Questa poesia è apparsa nella rubrica “Storia adesso” del n. 8 di POLISCRITTURE (dicembre 2011)
di Margherita Guidacci
L’ESPLOSIONE E LO SCAVO
Se il mondo deve finire in un rombo, questa ne è stata una valida prova.
Ha sussultato la città, le sue strade, in terribili istanti, sono parse quelle di un formicaio impazzito.
Ma più del rombo ci sgomentava il silenzio, in cui il rombo si era subito, per troppi, mutato.
Più della vampa sua compagna, nel maturo mattino di agosto,
ci sgomentava la notte immediata che troppi aveva inghiottito.
Più delle frane e dei crolli tra cui scavammo senza posa,
la compatta immobilità che là sotto, troppo spesso, intuivamo.
Più del rovente calore in cui esausti ci dibattemmo per cercare qualche vivo
l’irremovibile gelo di troppi nostri ritrovamenti.
E più dei corpi sfigurati che sollevammo in mezzo allo scempio
le anime sfigurate che lo avevano ideato e voluto.
INVENTARIO DELLA STRAGE
La giovane dalla schiena spezzata, i fanciulli arsi,
l’ottantenne a cui di diritto sarebbe spettato
morire in pace nel suo letto, non quest’assurda fine,
le macerie dei corpi tra le macerie dei muri,
lo strazio delle infime cose, gli occhiali ancora intatti,
i giornali illustrati, la valigia con gli abiti estivi,
gli stampini a forma di fiori e farfalle
che non saranno più riempiti di rena,
tutto ciò che le nostre mani hanno riportato alla luce, ferendosi
tra schegge di cemento ed acuminati ferri distorti,
tutto ciò che i nostri occhi hanno visto e la mente non riesce a comprendere
perché la mente umana non comprende il disumano,
tutto questo rimane come un immenso gemito
che dalle pietre stesse di questa città
si leva a implorare giustizia. Ora i morti hanno pace,
ma per i vivi, senza giustizia, quale pace può esservi?
(1981)