di Ennio Abate
[Lavoro da anni a un “Narratorio” in varie sezioni ( Barunisse, Salierne, MI, Samizdat Colognom, ecc.). Qui presento un estratto di “Unio” (i primi trentatre capitoletti) dove tento una rielaborazione narrativa del materiale onirico – perciò il sottotitolo “Psicoscrittoio”- emerso nei primi anni Novanta durante il periodo della mia analisi].
1.
Noi, amici miei, osserviamo dall’alto di un ponte lo scorrere delle disgrazie altrui. Guardare ci preserva – fino a quando? – dal provarle. Se fossimo appena più vicini a una di esse, smetteremmo di osservare. Giocoforza ci toccherebbe agire. Magari impauriti, vedremmo quelli sudare, altri bestemmiare, altri ancora piangere, urlare, vomitare. Ecco una jeep sbanda, rompe la staccionata e precipita nell’acqua. Sprofonda. Ora riemerge ed è trascinata al largo da una corrente impetuosa.
Noi gridiamo il nostro orrore per la sorte di quelli che vi sono intrappolati dentro. Forse ne abbiamo intravisto di sfuggita i volti poco fa, mentre il mezzo ci passava accanto. Qualcuno ha colto persino il sorriso di una donna. Ma che succede? A sorpresa la jeep s’arresta su uno spuntone di roccia, rovesciata, le ruote in su. All’interno qualcuno si muove. Esce un giovane. Non può essere che bello e robusto. Si muove tranquillo, come si fosse appena svegliato da un lungo sonno. Sembra ignaro di quanto è capitato, dei rischi che ha corso. Non aspetta neppure i soccorritori che già si stanno dirigendo verso di lui. Guardate. Si tuffa e nuota verso la sponda, mentre gli abitanti delle case prossime al fiume si affacciano incuriositi alle finestre. Distraiamoci un attimo. Nel cortile di una delle case che bella festa si svolge. Sarà per quel giovane che l’hanno preparata? E sui, al centro del cortile, troviamo Unio. Chi è? Ce ne vorrà per capirlo. Cominciate a studiarvelo. Vedete che proprio adesso, imitando divertito la posa di un lanciatore di peso, sta per scagliare in aria una statuetta di donna. Gliel’hanno regalata? Forse se l’era costruita lui stesso, amandola troppo? Era il suo idolo? La butterà via davvero? E proprio nel fiume, da cui è uscito a nuoto quel giovane?
2.
Siamo ora in un camerone disadorno. Ci sono pochi mobili e di poco valore, libri, abiti, scatoloni di cartone disposti alla rinfusa. Qui tutto sembra provvisorio e in disordine come dopo un frettoloso sgombero. Ma allora perché Unio se ne sta a guardare la televisione, mostrandosi tranquillo? Qualcuno dovrebbe ricordargli che lì ci sono i muri da imbiancare, i mobili da sistemare, gli oggetti da collocare. Qualcuno dovrebbe spegnergli il televisore, scuoterlo dall’apatia. Che non è calma. E ricordargli che quella non è una casa, ma una tana, dove, animale ferito, si è rifugiato. Come fa ad illudersi, a comportarsi come fosse già sfuggito alla caccia feroce della vita?
3.
Unio ha lasciato il camerone disadorno. Va in mezzo a una folla. Si confonde in essa e non lo vediamo più. Possiamo guardarci la folla però. Non è quella delle grandi città. Non brulica in un’ampia piazza. Scorre lenta, oscillante, lungo vicoli stretti. È una folla non più esistente. Di morti dunque. Cammina in una città meridionale. È quella dell’infanzia di Unio. Ve lo diciamo noi narratori che Unio sappiamo chi è. E vi preghiamo di non obiettare e interrompere per ora il racconto. È gente malvestita, come se ne trova pure oggi in tutti i paesi devastati dalle guerre. Qua e là vedete i segni lasciati dai bombardamenti: muri diroccati, interni di appartamenti squarciati e anneriti dal fumo. La folla, sì, è come in un film in bianco e nero. Si accalca, fa compere in negozietti alla buona, con ingressi così stretti che i corpulenti faticano a entrare. E, se piove – ma in questo momento non piove – è un parapiglia di ombrelli che si chiudono, s’aprono, s’inclinano, si scontrano o incastrano. Noi la vediamo dall’alto. Ci piace dire: come in un presepe. In un angolo un suonatore di flauto chiede l’elemosina, ma ha uno sguardo cattivo e testardo. Non vuole spartire il posto con altri. Teme chi potrebbe fargli concorrenza. E allontana con insulti due zampognari, i quali avanzavano fra la folla suonando e forse non volevano neppure fermarsi lì. Ora che è rimasto unico padrone del campo il flautista si rilassa e riprende a suonare. La folla sembra respirare per la sua musica e questa modularsi sul ritmo lento della folla. Ma a lui la cattiveria resta dentro lo stesso.
4.
Se Unio non sta più in una casa (perché ne è fuggito o è stato scacciato? Questo è problema da trattare a suo tempo…), ma in un camerone da sfrattati, come può ancora pretendere che una donna vada a dormire con lui? Noi vediamo che il suo camerone (il cuore, dicevano una volta) è disadorno, freddo e inabitabile, senza acqua, luce e gas. E poi – ci vuole poco a capirlo – è insicuro. Sentite anche voi che sibili preoccupanti provengono dalle condutture ancora scoperte e qua e là malamente cementate. Potrebbero di botto sprizzare dell’acqua da un tubo. O addirittura del gas. Quanti guai. Come succede a chi cade d’improvviso sui sentieri, le strade o le autostrade della vita, le complicazioni s’accavallano una all’altra e fiaccano la resistenza di chi dovrebbe sopportarle. Con animo indomito secondo gli idealisti. Unio poi pare non si sia ancora accorto che il muro di una parete – quella che separa il suo camerone da uno accanto del tutto simile, abitato da un ignoto vicino, anche lui disperato e alle prese con problemi simili ai suoi – sta cedendo e pare accartocciarsi in basso a causa dei lavori che un idraulico e un muratore vi stanno facendo. Glielo diciamo. Unio vorrebbe subito bussare ala porta del vicino e dirgli che quei lavori stanno danneggiando la parete divisoria con danno reciproco. Ma il suo vicino è assillato in continuazione da visite di parenti che discutono con lui e gli danno consigli gridandoglieli ad alta voce. Così Unio, sentendo tutto, capisce che l’altro sta ancora peggio di lui. E non se la sente per il momento di andare a protestare o semplicemente a parlare.
5.
