[Avrò visto e ascoltato Vittorio Rieser un paio di volte in via Vetere a Milano negli anni Settanta. In qualche seminario di Avanguardia Operaia – organizzazione “extraparlamentare” (questa la definizione dei giornali ostili) a cui ho partecipato io pure dal ’68 al ’76. Poi, nella seconda metà degli anni Ottanta, l’ho incontrato ad Agape di Praly, il centro dei valdesi, dove ancora era possibile durante qualche campo estivo discutere di argomenti socio-politici con studiosi o militanti – diciamo pure – in pensione o già messi ai margini dal nuovo corso che porterà alla distruzione della Sinistra. A differenza di altri, nei confronti del Rieser studioso mi è rimasta una stima rispettosa, anche dopo la sua scelta di rientrare nel PCI. E ho avuto un’attenzione saltuaria ma coinvolta verso i suoi scritti più recenti, soprattutto quelli di bilancio storico, che mi è capitato di trovare sul Web o sul sito de «L’Ospite ingrato» del Centro F. Fortini (qui e qui). Li ho letti, però, con crescente distacco. Sia per la consapevolezza della comune sconfitta, che rende amaro ogni sguardo al passato. Sia per diffidenza verso quella sua scelta di continuare la militanza nel PCI o in Democrazia proletaria o in Rifondazione comunista. Mentre la mia è stata la via dell’isolamento o, come poi l’ho chiamata, dell’esodo: pensare e agire per quel che ancora si poteva, ma al di fuori di ogni istituzione sindacale o politica, storica o residuale di quella stagione politica, nella quale il termine ‘sinistra’ aveva avuto un qualche senso. Se oggi, malgrado le distanze, mi sento di onorare Vittorio Rieser, come mi è capitato per altri compagni conosciuti di striscio o frequentati allora (Danilo Montaldi, Massimo Gorla, Costanzo Preve, Franco Pisano) è perché, fra le ceneri di molte loro parole, ancora trovo qualche brace intensa della vampata di quegli anni.
Ripropongo perciò questa intervista che gli fu fatta nel 2001. E non solo per omaggio alla sua figura di militante , ma anche per altre ragioni:
1. Nell’intervista Rieser dà conto con chiarezza dei tratti principali del suo percorso di vita: i genitori comunisti antistalinisti, il forte legame col mondo operaio e sindacale torinese, quello fondamentale con Raniero Panzieri, l’esperienza dei «Quaderni Rossi», i suoi riferimenti culturali (Marx, Mao e Lenin, ma anche Weber), le speranze verso la Cina di Mao (la rivista «Vento dell’Est», Thiennot), il suo ingresso (da sconfitto…) nel PCI, la sua professione di sociologo finito all’università («gran brutto mestiere il professore di università, ma sempre meglio che lavorare!»), la collaborazione con il sindacato. Sono notizie sulla sua vita, che non conoscevo e che mi chiariscono in parte la diversità dei percorsi e delle scelte diverse. (Con quanti ci siamo incontrati nel fervore convulso di quegli anni, dove non c’era neppure il tempo per parlare di sé, della propria formazione o storia personale!).
2. Perché Rieser indica con onestà i limiti dell’esperienza operaista («noi abbiamo continuato a fare le pulci al sindacato, a organizzare gruppi di sinistra di lavoratori»); esperienza complessa, contraddittoria e però da lui vissuta, a differenza di altri suoi protagonisti più noti (Tronti, Negri), senza eccessi idealistici. Ci si soffermi, ad esempio, su questi due passaggi: – «andando ai cancelli e parlando quando distribuivo i volantini si capiva ciò che dal ’68 in poi si è manifestato a Torino, ti accorgevi proprio dell’emergere di una coscienza di classe, di una spinta anche antagonistica, dunque c’era una conoscenza molto quotidiana. Però, spesso in questo c’era un fondo qualunquista, del tipo che gli accordi, qualsiasi fossero, erano tutti uguali: la Fiat ha fatto degli ottimi accordi, ma venivano tendenzialmente considerati un bidone, l’idea che i sindacati fossero un po’ venduti non è mai scomparsa del tutto. Tra l’altro anche la qualità dei dirigenti operai emersi dalle lotte alla Fiat è rimasta bassa, salvo per i casi in cui hanno incontrato degli strumenti di formazione: spesso però queste situazioni, guarda caso, riguardavano operai relativamente più qualificati»; – «L’operaismo […] ha rotto con una certa tradizione individuando nell’operaio-massa una figura nuova non solo per un percorso anticapitalista, ma anche nell’ipotesi dirompente di una classe contro se stessa, contro il lavorismo, lo scientismo, il tecnicismo, lo sviluppismo su cui si è formata la tradizione del Movimento Operaio. Dall’altra parte, però, non è riuscito a rielaborare nuovi obiettivi e un progetto politico che fosse adeguato a quella lettura dirompente».
