di Alberto Mari
[Qui parla un narratore-poeta svagato, straniato, che monologa pacatamente per conto suo. Non si sa se viaggi senza «staccare il corpo dal letto» o si perda per le strade del vasto mondo. Abbraccia davvero la sua bella nei sedili del taxi? E se ne va in mezzo alla folla «spiazzata nel traffico»? O teme semplicemente, come tutti, di morire? Fa o immagina di fare queste e tante altre cose apparentemente di nessuna importanza ma che l’afferrano e lo fanno scrivere. Medita, osserva, s’interroga come un filosofo del vagabondare. Perché – dice – è «fuori strada» e va « verso l’unica strada possibile, immersa nell’unica nuvola che sta per diventare cielo». Noi lo seguiamo con simpatia, sperdendoci un po’ assieme a lui nel ritmo frammentato delle sue piccole visioni. (E.A.)]
…sei nel posto sbagliato, amico mio
è meglio che te la squagli
così l’unico suono che rimane
dopo che le ambulanze sono andate
è quello di Cenerentola che spazza
nel cammino della desolazione
Bob Dylan Desolation row
Nature morte e paesaggi e tutto quello che non rimane impresso malgrado la profondità delle strade di notte.
Sorpresi i passeggeri nella stanza della memoria, si agitano, parlano tutti insieme. Ogni cuore per conto suo percorre il proprio finestrino, ma non sa leggere i nomi che si intravedono agli angoli delle vie. Pareti, porte,vetrine sfilano nelle altezze ondulate del buio.
Aspetta la mano in tasca, la chiave introvabile. Cercano tra le monete le dita. Il collezionista di serrature, aspetta, aspetta, gli occhi sempre in ritardo, sentenze cupi rintocchi dell’aria.
Ma non c’è verso di staccare il corpo dal letto. Pensieri solidi reggono l’urto delle luci, lembi di essi si scollano e si piegano, ma basta poco per riprendersi dalle increspature e la carta fa la sua figura, nello scritto che trapela, le voci si confondono: “Parlate uno alla volta, che diamine!” E le voci si esercitano come in un balletto per assecondarlo, per poi interrompere il gioco di trattenersi.
Non gli piaceva vedersi così com’era, per rompere l’imbarazzo cercò di riconoscermi, pescò a caso qualcosa da dire dal suo repertorio. Tentò parole persuasive ma era solo la sua ombra, si staccava, dal letto, dalla strada, da qualcosa che andava oltre la dissolvenza.
“Stai tranquillo, non sono come te, amico mio”. Sento la sua voce raggiungermi in strada, ma non me la sento di voltarmi, a distrarmi ci sono tante vetrine, una parata di specchi, la trasparenza opaca rende la il cammino malfermo. M’immergo nella superficie e mi sembra di essere in una canoa nei flussi di luci. In attesa dell’inevitabile cascata abbraccio la mia bella.
E’ molto meglio sprofondare nei sedili del taxi, cercare di baciarla, attraverso i suoi capelli, piuttosto che sentire un colletto d’acqua e precipitare in un gorgo che non conosci e si avvita nelle sue labbra. Non possiamo parlare, dire al conducente da che parte deve andare. Siamo troppo presi, ma non siamo noi. C’è sempre la mia identità che mi segue.
Lei può lasciarmi quando vuole. Io posso fare altrettanto. E così ci lasciamo andare.
Non sento sbattere la porta mentre l’altro si volta distratto e si lascia riconoscere.
“Non me la dai a bere, amico”.
Stavolta la voce è irriconoscibile, solleva onde sullo schermo, torna indietro per ripetersi e qualcosa viene in mente nel flusso dell’ascolto registrato. Le parole del sonno irrompono nel suo cuscino, ma non ci sta con la testa e rimane lì rannicchiato, caduto in battaglia.
C’è qualcuno fuori che aspetta qualcosa nella strada deserta mentre parla al cellulare e non stacca gli occhi dalla finestra.
