LETTURE D’AUTORE. Leonardo Sciascia: l’intellettuale e la transizione

 

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Questa lettura d’autore è tratta dal n. 7 cartaceo di POLISCRITTURE (ottobre 2010)

di Marco Gaetani

Tornare a riflettere sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia a poco più di vent’anni dalla  scomparsa dell’autore siciliano può costituire l’occasione per leggere la sua esperienza di intellettuale pubblico in modo meno superficiale di quanto suggeriscono i cliché ancora circolanti su di essa, forse soprattutto ‘a sinistra’. Il più duraturo tra questi stereotipi si limita a registrare, non senza implicito (pre)giudizio, l’itinerario ideologico di un intellettuale-letterato meridionale partito da posizioni (apparentemente) gramsciane (Le parrocchie di Regalpetra, nel fatidico 1956; Gli zii di Sicilia, due anni dopo), ben presto investito del ruolo di scrittore civile e militante (Il giorno della civetta [1961], A ciascuno il suo [1966], lo stesso Il Consiglio d’Egitto [1963], alla sua uscita considerato una specie di risposta progressista a Il Gattopardo), distaccatosi poi piuttosto polemicamente, con gli anni Settanta, dall’area comunista (Il contesto [1971], ma anche Todo modo [1974]) e infine approdato (soprattutto dopo/con Candido, nel non meno fatidico 1977) a posizioni sostanzialmente lontane dai presupposti ideologici di partenza: fino all’impegno politico attivo nelle file del Partito radicale[1]. La facile formula «dal Pci al Pr» si presta, non meno bene di quella (allusivamente maliziosa) «da Einaudi ad Adelphi», a riassumere il senso di un giudizio non certo immune da riserve e perplessità.Appare subito evidente, anche da una ricostruzione sommaria e con molte lacune quale quella appena abbozzata, come percorso ideologico e produzione letteraria siano in Sciascia speculari: livelli che si rimandano l’un l’altro (non è certo scontato che sia così). Ma proprio questo doppio impegno, definiamolo per comodità artistico e intellettuale, questo intreccio strettissimo e inestricabile tra lo Sciascia narratore/saggista, da una parte, e lo Sciascia polemista, operatore culturale[2], intellettuale pubblico a tutto tondo, dall’altra, impedisce – come del resto quasi sempre, quando sia la  letteratura  a  essere  coinvolta – ogni  frettolosa  adozione di schemi interpretativi rigidi. Tanto più che a leggere le cose dell’ultimo Sciascia (cioè gli interventi giornalistici, i saggi, le opere narrative del periodo 1978-1989) risulta ben difficile parlare per l’autore siciliano di posizioni ideologicamente regressive, o di forme di ripiegamento nel ‘letterario’ (e nel privato), o anche genericamente di adesione al sempre più diffuso clima di ‘riflusso’ che caratterizzò il periodo coincidente, all’incirca, proprio con l’ultimo decennio di vita dello scrittore[3].

Sciascia in realtà non depose mai la propria militanza critica, non ammorbidì affatto la propria caratteristica attitudine polemica, non cessò di assumere pubblicamente posizioni anche durissime (e controverse, spesso strumentalizzate: si pensi esemplarmente alla ben nota polemica sui «professionisti dell’antimafia»). La presenza di Sciascia sulla scena pubblica nazionale anzi si accentua e si espande dopo il 1975, tanto che è stato possibile riferirsi (anche alla luce di talune, più apparenti che reali, affinità tematico-ideologiche) a una sorta di passaggio del testimone tra Pasolini e Sciascia, dopo la tragica scomparsa dell’intellettuale friulano[4].

Le prese di posizione sciasciane nella seconda metà degli anni Settanta e poi nel decennio successivo vanno in effetti allargando il proprio raggio, coinvolgono ormai l’intera società italiana (in primis naturalmente quella politica) quale si configura sempre meglio con l’uscita dai cosiddetti anni di piombo (ulteriore spartiacque: l’affaire Moro); proprio in questo periodo in effetti le analisi dello scrittore siciliano evidenziano un acuito potere di penetrazione rispetto alla realtà cui si rivolgono. Ma (in questo sì, come in non molto altro, Sciascia può ricordare l’ultimo Pasolini) l’intellettuale-Sciascia prende la parola sempre di più da isolato e da incompreso, quando non proprio apertamente contro tutti. Sempre di più Sciascia parla in prima istanza per se stesso, come individuo ancora pensante e senziente in un mondo (in una società) che lo è sempre di meno.