E poi, sì, anche Unio è assediato. Non può fidarsi più della donna che fino a ieri l’altro era sua moglie. Né dei figli, che pur tentano di mostrarsi neutrali. Sì, hanno aiutato Unio a portare le sue poche cose nel camerone. Ma Unio teme che anch’essi, come la loro madre, avevano voluto liberarsi di lui. Perché i padri, si sa, sono un ostacolo alla libertà. E adesso, pur mentre l’aiutano, egli sospetta che stiano rovistando nei suoi cassetti, dove ha sistemato gli indumenti di una donna che, malgrado lo stato penoso del camerone, ha accettato di dormire di tanto in tanto con lui. Sappiamo che quella di Unio non è una casa. È a pianoterra. Ha una finestra su una stradina di passaggio. E tutti, o almeno i più curiosi, possono gettarci un’occhiata dentro e magari anche entrarci da quella finestra in un suo momento di assenza o di distrazione. Unio non è padrone in casa sua. Come disse Quello. In questo momento, infatti, vediamo che si presentano davanti a Unio degli estranei. Uno è un muratore. L’altro è un idraulico. Gli stessi che stanno sistemando il camerone del suo disgraziato vicino. Gli chiedono, senza preamboli anzi con arroganza, se ha bisogno anche lui di riparare «la casa». La chiamano così. E ci sarebbe già da insospettirsi. Come hanno saputo così tempestivamente del suo arrivo lì? Unio pensa subito che il muratore sia un pregiudicato. E l’altro, l’idraulico, mentre finge di esaminare le tubature scoperte o sposta il telone di plastica che sostituisce le imposte mancanti della finestra, vuole dargli ad intendere che «la casa» non potrà mai davvero essere riparata. Forse vuole alzare il prezzo profittando della sua difficile situazione. Forse vuole soltanto umiliarlo e godere della sua disperazione. Allora Unio accetta la sfida. Va in mezzo al cortile. Sente addosso lo sguardo dei due e quelli solo in apparenza curiosi ma in fondo indifferenti di quanti da tempo abitano lì. Sono quasi tutti vecchi. Lo stanno osservano. Come inebetiti. Alcuni nascosti dietro le finestre dei loro appartamenti ben riscaldati e arredati. Forse scommettono in cuor loro: se la caverà o non ce la farà. Unio per loro è solo un intruso. Sanno cose vaghe su di lui. Se le sussurrano di nascosto e a bassa voce. Allora Unio va proprio al centro del cortile. E si mette a gridare:«Sì, sì, mi chiamano Unio… e lo sono davvero».
6.
Unio sta di fronte a un vecchio rugoso. Sembra Freud, quello dipinto da Ben Shan. È seduto su un divano. Attorno gente, in apparenza sprovveduta, che sembra lì per ascoltarlo. Chi ha fatto venire questo simil-Freud nel camerone di Unio? E perché Unio sembra tanto desideroso di presentargli i suoi pensieri? Toh, tra i presenti ci sono sua figlia e anche la sua ex moglie. E la figlia sta già anticipando al simil-Freud la dolorosa vicenda della famiglia che s’è improvvisamente scassata. Ma che ne sa lei così giovane? Unio le impone di tacere. Sembra ancora così invaghito della ex moglie che vorrebbe fosse lei a raccontare per prima i fatti. Interverrà lui subito dopo per correggerla o smascherarla o accusarla di essere lei l’unica colpevole dello sfascio? Come se il simil-Freud fosse un giudice?
7.
Il mare Unio lo vide la prima volta ragazzo dopo la guerra: vasto, luccicante, mosso. Impauriva e attraeva. Proprio come poi le folle tumultuose – ad esempio degli studenti e degli operai del ’68-’69 – che ora vediamo solo nei filmati di storia agitarsi, ombre frenetiche ed evanescenti, come decise esse stesse a scomparire in fretta. Ecco i poliziotti che s’affannano numerosi a regolare l’afflusso di questa folla che incalza. Sono studenti. Si dirigono verso un grande spiazzo che s’affaccia sul mare per ascoltare il comizio dell’Autonomo tornato dall’esilio. Vengono intonate nuovamente le canzoni del ’68. Unio è in mezzo ai manifestanti. Come allora. Ma si distrae, è a disagio. Quelle canzoni echeggiano per lui amare e lontane. Lo attira invece un tizio altissimo che si muove piano sui trampoli in mezzo alla folla. Noi sappiamo che è il Filosofo. Da lassù mormora giudizi scettici. Sì, siamo in tanti come nel ‘68 – argomenta – ma oggi in mezzo a noi quelli che nel ’68 erano nostri avversari sono i più numerosi. Nessuno però gli dà retta. Solo Unio prende ancora sul serio quei suoi ragionamenti fuori tempo. E nella folla tenta persino di distinguere chi potrebbe essere l’amico e chi il nemico. Ma la folla, impermeabile ai discorsi del Filosofo, è per lui indecifrabile. È folla e basta.
8.
Come dopo un lungo viaggio. Unio si ritrova solo e stanco sulla piazza di una stazione. È notte. A cinquanta metri da lui un guardiano chiude i cancelli di una fabbrica. A passo deciso gruppi di operai si affrettano verso i pullman o le auto che li riporteranno a casa. Hanno finito il loro turno di lavoro. (Ma è notte fonda, e ci sono turni di lavoro che finiscono a notte fonda?). Unio s’incammina lui pure. Noi sappiamo però che non sa più dove andare. Eccolo dirigersi, rischiando, verso un ponte senza parapetto. Ma una donna ignota lo avvicina. Gli vuole svelare un segreto. Gli dice: – Ti confiderò una notizia-bomba che apparirà all’alba sui giornali. Non si fida Unio. Lei però con naturalezza lo prende sottobraccio e l’invita a passeggiare insieme. Non capiamo bene, ma lo sta facendo tornare indietro verso la stazione. E Unio ci sta. Quando la donna lo mette al corrente del segreto: hanno catturato due terroristi e uno si chiamerebbe Piccini, Unio non resiste. D’istinto la corregge. Si tratta di Piccinini – le dice – Era un mio compagno di scuola. E chiede ansioso alla donna chi sia l’altro terrorista. La donna però non risponde. Vediamo allora Unio perdere la calma. Noi non ci meravigliamo. La mezza notizia fornitale dalla donna non è per lui inattesa ed egli le ha pure svelato di avere a che fare con persone considerate pubblicamente pericolose. Unio sospetta che sia lei stessa una terrorista o il secondo terrorista. Oppure che sia pedinata dalla polizia. O che voglia addirittura farsi catturare assieme a lui per comprometterlo. Lo vediamo che si altera. Le grida: Tu vuoi incastrarmi! È pronto a colpirla.