Intanto la gente ripescata nella strada si trova spiazzata nel traffico cerca una via di scampo sul marciapiede. Una vecchia signora osserva pensosa abbracciata a un semaforo. Il vigile gesticola impotente tra frenate brusche e persone che brancolano in cerca di ostacoli.
E’ ancora possibile rialzarsi a fatica, guardare negli occhi l’uomo della folla che non ascolta la ragazza che gli chiede una via.
Si può andare avanti. Si può chiedere permesso. Si può esser protagonista, senza far parte del contorno.
La città può aspettare.
Il tramonto esita. Non c’è nulla d’approfondire nel cielo. Ed io non arrivo mai.
Eppure dovrei esserci…
Il viale finisce di nascosto. Dietro la palizzata ci sono dei gradini, una piazza avvolgente.
Cerco l’interruttore della notte e del giorno. Un cancello, da qualche parte, scatta, scuote la mia ostinazione lenta, impreparata, al rumore dei pensieri.
C’è qualcuno che si lascia andare dove gli alberi si stringono, qualcuno, qualcosa d’imprevedibile che si solleva in alto, dove sta scritta la leggerezza che mi convince a parlare.
Ogni parola percorre un bosco di carta e i colori rimbalzano al di fuori delle strade, delle case appostate.
L’orologio della torre cerca ancora la sua voce. Al suono non ci si abitua. La musica dei passi ritorna come un film.
Lo straniero non conosce la grafia dello spartito, ne le macchie volute dell’acquerello. Sta bene nell’ombra personalizzata delle note, prima che la sera si compia.
Del parlar non è ancora scritto.
Ma le teste affacciate ai tombini
delle fognature sono in pericolo
Dannati, fuggite, dannati.
Datemi retta: lasciate perdere!
Stava nascosto sotto il camion quasi soffocato dal carburante. Il traffico rompeva il suo respiro. E desiderava solo essere scoperto.
“Prova quella strada che curva in fondo. Quella strada che ancora non si vede in fondo al rettilineo. Prova…”
Io ancora io, solo io. Niente delizie nel giardino. L’albero custode abbassa le sue ali protettive, ma appena s’intravede il fondo dell’ombra, nell’atterraggio del cielo. E’ la stagione dello sfinimento, tanti giorni sono da rimuovere, ma non riesco a forzare l’attesa, l’inerzia dei movimenti immaginati resiste.
Voglio sapere del tempo, voglio sapere a che cosa assisto. La visione è incerta. Teneri amanti tra i cespugli cercano di coinvolgermi.
Non posso raccogliere quello che ho lasciato e devo ancora trattare col potente, misterioso signore che prima o poi si mostrerà.
Il terrore dei rimpianti è cieco nel mio personale sentiero, eppure i miei occhi navigano nell’ebbrezza.
“Si, lo so, non vuoi saperne del vento, dell’incorreggibile vento…”
Non è possibile che le strade abbiano un titolo. L’aveva detto al suo sguardo perso, divertito, opportunamente distratto. Aveva iniziato ad abbracciarla per prova, appena un poco, per sentire la sua carne morbida sciogliersi tra le mani, ma ancora qualcosa li separava. Avrebbe voluto correggersi, si, perché qualche strada era rimasta ignota e molte di esse non erano percorribili.
E lui non voleva sprecare i suoi tentativi di baciarla, ma già sentiva il suo alito sul collo, la delizia di appartenere ai ricordi.
“Trova un titolo alla felicità, alla sofferenza, se sei capace.”
Oh, il giardino delle delizie! I nostri piccoli mondi di mezzo! E tutto ciò che è più grande e fa fatica a finire i contorni.
No, non c’era più la solitudine, ma soltanto quell’abbraccio prezioso che stentava ad avverarsi.
