Questo articolo è apparso sul n. 5 cartaceo di POLISCRITTURE (febbraio 209)
di Luca Ferrieri
Il numero 28 di “Riga”, che tra l’altro ufficializza il suo passaggio da rivista a collana di monografie, edita da Marcos y Marcos, è interamente dedicato a Gianni Celati, uno dei più significativi e appartati scrittori italiani. Riga ha svolto, nei suoi diciott’anni di vita, un insostituibile ruolo di approfondimento critico di temi e di autori, percorrendo spesso le vie meno battute, lasciandosi sempre guidare dal piacere della scoperta e dal gusto per il lavoro di scavo, con l’esplicito obbiettivo non di “urlare una qualche verità”, ma di accumulare delle gocce in grado, con il tempo e la pazienza, di incidere nella dura pietra della realtà.Nel lavoro che in questa Giostra delle riviste cerchiamo di fare, ossia quello di favorire il confronto e mostrare la ricchezza culturale del mondo che gravita intorno alle riviste, da quelle più note e autorevoli alle pubblicazioni saltuarie e ai fogli sparsi che fioriscono (e spesso subito dopo purtroppo muoiono) un po’ in ogni dove, il riferimento a una rivista come Riga è insieme un omaggio e una condivisione di metodo. L’omaggio è rivolto all’operazione culturale, insieme pionieristica e imprescindibile, realizzata da Marco Belpoliti e Elio Grazioli. Il metodo è quello della documentazione, dell’accumulo e della pluralità degli sguardi, della perlustrazione stratiforme dell’oggetto indagato attraverso una polifonia di discipline e di linguaggi. Se il “fare rivista” oggi ha un senso, è proprio quello di aprire sentieri fuori dalle autostrade ben asfaltate dell’editoria, mettendo a nudo (come spesso e senza declamazioni ha fatto “Riga”) la approssimazione, la fallacia e la subalternità delle operazioni editoriali che ubbidiscono solo alle leggi del mercato e delle mode.
Non poteva allora mancare, nella galleria di “Riga”, un autore come Celati. Innanzitutto per il suo indiscutibile peso letterario, assai sottovalutato dai critici italiani. Basti dire che mentre all’estero si moltiplicano gli studi su di lui – tra cui quello, assai importante e completo, di Rebecca J. West, edito dalla University of Toronto Press nel 2000 – in Italia l’attenzione critica e la produzione saggistica rimane ai minimi termini: Celati non compare in molte antologie e dizionari, ad esempio nel Dizionario critico della letteratura italiana del Novecento, a cura di Enrico Ghidetti, Giorgio Luti, Roma, Editori Riuniti, 1997; ottiene poche righe nella Storia della letteratura italiana edita dalla Salerno (a cura di Enrico Malato, 2000), in cui tra l’altro gli è attribuita un’opera di Cavazzoni, e così via.
Celati esordisce nel 1971 con Comiche e di qui fino alla seconda metà degli anni Ottanta sforna una narrativa di fresca impronta rabelaisiana esplorando i territori della corporeità, della follia e del sogno, dando vita a pagine di una nativa surreale comicità. Le opere più importanti di questo periodo sono Le avventure del Guizzardi (1972), La banda dei sospiri (1974) e Lunario del paradiso (1978). Da Narratori delle pianure (1985) in avanti, la cifra stilistica di Celati cambia sensibilmente, anche se è eccessivo postulare, come talvolta è stato fatto, l’esistenza di un primo e di un secondo Celati separati da una netta e invalicabile cesura. E’ accaduto piuttosto che Celati, dopo aver insegnato in America e al Dams di Bologna, ha approfondito la sua ricerca teorica sulla narrazione e sulla narratività, ha collaborato con il fotografo Luigi Ghirri ad un progetto di descrizione del nuovo paesaggio italiano, ha intrapreso il suo lungo viaggio per la pianura padana (e non solo) a caccia di luoghi e di personaggi, scattando immagini e appuntandosi le conversazioni udite nei bar. La sua scrittura si è fatta più pensosa e visionaria, mettendo al centro l’uomo come “animale fantasticante”, “sempre pronto a menar la lingua per raccontarsi favole e panzane”. La riflessione sull’oralità e sul racconto, anche se viene tenuta ben separata dall’opera narrativa, ne costituisce l’architrave concettuale. In questo numero di “Riga” compare ad esempio, un fondamentale intervento di Celati su Il narrare come attività pratica che era stato pubblicato nel 1998. L’interesse di Celati per la narrazione è pari alla sua diffidenza per discipline come la semiotica e la narratologia, che “non si occupano di narrazioni ma di formule”, e che sono divenute a tal punto rispettabili e