di Franco Nova
[Un’ironica allegoria filosofico-politica ricca di possibili riferimenti ai dilemmi della storia e dell’esistenza. Mi pare s’inserisca bene persino in quelli elettorali della discussione in corso su “”2034???” (qui). Largo alle interpretazioni più audaci o sottili. (E.A.)]
Il pino e la betulla si presero d’amore; non proprio fulmineo, ma a furia di vedersi non troppo lontani l’uno dall’altra. Il pino era abbastanza rigido e compassato; la betulla tenera e flessibile, buona e premurosa, ma un po’ frivola, leggera quanto basta per interessare un pino così serioso. Erano relativamente vicini; essendo però alberi solidamente fissi al suolo, i loro rami non riuscivano a toccarsi. Le loro radici sì, per cui le moine e carezze da “amorosi” si svolgevano sotterraneamente. Simili tenerezze rattenute, senza sfogo, durarono parecchi mesi; la loro unione sembrò rinsaldarsi comunque, malgrado le limitazioni del caso.
Eravamo all’inizio dell’autunno e arrivò il vento; prima una brezza e poi, progressivamente, una specie di uragano, violento e sprezzante di ogni virtù femminile. La povera betulla resisté il più possibile, fece ogni sforzo per opporsi a quel rozzo e spavaldo, antipatico quant’altri mai. Poi la sua natura così incerta e variabile cedette e si piegò al vento. Il pino rimase molto male; rigido com’era, non si sconvolse in senso proprio, sentì però un freddo fastidioso invadergli il tronco e salire lungo i rami. Le sue radici si ritrassero e si allontanarono dal contatto nel sottosuolo. Gli era in definitiva fortemente dispiaciuto che la betulla avesse opposto così poca resistenza di fronte ad un gradasso la cui furia scomposta aveva mostrato la sua ottusità, la miserabilità dei suoi intendimenti soltanto tesi a piegare, non certo ad amare. Il pino ridivenne solitario e sdegnoso.
La betulla si disperò: “pino, pino, per favore, è stato un momento di cedimento di fronte a tanta cattiveria e aggressività. Sono pentita, non accadrà mai più, un semplice attimo di sbandamento non può cancellare un lungo periodo di affettuosi contatti, di comprensione reciproca”. Il pino occhieggiava una quercia solida, inflessibile, che aveva irriso la violenza del bruto dimostrandogli tutto il suo disprezzo per il selvaggio comportamento di quel soffiare privo di qualsiasi lume di intelligenza. Era però molto lontana e la maledizione dell’albero è di non poter muovere un solo passo; nemmeno si poteva sperare che le radici, anche con il passare degli anni, fossero un giorno in grado di toccarsi e apprezzarsi reciprocamente. Alla fine, con un leggero fremito del suo particolare fogliame sempreverde, il pino decise di rivolgersi nuovamente alla betulla e di riprendere ad amoreggiare con lei; sempre nel sottosuolo e sempre con carezze estenuanti e nessuna vera passione travolgente.
Passarono i mesi invernali e arrivò il più sgradevole mese dell’anno, quel febbraio corto e maligno, privo di qualsiasi senso di “naturalità” (equivalente a quello che noi denominiamo senso di umanità). Essendo portato a mettere male tra tutti gli esseri viventi, febbraio chiamò il vento, gli promise un accompagnamento di nevischio e gelo feroce. Il vento non si fece pregare e ricominciò a soffiare, caricando a testa bassa e con ottusità duplicata rispetto alla volta precedente. La betulla si oppose forse più che in passato, ma non la sorreggeva la sua natura così cedevole e ineducata alla virtù. Resistette abbastanza a lungo, poi si lasciò nuovamente andare con scarsa lungimiranza circa gli effetti disastrosi del suo nuovo cedimento. Questa volta, il pino decise che era proprio finita; lontananza o meno, meglio rimirare la quercia, nuovamente decisa e sprezzante verso questo importuno tanto rozzo e brutale, totalmente privo di un qualsiasi materiale su cui imprimere ricordi, un materiale in grado di far crescere rami e radici verso scopi costruttivi.
