di Ennio Abate
Per un inconveniente tecnico gli articoli pubblicati sul vecchio sito di POLISCRITTURE (2010 – 2013) non sono raggiungibili (spero temporaneamente). Pubblico qui provvisoriamente questa riflessione del 4 settembre 2012. [E. A.]
1. Rileggendo Lisiàt
Riapro Lisiàt, uno scritto di Fortini del 1975,i leggo: Uno sfoglia queste carte [la biografia del partigiano Lisiàt (Athos Iovi) fucilato il 1° settembre 1944] e subito pensa che quella era una vita, così ridotta dal tempo trascorso; e traggo la prima domanda che può valere per gli Atti del convegno senese del 2004.
«Che cosa significa: “ricordano”?» si chiedeva Fortini, ponendosi dinanzi all’ombra di Lisiàt dal punto di vista di un noi ancora capace di farsi carico del passato della Resistenza. Diceva di Lisiàt: «è degno di ricordo perché difese la giusta parte». Anche di Fortini si può dire lo stesso. Come Lisiàt, fu nel suo tempo dalla parte giusta. E il convegno (più esplicitamente in alcuni interventi, come quello di Edoarda Masi o di Cristina Alziati) lo sottolineò riecheggiando l’ultimo «messaggio lasciato da lui vicino alla morte: «proteggete le nostre verità».ii
Le giornate di studio del 2004 a Siena, a dieci anni dalla sua scomparsa, assieme alle due di tono minore tenutesi a Catania nel dicembre dello stesso anno,iii possono iscriversi nella medesima «liturgia» di «traslazione» che Fortini aveva officiato per Lisiàt. A Siena il compito venne svolto dal gruppo di intellettuali che l’avevano conosciuto o con lui avevano collaborato o che, più giovani, alla sua opera si erano accostati per studiarla. Nel 2004, però, essi non formavano più uno di quei «gruppi umani relativamente ristretti e uniti da una comune pratica e fervore [che] riescono a mediare fra il ricordo dell’individuo e la storia come opera collettiva».iv Negli Atti ritrovo, sì, il «momento grave» non privo di mestizia controllata, che provò Fortini stesso, nel 1975, di fronte alle carte su Lisiàt, ma sento già prevalere «la stanchezza e le distrazioni, le urgenze e le negligenze [che] ci fanno avvertiti che non possiamo più portare da soli, e nemmeno in gruppo, un nome e una memoria».v
Lo dico oggi con amarezza, perché per lungo tempo gli intervenuti a quel Convegno erano stati per me dei fortiniani. Non nel senso di discepoli di una scuola (inesistente), ma in quanto studiosi – ciascuno con la sua libera intelligenza – che condividevano almeno in buona parte lo sfondo filosofico-teorico marxista e comunista che l’opera di Fortini presuppone. E volentieri li vedevo come gli interpreti più autorevoli e legittimati della sua figura e della sua opera e, dunque, in blocco, protettori delle «nostre verità».
Oggi, nel 2012, rileggendo più attentamente questi Atti, mi dico che quel gruppo ristretto e unito da «una comune pratica e fervore» già allora forse non c’era più. E già allora nei confronti di Fortini cresceva soprattutto l’ambivalenza. In quello stesso «senza Fortini» degli Atti del 2004 leggo ne leggo un sintomo. «Senza Fortini», infatti, va inteso, sì, come espressione di una nostalgia per quella figura. Ma ha anche il senso, più brutale, di sbarazzarsene o di prendere atto della fine di quello che egli aveva rappresentato (e dunque della fine delle «nostre verità», del marxismo, del comunismo).vi Come appare in maniera emblematica nell’intervento di Guido Mazzoni.
2. Rassegna critica di un convegno
Gli Atti presentano un mosaico di posizioni. Vari sono gli accenti, posti ora su questo ora su quell’aspetto dell’opera o della figura di Fortini. Ma ben si colgono le dissonanze e le velature che il discorso accademico, sempre un po’ obliquo, agevola. Nel farne il resoconto, ho raggruppato e classificato gli interventi in alcune categorie approssimative, con l’intento di illustrare al meglio le tensioni sotterranee e in alcuni interventi palesi del Convegno.
2.1. Un Fortini quasi canonico: intellettuale critico e utopista blochiano
Lo ritroviamo negli interventi di Giuseppe Nava, Massimo Raffaeli, Gianni D’Elia e Giovanni La Guardia.
Il Fortini di Nava appare foscoliano e romantico. È l’immagine dello sconfitto che mai si arrende e fa i conti con le batoste storiche susseguitesi nella sua vita: quella della Resistenza, quella del ’68, fino al segnale funesto della prima guerra del Golfo (p. 16). C’è un eccesso di ottimismo in questo ritratto. E una testarda volontà di contrastare i detrattori di Fortini, quelli che lo vogliono «naturalmente apocalittico, ostinato profeta di sventura per temperamento o addirittura per eredità di razza» (p.16). Nava non controbatte nel merito le loro accuse. Esalta la levatura intellettuale di Fortinivii e le sue capacità critiche.viii Così, però, rende più angosciante e crudele il confronto tra quel pensiero e la realtà odierna. Perché viene spontaneo chiedersi col senno di poi quanto quel tentativo costante di Fortini d’inseguire la realtà fosse indebolito dall’allarmante ritardo del pensiero marxista (sia pur non ortodosso) a cui egli continuava ad essere fedele. Certo questa mosca “comunista” tra gli intellettuali e specie tra i letterati italiani è ammirevole.ix Ma i due muri sotto i quali siamo finiti – con le parole dello stesso Nava: «la controffensiva neo-liberistica, il crollo del socialismo reale e la crisi del movimento comunista mondiale» – sono là più inattaccabili e incombenti. E una realtà così ostile e a volte indecifrabile, anche perché aveva già da tempo «messo in gravissima difficoltà la figura dell’intellettuale universale alla Fortini a vantaggio del «tecnico specialista» o dell’«addetto all’industria culturale» (p. 18), impedendo la continuità con la sua lezione e addensando poi ombre e dubbi su quella stessa funzione.
Per Raffaeli l’immagine di Fortini è esclusivamente quella blochiana (quella – dico con malizia – che piace ai cristiani, ai protestanti, ai letterati etici). Quando poi si sofferma sul rapporto tra Fortini e Panzieri, Raffaeli accentua oltremisura una sorta di analogia Panzieri-Cristo.x In tal modo il discorso sul comunismo di Fortini si riduce quasi del tutto a redenzione possibile, a «cristiana resurrezione» a «comunione dei vivi e dei morti» (Raffaeli accosta per di più il tutto alla «storia dei corpi gloriosi» (Paolo, Epistola ai Romani 8, 18-25). Ne esce ridimensionato il Fortini politico e militante puntualissimo anche sui fatti di cronaca, come può vedere chi rileggesse Disobbedienze I e II della manifesto libri.
D’Elia si rifugia in una rammemorazione “filiale” del suo rapporto con Fortini. E come Raffaeli e Luperini, ma con più retorica, esalta anch’egli astrattamente il comunismo come «futuro di promessa», facendone senza mezzi termini una fede, fino a dichiarare un volontaristico «Vogliamo crederci» (p. 49).xi Il suo tentativo di storicizzare Fortini pare davvero fragile.xii Su alcuni punti si muove in un’ottica opposta a quella del Luperini di La lotta mentale, mirando a una sin troppo facile conciliazione tra Fortini e Pasolini, che Luperini aveva distinto e contrapposto, e giungendo persino a vedere una sintonia tra la poesia di Fortini, Il Comunismo, e il movimento del ’77.
La Guardia coglie in Fortini uno scrittore europeo, capace di attraversare pensiero negativo e avanguardia, cultura critica, ripresa dello studio di Marx, sociologia e scienze e di fare «l’inventario» della cultura dell’Europa dell’«età del simbolismo». Ma lo legge anche lui esclusivamente alla luce del Bloch de Lo spirito dell’utopia,xiii pur non tacendo quanto Lukács sia rimasto riferimento stabile di Fortini (p. 95). E perciò la ricerca fortiniana di «una via altra» da quella della modernizzazione dell’Italia (p. 94) subisce un’accentuazione tutta etica, confermata del resto sia nel suo intervento durante la Tavola rotonda sia dagli altri interventi di Luperini, che accenna a un’«etica globale» alla Balducci, e di Cataldi.
2.2. Fortini e la catastrofe delle «nostre verità»
A mettere l’accento sulla sconfitta (o sulla catastrofe) della sinistra comunista sono soprattutto gli interventi di Romano Luperini, di Edoarda Masi, di Cristina Alziati e, a mio parere in modi alquanto ottimistici, di Donatello Santarone.
Luperini, ammette una cesura della storia: un’intera lingua è scomparsa, oggi si parla tutt’altra lingua. E di fronte a questo «salto di civiltà» epocale (p. 281) e al venir meno di una « patria», ogni tentativo di riprendere la lezione di Fortini «rischia di essere ricacciato nel ghetto del culto privato, quindi senza lingua e senza patria» (p. 282). La denuncia del presente è netta e disperata. Luperini accenna all’americanizzazione trionfante che ha assunto le forme delle teorizzazioni della fine del conflitto, del «narcisismo isterico» e della «egolatria diffusa» (p. 283). E si attesta sull’insegnamento blochiano e fortiniano: «se non è inevitabile il comunismo, non è inevitabile neppure il capitalismo». Ci si può e ci si deve sbarazzare «degli ultimi venti anni [che] non servono a nulla e non sono in grado di dar conto del presente». Ma come? Poiché l’attualità di Fortini per lui non può più basarsi su contenuti specifici, «molti dei quali sono legati ad una civiltà che non esiste più», c’è da ricorrere soprattutto alla sua capacità di «mettersi in situazione» e «scegliere il proprio passato», i propri maestri, ritessendo un filo di continuità tra le generazioni.