“Cosa vuoi che ti dica?” M’intendo solo di città, almeno credo d’intendermene. Di percorsi accidentali ne ho provati tanti, ma questo non vuol dire che abbia vissuto tanto; ho provato soltanto a non premeditare quello che ho fatto, andare incontro all’imprevisto come se fosse la mia anima gemella. Erano in tanti che andavano incontro l’uno all’altro, a braccia aperte, verso una degna fine. Avevo ancora tanto da imparare, ma si sa, l’età, gli acciacchi… chissà se farò in tempo.
“Forse stiamo per morire…”
Non dirlo a me, amico, anche se in fondo non ho fatto tanta strada.
C’erano case sparse fra noi, mentre la collina sotto di me era ondulata, diretta per mano, nella musica, nei fiori irrigiditi all’orizzonte.
Nel treno era andato a finire con poca voglia di dire, di fare. Poteva solo offrirsi col suo essere, lo stare in una posa qualsiasi. Il passeggero cercava in tasca qualche biglietto convincente, il giornale abbandonato tradiva la sua rinuncia. Il bigliettaio procedeva a fatica, ringraziando a caso, senza farsi sedurre dai biglietti agitati come sonagli da bambino. Ogni tanto gli cascavano gli occhiali. Si sentiva come nella balena di Pinocchio, ma anche il mare si era fatto strada.
Sono capitato nella via delle conferenze. Un caso a interrompere la notte, l’attesa del discorso, lo sforzo della mente, l’edificio di parole corrucciate. “Non suono più, le note non vengono più bene.”Bevi, bevi, se vuoi, finché puoi. No, non chiudiamo così presto. Certo, c’è poco da dire, c’è poco da ascoltare. Venite, venite, lo stesso, all’angolo della via. Si entra da questa parte. Come sarebbe? Non è quella la porta giusta? Ma cosa può avere di giusto una porta? Ma si, si entra di lì. Basta seguire le indicazioni. Sul cartello c’é scritto chi parla. Certo che é un nome: cosa volete che sia? “
Beh, non sono poi così arrendevole. Vorrei dirlo ai presenti. Tutto quello che ho in mente passa da queste parti e non è facile fermarlo. E’ questione di bocca, di fiato, di come farlo uscire, una mente parlante.
C’è ancora poca gente, e poca attesa, ma non c’é un’ora precisa per l’inizio della conferenza. Quindi è perfettamente inutile contarsi. Una volta, in Svizzera, a pochi minuti dall’inizio, non c’era nessuno, poi, all’ora esatta, sono arrivati in tanti.
Strada dell’incontro casuale, un urto, quasi, impossibile a dirsi. Nel segno della bellezza, al primo impatto, poi quel qualcosa di particolare che sfugge, una impressione soltanto. E poi si guardano. Si guardano tutti. Si guardano in tutte le strade.
Le strade delle persone sole sono un’altra cosa, sono riservate, eccezionali, però non si sa dove vanno a finire. Le strade degli altri incontri sono prevedibili, poche curve. Null’altro da segnalare.
E fuori dalle strade? Altre strade, sempre strade. Strade di tutti gli ostacoli. Un ponte da salire e scendere, almeno così aveva detto quel signore che parlava troppo in fretta. Al secondo semaforo girare prima del passaggio a livello. Ci voleva così tanto per ritrovarsi nella via angosciante. Per seguire il sentiero dei lumi per terra. Per raggiungere la voce dell’attore. Per sdraiarsi ad ascoltare.
Come è infinito l’ascolto! E il nulla è nessuno, nessuno, nessuno da scandire. E’ l’epoca dicono, come se fosse una spiegazione. Dove siamo capitati? Prima di lasciare le ombre inquiete proviamo a tornare indietro. Il giovane straniero non sa spiegarsi, gli spiace. La città è persa.
“Sono fuori.” Rimasto indietro. Fuori da tutte le indicazioni possibili.
Ecco, mia cara, la mia stanchezza non dice, è nulla, nulla.