La betulla, il cui pensiero non riusciva ad andare mai oltre il presente e l’immediato passato, si disperò ma sempre con quel che di superficiale tipico di piante simili: piagnucolò, si lamentò, assunse quell’aspetto contrito la cui recita balza subito all’occhio. Non rimpiangeva d’aver sospeso la virtù al passaggio del vento, ma capiva che questi era volubile e passeggero; il pino restava lì fisso e stabile per chissà quanto tempo ancora. Quindi ricominciò con le lagnose lamentele: “pino, pino, so di essere in grave torto con te, ma quello è un bruto e avevo paura potesse addirittura strapparmi dal suolo, al che sarei poi morta. Mi sono impaurita e mi sono fatta piegare per questo; non ho provato alcun piacere, te lo assicuro, solo terrore mortale. Adesso, ho imparato la lezione, non accadrà mai più; piuttosto divelta!”.
Mentiva circa il piacere non assaporato, il terrore era ampliato a dismisura per opportunità. Al pino comunque tutto questo ormai non importava più; vedeva la betulla come una poveretta sempre in preda ai sentimenti più vani e soltanto irriflessivi. Sopportò per un po’ di tempo quella tiritera, ormai solo fastidiosa per lui. Alla fine decise d’essere duro per farla smettere: “basta con questi falsi rimorsi da sciacquetta in vena di piaceri subitanei e che svaniscono in un attimo. E soprattutto basta con questa confidenza che ti prendi con un albero serio come me: d’ora in poi chiamami Giuseppe!”.
Giuseppe è ancora lì altero e solo, dopo quasi cent’anni, ignorato da tutti per la sua inesistente “naturalità” (cioè “umanità” in altra specie vivente). Della betulla nessuno si ricorda più; una qualche bufera di vento l’ha ormai portata via, sciocco alberello così debole, così inutilmente flessibile.
“…sempre nel sottosuolo e sempre con carezze estenuanti e nessuna vera passione travolgente.”
Sta forse qui l’errore di Pino, in queste carezze prive di vera passione; e certo la distanza fa la sua parte: una distanza oggettiva, incolmabile, tra esseri affatto diversi, impossibilitati ad unirsi, a fondersi l’uno con l’altro come invece sa fare il vento che non avendo ostacoli si dà all’abbandono e al trasporto amoroso. La distanza è la forbice che divide, è ragione e giudizio; anche queste sono qualità che chiedono l’abbandono, ma si tratta di un abbandono condizionato: è amore che non sa nulla della libertà, amore che vorrebbe possedere e sottomettere. Pino è un egoico, è destinato a cent’anni di solitudine, e quel che è peggio in compagnia di una quercia poco attraente. Non v’è certezza se l’amore dipende dall’altro: l’altro potrebbe mancare in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione, che ne sarà allora dell’amore? L’amore che nasce dalla solitudine è diverso, sa riconoscere la parte che gli spetta e ne gioisce. Offre certezza perché non tentenna, non pone condizioni, non affida la propria esistenza ad altri, si ama ed ha rispetto di se’. Non è un mendicante, non è un padrone; condivide la libertà, non la concede perché la libertà non ha appartenenze.
Certo non è facile: amare in questo modo è amare la libertà, e la libertà è insicurezza. Ma davvero conoscete qualcuno disposto a vivere nell’insicurezza? Il matrimonio esiste per questo; e per rispondere all’invito di Ennio ad estendere il significato di questa allegoria, direi che è matrimonio anche l’appartenenza a una ideologia se convola in partito o in uno schieramento. Ma Pino teme la solitudine, l’insicurezza, si mantiene ad un passo dalla libertà, tiene le distanze. La libertà gli piace ma non sa che farsene. Vorrebbe stare in un bosco, tra alberi simili a lui, allora sì.
