di Leonardo Terzo
[Questo è un brano del primo capitolo di Sublimità contemporanee di Leonardo Terzo ( Arcipelago Editore, Milano 2007) già pubblicato sul numero 3 cartaceo di Poliscritture (novembre 2007). Il libro affronta temi e problemi legati alla declinante stagione del postmoderno: comunicazione, storia, pubblicità, arte, filosofia materialistica contemporanea, precarietà delle idee e dei valori, ecc. E alla luce dei crolli simbolici, ora carichi di illusioni (Muro di Berlino, 1989) ora gravidi di tragedie e guerre (Twin Towers, 2001), analizza i più vistosi e sconcertanti fenomeni dell’industria culturale di massa (trash, kitsch, glam, ecc.) con uno sguardo ironico neo-volterriano, mirando anche ad un severo bilancio delle teorie letterarie e filosofiche del Novecento. Bersaglio della satira di Terzo è soprattutto l’apologia tornata di moda del sublime e, in particolare, del «sublime ermeneutico» (Perniola & c.) giudicato un «ombrello che copre e giustifica tutte le bizzarrie contemporanee» [E.A.] Se l’estetica non può redimere la comunicazione, neanche la comunicazione può d’altronde uccidere la Storia, nemmeno con l’arma acuminata e puntiforme del “tempo reale”. Solo che occorre concepire e riconsiderare la Storia in un’altra prospettiva e su altri ritmi d’elaborazione gnoseologica. Come si è detto, cambiando i ritmi della comunicazione, il riassetto organizzativo dell’interazione sociale sui nuovi mezzi e con nuovi tempi sembra occupare tutti gli interessi, mettendo temporaneamente in subordine i contenuti. Assistiamo così ad un eccesso di discussioni sulla comunicazione che evidenziano principalmente i nuovi “disagi della civiltà”. Chi non si adatta non può che sentirsi a disagio, proprio perché, “attardato” a cercare di afferrare la nuova prassi da un punto di vista riflessivo e raziocinante (laddove le nuove generazioni la apprendono “naturalmente” per imitazione), sente sfuggirgli la capacità operativa nel mondo.
La comunicazione sui vecchi parametri sembra così inefficace. Già Adorno sin da Minima moralia (1951) rimproverava al suo tempo “…l’attività febbrile… un atteggiamento che è di ostacolo a qualsiasi riflessione…”, e insomma l’affermazione, ripresa ora da tutti i critici dello sviluppo tecnologico, “di un qui ed ora senza storia, presente senza memoria, presente che vive del suo solo ripresentarsi, eterno presente pago di sé” (Merlini, p. 7).
La disponibilità e “presenzialità”, che supera e prescinde dai diversi contesti spazio-temporali, era invece ammirata dalla fede nel progresso dell’Ottocento, vedi Il giro del mondo in ottanta giorni (1873) di Verne, dove il capitalismo insegna che “time is money”, ma poteva ancora essere celebrata nel 1956, in occasione del lancio sovietico dello Sputnik, per il quale si citava persino Shakespeare: “I’ll put a girdle round about the earth in forty minutes”, ovvero: “metterò un anello intorno alla terra in quaranta minuti” (Sogno di una notte di mezza estate, 2.1.174-5).
Forse quindi è giunto il momento di cercare di “redimere il presente”. Da un lato c’è la consueta sopravvalutazione della “riflessione” come sapere istituzionalizzato in teorie e forme di pensiero, che ovviamente interpretano la storia a posteriori, come se invece avessero avuto un’efficacia direttiva sugli accadimenti poi definiti “storici”, e avessero comunque una validità operativa sugli eventi politici e sociali in corso. Questi invece, come tutti i grandi fenomeni collettivi, sono di difficile comprensione e ancor più difficile controllo, e accadono per lo più senza preoccuparsi delle teorie di Hegel o di Darwin o di Nietzsche o di Freud, caso mai condizionati dalle conseguenze delle scoperte geografiche, dall’invenzione del motore a scoppio o dalla fissione dell’atomo, dalle crisi economiche, dai flussi demografici e dall’espansionismo degli egoismi di massa.