Non mancarono ovviamente accuse e sospetti, di ogni tipo – fino al grottesco. I più indulgenti concessero beninteso a Sciascia il diritto di prendere pubblicamente la parola, di esprimere il proprio pensiero; ma tale parola e tale pensiero vennero più o meno intenzionalmente esorcizzati (e neutralizzati) riconducendoli a un gusto innato (di volta in volta ritenuto piccolo-borghese, siciliano, caratteriale…) per la ‘provocazione’: se ne disconosce insomma ogni nesso con quella verità nel proferire la quale consiste precisamente, per Sciascia, la funzione dell’intellettuale.

 1.            Gli studiosi, pure i meno avveduti, hanno ricostruito anche troppo tempestivamente – in ciò del resto confortati dalle esplicite dichiarazioni dell’autore stesso – la tradizione culturale e l’orizzonte ideologico cui Sciascia si richiama; tradizione e orizzonte che si riferiscono direttamente a Diderot, quale vero e proprio inventore moderno del mestiere di intellettuale, come interprete primo di un certo modo precipuo di intenderne la funzione. Al nome di Diderot ovviamente vanno aggiunti almeno quelli, altrettanto o anche maggiormente significativi, di Courier e di Voltaire[5]. Autori (questi e altri) in cui la vocazione civile (e sociale: sempre pubblica) dello scrittore è costitutiva: si usa la penna come una spada, per combattere le proprie battaglie nel mondo. Si scrive sempre contro qualcosa da écraser e, dunque, perché il suo contrario si possa concretamente affermare. Si hanno nemici, nel mondo, che vanno chiamati col loro nome e tenacemente combattuti. Ci sono idee e valori da sostenere, cui fare spazio reale: per il bene di tutti.

È qui evidentemente operante una concezione ‘eroica’ dell’intellettuale. Concezione ‘classicamente’ moderna, con buona probabilità però lontana dalle forme più tipicamente secondo-novecentesche dell’engagement. Ma più che considerare tale concezione datata o anacronistica, giova segnalarne piuttosto qualche attinenza con una visione del mondo un po’ manichea, se si vuole anche mitica (e dunque, in realtà, premoderna): quella stessa che il giovanissimo Sciascia poteva aver assorbito dagli ultimi feuilleton. Restò a ogni modo sempre, nell’autore di Racalmuto, un’incrollabile fede nella ragione umana come facoltà kantianamente universale. Sciascia non lesina esplicite dichiarazioni in cui questa sua convinzione razionalistica, e il relativo umanesimo ‘civile’, si mostrano apertamente. Valori che s’incarnano negli eroi ‘democratici’ nella sua prima produzione narrativa (il capitano Bellodi di Il giorno della civetta, lo stesso – già assai più ambiguo, però – professor Laurana di A ciascuno il suo). L’intellettuale-scrittore è il loro portavoce pubblico; ma si fa anche interprete di altri latori d’istanze di giustizia, che trovano ospitalità nelle sue pagine e la cui emblematica vicenda viene rintracciata – non senza un gusto per la ricerca erudita e il fait-divers, che accompagnerà sempre Sciascia – in un passato accuratamente sepolto e silenziato dalla storia ufficiale (il fra’ Diego La Matina di Morte dell’inquisitore [1964], esemplarmente).

Nel mondo c’è il male; esso deve essere pubblicamente combattuto. Questo male è l’ingiustizia, e l’ingiustizia è il dominio della non-ragione nella storia. L’intellettuale è l’alfiere della ragione che vuole (ri)stabilire il proprio buon diritto nel mondo; conta, per questo, nella piena riconoscibilità delle proprie pretese da parte di tutti e di ciascuno: gli umani, per il solo fatto di essere tali (cioè, canonicamente, razionali), riconosceranno infallibilmente torto e ragione, e sapranno come schierarsi, come regolarsi. La verità è pertanto la premessa ineludibile per l’affermarsi della giustizia: non ci può essere questa senza quella.