Nè betulla e neanche quercia, ma quel Giuseppe aveva bisogno di tutt’e due, la natura non comprende ciò che agli uomini non dovrebbe sfuggire. La libertà sicuramente avrebbe sistemato tutto, il pino (quella è la sua vera identità), la betulla e la quercia ,avrebbero avuto parecchi momenti di felicità.
Non mi riconosco né nel pino né nella betulla, se sono come il racconto li descrive. Il vento “cattivo”? Si sono mai domandati, quegli alberi così poco alberi (per fortuna quelli veri sono diversi), quante benefiche nuvole quel vento riusciva a spingere dove il bisogno d’acqua era estremo (gli alberi lo sanno sempre)? Stando al racconto pino e betulla mi sembrano vittime di una prospettiva stretta, tutta giocata sulla colpa e sul merito, sul giudizio e sull’autorità, infine recitano un oscuro apologo tutto interno al potere in senso bieco. E poi che idea, gli alberi che recriminano di non poter camminare. Se l’autore avesse scelto per protagonisti i pali di un recinto, chissà, forse, ma gli alberi no, non si attagliano loro quelle bruttezze di sentimenti così umane, di umanità compiaciute di sé, di intelligenze che volendo spiegare l’esistente riflettono solo la pochezza delle prospettive adottate. Qui, ora, la realtà è migliore di questa sua rappresentazione.
Perché trascurare l’ironia di questo racconto? E non resistere alla tentazione di identificarsi con gli alberi-personaggi, che sono figure fin troppo tipizzate («Il pino era abbastanza rigido e compassato; la betulla tenera e flessibile, buona e premurosa, ma un po’ frivola»)? O col vento-personaggio? O con la quercia-personaggio?
E perché poi non concedere ad essi di non rispettare le regole che la natura impone o di non essere ecologicamente “buonisti”?
Qui è messa in scena l’eterna commedia del tradimento amoroso: lei che cede al « rozzo e spavaldo, antipatico» vento e poi “si pente”, lui che si sente tradito e diventa più « solitario e sdegnoso» e occhieggia platonicamente un’altra «molto lontana» e (in apparenza) più virtuosa, ma poi torna all’amoreggiamento di routine, senza « nessuna vera passione travolgente».
Non mi sembra neppure una forzatura vedere nel pino una rappresentazione allegorico-politica dell’atteggiamento del cosiddetto “duro e puro”, nella betulla di quello spontaneo, passionale e vitalistico, nella quercia del moralismo e nel vento/ bufera la figura fin troppo montaliana della storia.
E se si vuole, con un occhiolino alla contingenza delle elezioni europee, persino nel pino la figura dell’astensionista, nella betulla quella di chi cede (e poi si pente) al vento della propaganda.
Mi riservo in un secondo momento il commento che merita il racconto di Franco Nova sempre di una certà densità , tengo però a precisare che non è così tagliabile con l’accetta la dinamica intercorsa nel bosco 2034… la tipizzazione, a cui rinvia il commento di Abate, è , perlomeno ai miei occhi e alla mia sensibilità, una specifica più del gioco dei ruoli che delle parti…
qui, qualcuno o un insieme di autori , quale anche Ennio è, possono avere ruoli, ma perlomeno finora, sono come noi lettori , nella stessa identica barca delle parti, che infatti mancano così tanto che , sempre ai miei occhi, se nessuno è parte dell’altro , paradossalmente questa condizione genera che tutti potrebbero esserlo per semplice tensione , palpabilissima, della sua totale assenza. Sempre che, chi si dice dalla parte di “Poesia” , sia più che un/una semplice dura/o e pura/o , qualcuno che la viva senza simularne qualcosa come in un reality poetry.
