di Vladimir Majakovskij
(traduzione e commento di A. M. Ripellino)
Battevano gli zoccoli.
Come se cantassero:
grib
grab
grob
grub –
Ubriacata dal vento,
calzata dal ghiaccio,
la via scivolava.Un cavallo sulla groppa
stramazzò,
e d’improvviso
un fannullone dietro l’altro,
calzoni venuti a scampanare per il Kuznèckij, ¹
si ammucchiarono,
una risata tintinnò e stridette:
– Un cavallo è caduto! –
È caduto un cavallo! –
Rideva il Kuzneckij.
Solo io
non mescolavo la mia voce nel suo ululo.
Mi avvicinai
e vedo
occhi equini…
La via si era rovesciata,
scorre a modo suo…
Mi avvicinai e vedo –
una goccia dietro l’altra
per il muso rotola,
si nasconde nel pelame…
E non so che comune
malinconia ferina
guazzando traboccò fuori di me
e dilagò in un sussurro.
“Cavallo, non è necessario,
cavallo, ascoltate –
voi pensate di essere più insipido di loro?
Bambino
noi tutti siamo un poco cavalli,
ciascuno di noi è un cavallo a suo modo.
Forse era
vecchio –
e non aveva bisogno di una balia,
forse, il mio pensiero gli parve volgare.
Fatto è che
il cavallo
si dimenò,
si levò sulle zampe,
nitrì
e se ne andò.
Dondolava la coda.
Un rossiccio bambino.
Giunse allegro,
si mise nella stalla.
E gli sembrava ancora –
di essere un puledro
e che valesse la pena di vivere,
e che di lavorare valesse la pena.
1918
Commento di A. M. Ripellino
Questa poesia conferma la grande tenerezza che abbiamo già trovato in altre poesie majakovskiane. Il tema del cavallo è un tema costante nel futurismo russo: Chlebnikov ha tutta una sequela di cavalli, tanto che il pittore Filonov lo dipinse con un viso cavallino. Questo tema si trova anche nella Cvetàeva, negli immaginisti (Šeršenevič), in Esenin (Navi di giumente, 1919). Esenin sente nel cavallo la scomparsa di un mondo rurale, primitivo, di fronte all’irruzione del treno, che è un cavallo di acciaio ed è tedesco. In Kafka:
Ieri un cavallo è caduto col ginocchio sanguinante. Io guardo dall’altra parte e senza dominarmi faccio smorfie in pieno giorno”.
Anche l’espressionismo tedesco ha tributato un enorme spazio ai cavalli. Questa malinconia ferina è, in fondo, un riflesso dello stesso Majakovskij: nella solitudine e nella tristezza del cavallo, il poeta riflette il suo aspetto inerme, battuto, sconfitto, deluso.
[1] Nota a cura di Antonio Sagredo
Il Kuzneckij, ovvero il Kuzneckij most, è una delle strade principali e centrali di Mosca; una altra celebre strada è la Tverskàja. Queste due strade videro le leggendarie passerelle dei poeti e artisti futuristi; il poeta V. Kaménskij ricorda nelle sue memorie (1940) la loro prima sfilata in pubblico dei cubofuturisti (13 ottobre 1913) camuffati in varie e stravaganti mascherature. “La gente li tenne per cavallerizzi di circo o per campioni di lotta francese o addirittura per indiani d’America. Così agghindati, riapparivano ogni giorno nella Tverskàja o sul Kuzneckij, nei cabarets e nei teatri, destando stupore, ilarità, trambusto” (A. M. Ripelino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Einaudi 1966, p. 22. (cap. 1° : Le avventure di futuristi). Ne parla diffusamente e con grande competenza anche la russista Rosana Platone in: Majakovskij, ed. La nuova Italia, coll. il Castoro).
Per curiosità dei lettori e amatori riporto una mia nota (n. 184, p. 147) al Corso del Ripellino su Majakovskij (1971-72) che riguarda un incontro avvenuto tra la poetesa Marina Cvetaeva e Majakovskij:
“Qui vale la pena di riferire un incontro tra la Cvetaeva e Majakovskij riportato dalla biografa Viktoria Schweitzer in Marina Cvetaeva –I giorni e le opere, Mondadori 2006, n. 74 p. 546. Recita: [ ”Questo è quanto la Cvetaeva scrisse a Majakovskij sul quotidiano Evrazija del 24 novembre 1928 < A Majakovskij – Il 28 aprile del 1922, alla vigilia della mia partenza dalla Russia, la mattina presto, per un Kuzneckij most completamente deserto incontrai Majakovskij: Allora, Majakovskij, che cosa devo dire all’Europa da parte vostra? [risposta di Majakovskij]: Che la verità è qui. ]– Il 7 novembre 1928, a sera tardi, uscendo dal Café Voltaire. Alla domanda: Che cosa vuol dire della Russia dopo aver sentito Majakovskij? Ho risposto prontamente: Che la forza è là – Marina Cvetaeva]. Anni dopo la Cvetaeva subì un attacco davvero molto feroce (“una cosa da disprezzare”) da parte di Majakovskij il 26 settembre del 1929, intervenendo all’Assemblea plenaria della RAPP (Associazione degli scrittori Russi Proletari). Vedi i particolari nel Corso su Mandel’štam, 1974-75 di A. M. Ripellino, n. 115 p. 40. Mancavano pochi mesi al suo suicidio, sentiva, presentiva, presagiva la fine della sua storia personale e di poeta: era in una fase finale sempre più iconoclasta e di ripiegamento su se stesso”.
…é una poesia davvero meravigiosa. Si parla di difesa della dignità animale, umana e non, senza distinzioni. Durante una parata, un cavallo cade e viene schernito ed umiliato da persone vanagloriose. Il poeta no, lo guarda e lo vede piangere…si riconosce nella malinconia dei suoi occhi equini…l’umiliazione subita é fortissima, ma gli chiede di non disperarsi, in fondo anche gli umani sono spesso al servizio dei loro simili “ciascuno é cavallo a modo suo”..gli vuole asciugare le lacrime e lo chiama con tenerezza bambino…
Il poeta pensa di aver esagerato a chiamare bambino il vecchio cavallo, ma subito si ricrede perchè il cavallo, risanato dal dialogo con l’uomo, si drizza e ritorna, come giovane puledro, a credere nella vita..
Poesie come queste, si leggono forse una volta nella vita e restano sempre nuove anche nel ricordo.
La cosa che mi è subito piaciuta la prima volta che lessi questa poesia è che non fu vano in fondo incoraggiare con due paroline un cavallo stramazzato al suolo. Infatti poi ha ricominciato il suo lavoro fiero e rossiccio. Mi era piaciuta talmente tanto questa poesia che corsi a regalarla a una persona che conoscevo e che sapevo, anzi ero certa, amava molto almeno un cavallo in particolare. Io invece di cavalli non ne ho mai conosciuti di persona. L’unica cosa che spero è di non averla scandalizzata perchè in fondo era una donna che non frequentavo e forse trovò il mio regalo un po’ strambo. Si spera sempre che negli sbuffi di entusiasmo, almeno quelli fondati sulla poesia, ci intercetti un po’ di grazia e ci faccia scomparire quel tanto che basta.
Costanza Tuor