Edoarda Masi dà spessore storico alla discussione sulla attualità o inattualità di Fortini. E fa notare che la svolta e la trasformazione del contesto non sono affatto recenti, non sono avvenute nei dieci anni successivi alla morte di Fortini, ma risalgono almeno ai 15-20 precedenti la sua morte. Ed elenca alcuni degli eventi fondamentali del mutamento, che ha portato alla sconfitta del comunismo sul piano mondiale: la repressione avvenuta negli anni Settanta in Italia, la fine della rivoluzione culturale cinese sancita nel 1978, l’implosione dell’Urss e dei suoi Stati satelliti, il monopolio politico militare degli USA e le guerre permanenti (p. 263). Un secolo di storia è stato cancellato sotto gli occhi benevoli di una «classe media allargata plaudente». Si tratta, dunque, di una vera «catastrofe sociopolitica e morale» che affianca quella ecologica planetaria. La Masi ammette sia che un «ostinato ottimismo della volontà» impedì a Fortini di riconoscerla, pur avendola intuita sia che negli ultimi anni di vita il suo discorso divenne per forza di cose testamentario e «a futura memoria». Pur contrastando anche lei i liquidatori di Fortini, i sostenitori della sua inattualità, quelli che accettano le ideologie «complici del disastro» (p. 263), la Masi non può proporre nessuna lettura attualizzante di Fortini; e ripiega inavvertitamente su una lettura nostalgica del passato, facendo le lodi della piccola borghesia antifascista del Partito d’Azione (p. 265) o attestandosi su citazioni di testi fortiniani del passato (specie da I cani del Sinai). Sostiene con forza che «la lettura attenta di Fortini può essere di aiuto nella ricerca di una via e di un’azione efficace» (p. 265), ma non può spiegare come possano essere recuperati «i contenuti e il senso stesso della vita e della storia del secolo che si è appena concluso per riferirli al nostro presente» (p. 269). Nel suo intervento colgo una contraddizione tra l’ammissione della vittoria dei nemici e la riproposizione del valore delle posizioni di Fortini, anche se sconfitte. La contraddizione si coglie anche, quando, accennando alle lotte studentesche e operaie del ’68-‘69, pur condividendo ancora la difesa degli studenti fatta da Fortini nel ’68, finisce per far propria la diagnosi di Pasolini, sostenendo che «molti dei protagonisti del movimento di allora… hanno rivelato il seme piccolo borghese, anticomunista in toto che covava sotto la protesta» (p.269).
L’intervento “brechtiano” di Cristina Alziati è quello che più pervicacemente e senza tentennamenti collega citazioni comuniste tratte dalle opere di Fortini al contesto storico degli ultimi decenni del Novecento successivi alla sua morte. L’Alziati intreccia ricordi personali (il suo incontro con Fortini nel gennaio 1991, quando era iniziato l’attacco Usa all’Irak di Saddam Hussein, le raccomandazioni da lui rivolte in un’aula della Statale di Milano ai giovani che si erano mobilitati) a esplicite denunce delle «guerre umanitarie», dell’adesione della sinistra al «consolidarsi del comando del mercato e alla delegittimazione della politica» (p. 197). Richiama anche il “rimosso” della strategia della tensione degli anni Settanta e delle guerre che disfecero la Jugoslavia. Guidata dalla propria sensibilità politica e basandosi su testi fortini ani sulla violenza e la guerra (il Fortini militante, quello che ho già ricordato degli scritti raccolti in Disobbedienze I e II) sembra quasi voglia far sentire quella voce, dire quello che avrebbe potuto dire Fortini sugli eventi successivi alla sua morte.
Nel suo intervento (al convegno di Catania) Santarone ripercorre il tema dell’internazionalismo di Fortini e i passaggi biografici di quella sua presa di coscienza, che vanno dalla prima chiarificatrice esperienza nel 1944 tra i rifugiati in Svizzera fino al testo della canzone Sull’aria della “Internazionale” steso proprio nell’anno della sua morte, nel 1994. Ma in fondo Santarone ripropone solo una accurata parafrasi didattica di un testo fortiniano del 1963, quello nato come commento di un film documentario sulla figura di Stalin. Il testo conferma l’internazionalismo di Fortini, ma si attestata sulla visione antistalinista che circolava attorno al ’68. Ricorda che per Fortini lo stalinismo era parte della storia comunista (p. 320), che egli vedeva in Stalin sia il simbolo del terrore che di una speranza (p. 322) e lavorava «per capire e per andare oltre lo stalinismo, per ricostruire una idea e una pratica diversa di comunismo» (p. 332), ma tace sull’implosione successiva dell’Urss e il fallimento della storia del comunismo, impegnandosi in una cronistoria stanza per stanza del commento di Fortini, punteggiata da alcune poesie. Questa mancata attualizzazione del discorso e silenzio sul cambiamento dello scenario storico rende amaramente anacronistico e un po’ patetico ed elusivo il commento finale del film, che è (p. 333) un invito a «resistere e non disarmare», ad avere fiducia «nei migliori maestri di marxismo» o in un «marxismo espansivo» (p. 333).
2.3. Lettori di temi e questioni presenti nell’opera di Fortini
Letture oblique, interessanti dal lato strettamente letterario ma a mio parere elusive rispetto al tema cruciale del Convegno, che per me resta quello della attualità/inattualità di Fortini, mi paiono quelle di Pietro Cataldi, Emanuele Zinato, Luca Lenzini (a Catania), Erminia Passannanti, Jeaa Charles Vegliante, Thomas Peterson; e aggiungerei qui l’intervento di Sergio Bologna aggiorna il tema tipicamente fortiniano degli intellettuali.
Cataldi si concentra sui temi del sogno e del sonno, che permettono un confronto delle distanze e delle vicinanze tra Fortini e Montale. Egli sottolinea che per tutta una lunga fase nella poesia fortiniana c’è una svalutazione del sogno, che «non apre comunque a verità profonde dell’io» ed appare una «minaccia». Al suo posto già da Foglio di via (p.55) frequente è, invece, il richiamo al sonno, «una metafora ossessiva» alludente al negativo e a una «condizione invernale di torpore e di angoscia».xiv Vero contraltare poi del tema del sonno è quello della veglia, ereditato da una tradizione sia antica che recente.xv Con la vecchiaia e la fine dell’impegno Fortini ridefinisce questi temi;xvi e arriva agli «inusitati abbandoni felici come promessa di felicità che punteggiano Composita solvantur» (p. 62). Ora – dice Cataldi – nella poesia «può entrare persino un sogno» narrato e dialogato (Quella che…).xvii Ben documentando sui testi, egli avvicina Fortini a Montale e accoglie anche lui la tesi del Fortini vecchio in rottura col Fortini giovane e “militante”. Intervenendo poi nella Tavola rotonda, Cataldi insiste sulla capacità del capitalismo di riassorbire «ogni forma di elaborazione intellettuale […] anche quando essa nasca contro il capitalismo stesso (p. 287). E difende la tesi dell’attualità del pensiero di Fortini: meglio di Calvino e Pasolini, Fortini ha saputo elaborare «un pensiero che cali dentro di sé la contraddizione»; e perciò esso non afferrabile, non è utilizzabile dagli avversari, perché «doppio» e perché «mette in scacco se stesso («Tra il nome dei nemici scrivi anche il tuo nome»). Tuttavia, anche Cataldi deve ammettere che si tratta di «un pensiero dell’emergenza e questo ne stabilisce anche un limite storico» (p. 288).
Zinato fa una attentissima analisi di Paesaggio con serpente (1984), collegandola ai saggi fortiniani scritti nel periodo della «violenza storica» degli anni Settanta e a quelli della «battaglia per la memoria» che Fortini condusse sul quinquennio ’67-’72. Il libro per Zinato segna un mutamento: Fortini «invita a guardare al paesaggio, e non alla storia, perché il presente è diventato inattingibile: l’orizzonte d’attesa è radicalmente cambiato, le figure pubbliche di Guevara, Panzieri, Serantini, non sono più comunitariamente condivisibili» (p. 126). Segnala il cambiamento anche il fatto che «Milton affianca o sostituisce Brecht nelle scelte di traduzione dell’autore» (p. 128). Si ha, dunque, una messa tra parentesi del politico e un netto prevalere del «bisogno di mediazioni letterarie», fino alla «dissimulazione» del politico stesso (p.127). Zinato conclude che con quest’opera Fortini arriva a un punto dolente o tragico: «Al tempo storico degli eventi del 1968 si contrappone l’eterna ripetitività del ciclo naturale» (p.129). Gli eventi del 1968, apparsi tanto straordinari e dirompenti, «si rimpiccioliscono e si annullano». «Storia e Natura, finiscono insomma per coincidere» (p.129). E la poesia fortiniana di Paesaggio con serpente ripiega sulla lezione «seicentesca e manzoniana» che vede il mondo posseduto implacabilmente da una «feroce forza» (p.131).
Nel suo intervento (a Catania) Lenzini dà un’immagine di Fortini più mossa e problematica rispetto a quelle canoniche (del Fortini blochiano) o a quelle caricaturali del «militante in perenne diatriba ideologica», del «moralista da sermone», del «narcisista un po’ contorto» (p.366). Lo fa rintracciando nella sua produzione di polemista, di critica e di poeta il tema apparentemente non fortiniano del «vuoto». «Vuoto, Nulla, Assenza» sono categorie – egli ricorda – che Fortini ha puntigliosamente avversato in tutta la sua esistenza.xviii Eppure la«tentazione del “vuoto”» (p. 369) è in lui presente. Lenzini lo documenta per la saggistica e la poesia.xix E in tutto il percorso fortiniano, non solo «in extremis, sul limite dell’esistenza» (p.378). Nega però che ci sia una «resa al niente». Fortini opererebbe piuttosto un dialettico stravolgimento del «vuoto», perché lo investirebbe di «violente radiazioni utopiche, rifrazioni che non distraggono dall’oggi ma tendono ad una metamorfosi che passa innanzitutto nel soggetto, nel lettore» (p.378).