scolastiche da dilagare nei programmi di insegnamento ai ragazzini delle scuole medie, “molti dei quali non si riavranno mai più per tutta la vita, e non riusciranno mai a leggere un libro come si deve, cioè in tutta naturalezza”. Celati dubita che le narrazioni possano configurare un “campo chiuso di fenomeni” soggetto a delle regoli generali. Per lui questo campo raccoglie piuttosto “un insieme di pratiche sparse ed eterogenee” , che si ritrovano nella vita di tutti i giorni e di chiunque, ben lontano quindi dal recinto sacro della letteratura. Emerge qui un tratto tipico di Celati uomo e scrittore: il suo essere radicalmente antiaccademico (pur avendo fatto per lunghi anni il professore, o proprio per questo), il suo essere però anche “lo scrittore più letterario che vi sia oggi in Italia”, come dicono Belpoliti e Sironi nell’introduzione del numero di “Riga”, e insieme il più strenuo nemico della letterarietà come mito e come esteriorità. Per certi versi questo atteggiamento ricorda quello di Bianciardi ne Il lavoro culturale (Feltrinelli, 1957, 2007) e in Non leggete i libri, fateveli raccontare (Nuovi Equilibri, 2008). Lo stesso approccio Celati ha nei confronti del mondo dell’editoria: è un nemico giurato della “letteratura industriale”, del marketing applicato alla scrittura, dell’industria culturale che sforna prodotti per la “cultura di massa”, ma nello stesso tempo è radicalmente antielitario, non sopporta la spocchia di chi si pone fuori e sopra la mischia. I nuovi scrittori, dice Celati, nella loro maggioranza “concepiscono i libri come assalti militari, con un modo di parlare e pensare simile a quello dei marines di Bush”. Quel che conta è “fare il lavoro” e “quest’idea extramorale del making our job” accomuna i soldati in Iraq e la nuova letteratura d’assalto di impronta americanista. Gli editori si muovono come “eserciti padronali in lotta tra di loro, che comprano gli autori come si fa con i calciatori”.
Nel suo sguardo sul mondo, che traspira da ogni riga, Celati tiene insieme un forte individualismo e una passione quasi collezionistica, entomologica, per i sommovimenti sociali. Rifiuta ogni idea sociologica della letteratura (“quello che voi chiamate dimensione sociale per me sottende un’idea statale, amministrativa, con cui non voglio aver niente a che fare”) e tuttavia pensa che la letteratura esista solo “come pensiero collettivo, come legame, come transito da una persona a un’altra”. Per questo insisterà sempre sulla tesi che si scrive, si narra (e si fa critica letteraria) solo per amicizia. Scrive Massimo Rizzante (in un saggio apparso sul sito “Nazione indiana” http://www.nazioneindiana.com/2008/10/07/per-gianni-celati/ e in parte rifuso in questo numero di “Riga”) che per Celati l’amicizia è la forma del narrare e della sua visione del mondo. Un’amicizia intesa non solo come legame tra gli uomini, ma come principio universale, come “mutua simpatia degli elementi”.
Quando si chiede a Celati perché o come ha scritto una certa opera, le sue risposte, ispirate a questa sorta di empatia universale, di incontro felice tra il caso e la necessità, sono sempre profondamente vere e letteralmente depistanti. Come mai hai iniziato traducendo Swift?, gli chiedono a un incontro al “Circolo dei lettori” di Torino, e lui risponde “perché ero scappato da un paese democristiano e facevo il lavapiatti a Londra e alla sera, quando avevo tempo, traducevo le Satire di Swift, perché dovete sapere che Swift frequentava il manicomio di Londra e annotava che i ricchi pagavano per vedere i matti” (si trova traccia della verbalizzazione di questo incontro sul blog “La poesia e lo spirito” all’url http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/03/03/incontro-con-gianni-celati-primo-tempo/). E prosegue: “E’ bello scrivere perché non si sa che cosa fare. E’ assurdo scrivere con l’intenzione di fare un libro”. Racconta di come più avanti, allontanatosi dalla moglie, trovandosi in “stato di crisi nevrotica”, aveva accolto l’invito di un amico ad accompagnarlo in Africa, e siccome l’amico dormiva fino a tardi alla mattina e lui si svegliava alle sette, non sapendo cosa fare aveva preso a scrivere (e di qui sono nati gli appunti sul viaggio a Nairobi pubblicati in questo numero di “Riga”, in cui tra l’altro Celati se la prende con il modo di viaggiare tipicamente europeo, “che va sempre verso una meta, è la sua maledizione”). Tutto ciò potrebbe dare l’idea di un Celati