3. Perché tocca una questione strategica cruciale: quella del fallimento del socialismo anche nella versione maoista. Si rileggano con attenzione questi altri due brani: – «se si guarda alla storia dagli anni ’50 in poi le dimensioni di certi tipi di proposta di trasformazione o rivoluzionaria sono sempre attraversati da storie di frantumazione in gruppi che però, mentre si frammentano, sicuramente motivati da differenze teoriche e di percorsi, in realtà abbandonano quello che è uno dei problemi grossi, ossia il come si accumula una forza per avere un progetto che sia in grado di contare. Forse Mao ha, almeno in parte, avuto la capacità di rompere e poi riutilizzare in una sintesi diversa»; – «Per quanto riguarda la storia del Partito Comunista Cinese […] Mao riesce a vincere la dialettica interna non è più di tipo staliniano. Prima gli avversari vengono in certi casi consegnati alla polizia di Chiang Kai-shek o cose di questo tipo. Dopo di che il problema si ripresenta dopo la presa del potere e Mao ha questa intuizione geniale che poi si manifesta nella rivoluzione culturale, ossia il fatto che le contraddizioni interne al partito vanno affrontate a livello di massa, traducendole fino al livello della guerra civile, perché poi la rivoluzione culturale fu per certi versi una guerra civile. Da un lato era un’intuizione geniale, però alla fine è stata sconfitta. Quindi, sul come affrontare questo tema in condizioni di dittatura del proletariato probabilmente non c’è risposta possibile».
E tuttavia, malgrado questa lucidità nel guardare in faccia la sconfitta, Rieser si ferma davanti alle colonne d’Ercole, di fronte alle quali noi pure ancora ci troviamo. Ed, infatti, quando alla fine l’intervistatore gli chiede: «Come affronteresti tu il nodo della politica e del politico, categoria che oggi resta di centrale attualità?», risponde quasi con reticenza e in modo difensivo: «E’ un discorso che necessita di un grande approfondimento che parta dall’analisi della situazione attuale. Però, è da tanto che io non penso in termini organicamente politici, le mie riflessioni sono individuali». È questo il punto irrisolto, quello che ho richiamato velocemente anche nella risposta a Luca Chiarei (qui).
So che Rieser e i tanti nomi e fatti e problemi che egli ricorda nell’intervista non dicono quasi nulla a molti. Le questioni cruciali e irrisolte da lui affrontate e vissute si ripresentano oggi, purtroppo in modi quasi caricaturali, svisati, ingenui. O banalmente elettoralistici, come si vede dalla nostra discussione su Renzi e le elezioni europee (qui). Proprio per questo vale la pena di far sentire “una voce di morto” molto più vigorosa di tanti pagliacci che oggi si credono vivi e passano pure per politici. (E.A.)]
Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali le eventuali figure di riferimento nell’ambito di tale percorso?
