di Samizdat
Su «L’Ombra delle Parole» (qui) un post intitolato «Non date le parole ai porci. Estratti di poetica e poesia» di Cesare Viviani. Essendo stato catalogato dalla Casa della Poesia di Milano come uno dei “veri poeti» – investitura comunque da lui accolta – confesso che ero un po’ diffidente anche nei suoi confronti per le ragioni esposte da Mannacio (qui). Ma ho messo da parte i riverberi della recente polemica e ho letto con attenzione. E qui riassumo alcune mie critiche.
1. Parto dall’essenza, mantra ossessivo di tali estratti. Viviani, infatti, sostiene proprio che l’«essenza della poesia», sarebbe «l’indefinibile, ovvero il limite del definibile, del comprensibile, dell’interpretabile, del leggibile» (1). Ma, dico io, se più avanti scrive: «nessuno ha mai definito l’essenza, la peculiarità della poesia, nessuno è mai riuscito a definirla, a codificarla», un lettore onesto (non uno dei «porci» con cui Viviani se la prende) sbaglia a chiedersi: e allora? come fa Viviani a parlare di «essenza» della poesia? Quale Verità possiede lui per parlare come un Mosè della Poesia?
2. E ce ne fosse una sola di tali affermazioni assolute! Poche righe dopo ne trovo subito un’altra: «Comunque, se l’essenza della poesia è l’indefinibile, si può dire che il fondamento della poesia è il nulla». Punto e basta. Ci fosse un esempio, una prova, un’argomentazione. Figuriamoci!
(Apro parentesi. Mentre andavo avanti nella lettura degli estratti, ho cominciato a innervosirmi. Ovviamente l’angioletto buonista alla mia destra mi ha detto pacato e suadente : Comprendi la sua tensione all’Assoluto. Tieni presente che parla così per non dare le parole ai porci! Una certa apoditticità ci vuole con simile brutta genia. Ed io a obiettare sottovoce: Vabbè, ma non ti pare un tantino intimidatorio? Non ho sentito la sua risposta, perché nel frattempo dovevo badare al diavoletto che mi incalzava da sinistra: Non ci cascare! Questi “veri poeti” tappano la bocca a tutti non solo ai porci!)
3. Quanta enfasi poi su questa benedetta discontinuità tra linguaggio poetico e linguaggio quotidiano! Ne hanno parlato a sazietà da Leopardi ad Adorno a Fortini. Ma Viviani perché la deve spingere all’estremo, oltre ogni possibile mediazione? E fino ad immaginare – solo d’immaginazione per me si tratta – una sorta di essere disincarnato capace di un «ascolto assoluto»: «C’è un’immersione nell’ascolto, un ascolto assoluto nella scrittura della poesia, nel quale l’organizzazione dell’io scompare, scompaiono il buon senso e il giudizio, così come ogni valutazione normale, quotidiana delle cose, scompare l’ambiente ordinato intorno a noi, e c’è solo quest’ascolto assoluto, vertiginoso della parola che diventa la protagonista nell’esperienza del poeta». All’anima, ragazzi! Eppure dei dubbi sorgono. Se un tale essere (un angelo?) ci fosse, perché dovrebbe scrivere versi o impegnarsi nella fatica della scrittura poetica? E poi perché non potrebbe ascoltare tutto il resto: le banalità, le notizie belle e brutte che vengono da tante parti del mondo, le beghe tra poeti e letterati, ecc.? Anche dando per buona che l’organizzazione (pratica) dell’io scompare quando entra “in zona poetica” (ma io suggerirei: si attenua, va in uno stato di semiveglia…), non mi si dica, per favore, che la «parola» fa tutto da sola! Non ho mai visto una parola diventare «protagonista» senza un poeta in carne ed ossa, magari con la sua bella gobba o delle sgradevoli nevrosi. Né mi pare che il lettore di poesia provi così facilmente il «sentimento intenso, quasi indefinibile, insensato e disinteressato, gratuito» su cui tanto ricama Viviani. Avrà pure un corpo ‘sto lettore, no? Avrà pure delle faccende da sbrigare, delle tasse da pagare, dei casini in famiglia che gli interrompono la lettura, no? Avrà pure dei sani o insani “pre-giudizi”? (O ce li ho solo io?). Ce li ha, mi pare, lo stesso Viviani, quando sostiene (e sempre senza portare un qualche esempio) che «l’interpretazione è la forma maggiore di perversione». Questo a me pare un pregiudizio grosso quanto una montagna.