Il saggio lunghissimo e dettagliato sulla Poesia delle rose, un complesso componimento del1962 abbozzato da Fortini la notte della morte di suo padre (p.212), che Erminia Passannanti ha consegnato agli Atti del Convegno del 2004, appare davvero tendenzioso. Sono innegabili le sintonie con alcuni accenni di Bonavita allo stesso poemetto e la lettura del tema del «vuoto» di Lenzini appena riferita. Passannanti però, in modi sia pur filologicamente serrati rispetto alle invocazioni generiche di D’Elia, strattona Fortini per portarlo a un abbraccio definitivo con Pasolini. E, tra l’altro, sotto l’egida, quantomeno paradossale per una studiosa di Fortini, del Nietzsche di Ecce Homo.xx Per la Passannanti, a differenza di Zinato (e forse di Cataldi), sarebbe proprio la Poesia delle rose a rappresentare una «sorta di spartiacque» tra un primo e un secondo Fortini.xxi Se ne dedurrebbe, però, che già nel 1962, anno di composizione di Poesia delle rose, si potrebbe parlare di un Fortini “in crisi”.xxii È evidente un cortocircuito tra due contesti storici incomparabili: l’Urss ancora potente negli anni ‘60 e neppure divisa dalla Cina; i primi segni negli anni Ottanta di quello che poi sarebbe stato il crollo da tutti imprevisto.
Sebbene tutto letterario e specialistico (si occupa di metrica) l’intervento di Vegliante, il traduttore in Francia delle opere di Fortini, è di grande importanza, perché conferma quanto gli studi di Fortini rivolti a «una nuova metrica», distinta dal verso libero e i cui primi passi egli vide in Pavese (p. 35), fossero orientati politicamente. Vegliante sottolinea che il ritmo della sua poesia non si sottrae mai a una eventuale verifica della ragione comune, di un logos da trasmettere, magari in fieri (p. 380). La lingua poetica di Fortini, anche quando si spinge verso le «frontiere» della possibilità espressiva, non pretende mai di sfondarle; e, pur indicando un altro «anche trascendentale», si sottomette sempre con «dedizione» all’identico comune immanente della coscienza politica (p. 32).xxiii Altrettanto coerente – dice Vegliante – è da parte di Fortini il rifiuto di ogni contaminazione (ogni «mescidanza inquietante») di prosa e poesia «nel flou fumoso della cosiddetta prosa d’arte» (p. 31). Fortini sta in quel filone antinovecentista (durato fino a Raboni), che le tiene distinte sia «per motivi di chiarezza anche politica» che etica e intellettuale (p. 31).
Peterson prova a sfatare i pregiudizi che si addensano sul concetto di manierismo, che egli intende come «indice di un tempo di crisi» (p. 84) e nient’affatto segno di «debolezza o estetismo». Per lui il «manierismo “citazionista” o derivativo» di Fortini non è mai banale «ostentazione di erudizione» (p. 86), ma un modo antinovecentesco di trattare la parola «come qualcosa di concreto che esiste nella storia e nel mondo attuale» (p. 90). Che colloca Fortini nella schiera di Noventa, Saba, Rebora, Gatto, Amelia Rosselli e Giudici, cioè dei «poeti dell’Avvento» che seguono la lezione di Auerbach e usano la «figura» come «fonte di derivazione dal mondo che fu e proiezione del mondo che verrà» (p. 86). Fortini era stato un appassionato del manierismo pittorico di matrice fiorentina (p. 84) e Peterson ne rinviene le tracce già nella produzione poetica giovanile.
Bologna aggiorna la questione tipicamente gramsciana e poi fortiniana degli intellettuali. Dopo aver ricordato che «l’intellettuale è prodotto di una organizzazione» (industrial culturale, organizzazione pubblica, istituto accademico, industria dell’informazione) (p. 275), che il movimento comunista ha parlato di intellettuali solo per i rapporti che essi hanno avuto con un movimento politico e che Fortini si era misurato su vari fronti (industria culturale, dell’informazione, movimenti politici), prende atto, come la Masi, dell’avvenuta catastrofe dei moti anticapitalistici. Oggi, sparita «la dimensione mentale di questa cosa che noi chiamiamo “politica”» (p. 277), gli intellettuali sono generici knowledge workers al servizio di un capitalismo diventato più contabile (p. 276). Un esempio: le Ong. È «la meglio gioventù italiana che viene inserita in un meccanismo che da una parte mette a posto la coscienza e dall’altra confonde sempre più le idee» (p. 277).
2.4. Il Fortini visto attraverso la lente dell’amicizia
Aspetti importanti della personalità di Fortini (filtrati attraverso la memoria, ma anch’essi a mio parere elusivi della questione cruciale in gioco nel Convegno) sono trattati negli interventi di Mario Luzi, Franco Loi, Michele Ranchetti (questi con una intensità e profondità che richiede un discorso a parte), Tito Perlini, e Gianpasquale Santomassimo.
La testimonianza di Mario Luzi è quasi solo un omaggio cerimoniale. Viene da un osservatorio religioso fin troppo remoto dal campo storico in cui agì Fortini, quasi da un altro mondo di problemi. E da lì la storia intellettuale di Fortini appare ridimensionata (come si vedrà anche con Ranchetti), ridotta a «una vita di vittorie effimere e di recriminazioni» (p. 20). Luzi si mostra ancora sottilmente ostile verso l’amico: Composita solvantur per lui è soltanto una tardiva medicazione delle «lacerazioni» di Fortini, quasi un autodafé atteso.
Di notevole nella testimonianza di Franco Loi c’è l’evocazione del suo rapporto con Fortini nato «al di fuori della letteratura» (p. 22) e quindi all’esterno del mondo accademico. Vi affiora, ad esempio, il ricordo del rapporto, apparentemente secondario, di un Fortini, che aveva già alle spalle l’esperienza de Il Politecnico di Vittorini: quello con il “periferico” Danilo Montaldi, un cremonese oggi dimenticato, che aveva partecipato alla fronda della sinistra comunista estrema prima del ‘68. Tra i due vi fu un breve carteggio presto interrotto. E Loi accenna al contrasto tra Montaldi, favorevole a un’azione radicalmente politica, e Fortini dedito a un lavoro ideologico-letterario contro gli «impazienti» (tra cui Montaldi stesso).xxiv
Perlini sottolinea la complessità della figura di Fortini (militante politico, saggista, poeta), e si sofferma su un “suo“ Fortini (p. 270), sintetizzando la lezione da lui ricevuta nella consapevolezza del difficile legame con la tradizione. Egli sfiora pure la questione degli «aspetti volutamente premoderni di Fortini» (p. 271). La verità fortiniana – afferma – non è la verità della filosofia contemporanea, che si presenta «come un improvviso lampeggiare». Per Fortini, invece, «una volta che questa verità sia colta», comporta il «dovere di una fedeltà continua in tutte le circostanze» (p. 272). Perlini vede il legame di tale concezione della verità col comunismo e ricorda il debito di Fortini nei confronti di Noventa: da lui Fortini «ha appreso che la poesia ha i suoi limiti e che c’è la religio che si pone al di sopra dell’arte (p. 292).
Per SantomassimoFortini è stato un’eccezione tra gli intellettuali in un «mondo che ormai inevitabilmente va proclamando la fine della storia, dei contrasti» (p. 279) e che vede gli uomini di cultura partecipare ormai «attivamente a una mobilitazione bellica» (p. 279), contribuendo attivamente all’affermarsi di una «tirannia del presente» (p. 280) che cancella la storia.
Ranchetti rielabora cose dette nel primo seminario senese un anno dopo la sua morte, nel 1995xxv, e rammenta i suoi primi incontri con Fortini ai tempi in cui entrambi lavorarono alla Olivetti di Ivrea. Svelandola sua distanza dall’idea marxista della storia come lotta di classe,xxvi Ranchetti tratteggia con distaccata ironia e una ostilità trattenuta sia il “mito” (per noi del ’68) delle minoranze intellettuali protagoniste dei primi gruppi di “nuova sinistra” degli anni ‘60 come Quaderni rossi e Quaderni Piacentini (p. 273) sia l’aspetto militante dello stesso Fortini per la serietà con cui s’impegnava in quelle discussioni politiche.xxvii Manifesta anche il suo disaccordo nei confronti sia del Fortini critico della poesiaxxviii sia dell’umanista, per quel suo «procedere intellettuale », che a suo avviso sarebbe «più attento alla riproduzione che all’originale» e svelerebbe un «accanimento critico che non si apre mai o quasi mai ad una esclamazione libera dell’io che appare ritroso a scoprirsi, ad esporsi […] che escludeva ogni confidenza non destinata a un fine».
2.4.1. Finestra: Il nodo Fortini/Ranchetti
La riflessione di Ranchetti su Fortini, che ha preceduto e seguito l’occasione del Convegno del 2004, hanno un’importanza particolare. In Franco Fortini esorcista (Scritti diversi II, pag. 233), che come ho ricordato è del 1995, Ranchetti, infatti, non solo non appare intimidito dai meriti letterari di Fortini, ma arriva a una svalutazione totale della stessa letteratura («il parlarne e l’occuparsi di essa [è], molto spesso, un rimandare, un rinvio rispetto al presente» (p. 233).