(Di questo incontro notturno abbiamo un’altra versione. Quella della donna. Lei sostiene che, sì, Unio era stanco alla fine di un lungo viaggio. Ma lui insisteva a dire, sbagliando, di averlo compiuto tutto da solo. No – dice – gli sono stata accanto per tutto il tempo. Solo che lui è sempre troppo preso da altri pensieri e non s’accorge quasi mai di me. Ora che finalmente il viaggio s’era interrotto e Unio s’era accorto di non avere più una meta, lei ha cercato di parlargli. Con la speranza di essere finalmente ascoltata. Ma lui proprio non s’è fidato di lei. Perché è donna? Perché come tutti è stato ferito da altre donne? Perché non capisce più il mondo che muta e non sa mutare con esso? Per questo ha subito pensato che lei volesse metterlo al corrente di chissà quali cose segrete e pericolose per lui o per quelli che lui conosce. E l’ha trattata da fuorilegge, da terrorista, seducente ma minacciosa. Perché Unio, come tutti, ha del fuorilegge e del terrorista. Ma noi – narratori che sanno più di voi, ma non tutto – non capiamo lo stesso cosa questa donna voglia da Unio. E poi cosa vuole lo stesso Unio?).
9.
Nel paesaggio urbano di SA sfatto dalle bombe – luoghi della precarietà e dell’allarme – un muro coperto di glicini violetti che abbaglia. Unio avanza su un muretto che spunta in mezzo alle macerie del dopoguerra. È Unio bambino o adulto? Ha le timidezze di allora o di adesso? O entrambe? Certo, cammina lento e impacciato, come attirato dal vuoto in basso. E s’accorge di avere addosso solo una maglia di lana grezza e d’essere nudo dal ventre ai piedi. Come i bambini poveri dei vicoli o di campagna che si vedevano in giro in quei tempi di sconfitta e miseria. Un po’ più indietro rispetto a lui, sullo stesso muretto, procedono vispe una donna e delle bambine. Ma ora che fa? Si blocca. All’improvviso, mentre incerto guardava davanti a sé, s’è accorto di quanto le sue gambe magre siano bianche, quasi cadaveriche. La donna e le bambine che lo raggiungono non paiono scandalizzarsi per la sua seminudità né colgono quell’attimo d’angoscia. Sembrano piuttosto meravigliate e un po’ divertite per la sua difficoltà di andare avanti sul muretto. Che poi sarebbe la vita, quella che ci tocca. E va presa com’è, insomma. Per la donna e le bimbe è naturale muoversi nelle sue ristrettezze. E sanno essere indulgenti anche verso uno impacciato come Unio. Si guardano negli occhi e pare dicano: Su, incitiamolo noi! Rivestiamolo noi con la fiducia che gli manca. Non facciamolo sentire così nudo, sciocco e inerme. Ma la faccenda non è tanto semplice. Noi notiamo, infatti, che proprio la donna è di nuovo svanita. E Unio si ritrova attorniato soltanto da bambine e bambini come lui. Sì, non sembrano cattivi. Ma un po’ troppo incuriositi di quelle parti basse del suo corpo seminudo. Alcuni di loro cominciano a dire che i corpi sotto i vestiti sono piatti e non voluminosi. Sì, perché loro li dipingono così. Come i pittori primitivi, aggiungiamo noi. Ed ora, invece, scoprono che quello di Unio è magro ma ha un volume. E poi – risatine – indicano la parte molliccia in mezzo alle cosce di cui hanno sentito dire – aggiungono con malizia – cose stupefacenti o orride. Che emozionano soprattutto gli adulti. Qualcuno più navigato dice che loro questo tipo di emozioni insolite le conoscono già. E poi si possono vedere a cinema avvolti nel buio.
10.
Tanto per intenderci, ecco qua una scena anche per voi. Una bellissima diva dal corpo pieno è immersa nell’acqua insaponata di una elegante vasca ovale. Un giovane le si avvicina e si piega voglioso verso di lei. Che si volta languida e si fa mordere dolcemente sulla spalla nuda. Anzi vuole che lui la tocchi. E Unio, che noi abbiamo rivestito e fatto diventare giovane per strapparlo all’imbarazzante scoperta della propria seminudità e all’angoscia di morte che la sue gambe bianche gli procurano, si tira su la manica della camicia, prima di immergere la mano e l’avambraccio nell’acqua e cominciare a toccarla. Tutto sembra lusso calma e voluttà come nel quadro di Matisse o nei film americani.
11.
Ripeschiamo ora Unio in un’aula di scuola. Sulla cattedra sono sparpagliati parecchi libri . Gli studenti si avvicinano a turno e ne scelgono uno da prendere in prestito. Sono ansiosi. Per loro scegliere un libro da portare a casa è come, affamati, vedersi offrire del cibo speciale esposto su un tavolo da pranzo. E poco importa se poi – questo lo strano compito imposto da chissà chi – dovranno svolgere nientemeno una tesi di laurea sul libro scelto. Eh, sì, siamo in una scuola che mescola sadicamente insieme piaceri e doveri! Un assistente del professore – non si conosce per ora chi sia – annota meticoloso le scelte. L’amico più caro di Unio, quello che ha il padre magistrato, prende un libro intitolato Uomini famosi. Quando viene il suo turno, Unio sceglie i romanzi di Svevo. Ma proprio in quel momento entra il professore. È un vecchietto con la barba bianca e gli occhiali neri. Somiglia al solito Freud (già apparso al capitoletto 6). E ha subito da ridire sulla scelta di Unio. Svevo è un autore estraneo alla sua disciplina. Quale? Pur somigliando a Freud, il professore s’occupa di storia. Di conseguenza Unio la tesi su Svevo non può darla con lui. Dovrà rivolgersi ad altri. Unio però insiste. Vuole a tutti i costi preparare e discutere la sua tesi proprio con lui, con il simil-Freud. Che gli ispira – così dice – fiducia. E suggerisce lui stesso una possibile scappatoia: potrebbe ad esempio trattare i romanzi di Svevo inserendoli all’interno della storia delle idee. Che fa il professore secondo voi? Le discipline hanno i loro statuti. A mescolarle si crea disordine. E dal disordine possono venir fuori mostri. Ma Unio si sente espulso dalla storia e dalla politica e si ritrova (Cfr. capitoletto 8) incerto su quasi tutto. S’inoltrerà su terreni ignoti, dove intravvede a stento alcuni sentieri tracciati? Prenderà qualche cantonata o, come si dice, si romperà la testa? Si arrangerà da solo? Troverà qualche aiutante?
12.
