di Massimo Parizzi
[Anni ’60. Brevi ricordi di un tredicenne che ha paura dei suoi genitori e di aprire cassetti. Pubblicato nel n° 10 di “Poliscritture”, dicembre 2013.]
Mio padre e mia madre avevano paura. Nulla, in particolare, li minacciava. Lei, dopo avere lavorato in banca, faceva la casalinga. Lui lavorava in banca. Avevano attraversato gli anni della guerra, sì, i bombardamenti di Milano, lo sfollamento. Ma mio padre non aveva combattuto. E non avevano subìto, né in prima persona né tra i familiari, distruzioni, perdite, menomazioni, lutti. Finita la guerra mio padre, denunciato da un collega, aveva rischiato l’epurazione per la sua adesione al fascismo e alla repubblica di Salò. Ma tutto era finito in nulla. Doveva essersi spaventato, certo. Tutti i suoi ricordi del fascismo li teneva chiusi in un cassetto al quale soltanto, fra quelli del mobile, aveva applicato una serratura yale. C’erano teste di Mussolini in peltro montate su velluto; c’era la tessera della repubblica di Salò; e c’era un libro di fotografie edito dal “Popolo d’Italia” nel 1928, La marcia su Roma. Ora l’ho io. Il cassetto era sempre chiuso e la chiave, ovviamente, la teneva mio padre.
Quel cassetto chiuso, da bambino m’incuriosiva e, forse, mi sfidava come un divieto, tanto che, appena più grande, un giorno che ero solo in casa presi un taglierino, spostai il cristallo abbrunito che ricopriva il piano del mobile, e tagliai un rettangolo nel soffitto di compensato del cassetto per infilarci il braccio e arrivare, in verità, ai pacchetti di sigarette. (C’erano anche quelli.) Senza pensare che i trucioli inevitabilmente caduti mi avrebbero scoperto. Ma questo, forse, non aveva importanza. Forse, dico, perché è possibile che l’interpretazione che mi piace dare qui delle intenzioni più profonde di me tredicenne nel violare quel cassetto sia anacronistica. Ma forse no, perché ero capace di rubare con molta più destrezza. Di infilare per esempio la mano nella tasca interna della giacca di mio padre appesa a una sedia in sala, la mattina, mentre lui era in bagno, e il ronzio del rasoio elettrico mi assicurava che non poteva uscirne di sorpresa; estrarne un pacchetto di Esportazioni, staccarne con cura la fascetta dei Monopoli di Stato, sollevare la carta argentata, asportare una o due sigarette, richiudere la carta argentata e incollare di nuovo la fascetta, ridare al pacchetto la sua forma originaria modellandolo con le dita, e rimetterlo nella tasca della giacca. Non se n’è mai accorto.
Io avevo paura di mio padre. Era severo. Ma facciamo l’ipotesi che un’intenzione profonda, nascosta a me stesso, fosse allora in me superiore alla paura. Facciamo l’ipotesi che fosse un’intenzione, non tanto superiore alla paura prevedibile di venire scoperto, ma che richiedesse che venissi scoperto. E venisse scoperto il cassetto, e venisse scoperto mio padre. Che fosse l’intenzione di aprire qualcosa di chiuso. Di sostituire a una chiusura un’apertura. Sarebbe stata un’intenzione contro la paura. Perché quel cassetto chiuso è venuto a simboleggiare per me la paura che mio padre e mia madre avevano. Che probabilmente non c’entrava con il processo di epurazione e con la guerra. Una paura che c’era sempre stata. La chiusura era una delle sue manifestazioni.
“Non parlare ad estranei di quello che succede qui” (cioè dei litigi fra i miei), mi ripeteva mia madre. Gli “estranei” erano una categoria precisa: tutti i non familiari e, in qualche misura, anche i familiari non stretti, nonni, zii, cugini. Verso gli estranei il sentimento dominante era la diffidenza. Non ricordo che i miei genitori abbiano mai invitato nessuno a pranzo o a cena, se non, a Pasqua e Natale, la nonna, e, le rare volte che arrivavano, dei parenti di Roma e di Brindisi. Qualche volta, altrettanto raramente, veniva qualcuno “in visita”. Allora si aprivano le due porte della sala sul corridoio e si accendeva il lampadario di cristallo a gocce. (Nessuna delle due cose avveniva altrimenti mai.) E la conversazione si svolgeva in parole e toni che tracciavano per l’ospite e, ancora prima, per i padroni di casa, un confine fra ciò che si poteva e ciò che non si poteva dire, fra come si poteva e come non si poteva dirlo. Nessuno, è chiaro, avrebbe potuto dire dove si collocava quel confine, ma, se qualcuno l’avesse violato, tutti se ne sarebbero accorti subito. E chi stesse per violarlo, deliberatamente o meno, avrebbe intuito prima di farlo che quella che stava per compiere era una violazione. Per proseguire, avrebbe dovuto avere coraggio, e una ragione forte.
Neanch’io, neanche ora, saprei dire dove si collocasse quel confine; ma, certamente, molto al di qua di qualunque zona in cui potessero circolare parole e toni inquietanti. Non saprei dire neanche, d’altronde, quali toni e parole sarebbero potuti essere, per i miei genitori, inquietanti; e molto probabilmente non avrebbero saputo dirlo neanche loro, se non post hoc. Là, in fondo, c’era tutto ciò che faceva paura; che, poiché faceva paura, non si voleva sapere; per cui non si sapeva che cosa faceva paura. Poi, più vicina, una profonda terra di nessuno, o campo minato, o zona di sicurezza. Poi il confine. E, chiusi lì dentro, i miei genitori.
Questa fredda credibile e incredibile descrizione, fatta di limite e paure , trasforma la vita di una famiglia in una gabbia nella quale forse si può anche sopravvivere , ma poi quando vuoi uscire devi trovare una chiave che spesso è così nascosta e difficile da reperire e allora ci vuole molta forza per scardinare quelle sbarre, ma la cosa più difficile è dimenticare la paura , quella paura che come una inguaribile malattia ti rimane dentro nascosta insieme a quella chiave. Capire quanto ancora rimane di se stessi ed accorgersi che tutto ancora è lì che aspetta la nostra vera vita.