Dopo aver dichiarato i propri contrastanti sentimenti (di «forte nostalgia» per gli incontri con Fortini e d’insofferenza per il «dover sottostare senza colpa alcuna, al suo giudizio»), Ranchetti traccia un ritratto-bilancio dell’amico/antagonista. Ed è sorprendente che egli si basi esclusivamente su suoi ricordi personali, privilegiando fino alla provocazione la schiettezza dell’approccio. Ribadisce, infatti, il contrasto frontale tra la visione della poesia fortiniana e la propria. Per Ranchetti «l’esperienza poetica precede l’esperienza vissuta» e «non vi è… alcun dato di realtà, o di esperienza, che possa far deflettere l’intelligenza poetica dalle sue verità, dalle sue conquiste in una ricerca che precede (talvolta supera il fatto, l’occasione» (p. 235). Una poetica come quella di Fortini gli appare, perciò, condizionata dall’esterno, «risultato di un esercizio di ragione, sia pur di ragione poetica» (p. 236), mentre Ranchetti esalta proprio «quelle cadute verticali nell’immaginazione poetica (e sia pure un Grand Hotel Abgrund» (p. 236) che Fortini respingeva).
Un altro punto cruciale di dissenso e quasi di rimprovero all’amico riguarda il sapere religioso: «dopo qualche frequentazione protestante» – insinua Ranchetti – Fortini aveva respinto «questo sapere privilegiato e consolatorio» (p. 235), avendone però poi nostalgia, specie negli ultimi anni di solitudine «non confortati che da un rigore impassibile e violento di fronte alla fine della speranza politica e alla propria morte corporale» (p. 235).
Ed infine, pur avendo avuto prove dirette della «generosità» di Fortini, non esita a indicare in quella per lui eccessiva disponibilità dell’amico «a ragionare, a criticare, a capire» qualcosa di oscuro: «una certa carenza affettiva pratica, un impaccio emozionale» (p. 236). E, in un altro passo, parla proprio di «una fragilità.. nell’ambito degli affetti, non della ragione» (p. 237),xxix per cui, sia pur presentando queste sue taglienti osservazioni come «congetture provvisorie», afferma che Fortini «aveva paura» (p. 236) e che la «sua fragilità» era al tempo stesso «protetta e oscurata dalla grande intelligenza e dalla generosità verso gli altri». E di cosa aveva paura? A parere di Ranchetti del «giudizio dei grandi dei diversi settori di competenza» (p. 237), di «parlare in prima persona», di «riconoscersi appieno nel soggetto, in chi, singolo o momento collettivo di verità, agisce nella storia» (p. 238).
In questa più che severa ma profonda analisi che Ranchetti fa della “persona Fortini” c’è senz’altro una concezione della vita e della storia del tutto restia o precocemente disillusa da ogni ipotesi rivoluzionaria. E un suo scritto, Sopra una qualsiasi rivoluzione, sempre in Scritti diversi II (pag. 215-230), mi è sempre parso un documento di tale radicato atteggiamento.xxx Il rigore spietato delle critiche che Ranchetti muove a Fortini è accompagnato da una radicalità simile nel mettere in discussione il proprio punto di vista religioso e cattolico. Ed è questo che rende prezioso il suo punto di vista e importante questo nodo problematico tra – si potrebbe dire – un ex cattolico ed un ex protestante, che andrebbe scandagliato a fondo. Ranchetti, infatti, in una serie di saggi raccolti nel volume Non c’è più religionexxxidelinea un processo, che a me è parso sempre analogo e parallelo a quello che ha ridotto in rovine le «nostre verità» comuniste.
Nell’incontrare, infatti, un pubblico di persone che spera ancora di trovare nella Chiesa «un’alleanza e una guida» (p. 5), Ranchetti confessa uno sgomento che mi pare provino, sul versante opposto, anche dei pensatori di formazione marxista: i suoi volenterosi interlocutori hanno dimenticato gli «elementi fondamentali della religione cristiana come l’incarnazione e l’eucaristia»; ed appaiono a Ranchetti «diseducati da tutto il processo storico che ha portato, attraverso il magistero della chiesa, a ridurre la religione cristiana a «norma di comportamento borghese», e cioè ad una progressiva riduzione del «sacro» o del «soprannaturale» a favore della prassi (o dell’etica). È una cosa per lui inconcepibile, perché non esiste «un’etica religiosa, un’etica che tragga dall’esistenza di Dio una legge di comportamento «religioso» (p. 9). Forse la crisi della religione (vera o presunta) non può essere paragonata alla problematica del cambiamento di una società, ma, con molto azzardo, compiendo quasi un salto mortale e avendo in mente vecchie suggestioni engelsiane che accostavano cristianesimo e comunismo (un filone di pensiero tenutosi forse sotto traccia ma che è presente anche in Fortini), mi viene da avvicinare il Non c’è più religione di Ranchetti a una sorta di non c’è più possibilità di rivoluzione comunista, a cui è arrivato ad esempio uno studioso marxista come Gianfranco La Grassa. È sintomatico e drammatico al tempo stesso ( e torna l’idea di «catastrofe» affacciatasi nelle parole di Edoarda Masi e Sergio Bologna) che da formazioni diverse e persino contrapposte si giunga oggi a conclusioni drastiche, riconoscendo il completo sfaldamento delle dottrine che sono state appassionatamente difese e studiate per un’intera vita.
Accontentarsi dell’etica cristiana (senza più dottrina) equivale per me, in campo marxista, ad accontentarsi delle posizioni economiciste (senza più teoria). Logoratesi queste due storie e interrottesi le loro sotterranee reciproche infiltrazioni, s’impone oggi un ripensamento ben più approfondito anche dell’intera parabola di Fortini, che in questa prospettiva aveva lavorato per tutta la vita. Gli Atti del 2004 mi pare l’hanno tentato solo frammentariamente e con più lucida radicalità proprio negli interventi “ostili” come questo di Ranchetti o, per altri versi, come quello di Mazzoni.
2.5. Il Fortini visto dai giovani studiosi
In tutti gli interventi dei giovani partecipanti al Convegno (tranne quello dell’Alziati, di cui ho già detto, e i due di Mazzoni e Bonavita, di cui parlerò fra poco …) si sente che la problematica del Fortini poeta e comunista non ha quasi più presa. Parlano in un clima post-comunista concordemente accettato, addentando della sua opera quasi soltanto la sua polpa formale e lasciando perdere il nocciolo del pensatore marxista.
Del Bianco, ad esempio, eredita , sì, di Fortini l’immagine un po’ canonica dello scrittore “impegnato”, che «lega l’autocoscienza poetica a un orizzonte sociale e collettivo… in cui è prevista la messa tra parentesi dell’io individuale», ma non c’è nessun accenno all’attuale società. Dice che è passando per il mondo che si perviene all’interiorità, ma nelle sue parole il mondo resta generico e innominato. La sua attenzione è tutta riservata alla «moralità della forma» (p. 40), al «nesso tra rigore formale e rigore morale», ai tre saggi sulla metrica (p. 41). Il nesso con il politico è taciuto.
Andrea Inglese affronta anche lui una lettura a tema sulle «figure dell’attesa nella poesia di Fortini», analizzando Foglio di via e Poesia ed errore.xxxii
Davide Dalmas legge Fortini in un’ottica strettamente protestante. Anzi si ritaglia il periodo giovanile, quando Fortini «voleva essere cristiano»ed ebbe un legame diretto con i valdesi (p. 77). E giunge, fin troppo facilmente, ad una «formula condensante» della sua complessa figura, che chiama della «Protesta». Essa fissa Fortini negli stereotipi dell’ «ospite ingrato», del «compagno scomodo», del testimone che «corre il rischio di essere indigesto e di avere torto oggi, ma – almeno nelle intenzioni – per avere ragione domani » (p. 79). Per giunta (e difensivamente si direbbe) Dalmas tende pure a privilegiare la fase iniziale dell’opera saggistica e politica di Fortini, quella degli anni Cinquanta (gli anni di Dieci inverni, forse non casualmente riecheggiati nel titolo del Convegno del 2004), finendo quasi per svalutare quella successiva, specie degli anni storicamente cruciali dei decenni ‘70-‘80 (p. 80). È forse più facile fare anche in questo modo di Fortini una figura analoga a quella del Cristo, con cui vegliare (anche se Dalmas sa che «è difficile vegliare con Fortini» (p. 81).
Documentatissimo sui testi fortiniani, ma berardinelliano nel taglio interpretativo (p. 162) è Andrea Cortellessa, che privilegia pure lui l’aspetto religioso di Fortini, trattandolo con scettico rispetto, tirandolo più che può verso il Benjamin della rivolta e dell’arresto degli orologi (p.155) e facendone così più un utopista che un comunista.
Gabriele Frasca sceglie un argomento quasi da “fortiniani cult”: il Fortini giovane più vicino all’ermetismo. E alla luce di Lacan (p. 177) esegue un suo esercizio interpretativo ricorrendo a un confronto dilatato e ultraspecialistico tra sestina ungarettiana, caratterizzata dalla pulsione di morte, e sestina fortiniana, impregnata di speranza. Inaspettatamente, poi, durante la Tavola rotonda, Frasca è uno dei pochi a evocare lo “spettro” del comunismo, che si aggirerebbe ancora tra noi, sia pur «innominabile» (290). Ma lo fa in modi incerti, invocando che si torni a un vaghissimo «parlare di comunismo», in fondo non troppo distinguibile da una sorta di liberal-comunismo («la parola comunismo per Fortini non era lontana dall’idea di democrazia», p. 290).
2.5.1. Finestra /inattualità o attualità di Fortini: il contrasto Mazzoni/Bonavita
I due interventi politicamente più significativi perché svelano la tensione sotterranea del Convegno di Siena, inducendo anche qualche convegnista a prendere più esplicitamente posizione sulla questione della attualità o inattualità di Fortini, sono quelli di Guido Mazzoni e Riccardo Bonavita.