Ora osserviamo Unio proprio mentre, come tanti suoi coetanei risvegliati dal ’68, segue un congresso politico della Compagnia, in cui è entrato volenteroso apprendista politico. S’è forzato non poco. Ha messo da parte molti libri di religione, letteratura, poesia e arte che gli occupavano la mente. E vuole crescere – la maturità è tutto, come diceva il Piemontese del mestiere di vivere – occupandosi di politica. Con l’ansia, sospetta per noi che lo conosciamo, di chi sente di aver perso tempo o addirittura di essere corso dietro favole popolari. È l’ora del materialismo scientifico. Tenete presente che fino ad allora aveva sempre guardato le faccende politiche con disinteresse. O con la coda dell’occhio, quasi pezzo di un paesaggio in ombra. Non diciamo che le ombre non vanno a un certo punto diradate. Per quel che è possibile. Ma che fa in fondo la Compagnia in cui è entrato? Dopo la sfuriata in cui tutti hanno parlato di rivoluzione, s’è organizzata per imporre all’attenzione degli elettori tre sui dirigenti abbastanza in vista. Tutto qua. C’è da entusiasmarsi? Qualcuno già li chiama le tre volpi. Sono lì. Si aggirano solenni e seri nel salone fra i partecipanti al congresso. Chi si pavoneggia di più è il primo delle tre volpi. Ha sul capo un cappuccio medioevale, come quelli che usano a Granada durante la processione della settimana santa. Sopra sta scritto: io sono il capo. Poi si fanno notare anche altri dirigenti. Sono quelli fuori dal giro delle tre volpi. Sulla fronte portano scritto: io desidero essere il capo. E attorno a loro tanti giovani che discutono in modo accanito ma superficiale. Un’accolita di ambiziosi e confusionari, pensa deluso Unio. Vorrebbe rimproverarli. E sa che dovrebbe rimproverare anche se stesso. Ma ora sul palco è salito un dirigente di secondo piano, un bonaccione accomodante e cauto. Presiederà il congresso. Ma subito è in difficoltà. Deve difendersi da un’accusa infamante: si sarebbe appropriato del denaro della Compagnia. Tutti sanno che è una falsità. Ma a muovere l’accusa contro di lui, sono dirigenti ben più potenti di lui, coalizzatisi per liquidarlo. E nessuno nella Compagnia osa fiatare. Unio vorrebbe gridare: Perché vi mettete tanto facilmente dalla parte delle tre volpi, che è dopotutto solo una fazione della Compagnia e nemmeno ascoltate più le ragioni degli oppositori? Ma è troppo tardi. I giochi sono stati fatti. E lui con la sua preparazione da apprendista in quelle liti non conta proprio nulla.
13.
Torniamo a scuola. Anzi è Unio che torna al liceo frequentato da giovane. Accompagna suo padre nella sala dove, quando era studente, i professori ricevevano i genitori. La trova più solenne di allora. Sembra un teatro greco. Ci sono capannelli di persone attorno a qualche professore. Unio ne saluta con familiarità uno che conosce. Lui e suo padre sono in ritardo. Ma il padre continua a camminare piano. E Unio è costretto ogni poco a girarsi indietro e a fermarsi per aspettarlo. Avanza sempre più silenzioso e impacciato. E, quando raggiunge Unio, mostra il volto di un paesano intimidito da un mondo che teme e non conosce. Ora è Unio che si deve imporre di essere il padre di suo padre. E quasi lo rimprovera, come se quello fosse un ragazzino. Avanzano ancora una decina di passi. Ma in un punto, dove Unio sa che ci vuole una certa cautela nel muoversi, suo padre mette un piede proprio dove non doveva. Sconsolato lo vede che tenta di ripulirsi alla meglio la scarpa sporca di merda. Ma cosa ci fa una merda nei corridoi di un liceo?
14.
Preparativi per un matrimonio all’aria aperta. Come si fosse a teatro. Una piccola folla s’accalca. Ci sono microfoni e cineprese. Sul palco drappeggiato, però, l’assessore (o il prete?) che dovrebbe celebrarlo svanisce. Proprio mentre arrivano gli sposi. Gli sposi? Lei neppure la vediamo. E il giovanotto, che passa per lo sposo, dimostra una fretta sospetta. Improvvisa un discorsetto evasivo. Si capisce che la cerimonia l’infastidisce. Che non vede l’ora di restare solo con la sposa. Ma lei dov’è? Chi è? Unio assiste indifferente alla sceneggiata. Eppure sappiamo che si tratta del suo matrimonio con R. La sposa assente, chiamiamola così.
15.
Adesso a Unio s’accosta un pittore. Pare sia un comunista. È vecchio, magro e tanto indebolito da non reggersi quasi in piedi. Prega Unio – ridacchiate pure – di chiamargli una onorevole democristiana. Sì, proprio quella donna bassa e tarchiata che sta entrando nella hall di un albergo. Lì di fronte, a una trentina di metri, vedete! Unio – incerto, malvolentieri, senza chiedersi perché – corre ad avvertirla. Quando però entra nel salone e i suoi occhi rintracciano di nuovo la sagoma indicatagli (sta per salire in ascensore), scopre che è un uomo. È sconcertato. Il pittore ha detto proprio: «una onorevole democristiana». Ma la persona che Unio ha raggiunto non ha l’aspetto di una donna e tantomeno di una onorevole. Eppure aveva visto entrare proprio una donna. Non poteva confondersi. Era l’unica persona che dalla strada si dirigeva all’albergo. Non si rassegna. Lo vediamo che chiede a chi sta nella hall – tutti uomini di varia età, tra l’altro – se hanno visto una signora entrata un attimo fa. No, nessuno l’ha vista. Una onorevole poi non passerebbe inosservata. Le signore sfuggono sempre a Unio! Sospetta che il vecchio pittore abbia voluto segnalargli qualcosa che lui non afferra. Ma cosa? Non ha tempo per pensarci. Escono dagli ascensori intere famiglie. Unio si distrae. E aumenta il suo smarrimento. Altro che studenti, operai, immigrati delle periferie, comunisti, ai quali si era mescolato nelle manifestazioni del ‘68. Vede solo nuovi ricchi lì. Gente che esibisce sorrisi, abiti di lusso, gioielli. E volti di maschere tracotanti e soddisfatte.
16.
E qui compare la gatta. Diciamo per caso. Unio sta viaggiando con lei su un treno. È davvero sua quella gatta? È tenuto a nutrirla, ad accudirla? Ad evitarle, magari, che si metta nei guai? Perché è lei a cercarli i guai, secondo Unio. Che, in continuo allarme, ne spia le mosse. È così che l’ama? E lei lo ama? A una piccola stazione, in aperta campagna, il treno si ferma. Unio non ce la fa più, scende dal treno e permette anche alla gatta di scendere. Quella, appena tocca terra, senza un motivo, si allontana rapida in mezzo ai campi e non la si vede più. Perché le gatte non giustificano il loro comportamento. E ora ti fanno le fusa, un attimo dopo, non si sa quale istinto le guidi, vanno. Come seguendo misteriosi odori e tornando selvatiche. Il treno riparte lo stesso. Unio è in pena. Teme di non farcela a proseguire il viaggio privo di lei. Vorrebbe tornare indietro a cercarla, a riprendersela. Ma sa pure quant’è infida. Sa che potrebbe accusarlo persino d’essere stata abbandonata da lui. Quasi se ne convince, sì, che è stato lui a lasciarla.