naïf, scrittore di getto e per caso, e invece è esattamente il contrario perché Celati scrive e riscrive molte volte le sue narrazioni, anche dopo che i libri sono stati pubblicati (e “Riga” ospita, per esempio, una riscrittura inedita delle Comiche del 1972). Sotto la pagina di Celati, tanto più quanto sembra sgorgare da un racconto vissuto, da una “istantanea” colta al volo in un vagabondaggio senza meta, c’è un lavoro profondo, una tecnica raffinata e via via affinata di traduzione e di mediazione letteraria. Celati vuole così ricollegarsi alla tradizione novellistica tradizionale (“mi sono accorto che un modo di uscire [dalla forma chiusa del racconto] era di tornare alla forma della novella tradizionale, come quelle nel Novellino, cioè racconti brevissimi con un punto di effetto occasionale, casuale”) e il suo bersaglio polemico principale è la narrativa moraviana, in cui la forma racconto è totalmente sottomessa al romanzo, è una sua versione dimidiata. Per Celati invece occorre tornare al racconto come residuo, come riduzione al minimo comun significante, “scaricando … tutte le trombe e i violini del significato”: “ridurre ogni cosa al minimo, non aver più quasi niente da dire, tranne quel poco che ti pare di aver sentito nell’aria, in certi posti, viaggiando o camminando”. Si tratta di una prospettiva che non ha niente in comune, nonostante le apparenze, con il minimalismo americano (Carver o Paley o Leavitt, ecc.) perché il suo laboratorio non è l’astratto lavoro di scrittura ma il bagno esperienziale nel quotidiano, il viaggio nella folla e nella follia, e non è un caso se il minimalismo americano è cresciuto nei corsi di scrittura accademici e quello celatiano (che ha poi visto le filiazioni, letterariamente interessantissime, di Cavazzoni e di Cornia) nei bar e nelle nebbie della Pianura padana.
Il numero di “Riga” è fedele, fin nella letteralità, a questa ispirazione celatiana. In nome della letteratura come amicizia accoglie, in apertura, testimonianze e narrazioni di scrittori affini. Ad esempio, quella di Franco Arminio, che con Celati condivide la passione per luoghi vagabondaggi e silenzi, che come lui ama definirsi “paesologo”, come lui “va a trovare un paese come si va a trovare un vecchio zio”, e che naturalmente compare e campeggia nelle bellissime pagine che Celati ha dedicato al paese natale di Franco (e del nostro compagno Donato Salzarulo), Bisaccia, nell’Alta Irpinia, e che sono pubblicate in questo numero di “Riga” con il titolo Diario del Sud. Franco Arminio è “un Celati con l’Ofanto al posto del Po”, ha scritto Langone su “Il Foglio”, e nelle sue ultime produzioni, come Viaggio nel cratere (Sironi, 2006) o Vento forte tra Lacedonia e Candela (Laterza, 2008), ha lo stesso passo del Celati esploratore, la stessa delicata e sofferta attenzione per il divenire dei luoghi, lo svuotarsi delle piazze, il gesto di un passante o di una vecchia che scompare dietro un vetro. Franco Arminio scrive:
Ogni volta che mi arriva a casa un libro del mio amico Gianni Celati io mi sento bene. L’economia della paura, l’animaletto sempre con le orecchie tese, lascia il posto alla voglia di libertà, di meraviglia. Celati è uno scrittore in cui il gesto della scrittura si cancella per diventare semplice lettura. Lettura di quello che c’è fuori, dentro le strade o dentro i libri, poco importa.
(http://www.nazioneindiana.com/2007/03/11/il-nobel-a-celati/#comments)
Altrettanto sintonici sono gli omaggi narrativi che a Celati dedicano, su “Riga”, Ermanno Cavazzoni (che si occupa del tema dei libri di carta sepolti nei cimiteri delle librerie e di quelli che come cadaveri insepolti vengono trasportati dalle correnti della rete) e Daniele Benati, che è l’inventore (o uno degli inventori) del fantastico scrittore-personaggio dal nome di Learco Pignagnoli (la cui “opera omnia” è stata raccolta e pubblicata nel 2006 dall’editore Aliberti di Reggio Emilia). Tanto Arminio è vicino al cosiddetto “secondo Celati”, quanto Benati lo è al primo, al guizzo e al concentrato di comicità pura che rende irresistibili certe pagine del Guizzardi o delle Comiche. Si tratta di una comicità, quella di Celati e quella di Benati, intrisa di una profonda malinconia: come dice Cornia, vi sono “tristezze che possono essere delle allegrie, come se fossero dei pensieri che hanno un piede che li tira verso il basso come in un affogamento, mentre l’altro piede salta verso l’alto in un moto ventoso”.