E, allora, tutto ciò porta al secondo paradosso per cui : ognuno di noi — camminante o meno, volante o ristagnante-può essere vissuto o viversi sia come pino che come betulla, sia come terra che come acqua, finendo per estremo a esser tutti betulline o tutti peppinielli.Relitti. Tronchi soffiati lungo il torrente da un “vento” rigonfio anch’esso del letame atomico “del cambiamento”. D.C.D. detrito comun denominatore incapace a darsi e dirsi il proprio nome come detrito e a raccontare e ad ascoltare la propria e l’altrui storia di simile post-umano detrito, del resto anche quando era già un detrito millenario non c’era storia per riconoscersi con tale nome.
ps
“astensionismo” è parola del POTERE che va rigettata (direi visti i temi, rigettata) in tronco poichè svuota, come da desiderata dei guardiani della fattoria o dei potenti stessi, la capacità “votante” di chi, avendo saputo valutare e ponderare le finzioni che avvolgono questo sistema di voto e dei suoi rappresentanti, li lascia soli.
@ ro
Anche ‘POTERE’ ( in maiuscolissimo poi) è ‘parola del potere’. E con questo? Il linguaggio è forse fuori dai rapporti di potere? Non parliamo più allora? Ci rinchiudiamo in un nostro idioletto che capiamo solo noi e sul quale abbiamo tutto il potere?
Davvero poi chi sapesse “valutare e ponderare le finzioni che avvolgono questo sistema di voto e dei suoi rappresentanti, li lascia soli”?
Li lascia soli a fare i macelli che fanno.
Grazie Ennio, hai capito tutto ciò che volevo dire , perfetto, continua così, puoi anche ridere visti i risvolti ironici che dicevi prima.
…mi piace molto la distinzione di Ro tra gioco di ruoli e gioco delle parti…interpretando ovviamente. Secondo me nelle favole in genere é più presente il gioco di ruoli, dove animali o alberi rappresentano “vizi e virtù” umane in forma piuttosto stereotipata, ma in questa di Franco Nova, sembra essere presente il gioco delle parti, cioè quando in ciascuno di noi sono presenti anche le parti degli altri o una forte aspirazione ad esse…la betulla e il pino non sono in contrapposizione, come il lupo e l’agnello nella famosa favola, ma si attraggono, proprio perchè tanto diversi a loro manca la parte dell’altro -a. Fin qui mi sembra tutto bene, noi umani tendiamo a completarci, il problema sorge quando una persona tende a negare l’altro o a negarsi…E qui entra l’idea del possesso, del potere e sfuma quella di libertà, di cui parla Mayoor.
E poi c’é il vento, un elemento esterno, che influenza (o determina) il gioco dei ruoli e ciascuno si ripresenta in veste parziale. Come dire che non ci si lascia contaminare dalle nostre parti migliori. Per esempio io vorrei sapere da Ennio e da Ro come, non votando, “li si lasci soli” arginando o portando alle estreme conseguenze i loro macelli… Non é una domanda retorica
ciao Annamaria, ti ringrazio per la formula dialogica interrogativa…penso cheil POTERE usato da Ennio , per manipolare e stravolgere il significato del mio pensiero nelle mie parole, rende —a proposito della democrazia cristiana richiamata da Emy qualche pagina fa— l’incapacità di svincolarsi dagli stessi meccanismi, maschere e ruoli del POTERE stesso (che scritto in maiuscolo o minuscolo non cambia, tranne che rilasciare vaga idea graficamente del quanto e comesia schiacciante), tanto da averne assorbito identiche forme /sostanze o fenomenologie comportamentali per dominare l’altro, vuoi azzerrandolo, vuoi giocandoci, vuoi utilizzandolo solo per i suoi aspetti più convenienti a un obiettivo ( che di volta in volta può spaziare da quelli più terra terra sentimentalistici, a quelli piu politici, strategici etc etc), vuoi tutto quello che puoi immaginare nelle relative fenomelogie di casi privati e pubblici….Dunque in questi casi, la critica al Potere per il POTERE, rivela che tutte le iper-capacità di critica della realtà che lo riguardano , non avrebbero avuto alcuna capacità di sfondare i muri del bunker in cui sta nascosto in ognuno di noi il regno della propria autocoscienza , quindi nessuna traccia / capacità (almeno a vedere la realtà visibile dei comportamenti in cui si rivela)di trasformare “alla radice” il livello più importante richiesto dalle prime(capacità cognitive-intellettive-riflessive ). Non è detto insomma che intervengano le capacità di primo livello che potremmo chiamare meta-intellettive, ma anche metà intellettive e metà filosofiche : insomma di nuda e fr_agile vita, a cui portare acqua, vento, terra…. Il potere logora chi non ce l’ha e questa è il suo maggior trionfo…..