Il fatto di essere arrivato presto alla politica è legato anche alle mie origini famigliari: i miei genitori erano antifascisti, tutti e due hanno avuto periodi più o meno lunghi di militanza comunista. Mia madre è stata in carcere un anno, condannata dal Tribunale Speciale perché era responsabile del Partito Comunista clandestino a Grosseto; mio padre era un ebreo polacco comunista che ha fatto per alcuni anni il rivoluzionario di professione, poi si è rifugiato in Italia perché in Polonia era colpito da mandato di cattura. Qui non era noto in quanto comunista e il fatto di essere ebreo prima delle leggi razziali non era un problema, per cui è venuto in Italia e poi ci è rimasto. Tutti e due antistalinisti, mia madre è uscita nel ’30 dal Partito Comunista ed è entrata in Giustizia e Libertà, mio padre ci è rimasto ed entrambi, un anno o due dopo la Liberazione, hanno smesso di fare politica. Quindi, questo è il clima di partenza, per cui era abbastanza inevitabile il mio precoce interessamento politico. L’altro elemento è costituito dalla situazione torinese, dalla repressione antioperaia alla Fiat: al di là delle cose politiche solite che uno fa, nella propria scuola, nei circoli di istituto ecc., per me impegnarmi in politica fin dall’inizio è stato occuparmi della questione operaia. A Torino, per esempio, c’è stata la prima manifestazione studentesca su questi temi nel ’57, poi nel ’59 ci fu una grossa partecipazione degli studenti ai picchetti per lo sciopero contrattuale. Inizialmente la mia formazione ha riguardato il tentativo di organizzare gruppi abbastanza consistenti di studenti sulla questione operaia, da lì il rapporto con il sindacato e quindi l’impegno anche nel lavoro di lega, la FIOM. Si tenga conto che il sindacato torinese già allora e poi per molto tempo (adesso non più) era molto avanzato: è quello che dopo la sconfitta alla Fiat e la svolta della CGIL ha tentato in modo più innovativo di ricostruire un rapporto con la classe operaia. Quindi, nel periodo dal ’57 al ’61 l’impegno era questo, al di là poi delle forme di militanza politica, perché inizialmente sono stato nel gruppo di Valdo Magnani, i comunisti titoisti; con esso sono entrato nel PSI, lì ho conosciuto Panzieri, prima semplicemente perché eravamo diffusori di Mondo Operaio nel periodo in cui è stato diretto da Raniero, poi questi è arrivato a Torino. In quel periodo si è formato un gruppo di studenti che svolgeva un lavoro di autoformazione politica che aveva come interlocutori principali da un lato i sindacalisti, da Garavini a Pugno, che venivano a spiegarci la fabbrica, la struttura contrattuale e via dicendo, e dall’altra invece politici studiosi prevalentemente anarchici, di ispirazione libertaria o comunista eretica. A Torino, infatti, c’erano alcuni anarchici (che ora sono quasi tutti morti) e poi venivano a tenerci delle relazioni Pier Carlo Masini, Luciano Raimondi, Giorgio Galli, che allora facevano una rivista che mi sembra si chiamasse Sinistra Comunista, una fronda da sinistra del PCI, il che era una cosa abbastanza rara all’epoca; c’era anche Cervetto in questo gruppo, il quale poi ha preso un altro filone. Quindi, avevo una formazione abbastanza eterodossa rispetto alle linee dominanti del Movimento Operaio, ma anche eterodossa rispetto ad una formazione marxiana. Io Marx l’ho conosciuto attraverso Panzieri, allora noi andavamo direttamente a queste varie fonti antistaliniste del movimento operaio ma senza avere una base teorica marxiana.
Panzieri è arrivato a Torino nel ’59 e, avendo già avuto prima contatti con lui, abbiamo subito cominciato a lavorare insieme. Nel frattempo qui c’era questo lavoro studenti-operai, a Milano invece abbiamo conosciuto Alquati, Gasparotto e gli altri; Panzieri aveva una serie di legami con intellettuali come Tronti e Asor Rosa già dall’epoca di Mondo Operaio. Tutto questo poi quaglia nel ’60 attorno a due cose: una è il progetto di una rivista, cioè Quaderni Rossi, che poi si realizzerà l’anno dopo; dall’altra parte c’è l’inchiesta alla Fiat, che inizia nell’estate ’60. Lì l’influenza di Panzieri è stata determinante, nel senso che noi lavoravamo in quel momento con il sindacato non sulla Fiat ma in altre fabbriche torinesi, sostanzialmente quelle dove c’erano già delle lotte, e dicevamo “continuiamo a fare il lavoro su queste cose, alla Fiat come si fa?”