C’è un secondo fondamentale motivo per cui la scelta di intitolare a Celati, e al filone di narrativa che a lui si ispira, un numero di “Riga” appare interessante. Dalla primavera dell’anno scorso ha fatto irruzione nel dibattito letterario italiano, soprattutto in quello che gravita, appunto, intorno alle riviste e ai siti on line, il documento dei Wu Ming sulla “nuova epica italiana” (NIE: http://www.wumingfoundation.com/italiano/WM1_saggio_sul_new_italian_epic.pdf. Di questo documento sta per uscire da Einaudi la versione 3.0, inedita). Poi ci sono state le discussioni sul “nuovo realismo” di Saviano, le minacce della mafia all’autore, la forte ondata di solidarietà e le polemiche sulla necessità di “salvare Saviano dal suo personaggio” (così Alessandro Dal Lago su “Liberazione” del 22-11-2008). La scelta di “Riga”, non so quanto voluta e quanto, invece, rabdomantica, appare come una sorta di sommesso e sommerso controcanto: non certo nel senso di una contrapposizione ai temi sollevati dai Saviano, dai Wu Ming e dai Lucarelli, perché anzi molte sono le possibili zone di incontro e di sovrapposizione, ma nel senso di un promemoria, di un richiamo (indiretto) a rammentare che le vie della letteratura italiana sono molte di più di quelle che si vuol far rientrare in qualche etichetta. Non c’è nulla, nel numero di “Riga”, che autorizzi esplicitamente questa interpretazione, in linea con la scelta di “inattualità” e di circumnavigazione della rivista. Ma continui, invece, sono i rimandi che è possibile cogliere, a partire dalla fondamentale estraneità di Celati (e anche di Delfini, Cavazzoni, Cornia, Arminio ecc.) alle corde dell’epica, che sono invece per i Wu Ming il tratto distintivo della nebulosa della nuova narrativa italiana, di quel che di nuovo sta accadendo nelle patrie lettere. L’epica – nel senso proposto dai Wu Ming – non ha nulla a che vedere né con la declinazione brechtiana, né con la tradizione del realismo, cui pure è stata avvicinata, e verso cui Celati ha parole di fuoco (“la livida ideologia del realismo” consistendo nello “sbattere in faccia agli altri la mortalità e il disagio come una colpa del mondo”, “per non farsi carico della propria caducità”). Tuttavia sicuramente indica, stando a quanto dicono i Wu Ming nel loro documento, una strada che passa attraverso imprese storiche o mitiche sia pure rivisitate in chiave ucronica, metaforica o addirittura proiettate in un futuro fantascientifico. L’ispirazione epica produce narrazioni “grandi, ambiziose”, a lunga gittata e ampio respiro, innanzitutto perché “epiche” sono le dimensioni dei problemi con cui si confronta. Celati, dal canto suo, è sempre alla ricerca di ciò che non è epico, dei piccoli coefficienti di scarto dalla norma, di ciò che si riterrebbe indegno di essere narrato, di ciò che è sempre stato lì ed è sfuggito a tutti, dei piccoli cambiamenti che non sono nemici, come voleva Brecht, dei grandi cambiamenti, ma ne costituiscono l’anima. Le storie che Celati annota e racconta sono il cuore della storia, quella con la “s” maiuscola.
Allora a questo numero di “Riga” va riconosciuto un grande merito (tanto più grande se involontario), quello di averci ricordato che la strada epica non è l’unica che conduce a una concezione etica del narrare, alla partecipazione civile, al senso di responsabilità degli scrittori. Celati è uno scrittore profondamente etico, ma non è epico. In un certo senso anche la sua scrittura è politica, fortemente politica (si vedano le sottolineature e le implicazioni del suo discorso sul disagio, sul deragliamento, sullo straniamento). Se si vuole recuperare una nozione dell’impegno della letteratura fuori dagli equivoci dell’engagement e dai sensi di appartenenza politico-partitici, occorre avere questa larghezza di visione, quest’attenzione alla pluralità convergente di voci e tendenze diverse, diffidando di formule troppo perentorie e troppo sommarie. Come diceva ancora una volta Celati, quando provava a spiegare (su “il Manifesto” del 11/3/1989) il significato dei suoi narratori delle “riserve”, occorre ricercare quella “grazia insidiata dall’incertezza”, quella tristezza nutrita di allegria che deriva dall’avere una grande pianura davanti a sé e una riserva (di esperienze, di tradizioni, di affetti) alle spalle.