Non portare questi elementi( di terra o vento etc etc) , pertanto, è , almeno per me(e altri miei “simili”) cosa necessaria (fai tu se dire cosa giusta, o altra connotazione etica ed estetica) a determinate condizioni, ad esempio , per quanto riguarda il tema elettorale di questi giorni (ma anche di questi due secoli quotidianamente campagna elettorali) non portare il mio ingresso nella loro gabbia , figurativamente significa, in quell’istante, “poter” immaginare concretamente , non che non facciano più ” macelli ” e non che sia libera, ma più semplicemente che non hanno avuto la mia condivisione al loro funny games, al loro truman show, al loro casting . La mia comparsa è mia, questo è il minimo e il massimo in cui mi posso muovere e non potendo fermare i loro cannibalismi, ricoperti da simulazioni di altri riti, almeno non contribuisco al loro banchetto di sangue multipartisan con il mio sangue.
Gli alberi, le piante, fanno l’amore con i pollini e il vento e gli insetti sono i loro Amorini.
Il vento è “pneuma”, soffio, vita.
Rimanendo in metafora, io penso che tra le piante si pratichi il libero amore.
@ ( Annamaria) Locatelli
” io vorrei sapere da Ennio e da Ro come, non votando, “li si lasci soli” arginando o portando alle estreme conseguenze i loro macelli…”
Va dimostrato che votando i loro macelli siano arginati. Controllare cronache e storia, per favore…
Io non dico che non votare è meglio di votare. Dico che sono argini del tutto insufficienti e bisogna trovare… altro.
Comodo eh? O realistico?
@ Salvatore Dell’Aquila
Quant’è vero!!!
si è vero, ma è anche vero il suo contrario che si verifica tanto in natura quanto nelle cose e nelle vicende dell’animale uomo… Se pensiamo al progresso e quindi all’aspetto in esame sul voto, se pensiamo ai temi in questione dentro e fuori l’allegoria di questa pagina, non possono non vederci in mente le prime pagine di verga e dei nostri malavoglia, quando descrive il progresso come una macchina (che possiamo definire ai nostri giorni, del tutto in mano ai guardiani del mondo in ogni loro arma, prodotto, servizio “tecnologico”: a partire da fessobuc o da twitter, per finire con quelle mettono in pratica le propagande con i siluri dello spread ad altre bombe schiacciate con un clic / droni… ogni tipo di guerra psicologica fino a quelle più convenzionali per prelevare il sangue dei sudditi )..E’ una macchina che stritola la vita dei deboli(che ne siano o meno consapevoli) a vantaggio dei pochi concentrati nel primo strato della piramide (che comprano/corrompono gli strati intermedi posti nelle relazioni fra loro e la larghissima e foltissima base, al fine di appiattirne la coscienza con vari strumenti di omologazione, o di paura, o di illusione, pseudo-liberazione etc etc)…è una macchina che sa tutto delle cavallette, delle prede, delle tempeste e che rifa il mondo oltre ogni fiore o dio.
…in generale penso che i rapporti umani si siano così complicati, mistificati e corrotti, secondo quella piramide di potere di cui parli tu, Ro, da aver perso quel meraviglioso istinto per la vita, come forma naturale di intelligenza, che ancora guida gli alberi, gli insetti, il vento…E forse é questo il macello peggiore: siamo ridotti come insetti o uccelli impazziti senza orientamento. Grazie per le risposte… Mi sa che anch’io quest’anno mi terrò lontana dal voto, in attesa di quell'”altro”, che sinceramente ben non so. In poche parole mi sento anch’io uno di quegli uccelli o forse una balena spiaggiata…
Non vi resta che aspettare la mareggiata tutti insieme annegheremo seduti sulle nostre sdraio.