Dall’altro non si tratta della mera amministrazione dell’accadere, dell’appiattimento sul mondo dato, ma è anche vero che il presente è, di fatto, la principale risorsa temporale disponibile. È perciò nel presente che bisogna operare escogitando degli strumenti di “flessione” teorico-pratica, con tempi e ritmi di intervento più rapidi di quelli consentiti dalla “riflessione”. La riflessione storica, raffigurata dall’Angelus Novus di Klee, preso ad emblema da Benjamin, avviene sempre a posteriori e dunque sempre in ritardo su ciò che sta avvenendo.
Il mondo sembra ora diviso fra i tecnici, che sanno quasi sempre ciò che stanno facendo e ciò che vogliono fare, e hanno quindi intenzioni e progetti, anche se con una visione limitata all’immediato perseguimento della loro specializzazione, e i funzionari della totalità, filosofi e storici, ora affiancati dai sociologi, dagli economisti e dai divulgatori di ogni tipo, che cercano di interpretare il proprio tempo e intravedere un futuro da un punto di vista comprensivo, di solito però senza sapere cosa stia veramente succedendo nei laboratori, nei centri di potere finanziario, nel ventre degli strati sociali.
È anche vero invece che gli studiosi della tecnologia e tutti coloro che sono impegnati a farla, da McLuhan a Nicholas Negroponte (Being Digital, 1996), da Pierre Levy (Cyberculture. Rapport au Conseil de l’Europe, 1996) a Derrick de Kerckhove (La conquista del tempo, 2003), a Bruce Sterling (La forma del futuro, 2005), non sembrano mancare di senso della direzione, quando cercano lodevolmente di prevedere l’effetto delle tecnologie, digitali o nano- o bio- o con qualsiasi altro prefisso, anche loro ovviamente destinati ad essere più o meno smentiti come in genere succede ai futurologi.
È forse perché la linea dell’orizzonte, oltre la quale è impossibile vedere, è troppo vicina, che un’istintiva e nuova saggezza (che significa imparare dall’esperienza appunto, solo che l’esperienza evolve immediatamente) si diffonde tra le minoranze intellettuali, ma anche fra i giovani più impegnati nella consapevolezza della propria realtà, sotto forma di cauta sospensione del giudizio, ma sostanzialmente orientata a reagire pragmaticamente nel contesto locale come parte del globale. Senza tale pragmatica cautela si va infatti allo scontro neo-ideologico tra due “culti”, quello del Passato e quello del Presente con vista sul Futuro. Il passato è appunto il culto della Storia, che deriva dalla Tradizione, che a sua volta era radicata nella Natura e via di seguito in una catena di contiguità con la Terra (Heidegger), la Razza (Etnia in politically correct), la Nazione e l’Identità, la Comunità e la Solidarietà, l’Ecologia e lo Sviluppo Sostenibile, il Fondamentalismo Religioso. Il culto del futuro è quello della Tecnologia, a sua volta a capo di una catena opposta o per lo meno diversa: la Globalizzazione, l’Economia, la Classe Sociale, l’Individuo, il Liberismo e il Mercato, il Consumismo e lo Spreco, la Laicità delle Istituzioni.
Fuori da tali contiguità neo-ideologiche, si può comunque ammettere che effettivamente la comunicazione in tempo reale “indebolisce” i contenuti, perché la rapidità dell’informazione sembra rendere sempre più effimera la validità di ciò che viene comunicato. Tuttavia la virtualità ha i suoi limiti, perché la materialità del mondo, pur accelerandosi i tempi di trasformazione del mondo stesso, e il residuo consistente di sfera privata, come le età della vita e il mondo degli affetti: le famiglie più o meno allargate e ricostruite, su cui la rapidità di funzionamento dei mezzi scalfisce appena la dimensione personale, restano fondamentali per l’elaborazione della memoria, per il permanere delle identità, e pongono argini all’abolizione della durata. Persino fenomeni curiosi come il modernariato o l’antiquariato, fagocitano materiali inediti per la memoria, seppure commercializzata, mettendo sul mercato la nostalgia dei primi videogiochi come Pacman, o i dischi di vinile degli Anni Sessanta, mentre si rieditano i classici del fumetto come Tex Willer. Chi ha vissuto l’ultimo mezzo secolo sa benissimo la differenza, anche cronologica, che passa tra Bill Haley ed Elvis Presley, tra Paul Anka e i Beatles, e non ha perso la memoria sia di Woodstock sia del Viet Nam. Ed eguali memorie, magari legate ai videoclip e alle play station, conserveranno i ragazzi di oggi, insieme alle marce no-global e ai massacri dell’Irak.