Per Mazzoni le rivoluzioni moderne iniziate col 1789 e quelle comuniste sono esaurite. La storia, che Fortini poteva ancora chiamare «nostra», è conclusa. E l’opera fortiniana – i suoi discorsi, la sua poesia, la sua saggistica – diventa perciò quasi del tutto incomprensibile.xxxiii Va consegnata agli studiosi, affinché vi approntino il «corredo di note» necessario per renderla quantomeno leggibile ai posteri. In letteratura e in poesiaxxxiv ne deriva un’unica conclusione: i problemi, che Fortini ha macinato tutta una vita, vanno abbandonati per tornare a Montale o a Sereni, cioè proprio agli autori che Fortini «sottoponeva a critica politica».xxxv Coerentemente Mazzoni legge pure le ultime opere di Fortini (Paesaggio con serpente, Insistenze, Extrema ratio, Composita solvantur) soltanto o soprattutto come «libri di ripiegamento e sconfitta». In conclusione, una chiara e risolutiva diagnosi: fine del comunismo e pieno, necessario, riconoscimento che l’insensatezza e l’infelicità della condizione umana sono «ontologiche e irredimibili».xxxvi
A questo punto – egli dice – i nostri destini, da «generali», come pretendeva Fortini, sono diventati, tranquillamente o inquietamente, «sempre più privati». Il cerchio è definitivamente chiuso. La posizione di Mazzoni constata senza remore e senza nostalgie un mutamento epocale, che cancella l’intera tradizione marxista e comunista, quella in cui s’era iscritta l’opera di Fortini da Foglio di via a Composita solvantur. È come se – volessimo azzardare un paragone – si mettesse in discussione tutta la tradizione cristiana, in cui era cresciuta l’opera di Dante. Un’epoca è finita. Gli scopi che hanno alimentato quella storia si sono dimostrati vani. Realisticamente non resta che prenderne atto. Diventano del tutto secondario certi problemi. Ad esempio, che Fortini in quella tradizione sia stato un marxista critico, un “eretico” poco importa. Le distinzioni di scuole e di correnti marxiste si appannano e la «fine del comunismo» cala al contempo come una mannaia su ortodossi ed eretici.
Riccardo Bonavita, invece, attestandosi su Gramsci, Bourdieu e Freud e ricalcando uno schema interpretativo già usato da Fortini per Leopardi, pone l’accento proprio sul Fortini poeta.xxxvii Fortini non va ridotto alla sua filosofia della storia.xxxviii In parole più semplici non è riducibile a filosofo, a ideologo. E, aggiunge opportunamente Bonavita, i suoi testi non vanno neppure interrogati in una logica discepolare, che finisce per trattarli da «testi sacri» e incoraggia poi ambigui atteggiamenti “edipici” (e fa l’esempio di Berardinelli xxxix). È da preferire, invece, un «buon uso della distanza», persino «scientifico». Così, contro la vulgata del Fortini algido e in posa statuaria, si coglierebbe – dice Bonavita – la presenza di «inquietanti e consapevoli inserzioni di tritumi inconsci» (soprattutto ne La poesia delle rose xl). Rifiutando l’idea della “fine della storia” che trapela dalle posizioni di Mazzoni, Bonavita nega che il tempo presente sia ridotto a caos o a natura indecifrabile. Esso è ancora «strutturato in «grandi strategie storiche», tese a consolidare e ad estendere – questo sì – in modi più capillari «varie forme di dominio».xli Conclusione: leggere Fortini è operazione possibile e doverosa per quanti siano ancora capaci di porsi nella sua «posizione dell’eretico».xlii
2.6. I nodi irrisolti della tavola rotonda
La Tavola rotonda è la cosa migliore di questi Atti. Perché permette di stabilire due distinzioni, secondarie ma chiarificatrici, da una parte tra difensori e liquidatori dell’opera di Fortini e tra difensori del «poeta di nome Fortini» (per usare il titolo del libro di Lenzini) e difensori del Fortini poeta-comunista, come io tendo a sottolineare.
Essa dimostra pure il condizionamento che deriva ad ogni discorso che si svolga in ambito accademico su uno scrittore fortemente politico come Fortini. Inevitabilmente i modi di trattare certi temi tendono ad essere sfumati o resi più neutri (spesso con la pretesa di universalità). O semplicemente vengono saltati, com’è accaduto per il Fortini politico e comunistaxliii. Oppure l’accento è posto sul mutamento in corso delle nostre società, ma in assenza di un’esplicita e circostanziata analisi delle scelte politiche, che queste società stavano e stanno guidando verso determinati assetti di potere. Si coglie, perciò, dalla lettura degli Atti il silenzio (ben poco fortiniano) sulla politica. Quasi una rimozione e imbalsamazione accademica. Come se la politica agisse soltanto sul «presente» e non determinasse effetti in tempi lunghi o lunghissimi, e gli intellettuali dovrebbero occuparsi solo di questi ultimi per non farsi «schiacciare sul presente e sui personaggi che occupano in maniera così ingombrante la scena»xliv. Il Fortini che alla fine emerge da quel Convegno è quello blochiano e umanista etico, non casualmente più accettabile o sopportabile oggi dall’ideologia umanistica, che alla prova dei fatti non è riuscita ad essere un argine al deterioramento dell’università italiana.
2.7. Considerazioni finali
Devo/dobbiamo – e mi riallaccio ancora a Lisiàt – ricominciare a dire – di Lisiàt come di Fortini – «che è solo un nome»? No. Né credo che il mio aggirarmi caparbio nei dintorni di Fortini, questo ricordarlo, leggerlo, citarlo, riportare sue prese di posizioni dove potevo e mi pareva utile riproporle, sia stato un «culto privato».xlv Ma è certo che tentativi come i miei di divulgarne la figura e i pensieri a un pubblico “generico” (non di studiosi) sono stati rari.xlvi È cresciuto il numero di quelli che, pur avendolo ammirato in passato, l’hanno messo da parte o di quanti addirittura lo giudicano poeta del tutto secondario. Né mi pare che gli stessi partecipanti al Convegno di Siena del 2004 siano riusciti nel frattempo ad attualizzare con un qualche effetto di visibilità pubblica la sua figura (se si è ridotti oggi addirittura a sollecitare un tardivo e ancora incerto Meridiano delle sue poesie). Molti s’occupano d’altro; e di “fortiniani” in giro ne trovo sempre meno, mentre quelli di un tempo sono cauti, sconcertati e silenziosi. Se si leggono i nomi che siamo riusciti a raggranellare per questo n. 9 di «Poliscritture» e si confrontano con quelli presenti nel volumone degli Atti, devo dire che sono davvero pochi quelli che hanno accolto l’invito di «Poliscritture» a riflettere sulla sua figura. (E non credo sia stata la sede non canonica della nostra rivista ad averli scoraggiati).
Bisogna perciò interrogarsi sul significato di questo silenzio calato su di lui ben più pesante rispetto a quello sopportato da altri (basti il solo nome di Pasolini …). E chiedersi onestamente, fuori da ricorrenze e anniversari: quando riapriamo i libri di Fortini, abbiamo tra le mani una «cassetta delle ceneri» o degli attrezzi? Ma s’affacciano pure altre domande. Le prime che vengono in mente sono: quel Convegno del 2004 indicò con chiarezza quel che c’era da conservare di Fortini? E il lavoro del Centro F. Fortini ha evitato il rischio di farne un autore per pochi? Sono state protette nei modi accademici le «nostre verità» (comuniste o comuniste in senso fortiniano)? Anzi sono mai penetrate nei modi del discorso accademico?xlvii Ma un’altra domanda – decisiva almeno per chi, come me, guarda a Fortini come poeta comunista – è la seguente: quali sono poi oggi queste «nostre verità»? Sono difendibili o da difendere comunque, ancora oggi? E come? Con una doverosa aggiunta: se sono in parte le stesse che riguardano l’opera di Marx, nella cui ombra l’opera di Fortini crebbe, allora il discorso va spostato direttamente su Marx stesso.
Se omaggio, dunque, c’è da rendere a Fortini e magari da parte di pochi suoi caparbi lettori, esso consista proprio nel porre domande scomode, come egli stesso amava fare.xlviii
Nel convegno senese del 2004 queste domande non vennero poste così direttamente, ma aleggiarono in alcuni interventi (tra i meno obliqui, come ho detto, quelli di Mazzoni, del compianto Bonavita e, da un’angolazione tutta propria, di Ranchetti); e, in modi più nervosi e contratti e a volte quasi imbarazzati, durante la Tavola rotonda finale. Lasciando in sospeso una conclusione chiara, forse rimandata, ma poi mai più definita.xlix
Sta di fatto che oggi il «senza Fortini» è diventato definitivo: si è ristretto e in parte disfatto il nucleo originario del Centro F. Fortini, per le morti di alcuni suoi rappresentantil; e diventata ancora più difficile la situazione economica del Centro Franco Fortini. E il Convegno del 2004 mi appare quasi l’atto di ratifica di una difficoltà a proseguire sulla strada di Fortini. Che era la strada del comunismo.
In quel Convegno alcuni (Cataldi, Zinato, Masi) misero l’accento sulla consapevolezza della sconfitta da parte dell’ultimo Fortini. Altri (Luperini ) difesero la forza del suo insegnamento, ma lasciandolo come in sospeso, in attesa di una sua futura attualizzazione. Altri (come Dalmas) vollero, quasi ad esorcizzare il peso della sconfitta storica, riallacciarsi a un Fortini giovane o a un Fortini da “dieci inverni”. Nel frattempo gli inverni sono diventati ben più di dieci e tendono ad essere innumerevoli e persistenti. E, forse con un po’ di retorica, a me va di pensare Fortini come un “Dante del comunismo sconfitto”. Se si un “Dante reazionario” alla Sanguineti (anche lui del resto sconfitto), che ha però accompagnato l’agonia del movimento comunista col suo canto del cigno, vivendo con onestà, coraggio e dignità gli strascichi della sconfitta. A quel movimento egli aveva legato la sua poesia e la sua scrittura in generale. E con una determinazione che lo distingue da tutti gli altri letterati italiani di sinistra, compreso Pasolini.