17.
Questa è un’altra scena d’impaccio. Potremmo saltarla o tenerla buona per dopo. Stavolta però riguarda Unio e non suo padre (capitoletto 13). È lui che, quando sta per entrare – nuovamente, direte! – in una scuola, s’accorge di avere le stringhe delle scarpe slacciate. S’accoscia per rifare i nodi, ma nota sulle scarpe un liquido nero, che ha bagnato pure i calzini. Sembra catrame o inchiostro. Può presentarsi a scuola così combinato? Noi andiamo subito al sodo e ci chiediamo perché Unio – bambino o adulto poco importa – ha sempre qualcosa fuori posto. Da riparare, quando gli riesce. In casi estremi, da nascondere. Ma vi diciamo di più: l’impaccio del figlio ricorda quello del padre. Non riuscite più ad immaginare quanto sia costato a gente come questa mettere piede in una scuola? Un po’ di storia, diamine! Di Unio furono tutti contadini gli antenati, da parte di padre. E artigiani, da parte della madre. Gente che a scuola non s’era neppure affacciata. O, come i suoi genitori, era rotolata sui primi gradini delle elementari. Come volete che si trovi a suo agio in una scuola questo loro discendente, al quale, quando parla coi figli dei signori o i professori, il dialetto gli si slaccia d’improvviso e sporca l’italiano scolastico così ben lucidato?
18.
No, adesso non attaccheremo con un piagnisteo sulla vita dura dei nati nelle classi basse. Né vogliamo farvi commuovere al suono dei tasti cupi che Unio schiaccia persino quando se ne va per sogni. Però, vedete, a sorpresa le batoste – piccole, medie, grandi – gli arrivano. E più frequenti che nelle vostre vite. Forse. Un esempio? Unio è seduto al tavolo di un ristorante. È assieme alla sua famiglia appena scombinatasi. Che lui – fedele eh! – continua a portarsela dietro. Sembra persino contento. Perché gli siede accanto lo Scriba. (Vi diremo di costui più avanti). Che ha accettato di pranzare con tutti loro. Un grande onore per Unio. Dura un lampo, però. Noi già sappiamo che adesso s’allontanerà. E senza dargli una spiegazione (o una consolazione?). Unio ha capito che lo Scriba non ci tiene più di tanto a stare con lui. E – figuriamoci! – con la sua ex famiglia. Ma perché nasconde il dispiacere e con zelo eccessivo si premura di conservargli libera la sedia, nel caso tornasse?
19.
Da queste parti (sul lungomare) abita la Folle. Quella è andata fino in Grecia per vendicarsi del suo ex fidanzato, studente in Italia, che, tornato in patria durante una vacanza, s’era sposato con un’altra. Senza neppure annunciarglielo. La Folle abbandonata, ha sofferto, dunque. All’incirca come Unio. Al quale ha confidato le cose pazzesche che ha combinato lì, ad Atene. Individuata la casa del suo ex, per smascherarlo e vendicarsi e dar sfogo al suo dolore, ha cominciato a chiamarlo al citofono di giorno e di notte. Con interventi burocratici, un po’ divertiti e un po’ pesantucci verso la straniera uscita dai gangheri, di poliziotti, interpreti e commissari greci. Tutti complici, pare, del fedifrago connazionale. Unio è attratto da lei, bella e feroce. E magari anche dalle sue follie. Vuole telefonarle. Starsene un po’ con lei. Distrarla da quel passato. Ricominciare a toccare una donna. Ma il filo della cornetta è spezzato. Forse un avvertimento a non cercarla? A non aggiungere i veleni di lei al veleno che già gli circola dentro di suo? Eppure la vita, pur avvelenata, continua. La gente non fa che telefonare. Follemente. Illegalmente. Corre dei rischi, si sa. Toh, vedi quei due che congiungono fili spezzati, pur di sentire almeno la voce delle persone amate o perse. Potrebbero ricevere una scossa mortale mentre lo fanno. Unio non se la sente di imitarli. Va in un negozio, dove ha visto un telefono di quelli regolari. Chiede al padrone se può usarlo. Quello glielo permette. Ma gli impone di essere breve. E soprattutto di non far trasparire dalla voce il suo desiderio per la Folle. La sua ex moglie e la figlia – dice – non devono sapere.
20.
Eppure R, la sua ex moglie, non sembra interessarsi più a Unio. Attorniata da conoscenti, ha esposto su un tavolo i dolciumi che le sue amiche femministe le hanno mandato. Per congratularsi con lei. Quanto è stata coraggiosa a lasciare Unio e ad unirsi, senza più falsi compromessi, alla Compagnia Femminista! Lei sorride compiaciuta. E si permette persino di regalare un dolce incartato a Unio. Come fosse anche lui lì per festeggiare la nuova libertà di lei. E Unio l’accetta. Pensa ancora, chissà, a un riavvicinamento. Noi non possiamo avvertirlo. S’accorgerà presto del suo sbaglio. Ed infatti, scartato il pasticcino, Unio se lo trova tutto sbriciolato. Una vecchia golosa, che gli sta accanto, chiede subito se può mangiarlo lei. Ah, sì, sì. Unio glielo offre senza esitare. E torna alla sua solitudine.
21.
Una donna, la Flautista, sale una scalinata precedendo Unio. Vuole portarlo nella sua casa. Ma d’improvviso lui smette di seguirla. Non vuole. La sfugge. Va dalla parte opposta. Ad arrampicarsi su una grossa catasta di libri, ammucchiati alla rinfusa come fossero precipitati dagli scaffali di numerose biblioteche. Per arrivare dove? I libri non reggono il peso di un uomo in crisi. Né sostituiscono una scalinata ben costruita. Infatti Unio che, salendovi sopra, sembra giunto a un buon punto, casca giù. Lo vediamo afferrarsi a qualcosa di saldo. Appena in tempo. Ora però quel suo corpo – hanno un peso i corpi, eh! – penzola nel vuoto. Oscilla come batacchio di campana. Fin quando Unio s’accorge che coi piedi sfiora ancora lei, la Flautista. Che – oh musica di un altro corpo vivo! – sta, paziente, sotto di lui. Ed è pronta ad afferrarlo fra le braccia. Se si abbandonasse. Se smettesse di oscillare. Se si fidasse di lei. Le forze di Unio stanno venendo meno. Fra poco perderà la presa. Precipiterà ancora addosso a una donna col rischio di farsi male in due? O tenterà un nuovo salto lontano da quelle braccia? Per spezzarsi? O, cadendo in piedi, continuare da solo? (Cfr. capitoletto 8).
22.