Il volto delle città cambia ogni venti anni forse, invece che ogni mezzo secolo, ma ciò avviene con “bieca” consapevolezza di chi le città le trasforma, anche senza l’occorrenza straordinaria dell’undici settembre 2001. Perché l’architettura è intrinsecamente ottimista, e già si costruiscono o si progettano edifici sensibili e intelligenti, che cambiano colore e trasmettono messaggi, in città trasparenti e leggere che reagiscono ai cambiamenti di clima e d’atmosfera, dove anche le favelas e le baraccopoli saranno enormi tubi di cartone riciclato, impermeabilizzato e ignifugo, e in caso di catastrofi ecco le casette galleggianti a prova d’inondazione, o i trulli antisismici, e le vernici da esterno che ripuliscono lo smog. E ipercase personalizzate, con spazi dinamici, pareti ruotanti e leggerissime che si spostano a comando. O unità abitative trasportabili, che si chiudono durante il viaggio e si riaprono in apposite griglie sparse in vari punti del globo (Alessandra Mammì, “Sarà tutta un’altra casa”, L’Espresso, n.46, 23 novembre 2006, pp. 128-30).
In questa prospettiva si comprende che anche i famigerati “non-luoghi” sono solo nuovi paesaggi su cui si fa fatica a proiettare le vecchie abitudini, in cui si vive freneticamente, eppur si vive, per parodiare Galilei. Ma, senza tirare in ballo rivoluzioni copernicane, questo non è forse già accaduto all’avvento della ferrovia, o dell’aereo o del telefono? In più, tale consapevolezza è permeata da un nuovo fattore, emerso dallo sviluppo tecnologico stesso: la cosiddetta interattività.
Intorno a questo fenomeno s’intreccia una serie d’opinioni, con contributi di diversa natura. Quello dell’ermeneutica letteraria, che eleva a figura leggendaria il lettore dopo aver ucciso l’autore; quello della scienza politica che intravede nell’interattività uno strumento di possibile allargamento della democrazia, probabilmente illusorio, per le disparità di potere degli agenti che intervengono nel merito; non ultimo il contributo dell’epistemologia, che intuisce che la pratica dell’intervento personale e soggettivo dentro la comunicazione, ma anche nella formattazione di un’interfaccia, nella manipolazione di un display, costituiscono, attraverso un modo di apprendimento, anche il modulo di una fenomenologia esistenziale da riconsiderare. Appunto come “ripetizione puntiforme” di un eterno presente, secondo i critici della performatività, incerti peraltro tra la critica alla sottrazione del corpo operata dalle comunità virtuali, e la critica all’eccesso di corporeità nella costituzione identitaria: il sensibile che scaccia l’intelligibile, l’erotica in luogo dell’ermeneutica, l’agire che prescinde dalla memoria.
Il problema però è che, dal punto di vista operativo, la memoria si svaluta perché il divenire la rende superflua: detto brutalmente, mentre il presente non è mai lo stesso, il passato lo è, e quindi sembra inutile. Nelle società arcaiche l’anziano è rispettato perché è il depositario di una memoria valida, nelle società moderne il giovanilismo diventa un modello che esibisce l’urgenza ormonale e le riserve energetiche della nuova generazione fin nell’agitarsi insensato in una discoteca. Mentre l’elogio del passato arriva a sfiorare l’elogio del primitivismo, dai Leavis (F. R. e Q. D.) a Lévi-Strauss, a Mauss, il vitalismo contemporaneo sembra stendere una cappa di stupefazione e stupidità sulla vita.