Di fronte a tale convinzione poco senso avrebbe una diatriba tra sconfittili. A me pare che si debba andare «senza Fortini», cioè consapevoli della sua irrimediabile eclisse pubblica. Non aggirarci più nemmeno nei suoi dintorni. Ma avanzare in pieno deserto, portando di lui quello che ricordiamo o che ci torna alla mente. Non tentando più di somigliargli, se non nella volontà di non passare coi vincitori. E sospettando di noi stessi, se gli somigliassimo “al passato” o semplicemente ci riducessimo solo a citarlo. Essere esodanti significa per me questo.
A chi, come Dalmas, ancora chiedesse come avrebbe reagito Fortini a certi eventi, risponderei: più o meno come abbiamo reagito noi in questi ultimi quasi due decenni dopo la sua morte. Perché a contare non sono tanto le qualità personali o le differenze che pure ci sono tra lui e noi, ma il quadro teorico di riferimento – soprattutto quello marxiano – che era in crisi già lui vivente e che s’è disfatto. Noi possiamo disapprovare gli sbracamenti, i passaggi vili dalla parte dei vincitori, le resistenze solo per inerzia. Ma l’insufficienza di quel quadro è stata confermata; e dobbiamo pensare al che fare da sconfitti, da superstiti. «Proteggete le nostre verità»? Diciamoci che sono state protette come potevamo: da sconfitti, da superstiti appunto. Troia (o Mosca) però è caduta, non c’è più. E dobbiamo re identificare o reinventare queste verità.
Alla diagnosi spietata di Mazzoni bisogna dare ragione, ma rifiutando le sue conclusioni. Quindi riconoscere che la sconfitta giunta dopo la vampata mondiale del ’68 non è una delle tante che punteggiano la lotta degli oppressi. Io prendo anche in seria considerazione la tesi di La Grassa, che vede i dominati (i non “decisori”) irrimediabilmente tagliati fuori dagli scontri che contano e conteranno per un periodo storico imprecisato. Non siamo -riprendo le parole di Mazzoni – davanti a «un semplice arresto provvisorio nello sviluppo storico, come quello che Fortini intravide fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta» (p. 115), ma davanti a una sconfitta definitiva del comunismo o dell’ipotesi comunista. Ed è vero che «il principio di realtà ci dice che non c’è più nessuna grande strategia storica, che nessun vendicatore sorgerà, che il presente di ciascuno può essere più o meno felice o infelice, a seconda del nostro destino sociale e del caso, ma resta scollegato, per la maggior parte di noi, da qualsiasi movimento collettivo o destino generale» (p. 115). Ma c’è un realismo, che si distingue da questo puramente passivo (esistenziale ed individualistico al contempo) di piatto o sofferto adeguamento all’esistente, che rischia appunto di inchinarsi ai vincitori senza riconoscerli come tali e come nemici. A me pare di poterlo ritrovare proprio in una poesia di Fortini:
…c’è da tornare ad un’altra
pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei
dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.lii
Si può essere a favore di un realismo da io-noi esodante, capace di dialogare, polemizzare, criticare, distinguendosi il più possibile sia dal realismo privatistico-esistenziale sia dal realismo ufficiale della ragione falsamente pubblica e falsamente politica. Anche se non si potesse più essere compagni o associarsi di nuovo per uno scopo comune, ciascun io-noi può non inchinarsi ai dominatori e non accettare questo presente da loro imposto.
Come ai suoi tempi Fortini, stiamo purfe noi sotto il peso della sconfitta. Per quanto tentiamo di reggerla, abbiamo dovuto ripiegare; e non abbiamo una qualsiasi Mosca alle spalle. Possiamo però non finire a New York. Meglio “periferici”, emarginati, esiliati interni, che cortigiani e arrampicatori. Ed è la ragione, non la fede, che dice: non accontentarti dell’ideale del comunismo, della speranza nel comunismo, non restare abbarbicato nostalgicamente a una sorta di età dell’oro: marxiana o leninista o stalinista o soviettista (a seconda dei gusti, delle scelte o delle esperienze vissute), ma continua soltanto a sviluppare criticità e politicità. È una scommessa esodante ragionevole e praticabile, non fideistica e attendista.
L’ideologia c’era anche in Fortini. Quella – lo sappiamo – s’insinua in tutti; e non si vede perché dovesse esserne esente lui. Ma è da salvare, è una “buona rovina” la criticità della sua visione comunista che è all’opera, e vigorosamente, non solo nei suo scritti saggistici ma anche nelle sue poesie, nella sua metrica e nei suoi versi. E la poesia di Fortini, proprio perché «il poeta non contraddice il pensatore», può, al di là di preferenze cristallizzate, rimanere in fecondo scambio con la sua saggistica. Un lettore esodante può muoversi criticamente e a pendolo tra l’una e l’altra. E tenere sempre d’occhio la realtà che continua a mutare.
La formalizzazione fortiniana del moto storico comunista novecentesco, a cui legò la sua vita e la sua attività di scrittore e di poeta, è qui davanti a noi. È una sorta di straordinaria squame di serpente. In essa non si trovano raffinatezze, estetismi, preziosismi linguistici, lucori di albe misteriche: tutto quello che troppo spesso viene creduto poesia da quanti non vogliono riconoscere «il poeta di nome Fortini» (Lenzini). Ma richiama più e meglio di altre forme (quelle di altri scrittori e poeti suoi contemporanei) il moto comunista che ci fu e quello che potrebbe ancora esserci magari sotto un nome che non conosceremo.
4 settembre 2012
i In Questioni di frontiera, p. 47-50, Einaudi, Torino 1977.
ii In Dieci inverni senza Fortini 1994-2004, p. 265, Quodlibet, Macerata 2006.
iii Gli interventi al convegno di Catania del 9-10 dicembre dello stesso 2004 esplorano aspetti “didattici” dell’opera di Fortini: il suo rapporto coi giovani, l’internazionalismo, l’insegnamento, la memoria e l’oblio, fino alle curiosità “locali” (Fortini a Catania) o da cult (le poesie per musica di Fortini). Importanti ho trovato alcune puntualizzazioni sul ‘noi’ antilirico «che affronti l’onere, e il rischio, della totalità» di Felice Rappazzo e gli interventi di maggior peso, quelli di Nava, Luperini e Lenzini.
iv Lisiàt in Questioni di frontiera, p. 49.
v Lisiàt in Questioni di frontiera, p. 50.
vi Ho pensato che mi si potrebbe rimproverare di agganciarmi a un testo di Fortini, che fa i conti con un morto della sua parte, di un giovane partigiano che l’aveva preceduto nel cammino verso la morte, per usarlo contro il lavoro di rielaborazione finora compiuto della figura di Fortini. Può anche darsi. Non nego quel tanto di diffidenza (del resto reciproca), che ha caratterizzato i miei rapporti con alcuni partecipanti del Centro F. Fortini di Siena. Non si tratta di avversione personale. Ma devo dire schiettamente che per me quel noi che permetterebbe ancora di parlare di un nostro Fortini e di «nostre verità» non è mai veramente esistito. O – parlo per me – non esiste più almeno dal 1976, anno di conclusione della mia militanza comunista in Avanguardia Operaia. Dopo il 1977, anno del mio primo e tardivo accostamento all’opera di Fortini, che mi portò poi ad incontrarlo e a tentare con lui una qualche collaborazione militante nello scenario della disfatta della sinistra comunista, e più tardi dopo la sua morte, mi sono sentito un esodante (l’ho poi scritto più volte). E innanzitutto dal mondo della sinistra (e della sinistra che ancora si dichiarava comunista o per la rifondazione del comunismo). E mi è restato da capire – devo ammettere che questo è un mio problema – se poi mi sono separato in buona parte anche da lui – il maestro a distanza era rimasto per me (e mi sono pur chiesto spesso: perché a distanza?) – o se sono gli altri, suoi amici e discepoli, che si sono separati da quel mondo (della sinistra comunista) e un po’ anche da lui. Se, in altri termini, posso rivendicare un mio Fortini in parte esodante come me (così mi azzardai a scrivere in uno scritto su Allegoria n.21-22 del 1996 che raccoglieva riflessioni dopo la sua morte). Oppure sono solo io l’esodante, finito per sbaglio nella sinistra e tra i suoi amici e discepoli, che hanno continuato invece ad essere, anche dopo la morte di Fortini e in piena continuità e fedeltà con le sue posizioni da vivo, di sinistra senza tentennamenti.
vii Si appoggiava sui «testi più alti del pensiero filosofico otto-novecentesco, da Hegel a Marx a Lukács ed Adorno»(p. 16).
viii Quel suo interrogarsi «ad ogni svolta della storia», «correggere di continuo la sua posizione di fronte al mondo».
ix Non è stato, come dice Nava, un «intellettuale filosofo, che rivendica idealisticamente dal pensiero la guida della società», né «l’intellettuale tradizionale di area italiana, che mette le competenze al servizio dei prìncipi e delle istituzioni», né l’«intellettuale organico della Terza Internazionale, che partecipa alla vita politico-culturale del partito di classe» né l’«intellettuale militante, caro al Sessantotto, che tende a risolversi interamente nella pratica sociale» (p.17).
x Raffaeli parla di Panzieri come di un compagno con cui spartire il pane, un maestro quasi profeta del comunismo e usa la metafora evangelica del seme che, morendo, promette «l’erba fresca dell’avvenire». Accosta poi il discorso di Fortini su Panzieri all’«immagine massimamente redentiva» della Recherche (ultimo volume).
xi D’Elia accentua il legame «tra utopia e poesia» e mescola utopia politica con utopia poetica. Cede ad appelli generici e volontaristici: «dobbiamo vincere anche le nostre insufficienze, intellettuali e di cultura, umane» (p. 50). In lui sembra strabordante la tendenza, presente poi anche nell’intervento della Passannanti, ad appaiare e quasi assimilare Fortini e Pasolini: «ci servono entrambi come la storia e il corpo». Trovo poi davvero quietistica questa retorica esaltazione dei padri, dei maestri.
