di Franco Nova
[Un tarlo nel vecchio armadio di una camera da letto suscita nel narratore ricordi di famiglia, propositi di eliminarlo e mano mano curiosità, confronti tra vita animale e umana, supposizioni, antipatie, analogie tra il tarlo-animale e il “tarlo” del pensiero. Fino all’assoluzione della «brava bestiola» e all’accettazione dei dilemmi dell’uomo che pensa.]
Non so più da quanto tempo m’accompagna il rumore di questo vecchio tarlo. Sarà poi vecchio? Non lo so, il rumore è monotono e quasi lento, sembra quello di un anziano che continua a borbottare frasi senza senso. Alloggia nel vecchio armadio della mia camera da letto. L’armadio è proprio “stagionato”, apparteneva ai nonni, poi ai genitori. E’ nero, come gli altri mobili della camera; forse chi mi ha preceduto aveva un altro concetto della vita e della morte. Tuttavia, so bene che nonno e padre amavano la vita gaudente e se la sono ben spassata; probabilmente avevano deciso di deprimere le loro mogli per essere molto morigerati almeno in casa, tanto più che io dormivo nella spaziosa camera con terrazzo sui tramonti proprio presso la loro, e quindi non dovevo essere turbato nella mia sonnolenza fanciullesca. Non era così, ovviamente, erano i mariti a non dover essere disturbati da improprie richieste muliebri; avevano già avuto di che godere con donne durante il giorno o nei fine settimana.
Tutta colpa del tarlo, che mi tiene sveglio di notte, se sono slittato verso ricordi che nemmeno so se ho mai avuto; probabilmente li ho ricostruiti oggi tanto per passare il tempo della semiveglia pomeridiana. Chissà perché questo tarlo lavora sempre di notte, mentre tace di giorno. Mi disturba assai e avevo infatti pensato di mettere del liquido appropriato entro i molti buchi scoperti soprattutto nella parte esterna dell’armadio, quella dipinta di nero; in qualche buco l’avrei sorpreso con il brutale insetticida. Prima di mettere in atto simile proposito, ho però voluto osservare i buchi scavati dal tarlo. Sono disseminati sulla superficie dell’anta centrale senza alcun ordine, alla disperata, e tutti diseguali fra loro sia come dimensioni che come profondità.
Sono rimasto interdetto, credevo che il tarlo fosse un animale ordinato, quasi geometrico, da paragonare ad un noioso contabile d’ufficio che allinea i conti nella partita doppia. Quel rumore monocorde, ripetitivo, sembra opera di questo noioso e spento personaggio: uno di quegli impiegati dal viso glabro, testa pelata, pallidi e scialbi, con l’inguaribile ebetudine dipinta nei lineamenti acquattati su una superficie piatta che assomiglia ad un volto; e due occhi ben globulari, tondi e aperti su un fondo di rara inespressività.
Dimentico sempre il tarlo, sono stanco e ogni tanto i miei pensieri scappano dal cervello e si aggirano sperduti nel mondo dei più, quello dei tanti tarli che continuano a rumoreggiare senza nemmeno la tranquilla monotonia del “mio” tarlo. Adesso è silente; soltanto di notte comincia con un rumore lieve, come per sgranchirsi le membra, e poi si mette a rosicare voracemente fino all’alba. Dunque, mi sembra che stessimo parlando di questi buchi scavati in disordine e, apparentemente, senza un preciso disegno. Il tarlo non ha le virtù scientifiche dell’uomo, non allinea ragionamenti in bell’ordine con sequenze causali in grado di rendere sicura la sua vita, certa la sua fede nella comprensibilità del mondo in cui vive. Grande veramente quest’uomo: capisce tutto, spiega tutto. Qualcosa veramente resta sempre da capire e spiegare; ma è questione di tempo, pian piano ogni nebbia si diraderà, il Sole splenderà sempre più vivacemente, illuminerà l’intera superficie piatta del suo vivere.
Ho un sussulto. Appunto: l’illuminazione riguarda la superficie piatta della vita. In quel pomeriggio di riposo, anche la luce solare, che entra dalla finestra, colpisce la superficie nera dell’anta centrale dell’armadio ove il tarlo per il momento sta quieto aspettando, sornione, la notte onde arrecarmi il maggiore disturbo possibile. Forse, però, non vuole disturbarmi, semplicemente aspetta l’oscurità. Non sto pensando correttamente. In fondo, la larva resta nel legno per nutrirsi, vive sempre al buio; poi sfarfalla, esce dal buco, vede la luce, ma allora non rosicchia più, lascia dietro di sé un deposito schifosetto, abbandona il mobile corroso e si “gode la vita”, per poco in verità. Ricomincio a nutrire nuova antipatia per questa bestiola. Pensavo che la sua vita fosse molto simile alla nostra.
In fondo, nasciamo larve ma restiamo per un periodo di tempo più o meno lungo alla luce, cioè alla superficie della vita, che ci appare, se ci va bene, limpida, chiara, talvolta sfavillante. Crediamo di conoscere tutto ciò che ci è necessario; e forse potrebbe essere così se non si svegliasse presto in noi il “tarlo” del pensiero, della ragione. Non è come l’animaletto; non nasce e si sviluppa al buio e non si nutre di legno tenero. E’ già in piena luce; ma appunto troppo piena, accecante, impedisce la visibilità. Dobbiamo bucare la superficie, immergerci. Il legno è duro, resistente, pensiamo di riuscire ad analizzarlo e studiarlo bene al fine di cominciare a corroderlo secondo punti simmetrici e ordinati. Siamo continuamente portati fuori strada, la durezza del materiale impone continui assaggi troppo casuali. I buchi si disseminano qua e là, molti restano appena visibili, mai approfonditi; dov’è più tenero, affondiamo e ci consoliamo dicendoci convinti che proprio quello è il condotto verso la comprensione totale della vita. E così i buchi sono in realtà dissimmetrici, di varia grandezza e profondità, sparsi abbastanza a casaccio.
Il buio si fa via via più fitto. Tuttavia, gli occhi potrebbero abituarvisi, si svilupperebbero nuovi sensori che aiuterebbero a sopravvivere in qualche modo; e il pensiero può aiutare in questa ricerca di nuove vie, di nuove visioni utili. In genere, imbocca invece una diversa strada; il buio lo avvolge, lo impaurisce, lo spinge a crearsi fantasmi, a vedere la luce dove il buio è più fitto. C’è consolazione e follia insieme, acredine che si accumula, ostilità varie in agguato che turbano l’esistenza e inducono a “vedere il nemico”. Quel che ne segue è troppo intuitivo. Non esiste per noi lo sfarfallamento. Restiamo larve per sempre; via via più grosse, più viscide e rugose nel contempo, sempre più lente e abbarbicate al legno.
Inutile perdersi in tanto pensare. Il (vecchio?) tarlo, che rumoreggia nell’armadio, non ha colpa di tutto questo, è in fondo una brava bestiola e deve nutrirsi per prepararsi al suo breve ma giocondo divenire farfalla che girerà nella stanza, poi uscirà dalla finestra e troverà pure qualche fiore là fuori. Io sono uomo, resto larva, mi agito nel buio ma sono di quelli che non si creano fantasmi e fantasie altre. Il pensiero che alberga in me conduce al solito bivio: lascio che qualcuno goda il suo sfarfallamento alla luce o l’uccido prima che abbia una sorte migliore della mia? Non vivo un solo giorno come la farfalla; tutto sommato, posso rinviare la decisione ad altro tedioso tempo.