Se ci fermiamo al titolo “Il Pino e la Betulla”, possiamo leggere questo piccolo racconto come uno dei tanti che hanno per protagonisti gli abitanti del bosco.
Se invece ci facciamo trascinare dalla provocazione del sottotitolo (*due meschini rappresentanti del mondo vivente*) e trasferiamo nell’’umano’ il tratteggio di queste dramatis personae , non possiamo che rimanere sconvolti – noi, sì – sia dal penoso immobilismo di questo teatrino in cui non avviene nessuna trasformazione, e sia dagli aspetti ‘perversi’ connessi ad una non-relazione.
L’immobilità, per cui nulla cambia nei ‘saecula saeculorum’ (*Giuseppe è ancora lì altero e solo, dopo quasi cent’anni, ignorato da tutti per la sua inesistente “naturalità” *), in questo caso può essere legata a quel giudizio (o, meglio, al pre-giudizio) morale che accompagna fin dalle prime battute questi personaggi: il pino, rigido e compassato; la betulla, sciacquetta e frivola; il vento, oltraggioso e ottuso. Già questo ‘incipit’ rende praticamente impossibile un qualsiasi loro ‘movimento’ e la ‘passione’ – o “amor che move il sole e l’altre stelle” – rimane confinata nei ‘sotterranei’, forse più elemento immaginato che sperimentato (a meno che non accadano i miracoli, ma questi li troviamo solo nelle fiabe).
E’ dunque una specie di costrutto ideologico in cui sono ‘costretti’ i personaggi e le cui categorie sono ben fissate e non è facile discostarsi da esse: la betulla, prima o poi cederà. Perchè, essendo sciacquetta, *mentiva circa il piacere non assaporato, il terrore era ampliato a dismisura per opportunità*.
Vi possiamo ritrovare degli ‘ismi’, applicabili sia ad una caratterizzazione maschile che femminile (maschilismo o femminismo), ragion per cui, ad esempio, la visione della donna viene stigmatizzata nei ruoli di madre (santa), moglie (quercia fedele), e puttana (frivola e dedita al piacere).
C’è un interessante libro della psicoanalista Estela Welldon, che tratta non solo gli aspetti della psicopatologia maschile ma anche di quella femminile legata appunto ai pre-giudizi sulla funzione della donna e alla loro conseguente perniciosità (“Madre, madonna, prostituta” – CST, Torino 1995).
Ennio commenta: *Non mi sembra neppure una forzatura vedere nel pino una rappresentazione allegorico-politica dell’atteggiamento del cosiddetto “duro e puro”, nella betulla di quello spontaneo, passionale e vitalistico, nella quercia del moralismo e nel vento/ bufera la figura fin troppo montaliana della storia. E se si vuole, con un occhiolino alla contingenza delle elezioni europee, persino nel pino la figura dell’astensionista, nella betulla quella di chi cede (e poi si pente) al vento della propaganda.*)
No, non è una forzatura se la trattiamo alla stregua di un ‘come se’.
I personaggi del teatro ci servono per coglierne le tipizzazioni, lavorarci su ma non per precipitare in esse rimanendone prigionieri. Altrimenti diventiamo strumentalizzati dai nostri stessi strumenti.
R.S.
@ Rita (Simonitto)
Sono per un atteggiamento attivo nei confronti di un testo letto, specie se esso si presta – come questo – al gioco delle interpretazioni. E, persino, se ne avessi il tempo, a una riscrittura, a una variazione.
Ad es. a me pare che il commento (sopra) di Salvatore (Dell’Aquila) del 22 maggio 2014 alle 8:27
apre la via per una variazione dello schema narrativo di Franco Nova…
Comunque, tornando alle interpretazioni, è evidente che vanno avanzate con l’obbligatoria cautela del “come se”.