. Panzieri, invece, diceva: “no, dobbiamo affrontare la questione e il nodo della Fiat, e l’unico modo per farlo è lo strumento dell’inchiesta”. Quindi, a quel punto sull’inchiesta alla Fiat si coagularono tutti. Alquati e Gasparotto vengono qui, quindi il nucleo torinese dei Quaderni Rossi è nato sostanzialmente attraverso questo lavoro. All’inizio si è trattato di un lavoro fatto in collaborazione con il sindacato, anche con il PSI torinese che aveva una federazione di sinistra: fummo attivi alla Fiat ma anche alla Olivetti. Tanto è vero che il primo numero dei Quaderni Rossi ha una larga collaborazione di sindacalisti, a partire da Vittorio Foa che è una figura che prima avevo dimenticato di citare: si trattava di uno degli interlocutori principali, che era comune sia al gruppo torinese (perché lui aveva radici torinesi, in particolare io lo conoscevo personalmente fin da quando era uscito dal carcere), sia romane (perché Panzieri aveva ovviamente molti rapporti con lui). Quindi, sul primo numero metà degli articoli sono fatti da sindacalisti. Nel frattempo, però, quando è uscito il primo numero c’era appena stata la rottura con il sindacato a Torino, che probabilmente dal lato sindacale obbediva anche alla classica logica staliniana, per cui siccome il sindacato di Torino era sotto processo in quanto troppo di sinistra, doveva compiere un atto riparatore di rottura; dall’altra parte, era secondo me un nostro errore di infantilismo. L’episodio su cui nacque la rottura si riferiva ad uno sciopero d’estate alla manutenzione delle Ferriere Fiat, che venivano seguite da Gasparotto e Gobbi: ci fu un primo volantino che si decise di fare non come FIOM, anche se si era lì con loro, ma come gruppo di operai, invitando gli operai a organizzarsi. Fin qui la cosa non ebbe conseguenze, visto che poi il volantino fu avallato dall’unico funzionario FIOM presente. Un secondo volantino venne fatto dicendo: “bisogna organizzarsi autonomamente fuori dai sindacati”, fu ciclostilato clandestinamente in FIOM e distribuito da noi. Su questo, ovviamente, ci fu la rottura, aggravata dal fatto che noi introducemmo come base per l’incontro chiarificatore con il sindacato un documento in cui dicevamo che, siccome i partiti di sinistra erano opportunisti, il sindacato doveva farsi carico dei compiti politici e doveva essere l’embrione dell’organizzazione rivoluzionaria della classe operaia. Questo, secondo me, era una forma di anarcosindacalismo infantile. A quel punto ci fu la rottura, nell’autunno del ’61. Per combinazione il numero di Quaderni Rossi, che era pronto da mesi, per ragioni di lentezza tipografica uscì proprio subito dopo questa rottura, per cui si creò una situazione per i sindacalisti molto imbarazzante. Ci fu un’intera pagina de l’Unità con un articolo di Garavini che polemizzava con i Quaderni Rossi: il povero Garavini era preso in una tenaglia nella logica staliniana, in cui se avesse parlato dei Quaderni Rossi la gente sarebbe andata a comprarli e avrebbe detto “ma tu hai collaborato”. Quindi, c’era questo misterioso articolo molto duro, che però non nominava il nemico. La storia dei Quaderni Rossi la si conosce, è inutile raccontare cose che si sono già sentite da altri.
Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze dell’esperienza dei Quaderni Rossi?
Ovviamente quella che faccio è una selezione molto soggettiva. Le ricchezze sono state tre. Innanzitutto un elemento teorico, cioè un ritorno a Marx non attraverso i vari marxismi più o meno dogmatici, ma un attingere direttamente a Marx come strumento molto più attuale per l’analisi del capitalismo di allora che non la vulgata del marxismo che si era tramandata nei partiti comunisti. In questo Panzieri è stato decisivo, i suoi articoli esprimevano questa cosa. Legato a ciò, c’era un’analisi del capitalismo come formazione dinamica: teniamo conto che allora nel Movimento Operaio era ancora presente, anche se non più in modo esclusivo, la visione del capitalismo italiano straccione, arretrato. Già a quel tempo, però, ciò si scontrava con altre posizioni, soprattutto nel sindacato ma non solo. Nello schema vecchio del PCI c’era il fatto che la lotta di classe è prodotta dalle arretratezze del capitalismo, mentre noi dicevamo che la lotta di classe può e deve essere prodotta proprio ai livelli più avanzati. Quindi, terzo elemento, c’era il rifiuto dello schema dell’integrazione della classe operaia, cioè che “è là dove il capitalismo è più avanzato che la classe operaia si integra”: su questo non ci siamo mai cascati. La lettura di Marx era una peculiarità dei Quaderni Rossi, questi altri aspetti erano condivisi da pezzi consistenti di Movimento Operaio. L’idea che la classe operaia alla Fiat non fosse integrata era un’ipotesi di lavoro di tutto il sindacato torinese: tuttavia, il fatto di aver tradotto questo in lavoro di inchiesta era importante. Fu uno dei casi in cui l’inchiesta non si è limitata a confermare ipotesi già date; da essa, in anticipo sull’esplodere delle lotte alla Fiat, venne fuori che la tensione e il livello di conflittualità latente era enorme. Tra l’altro confrontammo ciò anche con situazioni come l’Olivetti, dove c’era lo stesso una conflittualità ma che fin da allora aveva un’espressione sindacale e quindi era più “normale”.