Eccolo su una strada di campagna che porta a un cimitero di paese. È solitaria, ombreggiata da pioppi. Un luogo che ben prepara alla meditazione sulle tombe e la morte. Ma lo è anche per intendere meglio quel suo sentimento di uomo abbandonato da una donna? Unio ci prova. Lui non è tipo da piangere su una strada qualunque. Vuole proprio quella. Che è la strada tante volte fatta da bambino assieme a sua madre. E nel paese dove è nato. Il dolore scava dentro, si dice. E prima o poi il buco che produce porta alle origini, no? Del bene, del male, del nulla? Chi lo sa più. Si dice. I pratici giudicano ozioso o vano cercarle. Come vedete, comunque, sulla strada vengono incontro a Unio due figure. Con le sue origini hanno a che fare. Quella è una donna non giovanissima vestita di nero. E, trotterellante accanto a lei, un bambino che le dà la mano. Vi avvisiamo: lei è la madre di Unio. In abito nero, da lutto. Sembra una monaca. Il bimbo, se ne osservate i tratti fisici, è tale e quale il ragazzino magro appena uscito dalla guerra (capitoletto 9). Vi pare che guardino Unio? Evidentemente non sembrano neppure notarlo. Come si fa dal passato a vedere il presente o il futuro? Né accorgersi che sta piangendo. Ma a Unio – presente e piangente – piace immaginare – è ancora permesso, almeno in sogno – che quel suo mondo/ricordo – infantile, originario e immutabile e che resiste in un suo tempo interno – non solo contenga, ma conosca in qualche modo le ragioni del suo dolore d’oggi. Che sua madre, che fu, che il bimbo, che lui fu, ma persino la piccola folla di paesani – quelli, anch’essi quasi tutti in abiti scuri e luttuosi, che ora stanno per entrare nel cimitero per poi sparpagliarsi tra i vialetti e i cipressi in cerca delle tombe dei parenti morti – intendano il suo dolore cocente. E – oh pietà antica! – lo mettano – fiore di recente reciso e aggiunto a un mazzo – assieme a quello che ancora provano o tentano di provare – i cimiteri a che servono? – per i defunti. Questa – di un dolore che fa comunella tra passato e presente e tra Unio e la gente che incontrò da ragazzo – che è, sì, una consolazione!
23.
Unio è molto stanco. Di nuovo. Ogni stanchezza è vita raggrumata. Vita che egli non capisce più, ma che deve trascinarsi dietro. Sperando un giorno, chissà, che si svelerà e alleggerirà. Suo figlio, che è un giovane adesso, lo accompagna a letto. Lo sente indebolito. Lo protegge. Unio dorme. Al risveglio s’accorge che, accanto al suo, c’è un altro letto. Capisce. In quella stanza ha dormito anche la sua ex moglie. Se la porta – vita raggrumata! – ancora appresso. Anche dopo che si sono separati. Se la porta – donna pur ridotta a manichino – sottobraccio. Come nel disegno a carboncino da lui fatto in quei giorni. Ancora coppia, sì. Per modo dire. Un uomo che avanza rapido tenendo sotto braccio la sagoma di traverso e un po’ sghemba di una donna. Vi ricordate la foto di Giacometti che avanza lesto con una delle sue sculture filiformi? Neppure il tempo di pensarci su e bussano alla porta. Sono i vicini. Odiosi. Così rumorosi, bassi di statura, scuri di pelle. Quasi dei nani. E uno di loro – il più brutto e sporco, la pelle incartapecorita da vecchio – che fa? Si mette a indagare come un poliziotto. Come mai in quella stanza ci sono due letti matrimoniali? Convivevano forse lì due coppie? Gli risponde R, la ex moglie, comparsa come d’incanto. Per lei la cosa è risaputa e naturale. Cosa c’è di strano? – aggiunge con candore d’antica sapienza. Ma Unio non ci sta e s’incazza. Per lui le cose stanno diversamente. Quei due letti matrimoniali in una stessa stanza permettevano delle “porcherie”. Non chiarisce quali. Ma prendete nota di questa reazione. E’ quella di un contendente. Parla come volesse compiacere quei suoi rozzi vicini. Come volesse farsi spalleggiare da loro. O farne dei giudici addirittura. (Cfr. anche capitoletto 6).
24.
Unio va a un congresso della Compagnia. S’aggira in quella folla solo per cercare Michele, il dirigente buono, meridionale come lui, un siciliano. Non c’è. Allora prova a cercarlo nella trattoria dove, ai vecchi tempi, quando le riunioni si prolungavano, tutti andavano a mangiare un panino o un piatto veloce. Qui compagni che si salutano, si scambiano battute, si baciano sulle guance con la compagna appena riconosciuta. Come allora. Lì Michele dev’esserci per forza. C’è. Unio lo capisce appena adocchia un tizio che, pur voltandogli le spalle, ha la corporatura massiccia di Michele. Sta discutendo seduto a un tavolo con altri. Unio s’avvicina, lo saluta, si siede con loro. Si stanno ripetendo che l’Organizzazione, invece di consolidarsi in vero partito, va sfaldandosi in fazioni contrapposte. Michele è di quella più moderata e conciliante. Ma è ormai lo stesso una fazione, vorrebbe dirgli Unio. Da tempo aveva temuto lo sfascio. Tace però. Michele gli resta simpatico. Ha qualcosa di diverso dai dirigenti di spicco (Cfr. capitoletto 12). E’ una volpe meno volpe? Come quelle del Sud? Come Unio? O un animale politico non solo volpe? Nella trattoria c’è animazione. Quasi allegria. Ma ad un tratto Unio sussulta e si fa vigile. Nel tavolo accanto qualcuno riferisce di una nuova bega scoppiata nella Compagnia. Un vecchio compagno se l’è presa coi dirigenti, che una volta l’avevano accusato per la “faccenda di Trieste” e ora, invece, fanno a gara per dimostrarsi a favore delle “nazionalità” e delle “piccole patrie”.
25.
Dalla finestra del Palazzo del Presente. Unio guarda dentro la finestra di una palazzina dirimpetto. È quella del Passato. Lì ha vissuto da ragazzo. E cosa vede nella stanza? Ancora una donna in compagnia di un bimbo. La donna sta costruendo una scultura/maschera di cartapesta che ha le fattezze del bambino. E ce lo mette dentro. E’ una maschera enorme. Unio osserva meglio. Vuole capire quali siano le dimensioni reali del bambino che sta lì, sotto il mascherone. Di questo vede il testone. Spunta ben alto dal davanzale. Unio si ripete tra sé: No, a quell’altezza, no! La testa reale del bambino non può arrivarci. Deve trovarsi più in basso. E’ sgomento. Fatica a dirselo, ma sospetta che quella donna sia sua madre e che lui sia quel bambino.
26.
