di Paolo Polvani
Cattedrali impelagate
A certe cattedrali il mare sconfina tra le gambe,
ne sommerge la bocca, le assedia fin dentro il respiro
e loro masticano piano l’azzurro quieto:
le angosce vi si sciolgono, vi affondano le inquietudini.
Certe cattedrali ce l’hanno appeso al collo
l’azzurro del mare, si cuciono sul cuore
le architetture liquide delle meduse, il perimetro
dei calamari, lo sguardo immobile dei pesci.
Risplendono della gloria eterna delle bifore,
dello squinternarsi delle campane, dei campanili
che si sollevano sulle punte per specchiarsi nell’acqua.
*
I campanili
Qui ci compete il chiarore delle piazze.
Questa è la mia terra: l’indicativo presente
delle cattedrali, il bagliore algebrico
delle pietre. Quanti orizzonti hanno sostato
nella traccia del vento intorno ai campanili,
e derive di costellazioni, teorie degli equinozi,
la progressione aritmetica dell’ombra
e variabili per noi indecifrabili nella gloria
degli arcobaleni. Si dipana questa terra, si spiana
secondo un criterio orizzontale, per isobare
di vigne, per fragilissime ondulazioni di uliveti
che rendono ineluttabile l’incontro. Cosa
si addice ai campanili? Gli armistizi delle maree,
l’azzurro che li circoscrive, un andirivieni di passi
e nodi di spaghi e aghi e chiodi e un fruscio di
becchi. I campanili si cibano di pioggia,
della diuturna consistenza della luce, si cibano
della meraviglia negli sguardi, della nostra sgualcita
precarietà, dell’incespicare della vita in bilico
tra una solitudine e un’altra solitudine,
si cibano dell’orizzonte che si allarga fin dove le campane
spandono un equatore splendido di suoni.
*
Caramelle
Verrò in via delle vigne quattordici a passarti
l’ultima delle mie caramelle, è lì che abita
in forma di zucchero l’orto di tua madre
e si gonfiano di rosso i pomodori nel cerchio
delle alpi e l’insalata
ha il suono familiare di una porta che sbatte.
Gli autunni vengono con passo leggero e io
mi arrampicherò sul tuo accento di montagna,
sulle gutturali che sono rocce aspre, su certe
consonanti che imitano il tumultuoso gorgoglio
dei torrenti. Le tue mani forse mi cercavano,
tentavano un approdo, ma tu lo sai
che il nostro sole è la solitudine
e la promessa di non vederci più
è già nei nostri passi.
L’ho visto il gatto, e quella lunga scia di tristezza.
Ho visto la fabbrica e la fretta dei viaggi.
Le mani si cercavano e ridevi di un riso
notturno e c’era la pioggia e il buio
e il momento era perfetto per perdersi,
per scivolare via come un addio.
*
Battesimo di luce
L’alba protende un balbettio di fioca luce.
Rinnova un reticolo di strade, preannuncia
le forti sillabe del sole.
Antiche stagioni prendono per mano l’orizzonte
e attraversano il guado dei giorni e delle crepe.
Il sole nomina le case una per una, le svela
nel rito di un battesimo di luce.
*
Il confine del vento
Questa campagna esatta e laboriosa tenere tra le braccia,
masticarla piano, assaporare tra i denti una gioia
assoluta e senza credi, diventare lo sguardo fisso delle vigne,
essere i sentieri che corrono a perdifiato tra gli ulivi, vene
che ingurgitano i verbi della luce, la grammatica breve
degli insetti, le vite infinite e sconosciute, le chiome
nebulose dove si frange il volo della gazza, le aperte
geometrie, se potessi questa terra ingoiarla, digerirne
le masserie lucide di calce e di silenzi, essere il brusio
delle finestre, il richiamo misterioso dei pozzi, se potessi
essere la memoria di tutti i fili d’erba, essere io lo sguardo
il suono, il confine del vento.
*
La parola sole
Sembrava una cosa abbandonata, un lembo
di camicia sollevato, le scarpe d’incerta
qualità, ma non era una cosa era
un uomo ucciso. Il telegiornale ha acceso
una terribile domanda. Campo lungo
su folla e idranti, blindati e assetto
da guerra. Siria. Una strada del mondo.
Dove lo custodisce adesso quell’uomo il nome?
Aveva gambe che lo portavano in una calca
di autobus e occhi che guardavano altri occhi
e a volte il cielo e una voce
che pronunciava semplici parole.
Quante volte la parola sole? E acqua?
Avrà detto qualche volta amore?
Ora giaceva lì, in una carrellata rapida.
Vinto da una forza di gravità
che non concede scampo.
Grazie mille per aver pubblicato le mie poesie, è per me un onore comparire in questo spazio! paolo polvani
…sono poesie di immenso respiro, dove pero’ appare come sublimata una sofferenza profonda, una tristezza senza pari che abbraccia la consapevolezza di un destino umano fatto di solitudini, di addii, di precarietà, di morte…A dare un senso opere architettoniche che si sopraelevano, come le chiese e i campanili; esse durano nel tempo oltre una singola vita, la natura stessa le ha come assorbite: i tramonti, le maree, gli equinozi, gli arcobaleni. E sono diventate querce centenarie da venerare, intorno si dipana la vita di generazioni e generazioni. Noi mortali , loro eterne…E’ tuttavia sempre la natura a restituire un significato alle cose, che viceversa sarebbero spente, come le case del villaggio prima del sorgere del sole…Molto belle davvero…
grazie Annamaria per la lettura e il bellissimo commento! credo tu abbia profondamente ragione
Poesie luci,muri,suoni entrano ad esaltare un sentimento forse lontano ma pieno di senso che ancora spinge il poeta a raccontare la sua meravigliosa solitudine, la sua parola. Emozionata .Ringrazio
grazie a te, Paolo. Le tue poesie sono un respiro anche per noi…
grazie anche a Emilia Banfi, e ancora a Annamaria. Si scrive anche per essere letti, con la speranza di essere apprezzati… per cui ancora grazie!
L’umano più che umano , quello che da sempre chiediamo alla poesia , è tutto in questi versi : amore per chi legge e per l’oggetto del ricordo .
leopoldo –
Paolo
più ti leggo e più scopro quanto tu sia bravo e profondo.
mi porto via questo verso :
– “mi arrampicherò sul tuo accento di montagna,”
grazie
luigi
grazie anche molte a Leopoldo e a Luigi, fin troppo generosi nei miei confronti!