4. Su un punto, però e a certe condizioni, potrei concordare con Viviani. Quando scrive: «L’essenza della poesia, che la fa distinguere da ogni altra scrittura, non risiede ovviamente nei dati caratteristici esteriori, quali metrica, prosodia, rima, lessico e figure retoriche. E nemmeno, passando a realtà interiori, risiede nel modo del rispecchiamento, quando il lettore crede di vedere rispecchiate nella poesia le proprie emozioni, i propri stati d’animo». Concorderei. A patto che si metta da parte il termine ‘essenza’ o lo si spieghi. E si precisi che gli strumenti linguistici tradizionali del “mestiere di poeta” (come una volta – per accennare ad altre attività altrettanto importanti – il forno a legna per il panettiere o l’incudine per il fabbro, ecc.) di per sé non garantiscono che venga fuori una buona poesia (o una buona pagnotta o una bella pentola ). Ma non per ribadire che «l’essenza della poesia, la sua straordinaria energia, è qualcosa che sfugge a ogni definizione e oggettivazione». Quegli strumenti fanno parte della storia della poesia (della “produzione poetica”) e bisogna farci comunque i conti. O per usarli ancora, se funzionano e ci servono. O per sostituirli a ragion veduta con altri che si dimostrassero più utili ed efficaci. Ricordando poi che sempre “oggettivi” sono. O una parte di “oggettività” non possono non conservare. A meno di non uscire dal campo della poesia ed inoltrarsi in quello della religione o della mistica.
5. Ma insiste ancora Viviani: «L’essenza della poesia è una vertigine, la vertigine che si prova di fronte all’abisso del vuoto». Eppure, dico io, per rendere in poesia la vertigine, non si può mai essere totalmente afferrati dalla vertigine! I linguaggi realisti ed ermetici, che Viviani richiama, sono sì «strumenti, apparati, modi tangibili» per costruire poesia. Non però, come lui sostiene, perché «realizzano l’esperienza del limite, la vertigine del vuoto, lo smacco della separazione e della perdita, la spoliazione degli strumenti umani, la fine del sapere, del controllo e dell’orientamento», ma piuttosto perché la fingono, ci permettono di immaginarcela. E funzionano proprio perché non oltrepassano del tutto quel limite, se non si separano del tutto dai viventi e non annichiliscono del tutto sapere, controllo e orientamento (e ragione). Viviani sembra assillato da un’unica preoccupazione: «non negare il vuoto, l’assenza, il nulla». Ora è vero che buona parte del pensiero più positivistico e paciocconamente o ipocritamente progressista questo ha fatto e fa in modi persino asfissianti. Ma, per guardare vuoto, assenza e nulla, come lui vuole, si deve cancellare all’incirca metà o più della metà della poesia finora prodotta? La poveretta è da secoli che è andata avanti anche – questo le sia concesso! – cercando «di comunicare, di farsi capire, di ottenere effetti, di conquistare lettori, di raggiungere finalità, di collegarsi ai contesti, di dare valore alla società, all’etica, ai contenuti esistenziali, ai valori». Non esiste la « “poesia pura”». O, per evitare a nostra volta di essere apodittici e assolutisti, non esiste soltanto la poesia che si pretende pura, al di là di ogni ideologia, storia, uso sociale del linguaggio, ecc. C’è almeno una buona parte della pratica poetica che – se vogliamo andare incontro a questo linguaggio, che a me pare un po’ da poeti-preti, possiamo anche chiamare impura. C’è stato Mallarmé, ma c’è stato pure Brecht. Ed è una bella distorsione dire che la poesia «non ha bisogno di niente». Come minimo ha bisogno di oggettivarsi in linguaggio, in testo, in voce, in suono. Lo stesso Viviani produce e pubblica testi scritti. Anche lui passa per la cruna dell’ago dell’oggettivazione in linguaggio e in testo. Non vogliamo negargli che la sua sia una delle poesie possibili. Che sia una poesia che nasce dalla sua particolare poetica «della spoliazione e della nudità»; e dalla (in verità un po’ autoritaria) pretesa di costringere il lettore «all’esperienza del limite di decifrabilità e di interpretazione, alla perdita di scienza e coscienza, di controllo razionale ed emozionale, al vuoto di concetti e alla scomparsa del senso». Ma non la presenti come l’unica poesia. O come la poesia ’”essenziale”.