xii Vede in Fortini il «percorso dei padri» dalla letteratura all’impegno politico; e lo contrappone a quello dei figli del ‘68 che, dopo la sconfitta, sarebbero «arrivati alla letteratura dalla crisi dell’assoluto politico». E poi esprime una sorta di impotente nostalgia edipica e filiale verso quei due “padri” la cui «nuova cultura, la loro, di eretici comunisti e poeti», essendo «più larga e profonda, complessiva» permetterebbe a noi di capire «tante cose, che essi già sapevano».
xiii Sottolineando «la compresenza sulla terra di ciò che è avanzato e ciò che è arretrato, la compresenza in ciascuno della parte negata e della parte diurna, la compresenza dei vivi e dei morti» (p. 93)
xiv Cataldi precisa che è però dal sonno che «giunge la voce della poesia, ignota e estranea al giorno» (p. 57). Poesia che viene a trovarsi in una «condizione sospesa e bifida»: è, sì, legata alla notte e al sonno, ma anche alla «veglia» che permette di resistere e opporsi alla notte e al sonno (p. 58).
xv Cataldi ricorda l’ invito a vigilare dei testi sacri, la veglia ungarettiana accanto al compagno ucciso, la «solitaria veglia» montaliana.
xvi Se ne Il nido la contrapposizione tra il sonno ignaro degli altri, animali e umani, e la veglia operosa del poeta è massima, ne La buona notte «per la prima volta il sonno è avvicinato senza la renitenza e la vigilanza consuete, come se, una volta invaso del sentimento funebre, esso cessasse di costituire una colpa» (p. 61).
xvii «L’immagine di identità e di futuro tanto strenuamente protetta nella veglia può infine balenare nel sogno» e «la prigione che assedia il sogno nell’allegoria montaliana ha chiuso infine, dopo strenua battaglia, e sia pur con diverse ragioni, anche Fortini» (p. 63).
xviii Lenzini fa riferimento alla polemica di Fortini contro La lirica moderna di Friedrich (pubblicata in Italia nel 1958), alla voce Letteratura, scritta nel 1979 per l’Enciclopedia Europea, e richiama gli esordi noventiani dello scrittore, quando contrastava sulla Riforma letteraria Piero Bigonciari e Carlo Bo, senza dimenticare per ultimo la polemica antipasolinana sulla santità del nulla.
xix Nei pezzi montaliani dei Nuovi saggi italiani, nella interpretazione de La Pentecoste manzoniana, sempre nei Nuovi saggi italiani, nei testi sulla Cina, nell’attenzione a luoghi emblematici della società come carceri ed ospedali e in genere nel suo «guardare alla storia dalla parte degli esclusi» (p. 374). Mentre in poesia Lenzini li individua in modi non diretti e a volte addirittura cifrati in numerosi testi: da quelli giovanili (come Piazza de’ Giudici in Poesia ed errore a Composita solvantur, passando per Poesia delle rose, testo di richiamo anche per Riccardo Bonavita e Erminia Passannanti).
xx Passannanti dichiara di basare la sua lettura su un’«impressione»: «mi sembrò di potere riconoscere, nel recitativo del primo e del terzo frammento della Poesia delle rose, il nietzschiano appello a trascendere le convenzionali nozioni di ragione e moralità per pervenire artisticamente ad un più autentico “se stesso”» (pp. 205-206). E ipotizza che in Poesia delle rose sia presente «un espressionismo più sostanziale e convinto» di quello a cui aveva accennato Pier Vincenzo Mengaldo nella sua introduzione al poemetto.
xxi Il primo etico e formalista, che « mirava a mantenere vigile soprattutto la coscienza etica e il rigore formale» quello di Foglio di via (1946), Una facile allegoria (1954) , I destini generali (1956). Il secondo, espressionista e meno ideologico o teorico, che farebbe venir meno «la compattezza del sostrato ideologico e teorico» del suo pensiero, allenterebbe le redini (206): quello di Questo muro (1973), Paesaggio con serpente (1984) e Composita solvatur (1994).
xxii Passannanti scrive che, «in un’epoca di diffusa crisi e assenza di effettivi rimedi al presente, [Fortini] aveva già perso parte delle sue certezze e dei suoi punti di riferimento, non già per rigido utopismo, ma per un senso acuto della realtà» (p. 212). E sarebbe proprio la Poesia delle rose a registrare «sia la crisi generale del Paese, sia quella privata, dando voce espressionisticamente e manieristicamente alla vergogna e alla rabbia intellettuale per quella che, in Composita solvantur», Fortini, con sarcasmo secondo la Passannanti, definì «vergogna di vecchiezza» (p. 212).
xxiii Lo ripete qui:«Il livello predominante di trasmissione rimane (o resta insieme) linguistico, ossia quello della lingua di tutti [che] viene “innalzata” di registro e di allusività – che significa innanzitutto spessore storico-culturale… Quasi un programma di educazione poetica, e ovviamente politica… la prosa non contiene versi, la poesia sì, poiché quella richiede una certa unità di misura e questa un’altra»(p. 37).
xxiv Ho avuto modo di esaminare questo carteggio e parlarne in Danilo Montaldi riletto nel 2006 (https://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=197:ennio-abate-danilo-montaldi-riletto-nel-2006-elogio-di-un-compagno-periferico&catid=1:fare-polis&Itemid=13)
xxv E pubblicate col titolo Franco Fortini esorcista in Scrtti diversi II. Chiesa cattolica ed esperienza religiosa, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1999.
xxvi «Questo contrasto veniva vissuto o auspicato o contrastato come se in esso si manifestasse una differenza non più sanabile tra vecchio e nuovo, tra ideologia e sociologia neutrale, fra America e Europa, tra prima della guerra e dopoguerra»(p. 272)
xxvii «Come se ogni volta si trattasse di questioni di vita e di morte» (p. 273) dice Ranchetti, insistendo acutamente e maliziosamente sul loro limite evidente, che per lui sta nella «sproporzione originaria e non avvertita fra il senso del discutere fra singoli intellettuali in una situazione privilegiata e marginale e il resto […] che pure percepivo esistente e più forte di noi» (p. 273).
xxviii «Il suo […] non era un giudizio estetico, neppure un giudizio morale o un giudizio politico, tanto meno un giudizio religioso. Era una sorta di giudizio universale privato […] in vista di una «perfettibilità infinita» (p. 273).
xxix Ero rimasto così impressionato ad ascoltare per la prima volta a Siena, appunto nel 1995, questa sorta di “diagnosi psicanalitica” di Fortini, che in alcuni appunti, intitolati Narratorio dopo Siena del dicembre di quell’anno scrissi:
Abbiamo amato un poeta “fragile”
Ranchetti è stato il solo
a spogliar Fortini da mantelle letterarie
e religiosizzanti
parlare di letteratura/
è un alibi
questo commercio con l’Olimpo cristiano/
Fortini l’odiava
tragica/ esemplare
è l’empietà dei suoi ultimi versi
c’era una fragilità di fondo
nell’ambito degli affetti
certo/ se abbiamo da difendere
la Letteratura
o l’anti-Letteratura
la Religione o la Laicità
la caverna psicoanalitica di Ranchetti
non si frequenterà
xxx Vi si narra di un giovane e borghese, che decide di prender parte agli avvenimenti drammatici del tempo (l’allusione è al clima immediatamente seguito alla Liberazione del 1945). Egli è pronto a seguire «un ideale, fosse pure violento» ed entra in contatto con altri giovani, che assieme agli «uomini della strada e delle fabbriche in accese conversazioni… trattavano via via i problemi cui deve attendere l’uomo moderno, se tale vuole essere: massa e lavoro, abolizioni di leggi e di miti erano i temi che ricorrevano di frequente». Il lessico stesso di questo scritto di Ranchetti sottolinea l’estraneità al linguaggio politico di allora e di adesso. Le metafore rimandano all’immaginario cattolico: la stanzetta, dove avveniva l’«adunanza», è «come una cella di convento» (p. 216) Non c’è descrizione particolareggiata di questi «uomini della strada e delle fabbriche». L’attenzione è concentrata sul «capo ideale, un giovane dotato più degli altri», il capo capace di «trovare la risposta adatta, la soluzione attesa» (p. 216) e sull’economia, «un sapere economico, di già fatto collettivo» (si può pensare al marxismo), che però il narratore sente in conflitto con «l’etica e il sapere religioso» (p. 217). Ben presto viene negato ogni valore alla lotta fra le classi: «un nemico non vince un nemico, un male l’altro male: sostituire non significa certo intendere né distruggere»; e le accuse alla politica si fanno sempre più forti. Essa è caratterizzata da un’«attenzione eccessiva verso il nemico», dall’elitarismo («preparare fra quelle mani un potere di cui giovarsi essi, i migliori, i quali poi lo avrebbero generosamente distribuito» (p. 218), dall’astrattezza nel discutere di democrazia o del «mito della libertà», fondato su altri «di più bassa origine, quello di sociale comunità, di orgoglio nazionale» (p. 220). Si direbbe che, a differenza di Fortini, che pure in Dieci inverni aveva denunciato dall’interno la degenerazione burocratica dei partiti della sinistra anni ’50, Ranchetti lo faccia dall’esterno e a priori, tenendosi saldo a una visione religiosa pur amaramente consapevole di contrapporre «un’altra indifferenza più colta ma non meno sterile» (229). Il narratore, infatti, insiste nel denunciare quella «ingenua festa dell’eresia collettiva» (p. 221), il fatto che i protagonisti erano quasi tutti «giovani, come lui benestanti» (p. 221) e che la figura del capo e l’esercizio della sua autorità si fondava in sostanza su un volontarismo rivoluzionario, tipico di quelli che intendono mutare quello che non sanno conoscere «per poterlo conoscere» (p. 228). Lo scritto è una feroce critica, perciò, del divario, colmato solo con salti logici, tra la teoria e la pratica.
xxxi M. Ranchetti, Non c’è più religione. Istituzione e verità nel cattolicesimo italiamo del Novecento, Garzanti, Milano 2003.