I limiti. Intanto, in questa stessa impostazione c’era un primo limite: proprio in polemica contro le visioni tutte arretrate del capitalismo, noi tendevamo a prendere per buone le formulazioni più avanzate dal lato capitalistico borghese, ritenendole reali e non contando sul loro aspetto e sulla loro dimensione ideologica. Che fossero ideologiche nel senso dell’essere fatte per ingabbiare la classe operaia era chiaro, ma le abbiamo spesso prese per espressioni di un programma concreto quando invece non lo erano. Io ero un chiosatore di Carli, Mario Tronti era un chiosatore di Moro, e l’uno come l’altro prendevamo questi come ideologia che però rivelava una tendenza, ma tra l’ideologia e la tendenza reale c’era un vasto spazio in cui poi giocavano mille contraddizioni interne. Quindi, per noi il capitalismo italiano era quello che Aldo Moro, Pasquale Saraceno, Guido Carli indicavano, mentre la cosa era un po’ più complicata. Poi c’era una contraddizione che probabilmente non poteva essere risolta: la forza culturale e teorica dei Quaderni Rossi nasceva proprio dal fatto di non essere un semplice gruppo di intellettuali ma di essere fortemente legato a una pratica politica; nel momento in cui c’è stata la rottura con il sindacato si doveva autorganizzare come gruppo politico, ma c’era una sproporzione enorme tra la tematica che noi affrontavamo e l’esiguità della nostra pratica politica. Quindi, da allora in poi ci si è mossi affrontando grandi temi e attingendo a una pratica politica nostra che era limitata: serviva quel tanto ad evitare che facessimo gli intellettuali di sinistra nel senso deteriore, ma provocava anche dei grossi abbagli. I nostri riferimenti operai poi divennero più importanti nel caso di Porto Marghera, però lì il rapporto con i Quaderni Rossi fu molto breve, perché poi ci fu la rottura del ’63. A Torino, dopo la rottura con il sindacato, avevamo sì contatti operai: c’era, per esempio, un operaio molto bravo che veniva scherzosamente definito il nostro “operaio collettivo”. Poi cercavamo di avere altri elementi, ma non era facile.
Inchiesta e conricerca: quali sono, secondo te, le differenze e le analogie, le ricchezze e i limiti dell’una e dell’altra?
Ci furono delle dispute tremende fin dall’inizio su questo. In un seminario a Meina (a cui tra l’altro Panzieri non venne perché era fuori dall’Italia) ci fu uno scontro tra quelle che venivano chiamate l’inchiesta dall’alto e l’inchiesta dal basso, che era sostenuta da Romano e da altri. In realtà, secondo me anche quella era una disputa abbastanza astratta, tra due metodi sociologici. La conricerca è il metodo fondamentale, ma vuol dire disporre di una forza organizzata, va bene se la fai con degli operai che stai organizzando o che sono organizzati e quindi si lega strettamente a una pratica di lotta; noi non eravamo in condizioni di fare questo, tanto meno quando poi eravamo da soli, ma anche il sindacato era in una fase in cui alla Fiat non era in grado di organizzare la lotta. Fra l’altro, noi giustamente (e questa è stata una scelta comune) abbiamo fatto l’inchiesta non solo con i pochi operai legati alla FIOM, ma attraverso canali vari si trattava di raggiungere operai ordinari: con quelli non potevi fare conricerca perché non avevi un progetto comune. Eravamo in una situazione in cui poi di fatto venne adottato un metodo di ricerca tradizionale, il che non significa che quello sia il metodo migliore. E’ per questo che dico che la disputa era astratta, perché quando hai la possibilità di fare conricerca è chiaro che è questo il metodo migliore, però se sei all’esterno di una situazione e l’inchiesta è il primo strumento di presa di conoscenza di quella realtà ovviamente devi ricorrere a metodi tradizionali, non nel senso di fare questionari quantitativi (quando puoi farli vanno bene anche quelli), ma devi usare con il dovuto senso critico dei metodi tradizionali di ricerca. Allora, anche grazie a Panzieri, eravamo frequentati e potevamo attingere a sociologi e studiosi importanti, da Pizzorno a Momigliano a Gallino, che venivano ai nostri seminari. Devo dire che un elemento risolutore fu Gallino, il quale di fronte alle nostre dispute elaborò un’esemplare analisi marxista della situazione di classe e di tutto il resto, e in qualche modo ci fece fare un salto in avanti. Adesso Gallino è un po’ ritornato a questo, il suo percorso è stato vario, le ultime cose sono di nuovo di quel tipo.