Ma anche questo ottundimento della ragionevolezza si è già visto in ogni movimento di masse, ancorché di dimensioni inferiori, e con esiti anche peggiori: dalla crudele cittadinanza circense dei romani al Circo Massimo all’isteria “spirituale” dei massacri di tutte le guerre di religione, al genocidio dei nativi su cui nasce la Costituzione americana, alle guerre napoleoniche come esito della rivoluzione e dei “princìpi dell’89”.
Eppure, come non c’è pensiero senza vita, non c’è neanche vita senza pensiero. Sennonché occorre riconoscerlo nelle nuove modalità delle sue articolazioni. Per esempio nel modello reticolare della comunicazione, che ha sostituito quello lineare. Il cosiddetto uomo occidentale è programmato prevalentemente per codici lineari. Ne consegue che “le cose avvengono disponendosi lungo una riga… si sviluppano l’una dall’altra e una dopo l’altra e si possono spiegare se si enumera questa successione…” Questo programma può trasmettere le cose più diverse: la filosofia greca, la profezia ebraica, il messaggio di salvezza cristiano, l’umanesimo, il marxismo, in una comune fede nel progresso che va “dalle apparenze alle idee, dal mondo a Dio, dal peccato a Cristo, dall’animale alla piena umanità, dalla divisione del lavoro alienante alla società comunista ecc.” Quando questo programma va in crisi, la memoria sembra dissolversi, perché non è programmata per accogliere informazioni cifrate in modo nuovo (Vilém Flusser, “Il mondo codificato”, 1978, in La cultura dei media, Bruno Mondadori, Milano, 2004, pp. 24-7).
In questa luce l’apparente discontinuità è forse necessità, un’astuzia per aggirare gli ostacoli con un “pensiero laterale”, laddove le impasse procedurali sembravano fino ad ora insormontabili. Ma la progettualità di questi congegni epistemici non può essere colta da chi ne è fuori. Perciò anche il nuovo orizzonte dell’antropologia non si proietta più al passato, verso l’arcaico, ma verso il futuro “presentificato”, come per esempio sembrano fare gli studi di Marc Augé (Storie del presente. Per un’antropologia dei mondi contemporanei, Il saggiatore, Milano, 1997) e altri (vedi Marcello Archetti, Lo spazio ritrovato. Antropologia della contemporaneità, Meltemi, Roma, 2002).
Il continuum significativo tra memoria, identità, storia, è solo l’illusione di chi si è assuefatto alle vecchie misure e frantumazioni del tempo, collegate a loro volta in ormai inconsapevoli automatismi. Il presente puntiforme e discontinuo pare invece annullarsi nell’attualità a chi non lo frequenta, ma, visto da vicino o dall’interno, ha la complessità funzionale del “nodo”, come i nodi della rete appunto, luoghi temporanei di confluenza e rinvio di interessi e significati la cui validità è confermata dal fatto che, pur ripresentandosi con sempre diversi contenuti, vengono continuamente e continuativamente percorsi dalla comunicazione.
Il tempo di per sé è irreversibile, e la sua misurazione in segmenti ha la funzione di rallentare, padroneggiare, se non di capovolgere tale irreversibilità (Archetti, pp. 14-5). Perciò quanto più la segmentazione avviene per tratte estese, come le età dalla vita, il succedersi delle generazioni, i secoli, le epoche o le ere, tanto più sembrerà possibile una durata rassicurante, se non addirittura una reversione del tempo.
Il termine “tratta” ci ricorda allora il sogno di Heidegger di abolire il tempo, ovvero di fermare la Storia nell’Essere (vedi “La locuzione di Anassimandro”, 1946, in Holzwege. Sentieri erranti nella selva, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano, 2002). Il fatto che l’essere si manifesti in più culture, in cui la misurazione del tempo organizza il mondo in forme differenti, è per lui irrilevante. Perciò pure tutto l’agitarsi e il darsi da fare dell’uomo, di cui già Adorno si lamentava, è “tradire il destino”. La minaccia della tecnica è perciò agitata da chi si preoccupa più della natura dell’essere che della distribuzione della ricchezza, opponendo all’empietà del post-umano il culto quasi sacrale dell’autenticità.