xxxii Mi riferisco a questi: distanza della poesia fortiniana dal «nudo vissuto»; aspirazione alla «totalità» a cui accede attraverso la via della teoria; temi poetici derivati dalla sua opera di saggista (p. 66); «attesa» come «esperienza intellettuale» del tempo, orientato al futuro ma governato dalla «memoria del passato» (p. 66), l’unica che permette di «percepire il mortifero protrarsi del “sempre uguale”» nel presente (p. 69).
xxxiii Per Mazzoni i presupposti della poesia di Fortini, che è «un poeta politico anche quando parla di rose»(p. 113), sono i seguenti: 1. spiegare il «male di vivere» non come un fatto naturale della «condizione umana» ma prodotto di «un’ingiustizia storica che l’azione politica può rimuovere»; 2. confluenza (e laicizzazione) della filosofia giudaico-cristiana nel comunismo del marxismo occidentale; 3. etica rivoluzionaria, che richiede una coerenza della propria vita, privata e pubblica, in funzione della rivoluzione futura («vivere coerentemente») (p. 113). Il nucleo della sua critica è contenuto in questo passo: «Se un tempo i presupposti [della poesia di Fortini] erano condivisi da movimenti organizzati e masse di persone, oggi […] una parte consistente della poesia e della saggistica di Fortini, è per molti leggibile solo attraverso un corredo di note che ne rendano comprensibile la lettera e – cosa più grave – lo spirito» (p. 114).
xxxiv Non conosco le posizioni di Mazzoni in politica.
xxxv G. Mazzoni, Fortini e il presente, p.116, in «Dieci inverni senza Fortini», Quodlibet, Macerata 2006.
xxxvi Idem, p. 116,
xxxvii In questa stessa direzione lavorò Luca Lenzini nel suo Il poeta di nome Fortini, Manni editore, Lecce 1999.
xxxviii Riccardo Bonavita, Per un buon uso della distanza, p. 191, in «Dieci inverni senza Fortini», Quodlibet, Macerata 2006.
xxxix Idem p.188.
xl Idem p. 191.
xli Idem pag. 192.
xlii Idem pag. 194.
xliii È mancato qualsiasi intervento su Disobbedienze I e II , cioè sulla raccolta degli articoli e saggi apparsi sul quotidiano il manifesto, essenziali per misurare “a caldo” attualità e inattualità del Fortini comunista. Come pure è assente ogni intervento su Insistenze. Sarà stato un caso?
xliv Come dice Lenzini introducendo la Tavola rotonda (pag. 262).
xlv Di rischio di un culto privato parlò Romano Luperini nella tavola rotonda del Convegno del 2004: «La piaga su cui si mette il dito è quella che altre volte ho chiamato il salto di una generazione o di più generazioni, cioè il fatto che un’intera lingua entra in un cono d’ombra, scompare e si parla tutta un’altra lingua. […]Di qui il rischio che anche noi eredi di Fortini corriamo il rischio di ricadere in un culto privato, perché quando ci viene meno questa patria, questo luogo vitale, rischiamo; e anche il nostro riprendere una lezione di Fortini rischia di essere ricacciato nel ghetto del culto privato, quindi senza lingua e senza patria», in Dieci inverni senza Fortini 1994-2004, pp. 281-282.
xlvi Devo ricordare almeno, però, Per un buon uso delle rovine, Storia d’Italia tra poesie e prose, uno spettacolo teatrale di Ezio Partesana con l’attore Oliviero Corbetta rappresentato a Ivrea e a Milano nel 2009.
xlvii Non intendo fare rimostranze agli amici o ex-allievi di Fortini. Fatta salva la dignità accademica di molti saggi, che ho letto in questi anni, compresi quelli nel volume degli Atti del Convegno, non me la sento di parlare di un Fortini ostaggio degli accademici o, già in vita, troppo preso da un corpo a corpo con loro, fin da quando passò a insegnare a Siena. Ma, come ho detto, nel Convegno del 2004 a me pare rimasta in sospeso o elusa la domanda di fondo sulla attualità o inattualità di Fortini, affacciatasi nella tavola rotonda finale, mentre altre domande di fondo in quella implicita, non potevano essere poste con forza in quell’ambito accademico e avrebbero dovuto trovare luoghi più propriamente politici.
xlviii Posso scrivere apertamente queste cose, perché non ho mai avuto, nel tardivo rapporto con Fortini vivo, un atteggiamento discepolare. Non ho, cioè, un legame affettivo di quel tipo. Per me Fortini è stato un compagno e da compagno l’ho trattato sia sul piano intellettuale che affettivo. Consenso e dissenso riguardavano il campo politico e quello politico-letterario. Lo dico non per vanto o ripicca, ma innanzitutto per far capire che, pur ammirandone il vigore poetico e intellettuale (comunista) e pur essendo rimasto, come ho scritto nei dintorni di Fortini, vengo dalla cultura (o dalla “semicultura” per alcuni) del ’68. In quella mi sono immerso e con la inquieta percezione di avere da sistemare anche altri discorsi culturali, assorbiti in precedenza e non del tutto collimanti con quella del ‘68 né con quella di Fortini. Perché venivo dal Sud e aveva un mio “carico storico” premoderno (cattolico e popolare-contadino) in via di rielaborazione, che neppure il ’68 aveva potuto accogliere né aiutare a rielaborare. Inoltre la figura di Fortini l’ho ritrovata – e questo non è secondario – solo e soprattutto al momento della sconfitta degli anni della politica ( per me ’68-’76); e quindi egli è stato per me soprattutto la figura del compagno con cui elaborare un lutto ormai comune a molti. Il che significa anche che ho sempre preso in considerazione, senza snobismi o adesioni acritiche, tutti i tentativi di risposta che, prima della sua morte e dalla sua morte in poi, sono stati dati alla domanda sulle «nostre verità». E ho guardato con attenzione anche a quanto si scriveva in zone più “eretiche” della sua o in conflitto con la sua (Sono stato lettore di Montaldi, Bologna, Poggio, Negri, Tronti, Preve, La Grassa, ecc.). E ho avuto sempre nei confronti dell’area che, come ho detto, a me pareva più strettamente “fortiniana” e accademica – quella senese in particolare – una insoddisfazione, che privatamente ho dichiarato a singoli suoi esponenti: la prima per il privilegiamento dell’“etico” con messa tra parentesi del “politico” (secondo me, invece, fortemente presente e perfino ossessivamente in Fortini, quasi come un lascito dei suoi periodi di forte militanza politica, ai tempi di Vittorini e ai tempi de «il manifesto»-Pdup e prima del “salto” nell’università di Siena). E proprio sull’”etico, col dilagare della crisi, vedo attestata non solo quell’area di studiosi (e lo provano gli interventi di Luperini ed altri nel Convegno stesso e altrove (Faccio l’esempio di Luperini Vedi in allegato Nota su “Essere comunisti”… ) ma quasi tutta l’«intelligenza umanistico-letteraria». Una seconda insoddisfazione si aggiunge a questa: trovo scarsa attenzione in questa residua “area fortiniana” nel valutare approfonditamente e senza snobismo tutte le soluzioni di “oltrepassamento” di Marx (alla Negri, alla Preve o anche alla La Grassa) che sono emerse successivamente alla morte di Fortini. Non esito a dichiarare invece la voglia di confrontarmi a fondo con tutte queste posizioni (Vedi, in allegato, Lettera a Preve…). Non so se, Fortini ancora vivente, che posizione prenderebbe oggi di fronte alla «separazione tra marxismo come struttura socio-economica e comunismo idealistico umanitario» (citaz da ? pag?) profilatasi con forza già negli anni Settanta e che a me pare non più ricomponibile. Specie con l’acuirsi della crisi. Nel mio isolamento la mia tendenza è a passare da nei dintorni di Fortini e del Comunismo a un atteggiamento esodante, il più lucido e rigoroso di cui sono capace, per muovermi nel deserto portando di Fortini e del comunismo la memoria che serve, le «rovine» che servono, questo, sì, in continuità vera col suo insegnamento.
Infine una nota ancora più personale da aggiungere a Un filo tra Milano e Colognom.È come se il tentativo di sostituire il mio padre meridionale (contadino e ignorante del mondo moderno e azzittito dalla partecipazione a due Guerre Mondiali, di cui mai volle parlarmi) con un padre “moderno” e istruito, com’era per me Fortini, non fosse riuscito e io mi sono ritrovato anzi un Fortini altrettanto padre sconfitto, al pari del mio naturale e di me. E l’ho trovato solo al momento della mia sconfitta, quando ero ancora o mi sentivo ancora figlio sconfitto io pure, quale almeno mi vivevo nel momento in cui l’ho accostato. È, dunque, il lutto della sconfitta il punto di vero incontro tra me e Fortini. Ed è sulla rielaborazione di quel lutto che ho dovuto misurare sia la distanza dalla sua cultura, dal suo marxismo critico rispetto al mio marxismo eclettico sia la distanza dai suoi amici e conoscenti che avevano storie diverse dalla mia.
xlix E non mi si risponda che quello era un Convegno su Fortini e non su Marx o sul comunismo, dando per ovvia una separazione netta tra i due nomi, che appunto per me netta non è.
l Cases, Raboni, Ranchetti, Masi. In particolare non posso cancellare l’angoscia per il simbolismo (negativo) che attribuisco al suicidio di Riccardo Bonavita, cioè proprio del giovane che nel Convegno del 2004 aveva contestato la “verità non nostra” pronunciata da Mazzoni.
li Ad esempio, tra chi riduce il comunismo a ideale etico “perenne” e chi dice che è morto e bisogna andare “oltre”; o tra chi pone l’accento più sul poeta Fortini che sul comunista.
lii Forse il tempo del sangue…da L’ospite ingrato in F. Fortini, Poesie scelte (1938- 1973) a cura di P.V. Mengaldo, Oscar Mondadori 1974