6. Discutibile è pure quanto scrive sulle differenze generazionali. Se l’attenzione dei giovani – diciamo quelli post boom economico – è andato al «linguaggio pubblicitario e mediatico, il teatrino televisivo e canzonettistico, le battute da cabaret, gli oggetti di moda e le parole di maggiore uso, i gesti e gli atti e gli atteggiamenti di successo, insomma una formazione astratta e recitata, basata sull’imitazione» non è che non hanno avuto padri, come Viviani sbrigativamente afferma. I giovani si sono scelti altri padri. Non più quelli delle generazioni precedenti, ma quelli dell’industria culturale. Possiamo aggiungere: purtroppo. Perché ai vecchi cresciuti a Dante o a Leopardi può spiacere. E tuttavia possono tenere il broncio e limitarsi a sputacchiare sul fatto che essi vanno per altre strade? Mi pare anche una cattiva generalizzazione dire che: «gli artisti di oggi, per la maggior parte, improvvisano: non frequentano l’arte di secoli passati, è troppo faticoso, non hanno una passione disinteressata per l’arte, hanno solo una passione per sé, per la propria affermazione e il proprio successo». Non tutti. Ma fossero anche tutti o la maggioranza, viene ancora da controbattere a Viviani che, se «non leggono le opere dei poeti del passato: nella migliore delle ipotesi spiluzzicano qualche pagina qua e là. Improvvisano e si autopromuovono “poeti”», non è che loro la «vertigine» (o – io spero – un senso nuovo della storia e della vita sociale e poetica) la stanno cercando altrove e a modo loro?
P.s.
Ai margini di questa polemica, mi va di far notare un’altra contraddizione. Non di Viviani stavolta, ma del blog “L’Ombra delle Parole” che ha ospitato il suo verbo. Il blog in questione è tornato di recente a polemizzare con il povero De Signoribus (qui). (Polemica nella quale – dati i precedenti personali: qui, qui e qui – non sono intervenuto). Lo si è però di nuovo sbeffeggiato e accusato proprio perché la sua poesia (per alcuni dei commentatori neppure degna di tale nome) si spingerebbe – e qui prendo volutamente in prestito le parole di Viviani – oltre il «limite del comprensibile, del definibile, del dicibile». Ora, amici, appena un po’ di coerenza! Se pubblicate gli estratti di Viviani – suppongo approvando le sue affermazioni che ho riportato al punto 1 o altre in cui forma e contenuto vengono definiti «accompagnatori capaci di condurre, prima l’autore e poi il lettore, fino al limite del comprensibile, del definibile, del dicibile»-, perché ve la prendete con De Signoribus, che in direzione “vivaviana” si muove?
NOTE
(1) Più avanti ancora: « limite del comprensibile, del definibile, del dicibile». Più avanti ancora: «Poesia si ha quando la potenza del linguaggio o del pensiero riesce a mostrare anche il limite di sé, il niente che l’accompagna». E poi: «L’essenza della poesia, la sua straordinaria energia, è qualcosa che sfugge a ogni definizione e oggettivazione». E inoltre: « L’essenza della poesia è una vertigine, la vertigine che si prova di fronte all’abisso del vuoto…».
Commenti spariti?
Cosa vuoi che dica io…
Che per me il linguaggio deve essere puro, semplice al servizio del significato, di un grande significato naturalmente. Insomma le parole non devono mai valere più dello spirito della poesia , non devono coprirlo né esaltarlo ma renderlo prezioso al lettore che se lo farà suo se lo capirà. Con questo e solo con questo intento, credo e scrivo.
Se non qui, la discussione su quest’argomento prosegue sul blog “La presenza di Erato”.
