbe né gli strumenti teorici né la volontà politica di denunciare (senza bisogno di ricorrere a “dietrologie”) il ruolo oggettivamente di destra – per la sua natura espropriatrice dell’iniziativa delle masse – del militarismo “di sinistra” delle Br». (Madricardo, pag. 243).
[16] « Se noi vogliamo cambiare questo mondo, e noi eravamo veramente convinti di volerlo, convinti che ci sarebbe stata una rivoluzione, non armata, ma nei costumi, nel modo di pensare, dicevamo: il personale è politico per questo, perché da una trasformazione dell’individuo si può arrivare alla trasformazione della società. » (Longoni, pag. 134).
[17] « L’emergere della “diversità” che non accetta l’egemonia della classe operaia produce la distruzione dell’egemonia stessa della classe operaia. Anche Gramsci parlava di questo, non di dittatura del proletariato, ma di egemonia. Se questa egemonia la metti in discussione con l’autonomia dei giovani e delle donne, è ovvio che si disgrega tutto, come poi è successo…». (Lanzone, pag . 141).
Non credo che le storie di organizzazioni come avanguardia operaia possano avere molto senso, se non stimolare nostalgie e riflessioni. Troppo unidimensionali le cronache e i pareri, troppo staccati dal contesto complessivo che Braudel ci insegna essere multidimensionale. Anche le storie del PCI soffrono in larga parte di questi limiti.
Ricordo un’osservazione di Guido Martinelli, il primo sociologo ‘quantitativo’ italiano, che analizzava il ’68 come il risultato di un processo di trasformazione economica e sociale che in Italia era avvenuta in 10 anni laddove in altri paesi ne aveva impiegati 100. Come una molla compressa o l’eruzione di un vulcano.
Che strade segue questa energia, chi cerca di indirizzarla o di arginarla; come si colloca nei grandi sommovimenti del mondo. Credo che i movimenti di quegli anni meritino questa analisi, tutta da fare.
Se no tanto vale fare come molti, anche di quel periodo, che usano la lava spenta come tagliere per salumi.
DA POLISCRITTURE 3 SU FACEBOOK
STORIA DI AVANGUARDIA OPERAIA E COMPAGNIA BELLA
Cari ex compagni dirigenti di Avanguardia Operaia,
non per insistere, ma ho trovato uno, di sicuro più autorevole di me, che parla con un linguaggio forse un po’ più filosofico e retorico del mio, anche lui di sconfitta (come ho fatto io qui:https://www.poliscritture.it/2021/05/16/appunti-sulla-storia-di-ao/; cosa che nessuno di voi si è preso la briga di discutere):
https://www.machina-deriveapprodi.com/post/mattarella-e-il-passato-oppresso?fbclid=IwAR2YdlSVCRBWnuArV2wapdwb6kpHDBhZhdlhnuhU_WJ5Rq2Di4Ers7p-tZU
Segnalo per vostra libera riflessione.
Ciao
Samizdat
Ancora a proposito del fallimento delle organizzazioni nate con il ’68-’69. In questo caso si parla di Lotta Continua e del suo “servizio d’ordine”…
SEGNALAZIONE
“Il cold case di Lotta Continua” di Diego Giachetti
http://www.dallapartedeltorto.it/2018/05/10/storie-di-lotta-continua-i-versi-di-fortini-e-il-trauma-di-sofri-di-attilio-mangano/
Stralcio:
Quel progetto fu accantonato dal gruppo dirigente, questa la sua tesi, per piegare sulla “scoperta della politica”, secondo la dizione di Luigi Bobbio nella sua storia di Lc pubblicata nel 1979: riconoscimento dei delegati di fabbrica dopo il “siamo tutti delegati”, spingere il Pci al governo e scelte elettorali difformi nel 1975 e nel 1976. Scelte dovute al fatto che la fase non era più rivoluzionaria, la lotta operaia aveva raggiunto lo zenit e stava ripiegando, il capitalismo ristrutturato avanzava vincente, secondo ricostruzioni a posteriori che l’autore respinge perché bisticciano coi fatti.
Quel passaggio fu l’incipit dell’intenzione di buona parte del gruppo dirigente di trasformare l’organizzazione in altra “cosa” rispetto all’impianto originario, che si esplicitò compiutamente dopo l’amaro risultato elettorale conseguito alle elezioni politiche del giugno 1976, quando l’organizzazione, nata convinta che fosse la lotta e non il voto a decidere delle sorti rivoluzionarie, s’inceppò sull’esito del risultato elettorale del cartello di Democrazia Proletaria (1,5%), dopo avervi aderito all’ultimo momento, rivedendo la posizione assunta l’anno prima di votare per il Pci.
Nella breve e intensa vita di Lc le variazioni repentine della linea politica non erano mancate, tutto sommato accettate dalla base, senza resistenze e discussioni, magari poco condivise, ignorate o portate avanti senza entusiasmo, “imprigionati” nel costrutto strategico originario consistente nel creare spazi di contropotere sul territorio da collegare alle fabbriche, erodere il controllo dello Stato, indebolirlo nelle sue articolazioni istituzionali. Una strategia a medio termine a bassa componente ideologica che portava a inserirsi in ogni situazione di lotta per organizzarla da parte di rivoluzionari non pregiudizialmente marxisti. Non fu il marxismo a muoverli, bensì la radicalità dello scontro sociale li portò a definire la propria ideologia in un marxismo critico.
Questa era l’originalità di Lc, pagata con carenze d’analisi su alcuni elementi cruciali: le trasformazioni in corso nella società e nel capitalismo, la natura del Pci, dei sindacati, la mancata indicazione di obiettivi transitori per passare dal ribellismo movimentista organizzato a una strategia di lotta politica per il cambiamento del sistema.