Così in molte pagine di Sciascia l’intellettuale che interpreta la realtà tende a scomparire come latore di un giudizio individuale: il soggetto si limita ad assumere un timbro che è, sì, soltanto suo e inconfondibile[6]; ma questa voce resta pur sempre quella di una Ragione che trascende l’individuo; ragione di cui viene mostrata l’obiettiva inoppugnabilità, e ostentata una fondatezza non attaccabile senza malafede. Non voce, ma porta-voce, l’intellettuale sussume nella sua parola quella dell’umanità generica, parla per il genere umano al lume universale della ragion comune. Manca del tutto, o quasi, una mediazione di tipo gramsciano (la classe, il partito), e ogni rapporto di organicità con una parte dell’umanità risulta pertanto, se non compromesso in partenza, certo per principio negoziabile. Per Sciascia quella mediazione è in un certo senso superflua, è sostituita da un’entità più grande e inglobante – il Gattungswesen, appunto, e la Ragione che canonicamente lo definisce. Più vicino, malgrado tutto, il Vittorini sostenitore dell’autonomia di una cultura che proprio per il suo valore universale può tornare utile nella storia, e giovare concretamente alla causa delle vittime.

 2.           Col tempo però le cose si complicano. Col tempo oggettivo, pubblico, storico: non semplicemente con quello soggettivo, tempo privato dell’evoluzione artistica e ideologica, della maturazione esistenziale – tempo individuale dell’intellettuale e dell’uomo[7]. La funzione basilare da sempre ‘candidamente’ riconosciuta da Sciascia all’intellettuale («dire la verità») si scontra con un reale piuttosto riottoso a farsi ridurre allo schema ingenuamente binario vero/falso, giusto/ingiusto, razionale/non razionale. Il mondo cui Sciascia si dimostrò sempre particolarmente sensibile – lo ha mostrato soprattutto Massimo Onofri – è in effetti, ab origine, quello pirandelliano: della verità sospetta, della finzione ubiqua, della maschera che più che coprire il volto sovente vi si confonde. In un mondo simile la verità non può manifestarsi spontaneamente agli occhi di tutti, di chiunque abbia ragione per intendere (e magari la ritrovi integra con il decisivo supporto maieutico di un intellettuale facente funzioni, in tutto e per tutto, di tecnico della verità); perché anzi si sottrae, la verità, anche alla minuziosa e tenace contro-inquisizione dell’intellettuale-detective. Nel mondo alienato e reificato della Modernità finalmente dispiegata (si pensi ora alla storia nazionale nel dopoguerra, e all’avvento della società neocapitalistica) le menti sono sempre più ottenebrate, la falsa coscienza impedisce ormai anche nei migliori e nei meglio intenzionati di dirimere con esattezza cartesiana (o voltairiana, o anche kantiana) valore e disvalore. Tutto si mescola e confonde. L’ambiguità coinvolge anche il presunto eroe della verità, quell’«eroe che pensa» cui si domanda ormai una ben più complessa coerenza: siamo a Il contesto, a Todo modo.

Un’organizzazione anch’essa rinnovatasi (per rimanere sempre uguale) riassume perfettamente al suo interno il nuovo spirito del tempo, il profilo di una società in cui l’ingiustizia prende il nome di giustizia, vero e falso si ribaltano l’uno nell’altro, valore e disvalore non si stagliano più con profilo netto e riconoscibile: l’organizzazione mafiosa. Se il fascismo – il male riconoscibile come tale anche da un bambino che, semplicemente, volesse rimanere se stesso[8] – poteva essere paradigma primo-novecentesco dell’ingiustizia storica conclamata, ora tale paradigma efficace deve essere sostituito dal ben più cogente modello mafioso – elastico, ambiguo, proteiforme.