Per chi fosse interssato/a ecco il link:http://lapresenzadierato.com/2014/05/16/a-proposito-di-non-date-le-parole-ai-porci-di-cesare-viviani/
…”Non date le parole ai porci” già l’affermazione non mi piace perché vi si può leggere una doppia presunzione: di chi ritiene che le proprie parole, e quindi i significati in esse contenuti, possano distare anni luce da alcuni potenziali lettori che vengono rapportati ai porci(a parte che questi ultimi non si possono difendere per ribadire una dignità che appartiene a tutto il mondo animale), e di chi pretende di distinguere a priori gli eletti dagli indegni. Mentre, secondo me, la parola poetica dovrebbe raggiungere gli altri senza escluioni..inoltre a volte un testo letto o ascoltato anni prima ti può raggiungere anni dopo. Se poi si disperde nel vento, se valido, sarà un seme per future generazioni…Che l’essenza della poesia sia l’esperienza del vuoto o piuttosto di una manifestazione improvvisa, penso che maturi da realtà vissute molto umanamente e, se c’é un salto, quello appartenga all’uomo in misura universale…Alcune poesie sulla natura di Cesare Viviani sanno restituire un senso di ritrovamento di un mondo smarrito, di un eden dimenticato ma anche Ciaula, il piccolo minatore sopraffatto da una realtà feroce, quando potrà vedere la luna si apre alla poesia…
Incredibile, la pochezza delle argomentazioni mi lascia senza parole. Se ci fosse un po’ di onestà, non sarebbero state omesse le parole di pag. 142, all’interno delle Note.
Cito la nota n. 3. «In tutto il volume, ma anche all’interno di ogni parte, ci sono alcune iterazioni, insistenze e contraddizioni, che non ho eliminato perché hanno segnato punti di accentuazione di questo mio percorso di pensiero».
Tuttavia è inutile con voi aprire una discussione. Molte altre considerazioni si potrebbero fare per restituire un po’ di verità al bel libro di Viviani, ma è davvero inutile. L’invidia, il desiderio di visibilità, la vostra profonda ignoranza vi fa sfiatare e fa infiammare la vostra sessualità scadente e repressa. La cosa che più odio di voi è l’esigenza di mettere bocca dovunque, vi ritenete sempre così degni di parlare, mai di tacere. Parlo al plurale, perché siete una collettività scadente, violenta e incivile, siete il peggiore stereotipo.
@ Francesco Sgrò
Più incredibili paiono la sue accuse indimostrate («la pochezza delle argomentazioni mi lascia senza parole»; «Se ci fosse un po’ di onestà»).
Lei è così disattento da non essersi nemmeno accorto che le critiche a Viviani si riferivano puntualmento ai soli estratti apparsi su L’OMBRA DELLE PAROLE («Su «L’Ombra delle Parole» (qui) un post intitolato «Non date le parole ai porci. Estratti di poetica e poesia» di Cesare Viviani.»). Perché allora parla di omissione delle «parole di pag. 142, all’interno delle Note»?
Invece di trincerarsi nella spocchia dell’offeso, faccia le «altre considerazioni», dica quel che pensa sbagliato o travisato dalla critica di questo post. (E se lo ritiene, scriva un articolo a favore del libro di Viviani e non esiteremo a pubblicarlo e a discuterne).
Per favore, però, ritiri il suo vomito («L’invidia, il desiderio di visibilità, la vostra profonda ignoranza vi fa sfiatare e fa infiammare la vostra sessualità scadente e repressa»). E non parli genericamente «al plurale», a «una collettività». I commenti a questo post sono firmati con nomi e cognomi precisi. E anche lo pseudonimo ‘Samizdat’, usato in quest’occasione, è ben individuabile da chi frequenta questo sito.
Se no, scadente, violento e incivile sarà lei.
Nel corso della vita,
ll callo ha la sua importanza.
Di solito sul dito
invade il passo ,sofferente.
C’è chi se lo tiene
s’adatta torce viso e gambe
nessuno s’adegua al suo dolore.
Nessuno comprende il suo intento
eppure egli continua incessantemente.
Come spasimo è dei migliori, capite?
urla e parla del suo male ,
lo porta, lo fa vedere, quasi toccare
ma le parole non bastano a far capire
-ai porci- il suo dolore.
BYEMY
Le persone intelligenti non disprezzano nessuno, perché sanno che nessuno è tanto debole da non potersi vendicare, se subisce un’offesa.
Esopo
Chi sia questo Francesco Sgro non mi è dato sapere. Avevamo aperto un pacato, sereno,costruttivo dialogo. Le offese tornano al mittente. TUTTE.
Non date nessuna attenzione a Giorgio Linguaglossa. È un vate ottuagenario, maestro in concept marketing ad uso delle sue case editrici di riferimento e spara supercazzole letterarie degne di Heidegger.