Unio è tornato nella città da cui andò via da giovane. Sale la vecchia scalinata tante volte percorsa: quella dietro al Duomo. È piena di luce mediterranea e tra due muri altissimi e bianchi. Vede quello che vorrebbe vedere: due donne giovani. Una sembra la sua prima fidanzata. Tutta una storia d’incertezze giovanili. L’altra è l’amica di scuola e di palazzo di lei. L’accompagna per un tratto di strada e agevola così i loro incontri furtivi. Sempre. Mai ringraziata. Mai un colloquio con lei. Un’ombra silenziosa. Invece non sono loro. Non ricompaiono più le figure che tanto lo emozionarono in anni e luoghi precisi. Quel tempo è finito. Altre figure poi. Altri amici, altre donne, altri luoghi, altri tempi si sono sovrapposti a quelli. Oscurandoli. Avanza. Spunta nella piazzetta del seminario. Là in quel luogo di ragazzi poveri, che spesso ci finivano dalle campagne per studiare, s’era fatto – se lo dice adesso – imprigionare anche lui. Per una settimana. Altro pezzo della sua storia anche questo. Altri desideri e incertezze di ragazzo. La chiesetta sull’angolo, quella che ha due scheletri scolpiti ai lati del portone è come rifatta. È di mattoni rossi adesso. Come i muri di certe fabbriche che si vedono solo al Nord. Avanza. Avanza nel cimitero dei suoi ricordi. Ora gira a destra. Lì c’è il negozietto da fruttivendola di Maria Salvato. È una popolana, amica di sua madre. Una zitella. Spesso viene a casa. Per fumare – in questa città, in questo tempo, è una delle poche donne che fumano – e confidarsi o consigliarsi con sua madre. Come deve comportarsi con l’uomo anziano che, dice, vuole proprio sposarla? È seduta fra le sue cassette di frutta e verdura. Occupano irregolarmente (ma non importa) anche il già stretto marciapiede. D’inverno e d’estate sta in quel suo spazio minimo. Nemmeno un metro quadro di profondità forse. Un vero loculo. Sul quale poi, quando il venduto della giornata le pare soddisfacente, sistemate le cassette impilate, tira giù la saracinesca, chiudendola in basso col lucchetto. È magrissima come molti nel dopoguerra, gli occhi socchiusi, come assopita. D’improvviso Unio s’accorge che il negozietto, come la chiesetta – quanti diminuitivi! -, è cambiato. È più ampio. E Maria non è più fruttivendola. Pare venda cibi cotti adesso. Da un pentolone tira fuori un brodo con un mestolo e glielo offre. Unio non si fida. Maria è povera e non si cura dell’igiene. Unio ha imparato da sua madre, che pure aiuta Maria e si mostra gentile con i poveri che incontra, a diffidarne un po’. In più non solo sospetta di lei, ma sente d’essere diventato quasi rapace e calcolatore nei suoi confronti. Maria, nel suo negozio rinnovato e ampliato, ha una cristalliera. E Unio dà un’occhiata sui suoi ripiani. Come per cercarvi qualcosa, pronto a rubarla, se ci fosse. Ora si sente superiore e più ostile a lei. Non è più il ragazzino pieno di stupori che s’incantava a guardare la frutta nelle cassette e ringraziava per qualche ciliegia o albicocca che lei gli donava. Né teme più le spiate che Maria può fare ai genitori. Perché il suo negozietto sta proprio lì di fronte al portone da dove esce la fidanzata di Unio e Maria sorniona lo vede aspettare nella piazzetta. Ora Unio le tace pure la sua sofferenza. Non si confida con lei. Non le dice di essere stato abbandonato dalla moglie. Sorvola con la scusa che non capirebbe. Che è una donna d’altri tempi. In realtà non vuole farle capire che ora si sente più in basso e più disperato di lei, di Maria. La zitella a caccia di una qualche sistemazione affettiva adesso è proprio lui. E, pur di nascondere il proprio disagio, finge d’interessarsi della vita di lei. Va ancora a messa tutte le domeniche? Doveva avere – così gli pare – un figlio, no? Come sta? E Maria si vendica. Gli costruisce una storia che Unio nemmeno se l’aspetta. Suo figlio, gli dice guardandolo negli occhi, era andato in un paese straniero. In Israele. S’era sposato e aveva ben cinque figlie femmine. Ed è – così gli dice – odiato in patria. Come mai? Perché è un violento, uno dei più accessi estremisti, uno del Likud. Unio è sconcertato. Quella che gli sta parlando – la figura da lui evocata – è Maria? Quel discorso non avrebbe potuto farlo sua madre su di lui, se la sua mente in vecchiaia, alcuni anni (quanti?) prima di morire, non si fosse annebbiata? I conti tornano. Unio non se n’è forse andato lontano? Non è diventato straniero per quelle donne rimaste a SA? E non è stato in uno dei gruppi politici estremisti? Per sua madre e Maria, cresciute sotto il fascismo, valevano poco le distinzioni più fini. Chiunque abbandonava il loro mondo popolare e cattolico era un violento, un fascista. A SA, in quella città del Sud, lo erano stati fascisti e in tanti, eccome. Quante caserme dell’esercito, della finanza, della polizia ci sono e spesso dirimpetto o accanto alle chiese? Quanti militari impettiti e alteri vanno in giro per le strade? Detto, fatto: Unio, sempre a passeggio per SA, vede un tizio in abiti militari. Guida un’auto degli anni ’50. È assieme a una donna. S’indispettisce per il gesto d’impazienza di un passante e non esita a scagliare la sua auto verso la folla sul marciapiedi. Pur di investire quel passante da cui s’è sentito offeso. Stop. Ora lo vediamo che estrae un coltello. Lo agita furioso in aria fuori dal finestrino. Parapiglia. La folla inviperita e minacciosa blocca l’auto, tira fuori il tizio e gli mette un cappio al collo. Lui furente si agita ancora. Un vecchietto (forse il passante che aveva fatto il gesto di stizza) ora vuole vendicarsi. Cercano di trattenerlo. Interviene un vigile.
27.
Unio è cresciuto qui. In mezzo alla povertà di tante Marie. (Quante donne hanno il nome della madonna!). E alla tracotanza di militari, avvocati, preti e professori. Dapprima la scambia per forza. Ma poi ci vede più chiaro: sono frutti caduti dall’albero e avviati a marcire. I maschi hanno ereditato tutti modi bruschi e aggressivi. Bestemmiano spesso. Dicono parole dure, cattive, esplosive. Usano un tono sarcastico, cinico e aggressivo. Specie quando si rivolgono a donne e bambini. Sorseggiano il fiele rancoroso della sconfitta fascista. Si adattano ai nuovi dominatori del momento, i democristiani. Unio assorbe l’ambigua complicità della madre con le povere Marie cattoliche e popolari. Ma, a volte, parlando con gli amici di questioni che non afferra bene e trovando chi gli s’oppone, anche la sua voce diventa quella «da stivali militari» di suo padre o dei professori più temuti e sbrigativi. Il suo corpo è però rimasto gracile (capitoletto 9). La voce che si fa imprestare da quelli suona perciò ridicola e sproporzionata. “Orlandino furioso” dice suo padre. Che, da militare, durante la guerra aveva visto in azione i veri Orlando furiosi, ma mai ne aveva voluto parlare.