Sciascia osservatore critico della nuova società italiana tende a proporsi sempre più come interprete di un’intera civiltà, quella occidentale di massa. Usando la Sicilia (mafiosa) come metafora; e vestendo i panni non tanto del moralista quanto, semmai, quelli (certo indesiderati, e scomodi) del profeta: si pensi all’interpretazione, oggi quasi corrente in certi indirizzi del pensiero critico, degli ‘apparati’, anche burocratici e statuali, in chiave di malavita, e del potere come associazione a delinquere di privati cittadini, loggia/cosca sovranazionale dedita alla mistificazione (o alla produzione) della realtà, prima ancora che al suo semplice controllo. Un potere dunque certo sfuggente, difficilmente nominabile; ma tutt’altro che astratto, metafisico e metastorico (rilievo questo che, come noto, venne invece spesso rivolto a Sciascia). Potere che di volta in volta s’incarna in individui concreti, nei suoi servi: cui al limite sarà sempre possibile dare nomi e cognomi, e ai quali si dovrà pur sempre chiedere conto. A ogni epoca, nel tempo inclusivo della Modernità, il suo peculiare fascismo.

3.           C’è però, per l’intellettuale Sciascia, uno strumento che in qualche modo surroga una ragione sempre più indebolita e in crisi (quella illuministico-moderna, la cui défaillance storica viene puntualmente ed esattamente registrata nel delicato passaggio degli anni Settanta: fa fede Candido), e questo strumento è sorprendentemente la letteratura. Già questa opzione serve a distinguere Sciascia da altri intellettuali (anche letterati, e non solo italiani) maggiormente inclini, al contrario, a relativizzare il ruolo della parola letteraria (anche implicitamente: attraverso le sue versioni ludico-parodiche), fino a ridurlo o azzerarlo: spesso nella rivendicazione della priorità dell’azione politica, priorità che trova un saldo presupposto nella riconosciuta preminenza del reale rispetto alla sua rappresentazione. Ma la parola letteraria ha per Sciascia un rapporto privilegiato non tanto con la realtà, quanto con la sua verità. La dichiarazione, solenne quanto temeraria, contenuta in La strega e il capitano (1986), e volentieri riportata dagli studiosi, resta da questo punto di vista tra le più eloquenti espressioni dell’investimento assiologico cui viene sottoposta in Sciascia la funzione letteraria: «nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende».

Le ragioni di questo primato etico-gnoseologico (e quindi come si vedrà anche politico) riconosciuto alla letteratura (riconoscimento evidentemente subito fonte di critiche, anche aspre: ancora una volta soprattutto da sinistra) sono molteplici. Possono essere qui ricordate quelle che mi sembrano le principali (non seguo però un ordine per importanza).

Per prima cosa: sempre di più, in una civiltà post-alfabetica come quella contemporanea, la letteratura evidenzia i suoi legami – prima invece ‘trasparenti’, e dunque impercettibili – con il codice linguistico, con un campo cioè avvertito da Sciascia quale dominio privilegiato della ragione, strutturato insieme alle grandi leggi del pensiero razionale e a esse strettamente organato («l’Italiano è il ragionare», dice pressappoco Sciascia). La parola letteraria ha come suo prerequisito irrinunciabile questa logica, la logica ‘universale’ del discorso è il suo sostrato.

Per questa via si giustifica anche (ed è il secondo punto) la dimensione peculiarmente saggistico-riflessiva caratteristica della narrativa sciasciana (fin dalle Parrocchie). Narrativa che confluisce per questo aspetto nella grande linea-Montaigne della tradizione letteraria moderna, linea entro cui il razionalismo si rapporta al vaglio introspettivo-esperienziale, moderando le istanze universalizzanti di una ratio altrimenti astratta e pericolosamente proclamatasi autosufficiente. L’ethos individuale funge da contrappeso all’ecolalia della ragione universale, che risulta in tal modo individualizzata, si presenta in una sua forma per così dire personalizzata, vissuta, al limite incorporata. L’intellettuale diviene così non solo il portavoce, impersonale e ‘neutro’, della ragione comune, delle ragioni di tutti, ma anche l’individuo singolo, il detentore di una sua particolarità irriducibile: entità universale-singolare, per dirla con Sartre. Più che «l’intellettuale», «Leonardo Sciascia»: individuo che proprio nella sua incoercibile singolarità può divenire portatore di istanze ‘generiche’, di valori universalmente riconoscibili.

