di Ennio Abate (da Samizdat Colognom n.1, dicembre 1999)
[Un resoconto di un incontro a Cologno Monzese con una giovane immigrata cilena. Un semplice, impotente sguardo sulla vita condotta da gente come noi in uno spazio minimo e in una condizione di precarietà. Siamo negli stessi precisi luoghi dove altri immigrati, provenienti dal Sud Italia o dal Veneto povero, avevano provato negli anni ’50 e ’60 ansie e sofferenze simili.]
Piove. Io e la signora Onofria entriamo da uno stretto cancelletto. Lasciamo gli ombrelli all’esterno su uno stendipanni al riparo carico di indumenti stesi ad asciugare. Nella parete di sinistra della stanza c’è una cucina di quelle componibili. In fondo uno stretto ripiano e alcune sedie da bar. A destra una porta chiusa. Sarà forse la stanza da letto. Poi c’è uno stanzino. Vedo sacchi ripieni di abiti e, mi pare, un lettino. Di là c’è un’amica ecuadoregna di Clorinda, che s’affaccerà per salutarci solo alla fine del colloquio. I bambini sono a scuola. Clorinda ha 29 anni. E’ cilena, cresciuta a Santiago. Faceva la studentessa. Ha il diploma di lingue, tre anni di scuola superiore. Ha due bambini, uno di tre anni e l’altro di sette. Il primo va alla scuola materna e l’altro fa la seconda elementare. E’ senza permesso di soggiorno e suo marito, finito in carcere per spaccio di droga mesi fa ed ora in libertà, ha perso il lavoro e ha lasciato la casa dove lei si trova, in via Trento al 29. Dapprima ho pensato che l’avesse abbandonata. Poi, man mano che il colloquio si faceva meno diffidente, mi ha spiegato che, pur aiutandola per quel che può con lavori in nero, non sta più con lei e i bimbi. Lo fa per ostacolare lo sfratto richiesto dal padroncino dell’appartamento.
Il marito, trentasette anni, è scappato dal Cile nel 1989. Faceva parte del Fronte patriottico. Si era rifugiato nell’ambasciata tedesca a Santiago e da lì era arrivato in Germania con lei. Sono stati sette anni a Hanau, un paese nella periferia di Francoforte, dove avevano dei parenti. Lì lui lavorava come muratore e avevano una casa. Lei vi ha imparato il tedesco. Nel ’96 erano ritornati in Cile, ma era stata una delusione. Dopo la permanenza in Germania, non si adattavano più al tipo di vita del loro paese d’origine. Il marito allora era ripartito. Stavolta per l’Italia e poi aveva fatto venire anche lei e i figli.
Clorinda cerca un lavoro e una nuova casa. Così spera di ricongiungersi col marito. Ma senza permesso di soggiorno, di lavoro regolare non ne trova. S’arrangia. Ha fatto per un po’ di tempo la pulizia delle scale di qualche condominio a 500mila lire al mese. I soldi non bastano. Continua a cercare presso imprese di pulizia, dove l’indirizzano le poche amiche che si è fatta a Cologno, fra cui la signora Onofria, la madre di A.C. che mi suggerito di incontrarla, sperando che io possa fare qualcosa per lei. Tutto quello che ci diciamo è condizionato da questa sua urgenza. E’ a Cologno da due anni. All’inizio un’amica peruviana le aveva procurato un posto letto. Poi col marito, che allora lavorava da muratore, erano riusciti ad affittare l’appartamento che ora occupa. Il primo anno hanno pagato regolarmente l’affitto di 800mila lire al mese. Ora però sono sei mesi che non riesce più a pagare. Il padrone va continuamente da lei a farle rimostranze. “Lo faccio entrare e gli spiego la situazione. Lui s’arrabbia”. M’informo su di lui. Dev’essere un piccolo proprietario, con tutta probabilità un ex immigrato. L’abitazione è ad un piano. Sono le tipiche costruzioni della cosiddetta Corea, messe su alla buona da immigrati-muratori durante la prima espansione urbanistica di Cologno, che negli anni ’50 era ancora un paesino agricolo. Ora è circondata e nascosta dai palazzoni costruiti successivamente. Vi si accede attraverso una stradina stretta che congiunge Via Milano con Via Trento.
…l’inizio di una storia dei nostri giorni che ci riporta al principio di realtà. Certo i poveri, tra cui i bambini di ogni latitudine, i giovani e i migranti, sono le persone alle quali dare la precedenza. Noi d’Occidente ne abbiamo già avuta fin troppo e ne siamo usciti malati, inquieti…con un altro tipo di povertà. Ma di questi tempi la povertà materiale ritorna ad essere di molte categorie di persone e il divario con i ricchi aumenta.
Che dire? Che fare? Di solito a vergognarsi non sono le persone che dovrebbero…
Auguri tanti a Clorinda e alla sua famiglia che non si perda mai ti coraggio, ne avrà bisogno, tanto.
Io non sono niente per Clorinda , né la conosco, ma mi vergogno lo stesso.