Da come tu affronti il problema dell’inchiesta e della conricerca emerge il nodo di che soggettività ci si trova. Come avete affrontato in quel periodo la questione della soggettività all’interno del gruppo dei Quaderni Rossi e in una dimensione più ampia di settori di classe? C’è infatti un grosso interrogativo: è stato posto il problema della soggettività all’interno di questo progetto politico oppure no?
E’ stato posto, però qui vanno proprio distinte due fasi. Inizialmente è stato affrontato in modo sostanzialmente unitario, tenendo conto che in tutto questo periodo, almeno fino al ’62, noi ci misuravamo con la Fiat, non ancora con la situazione di classe complessiva. Nella fase prima dell’esplodere delle lotte alla Fiat c’era una soggettività perlomeno conflittuale della classe operaia, verificavamo su cosa si sviluppava e quali erano gli ostacoli alla sua traduzione in lotta. Quindi, questo era il livello di allora, e sin qui la cosa ha funzionato. Il problema è diventato molto più avanzato quando, già prima del ’62, ma soprattutto in quell’anno sono esplose le lotte, anche alla Fiat, e comunque la lotta di classe ha raggiunto livelli alti pure nel resto d’Italia, dove non era una novità. Dunque, a quel punto c’era il problema se affrontare il tema della soggettività sul piano di classe complessivo, che rapporto c’era con la strategia politica ecc.: lì noi non siamo stati all’altezza. Da un lato, quelli che poi hanno dato vita a Classe Operaia secondo me hanno dedotto idealisticamente una soggettività della classe operaia anticapitalistica, che andasse al di là del piano del capitale, che non aveva fondamenti reali, portava direttamente sul piano ideologico. Quelli come me che in questo non credevano, a quel punto si riducevano però a fare le pulci al sindacato, cioè a partire da quello che era il dato di fatto delle lotte sindacali e a fare una continua critica da sinistra a queste lotte sostenendo che la soggettività della classe operaia avrebbe richiesto una strategia più avanzata e più adeguata. Panzieri scomparve troppo presto perché, secondo me, lui avrebbe avuto una capacità di sintesi. La rottura con i compagni che poi hanno dato vita a Classe Operaia l’ha decisa lui, pur essendo stato quello che li conosceva meglio ed era loro più vicino: quindi, respingeva radicalmente quelle posizioni, considerava la visione di Tronti idealistica, più alla Bruno Bauer che alla Karl Marx. Però, Panzieri forse avrebbe avuto una capacità di sintesi. Di fatto, poi a quel punto queste due anime si sono mosse su terreni molto diversi: noi abbiamo continuato a fare le pulci al sindacato, a organizzare gruppi di sinistra di lavoratori, per esempio all’Olivetti, che facevano una battaglia nel sindacato, mentre Classe Operaia sapete meglio di quanto possa dire io che percorso ha seguito.
C’è un interrogativo che si pone sul nodo tra soggettività e progetto. O la soggettività viene intesa come qualcosa di dato, che c’è e quindi come tale mette in campo una sua caratterizzazione, una sua forza, una sua capacità di essere contro, e può essere un’ipotesi; oppure l’altra potrebbe essere che comunque la soggettività ha una sua dimensione di formazione e di sviluppo all’interno di un percorso. In quest’ultimo caso, come la categoria del progetto entra in rapporto con la questione della soggettività?