Si tratta di una dimensione sicuramente meno estrovertita di quella canonicamente propria all’intellettuale moderno progressista, dimensione già evidente, malgrado tutto, nel libro che resta probabilmente (come vuole Claude Ambroise[9]) quello capitale di Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra. C’è, in questo aspetto, il versante infelice di una coscienza che si è voluta originariamente tutta esposta e protesa nel mondo storico, animata da una intrinseca ragion polemica[10]. La verità pubblica non è di fatto estranea rispetto a una sofferenza o a un rovello che sono esistenziali, e quindi costituzionalmente ‘privati’: in quella cruciale commistione di clarté illuministica e côté esistenzialistico individuata magistralmente da un intervento di Salvatore Battaglia a proposito di Recitazione della controversia liparitana (intervento non casualmente, allora, indicato dallo stesso Sciascia come uno dei contributi più felici alla definizione del proprio profilo artistico e intellettuale[11]).

Infine (è il terzo e ultimo motivo dello specifico valore, se non proprio del primato, riconosciuto a Sciascia al letterario), malgrado questa sua componente introvertita e soggettiva (in ombra, ma decisiva e forse inestirpabile) la letteratura rilutta al solipsismo, è costitutivamente dialogica. Da una parte infatti essa si basa su una convenzione sociale (la regola linguistica, la competenza codica condivisa[12]); dall’altra presuppone un ‘tu’, postula un’istanza di attenzione e comprensione (evito intenzionalmente il termine, equivoco e purtroppo oggi assai di moda, ‘ascolto’). In un certo senso la letteratura vive così dentro una sua peculiare dimensione intermedia tra pubblico e privato: essa funziona davvero soltanto nella dimensione-cerniera dell’intersoggettività.

La verità che la letteratura rivela e rende pubblica, condivisibile, non ha nulla di iniziatico, è alla portata di tutti, da tutti riconoscibile e attingibile. Non passa però (e perciò) attraverso i canali massificanti e mistificanti dei media audiovisivi, o per il flusso alienante dei discorsi ideologici; si trasmette da individuo a individuo, da coscienza a coscienza, ‘sulla testa’ del potere, o alle sue spalle: attraverso la pratica universale-singolare della lettura. In tale pratica, complice e clandestina, un ‘io’ e un ‘tu’ si riconoscono. Nell’evidenza del valore e del disvalore, nella luce reale della verità diffusa da una parola che è ragione ben temperata, si pongono così le basi o le premesse per un ‘noi’ che possa abitare lo spazio comune, pubblico, di una giustizia ancora da farsi.