28.
Unio sta in compagnia di giovinastri. Sghignazzano. Si picchiano in testa con lunghi bastoni. Forse delle stecche di biliardo. Pare un gioco. Non si sa chi ha cominciato. Unio partecipa al rito violento. Si sente del gruppo. Sopporta le bastonate. Qualcuna ne dà. Nessuno sembra farsi male. Ma il più debole c’è. Viene inseguito e le becca ora dagli altri coalizzatisi contro di lui. Un gioco simile si ripete anche all’uscita dal ginnasio. Si usano le cartelle per colpire gli avversari. Come i poliziotti usano i manganelli. E anche in quest’occasione viene fuori il più impacciato che ne prende di più. Che poi – Unio lo saprà molto più tardi – s’è arruolato nella polizia, ma dopo alcuni anni s’è ucciso.
29.
Unio si muove in un ambiente di cui non conosce le regole, segrete e poco comprensibili dai nuovi arrivati come lui. Che conosce e rispetta le regole che gli hanno insegnato a casa, a scuola, in parrocchia. Ma, se esce da quei luoghi familiari e protetti, è spiazzato e paralizzato. Lo vedete all’edicola di una stazione. Sta per comprare un giornale. Nel portamonete ha molti spiccioli. Li conta pignolo. Vorrebbe disfarsene. Ma le edicolanti – due donne – fingono meraviglia. Come ha fatto a procurarsi tutte quelle monetine? Non sa che, per averne tante e poterle spendere, si deve prima pagare una tangente alla Camorra? Unio per loro è un irregolare. Lo respingono. Si rifiutano di vendergli il giornale. E a rafforzare la loro azione ti spunta un cameriere. Che si mette a spazzare a terra con una scopa e guarda Unio. Sì, proprio lui. Ed avanza con aria minacciosa e di scherno. Pare dica: Ti spazzo via da questo mondo. Tu non sei dei nostri.
30.
Unio entra ancora una volta (col desiderio) nella casa dove aveva vissuto la sua vita matrimoniale con R. L’appartamento ora è arredato diversamente. Le pareti, invece di essere imbiancate e con qualche quadro appeso, sono ricoperte centimetro per centimetro di frutta fresca. C’è n’è una grande varietà. Pere, mele, uva sono disposte in bell’ordine e con gusto pittorico. Sì, è un arredo stravagante. Unio però non se ne scandalizza. Né s’arrabbia. Quella casa non è più sua. A questo s’è rassegnato. È delle due donne. Forse le stesse che, da edicolanti, gli avevano rifiutato il giornale (capitoletto 29)? Unio, malgrado la sofferenza per l’abbandono di R, si racconta che le donne hanno davvero gusti stravaganti. E cerca persino una ragione per l’insolito arredamento. Le donne, ipotizza, sono più brave degli uomini a fare le marmellate. E, dunque, tutta quella frutta non va affatto persa o sprecata. Che un mondo di sole donne sia un mondo di frutta e di marmellate? L’idea lo fa sorridere. Certo, sarebbe un mondo che contrasta con quello tetro e sospettoso da cui lui sente di venire. Anzi in cui anche ora, d’un tratto, scomparsa la casa femminile di frutta, si ritrova. E’ in una stanza buia. Sta per coricarsi. Vede passare due figure. Maschili adesso. Una è di un vecchio. L’altra di un giovane nero. Nel vecchio riconosce suo suocero, morto da anni.
31.
Narrare è come cagare in pubblico? L’analogia non è elegante. Ma a Unio viene in mente lo stesso. La spinta a narrare e narrarsi ha per lui la forza di un processo materiale e corporeo. In verità esegue l’operazione con più disinvoltura che in passato. Non si nasconde, non s’apparta. E lo vediamo su un bel water piazzato proprio davanti all’ingresso principale del Corriere della sera a MI. Ma chi l’ascolta mentre caga/racconta? Un giullare, che egli paga per farsi ascoltare proprio come fa la gente quando va da uno psicanalista.
32.
Un portinaio consegna a Unio una busta contenente una lettera. Ma vedi un po’: la busta è aperta. Unio s’accorge che contiene la lettera che egli aveva inviato – chiusa e per raccomandata – a se stesso. Viene da dire: solo a un folle, a un poeta o a un disperato può venire l’idea di spedire lettere a se stesso. O a qualcuno che ha tanta paura di dimenticare qualcosa e la scrive; ma, non potendo trattenere con sé neppure un foglio (pensiamo a i perseguitati, agli spiati in certi regimi autoritari), ricorre a questo stratagemma e lo spedisce. Ma spedisce a una persona fidata. Perché, invece, all’indirizzo di casa sua? E in un momento che, a sentire Unio, lui una casa sua non ce l’ha più? A proposito, ci sarebbe da indagare sul portinaio. Di quale casa o condominio è portinaio? Che sia lui il destinatario della lettera di Unio? E se il portinaio fosse imparentato con il giullare (capitoletto 31)?
33.
Qui ricompare La Gatta (capitoletto 16). Ossessiva presenza. È lei forse la causa della pulsione narrativa/cagatoria di Unio? Certo è animale femmina, madre maligna, sposa traditrice, donna malata da curare anche controvoglia. Che lo perseguita davvero? Non pare. Quella si fa i fatti suoi. Vive in un mondo suo. Ora La Gatta, in modi analoghi ai suoi (capitoletto 31), caga davanti a lui. Cosa? Il suo passato poco gradevole. Glielo deposita su un giornale sotto forma di cialde, che paiono addirittura di cioccolata. Ecco l’inganno. Tutto accade in un luogo indefinito. Che ora pare la casa dove Unio crede di abitare in questo momento in cui pensa e scrive e respira. Ora una strada qualsiasi di una città dal nome difficile da ricordare. Ma a differenza del giullare che non si scompone, Unio si allarma. Non accetta questi regalini. Li sente pericolosi. E allora corre a delimitare come può la zona del presente che a suo parere sporcherebbero. E lo vediamo prendere delle scarpe – quante scarpe? in quali epoche della sua vita le aveva avute? – e le dispone a raggiera. Al centro la cacca del passato (suo? della Gatta?). Attorno le scarpe. Ma perché ha tanta paura che il suo passato sporchi il suo presente? Perché, se proprio lo teme, non lo butta via? L’istinto suo più forte è proprio quello di sbarazzarsene. Lo vediamo che furtivo e veloce, appena può, avvolge la cacca della Gatta nel giornale e va a buttarla nella spazzatura. Senza neppure esaminarla? Sì, senza neppure esaminarla. Tutto quel che proviene dalla Gatta gli fa paura.