Su questo io do una risposta adesso, ma non so dire allora. Torno ai miei itinerari formativi: rispetto ai grandi pensatori e leader politici del marxismo, io ho cominciato con Marx attraverso Panzieri, poi sono arrivato a Mao dopo, quando Raniero era già morto, diciamo all’epoca delle rivoluzione culturale, e da lì sono giunto anche a Lenin. Quindi, la risposta che do è di tipo maoista: la soggettività deve essere molto reale, non è qualcosa di costruito dall’avanguardia, dal partito. La soggettività nasce dalle contraddizioni di classe e però molto spesso è disorganica, contraddittoria, che esprime una spinta o rivoluzionaria o comunque di trasformazione: il compito del partito è di tradurla in progetto, cioè di sistematizzare gli elementi e di riproporla a livello di massa. Secondo me, dal punto di vista teorico l’impostazione maoista resta l’unica valida, perché in Lenin c’è un’accentuazione kautskiana molto forte sul ruolo dell’avanguardia, mentre la risposta di Mao è la più realistica. Nello specifico della situazione italiana, ma anche più in generale nella tradizione comunista (forse con qualche diversità proprio per la dimensione maoista), il procedere dei percorsi dà sempre luogo a dei gruppi (siano essi piccoli o grandi), in cui poi il rapporto dialettico e di crescita nella critica e nel confronto tra posizioni non convergenti dà luogo a fratture. Ad esempio, in Italia ciò è stato un grande handicap per le possibilità di sviluppo di un progetto politico: se si guarda alla storia dagli anni ’50 in poi le dimensioni di certi tipi di proposta di trasformazione o rivoluzionaria sono sempre attraversati da storie di frantumazione in gruppi che però, mentre si frammentano, sicuramente motivati da differenze teoriche e di percorsi, in realtà abbandonano quello che è uno dei problemi grossi, ossia il come si accumula una forza per avere un progetto che sia in grado di contare. Forse Mao ha, almeno in parte, avuto la capacità di rompere e poi riutilizzare in una sintesi diversa.
Mentre il progetto dei capitalisti riesce comunque a utilizzare le proprie differenze per poi arrivare ad una sintesi che lo porta in avanti in termini di progetto, come mai, secondo te, da parte di chi cerca di costruire delle alternative a questo sistema non c’è mai stata la capacità di utilizzare le differenze nella visione di una sintesi progettuale?
C’è comunque il fatto che la situazione è disuguale perché il capitalismo ha il potere, che deve conservare e gestire, e questo è un poderoso fattore di sintesi: ovviamente quando tu sei fuori e lotti contro non hai questo elemento. Dopo di che ci sono dei fattori poltico-culturali: nel Partito Comunista ha pesato una logica staliniana ma prima ancora leninista, cioè una logica di rottura e di settarismo, non nel senso solo spicciolo ma proprio teorico. Mentre nei paesi a dominanza socialdemocratica i gruppi di estrema sinistra spesso avevano caratteristiche leniniste o addirittura staliniste, in Italia, essendoci un grosso partito comunista, pochi gruppetti hanno avuto caratteristiche staliniste o anche solo leniniste ortodosse. Lì, però, secondo me c’era il fatto che i gruppetti erano comunque dominati da intellettuali di sinistra, nei quali la logica della rottura era basata non tanto su uno schema teorico rigido e settario, quanto sull’amore per le proprie idee, quindi sul litigio. Il radicamento di classe che comunque era limitato più la tendenza degli intellettuali a litigare, a essere pronti a sacrificare l’organizzazione per difendere una propria idea, faceva sì che non ci fosse un senso di responsabilità verso la classe, perché non si aveva un rapporto così forte da essere richiamati a questo. In più c’era il fatto che si era in una dimensione di ricerca. Il tema che ha percorso la storia dei Quaderni Rossi ma anche dopo era: quali possono essere le vie di una rivoluzione nei paesi di capitalismo avanzato. Quindi, si era in una dimensione di ricerca, non si aveva qualche cosa di consolidato da difendere e su cui dire “a partire da questo ci confrontiamo”: invece, ogni ipotesi diversa di ricerca portava a costruire la piccola organizzazione che la seguiva. Per quanto riguarda la storia del Partito Comunista Cinese ciò può essere vero per la prima fase, ma quando poi Mao riesce a vincere la dialettica interna non è più di tipo staliniano. Prima gli avversari vengono in certi casi consegnati alla polizia di Chiang Kai-shek o cose di questo tipo. Dopo di che il problema si ripresenta dopo la presa del potere e Mao ha questa intuizione geniale che poi si manifesta nella rivoluzione culturale, ossia il fatto che le contraddizioni interne al partito vanno affrontate a livello di massa, traducendole fino al livello della guerra civile, perché poi la rivoluzione culturale fu per certi versi una guerra civile. Da un lato era un’intuizione geniale, però alla fine è stata sconfitta. Quindi, sul come affrontare questo tema in condizioni di dittatura del proletariato probabilmente non c’è risposta possibile. Mao ci provò, e questo significava quindi una lotta insieme molto più dura però con una logica non burocratica: non era un processo, magari di eliminazione fisica sì ma non ad opera dello Stato, quindi emergevano momenti di lotta armata all’interno proprio nella società. Ciò è certamente diverso da qualsiasi altra cosa, purtroppo poi non ha però funzionato neanche questo.