[1] Per cui si può vedere A. Maori, Leonardo Sciascia. Elogio dell’eresia, Milano, La Vita Felice 1995. [2] Su questo aspetto, con riferimento all’attività svolta da Sciascia per la Sellerio, cfr. S. S. Nigro [cur.], Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero la felicità di far libri, Palermo, Sellerio 2003. [3] Imprescindibile testimonianza delle posizioni sciasciane tra anni Settanta e Ottanta restano – oltre naturalmente alla produzione narrativa e saggistica dell’autore – La Sicilie comme métaphore. Conversations en italien avec Marcelle Padovani, Paris, Stock 1979 (traduzione italiana Mondadori, varie edizioni) e, dello stesso Sciascia con D. Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, Milano, Sperling & Kupfer 1981; cfr. anche La palma va a Nord, a cura di V. Vecellio, Milano, Gammalibri 1982. [4] Su Sciascia e Pasolini cfr. G. Traina, «Un vero, forte e commosso senso di fraternità.» A proposito di Sciascia e Pasolini, in R. Cincotta e M. Carapezza [cur.], Il piacere di vivere. Leonardo Sciascia e il dilettantismo, «Quaderni Leonardo Sciascia», 3, Milano, La Vita Felice 1998, pp. 9-24. [5] Si vedano, tra le principali monografie critiche dedicate all’autore di Racalmuto, almeno quelle di Massimo Onofri: Storia di Sciascia, Roma-Bari, Laterza 1994 e Sciascia, Torino, Einaudi 2002. [6] Assunzione che avviene soprattutto per forza stilistico-retorica (tipicamente tramite un’ironia di lontana ascendenza manzoniana, spesso acre e sferzante); ma anche ricorrendo a una caratteristica argomentazione puntigliosamente espositiva (‘giudiziaria’) della materia oggetto di narrazione – e dunque attraverso l’adozione di un peculiare registro saggistico. [7] Su questa dicotomia nell’opera dell’autore siciliano si può vedere, di chi scrive, Il tempo ritrovato da Sciascia, «Compara(i)son», 1-2, 2009, pp. 37-43. [8] Il riferimento è alla preistoria dell’antifascismo sciasciano, quale si manifesta in un episodio infantile rievocato dall’autore nella conversazione con Marcelle Padovani (cit. supra, nota 3). [9] Cfr. soprattutto il saggio Verità e scrittura, preposto a L. Sciascia, Opere, vol. I, Milano, Bompiani 1987, pp. XVII-XXXIX. [10] Cfr. ancora C. Ambroise, Polemos, in L. Sciascia, Opere, vol. II, Milano, Bompiani 1989, pp. VII-XXVIII. [11] Cfr. S. Battaglia, La verità pubblica di Leonardo Sciascia, «Il Dramma», 5, maggio 1970 (poi in A. Motta [cur.], Leonardo Sciascia: la verità, l’aspra verità, Manduria, Lacaita 1985, pp. 215-222). [12] Ma anche la stessa dimensione del gusto, entro lo «spazio intersoggettivo» realizzato da ogni «comunità di rappresentazione»: cfr. V. Bozal, Il gusto, Bologna, il Mulino 1996, pp. 77 sgg.. [13] In margine alla lettura di Martha Nussbaum, Nascondere l’umanità: il disgusto, la vergogna, la legge, Roma, Carocci, 2005 [14] Palermo, Sellerio, 2008  

2 pensieri su “LETTURE D’AUTORE. Leonardo Sciascia: l’intellettuale e la transizione

  1. …veramente completo il ritratto che Marco Gaetani traccia sula figura e l’opera di Leonardo Sciascia, un autore che, ai tempi delle mie letture sempre molto parziali, mi aveva fortemente colpito. Quelle sue narrazioni-inchiesta per arrivare a svelare (o quasi) verità shoccanti sulla connivenza dei fatti di mafia con i poteri più alti delle istituzioni, ma anche quelle di efferati omicidi a cielo aperto, nel mutismo generale, oppure di mani assassine che sanno raggiungere nell’ombra, trasmettevano un senso di sgomento arcano e oscuro, come di assoluta impotenza…Se penso come allora ci parvero rivelazioni gravissime (è mai possibile? E siedono in Parlamento? ) , mentre oggi, e non è passato poi così tanto tempo, non ci “scandalizziamo” quasi più davanti a una corruzione diffusa , che è entrata nel costume in maniera ancora più aggressiva…
    L. Sciascia seppe anche scavare in maniera profonda nell’animo umano, evidenziandone la soggettività spesso contraddittoria e ambigua…La lettura dei suoi scritti mi lasciava anche un senso di amarezza e di incompiutezza intorno ad una società non risolta, come del resto nella tradizione letteraria siciliana

  2. La fine della scrittura

    Leggo giù
    sotto le righe,
    nel punto esatto in cui il foglio muore e nasce la vita;

    Dispiaceri scritti,
    pensieri vissuti tra i giorni
    che le notti non guardano,
    svilite dai loro sguardi;

    Ripiego il libro
    su quello spazio vuoto,
    ma ancora non vedo chi l’abbia occupato;

    Il futuro,
    altri fogli
    senza più righe,
    tristi e ingenue come spighe.

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