Un nulla preparato fuori dalle strade degli incanti, delle strade scadute, strade in fuga, nell’unica fuga possibile.
Strade oltre di me, strade in cui si stenta a credere, strade oltre ogni vicinanza.
Fuori strada, sul ciglio, sulla misura incerta dell’erba.
Fuori strada, oltre i fili della luce, sulle note degli uccelli.
“Sei fuori, amico, fuori dai contorni, fuori dal bordo, dalla linea, dalla curva..”
Accorrono i riempitivi. Pensieri, colori colanti, dei pennelli, dei passi aerei. Un campionario di segni da scegliere, le mani dei segni stessi s’intuiscono e lontani, lontani, plasmano, indagano.
Ti hanno avvistato, intanto, dall’alto essere piccolissimo, ombra sempre più vicina alla corsa che ti contiene, ma sempre con te, con quel qualcuno, complice che ti asseconda, ti sta a sentire, fino alle ultime parole, fino a quello che riesci a dire.
Puoi farcela ancora. Cerca te stesso ai piedi dell’albero custode, cerca riparo in quello che ti aspetti, nella delusione sempre puntuale, nelle pieghe del temporale smarrito.
Asciutto, bagnato, è indifferente, può capitare di rischiare una porta qualsiasi, un meraviglioso congegno può darti il benvenuto, persino riconoscerti, mentre si avvicina un pubblico che non ti aspetti, uno sfondo mobile con rimbalzi di grandine tra i ciuffi d’erba vaganti. In fondo era questo che volevi, no?
Io sono un passo abbandonato, dopo l’altro. Io sono il tempo nel cerchio, dondolo nell’ombra, un’insegna sul letto. La ruota di una carrozza, un cuscino e due teste che si incontrano nelle lingue e tentano di non vedersi. Nel paradiso la stanza, la strada, le scale… i pulsanti dell’ascensore. Un vuoto accogliente nel sogno che precipita.
Sassi, fango, nella mia corsa. Metto le mani avanti. L’erba finge con me.
Così impari le parole, la pelle brucia, le labbra provano, il respiro conta, i secondi sfuggono…
Non c’è più niente da chiedere. Eppure in tanti sanno qualcosa più di noi. Noi vorremmo parlare ancora, dire qualcosa di più preciso, quello che abbiamo in mente, ma riusciamo soltanto ad aspettare, le mosse degli altri.
La gente seduta al bar rimane distratta, crede che la strada sia finita e ormai c’è poco da dire.
Il viale sulla piantina ritorna.
La voce stavolta sembra pratica, il dito sulla via vicina… al concessionario d’auto svoltare a destra.
Una spiegazione come un’altra, abbastanza chiara, però.
Una volta conoscevo queste parti, erano le mie strade. Mi accompagnavano, e i cambiamenti quasi mi convincevano.
Ecco l’ennesima rotonda… una volta non c’era…
Lasciare la spiegazione alle spalle.
Andare avanti, proseguire senza ascoltare.
Tenersi in disparte, mantenersi lungo la riga continua, in bilico sul paesaggio.
Strade sotto di noi, strade frananti, strade in discesa, verso l’unica
strada possibile, immersa nell’unica nuvola che sta per diventare cielo.