In questa prospettiva, quanto più la segmentazione appare frammentaria e la “tratta” puntiforme, tanto meno il tempo sembra vivibile. Il lamento di Adorno, come il sogno di Heidegger, manifestavano quindi un disagio non diverso da quelli attuali. Eppure è a tale rapidità che le nuove generazioni si adeguano, e dentro di essa elaborano nuovi automatismi che implicano nuovi principi regolatori e tutto l’accumulo di saggezza, ovvero di esperienza e di operatività dotata di senso, permessa dai nuovi canali della comunicazione. La padronanza dei mezzi riporterà poi l’interesse sui contenuti, gli “stili fatici” cederanno alla funzione referenziale. Si inverte così, non l’irreversibilità del tempo, ma il detto di Anassimandro: invece che “là dove le cose hanno origine, hanno anche fine”, si dovrà prendere atto che là dove le cose hanno fine, hanno anche origine. Ciò non implica nessun ottimismo interessato o sciocco; si è consapevoli che ci saranno sempre vincitori e vinti, una relativa emancipazione e una relativa schiavitù, come in ogni passaggio ancora inevitabilmente storico. Ma ora l’Angelo della Storia sta cercando di voltarsi e guardare avanti.
Molto interessante e ‘brillante’ questo brano.
Sottolineerei due punti tra loro interconnessi:
a) *Chi non si adatta non può che sentirsi a disagio, proprio perché, “attardato” a cercare di afferrare la nuova prassi da un punto di vista riflessivo e raziocinante (laddove le nuove generazioni la apprendono “naturalmente” per imitazione), sente sfuggirgli la capacità operativa nel mondo.*
b)* Eppure è a tale rapidità che le nuove generazioni si adeguano, e dentro di essa elaborano nuovi automatismi che implicano nuovi principi regolatori e tutto l’accumulo di saggezza, ovvero di esperienza e di operatività dotata di senso, permessa dai nuovi canali della comunicazione. La padronanza dei mezzi riporterà poi l’interesse sui contenuti, gli “stili fatici” cederanno alla funzione referenziale. Si inverte così, non l’irreversibilità del tempo, ma il detto di Anassimandro: invece che “là dove le cose hanno origine, hanno anche fine”, si dovrà prendere atto che là dove le cose hanno fine, hanno anche origine.*
Inizialmente ogni nostro apprendimento è avvenuto ‘naturaliter’ per imitazione, così come è stato per imparare a parlare. Ma poi, per arrivare alla più complessa ‘comprensione’, è stato necessario apprendere le regole linguistiche che governano il parlare. E non solo le regole (costituite prevalentemente secondo una logica ‘lineare’) ma anche la dotazione di senso (che invece è costituita secondo una logica ‘di campo’): tutto questo lavoro avviene ex post.
In questo ‘presente puntiforme’ invece è difficile l’esperienza dell’ “ex post”, perché quello è già stato superato da un nuovo presente e così via.
La simbologia dell’Uroboro (il serpente magico che si morde la coda) rappresenta altrettanto bene la circolarità del tempo (inizio e fine che si incontrano) ma ciò ci farebbe rimanere all’interno di una visione di ‘natura’ e non di ‘cultura’.
Certo, riconosciamo che oggi c’è una tendenza che porta verso forme regressive: ma non è detto che necessariamente dalle forme infantili riparta nuovamente il processo di maturità. Questo processo non nasce ‘naturaliter’, dall’interno, ma è stimolato dall’esterno perché crescere è faticoso. Ma se c’è un ‘esterno’ che trae vantaggio dal mantenere uno stato di infantilismo… il processo di maturazione stenterà a prendere avvio.
R.S.