*Alberto Mari poeta e artista visivo milanese. Ha esposto ultimamente allo SpazioBocca, alla Galleria Sblu spazioalbello e all’Officina Coviello di Milano. Ha partecipato a diverse rassegne del Museo della Carale Accattino di Ivrea, la Biblioteca di Cologno e la galleria Quinto Cortile di Milano. In precedenza ha esposto anche a Bergamo nella Biblioteca Di Vittorio, alla Galleria Blanchaert a Milano, la Libreria Scientifica e la Biblioteca di Cernusco. Opere poetiche: “Scomparse”, Guanda, “Manovre”, Moizzi, “Il mondo d’un fiato”, “Pensieri, orologi”, Niebo – LaVita Felice. Ha curato inoltre diverse antologie di cultura popolare per la collana Oscar Mondadori, fra queste “Il mare e le sue leggende”, “Il bosco, miti, leggende e fiabe” e “Fiabe popolari italiane”, pubblicate anche dal Club degli Editori. E’ autore inoltre de “Il posto delle favole”, nella collana Fiabesca di Stampa Alternativa. Con le riproduzioni del pittore Andrea Cardile ha pubblicato “Il circo delle ambiguità”, prosa poetica e poesia. Ha curato infine il video libro di poesia sonora e visiva “Serraglio” – Pasotelli nella collana Sipario di Girolamo Melis, regia di Andrea Cardile.
E’ mia abitudine (brutta?) scrivere di getto, paura di perdere i pensieri l’attimo la voglia, in queste righe ho accolto tutto ciò come quando piove e sei senza ombrello , il vento spiacevole, fresco di una estate che sta per finire ti scuote e tu alzi il capo e ti prendi quella lavata che ti fa sentire sola in mezzo a tutti i tuoi pensieri , movimenti e solitudine. E guardi tutto quello che intorno gira , messaggi di vita e di morte di leggerezza cercata e lasciata a marcire “sull’erba che finge con te” . Un viaggio da fermi , il più travolgente degli stati d’animo, correre con la tua mente ovunque e portare con sé tutte le cose, voglia di correggere il passato e pensare all’avvenire, una corsa breve, in una città indifferente e sul taxi un ragazzo che ancora vorresti baciare , il suo alito , il suo dopobarba. Non credere a nessuno che ti voglia insegnare qualcosa che ancora tu non conosca, mandarlo al diavolo insieme a tutti gli altri,uguali che sanno vivere, dicono e riescono ad attraversare pericolose strade ed incroci, tutti assieme. Niente semafori rossi o verdi, niente divieti finchè non ti arrendi e viaggi per non morire. Qui vive il problema , al confine, ma non ci vuoi arrivare, per ore. Grazie Ennio per questa magnifica sorpresa, IL VIAGGIO,meravigliosa idea da sviluppare non credi? Complimenti tanto ad Alberto Mari e alla sua nuvola che sta per diventare cielo.
…Un viaggio Fuoristrada disorientante e lacerante eppure pieno di fascino e di sorprese. Anche se chi scrive cerca una sua misura, un contenimento, il viaggio straborda in percorsi labirintici. La memoria e la scrittura tentano di fare da collante, ma tutto esce, straripa…non si riesce a dare i nomi e i titoli alle cose. Ci sono anche pause : i piccoli mondi di mezzo, il giardino delle delizie, l’albero custode, gli incontri insperati, gli altri…Sembra che a turbare tanto l’animo dello scrittore sia una presenza misteriosa e potente con cui trattare, uno straniero, un’ombra onnipresente che confonde e separa il suo viaggio: un’identità duplice e complessa “un cuscino a due teste che si incontrano nelle lingue e tentano di non vedersi”. Un viaggio che si confronta anche con il mistero, con un abbraccio prezioso che allontana la solitudine e sfocia in una nuvola da cui parte il cielo…Davvero molto bello
…bello questo vagare-svagare fuori strada, mi ci ritrovo…il mio pensiero errabondo si trova a suo agio fra le lettere e le parole che compongono questo testo dell’amico Mari, a cui dopo questa lettura voglio ancor più bene….
e belli sono anche i due commenti che mi precedono, ci si ritrova come vecchi/e compagni/e di avventura…
Non c’è un “senso” che apra il cuore … ma lo fa la regia, per gioco puro, senza che lo si aspetti, come un dono, gocce di luce! Dici delusione … e crei il contrario, ripeti di ritardsi, ostacoli, di gesticolii impotente, in un continuo smarrimento, fai brillare … e ci si ritrova nello Spazio! Che meraviglia …….