Hai già citato alcune figure particolarmente importanti nei tuoi percorsi formativi: complessivamente, quali sono i tuoi numi tutelari?
Di fatto ho citato Panzieri, Marx, Mao e Lenin. Probabilmente ce ne sono tante altre, ma è una cosa a cui non ho mai pensato. Le altre sono figure che hanno inciso sotto aspetti diversi: visto che bene o male io come mestiere ho fatto il sociologo, ci sono una serie di autori di riferimento che, anche se indirettamente, poi incidono pure sull’azione politica, nel senso che provi a fare pezzi di analisi della società o pezzi di inchiesta, però non c’entrano, sono su un altro livello. Per esempio, Max Weber è un riferimento importante, con implicazioni anche politiche: le cose che lui diceva sulla nascente Unione Sovietica erano profetiche e offrono strumenti per una lettura critica della società sovietica non di tipo anticomunista. Io poi, anche per ragioni pratiche, sono un intellettuale molto ignorante, per cui non ho letto mica tanto: però, qualche volta uno ha degli autori particolari, tipo appunto Weber o Herbert Simon (che è morto l’anno scorso), quindi due o tre riferimenti all’interno di quella che si può chiamare la scienza sociale borghese. Marx distingueva l’economia borghese, cioè Ricardo, dall’economia volgare: anche Panzieri, nell’ultima cosa che fece, un seminario nel ’64, distinse tra la scienza sociale borghese, con elementi di verità importanti, e poi buona parte della letteratura sociologica che è di tipo volgare.
Quali sono stati i tuoi percorsi successivi alla fine dell’esperienza dei Quaderni Rossi?
Intanto c’è stata una tappa intermedia importante, nel senso che dopo la scissione di Classe Operaia, la morte di Panzieri, ci fu una fase complicata e confusa che coincideva anche con un momento di riflusso delle lotte, nel ’64-’65 c’era la recessione. Se vogliamo, però, fu una fase di allargamento di Quaderni Rossi, per cui c’era il rapporto con Sofri, con Cazzaniga, con Mimmo Bianchi (leader delle organizzazioni autonome dei ferrovieri romani) ecc. C’era, quindi, un processo di crescita organizzativa, ma secondo me non c’era un’elaborazione strategica oppure ciascuno aveva la sua, tanto è vero che Sofri, Cazzaniga e Bianchi nel ’66 hanno fatto un documento che diceva: “dobbiamo costruire il partito rivoluzionario”. Noi torinesi (i Lanzardo, io ecc.) non ci credevamo, e quindi si ebbe una nuova rottura. Tra l’altro, il ’66 è anche l’anno dell’ultimo numero di Quaderni Rossi. Nel ’67 c’è stata a Torino un’esperienza importante, cioè il giornale La Voce Operaia. Alla Fiat la grande esplosione di lotta non si era tradotta in organizzazione all’interno della fabbrica, quindi c’era stato un passo indietro, non un ritorno alla situazione precedente: gli scioperi contrattuali del ’66 alla Fiat hanno avuto esiti alterni, con anche momenti di riuscita. In questa situazione Quaderni Rossi (che esistevano ancora come gruppo, anche se la rivista non usciva e non sarebbe più uscita) costruirono questo giornale operaio: lì c’era una spinta se vogliamo di operaismo, ma secondo me saggio. Era scritto interamente da operai, nel senso che alcuni scrivevano gli articoli, in molti altri casi si parlava con uno e si tirava fuori testualmente quello che aveva detto: era un giornale di informazione e denuncia sulle varie forme di sfruttamento in fabbrica. Riuscimmo anche ad organizzare una lotta in forme che poi sarebbero diventate normali: avevano accelerato la velocità della linea, si doveva fare 3 o 4 vetture in più, gli operai si fermarono al numero di vetture precedenti, mentre il compagno che la organizzò fu spostato per rappresaglia. Lì fu quindi un momento di ripresa effettiva di contatto con la situazione operaia; i sindacalisti meno settari e più avanzati vi guardarono con interesse.
Poi è arrivato il movimento del ’68 e a quel punto i Quaderni Rossi furono l’unico gruppo che si sciolse. Ciò non perché pensasse che il movimento avrebbe risolto tutto, ma perché riteneva che si fosse aperta una nuova fase in cui per i Quaderni Rossi come gruppo non avrebbe avuto senso mantenere una continuità organizzativa. E’ una cosa che altri gruppi non fecero, come ad esempio quello di Sofri: infatti, ci fu un elemento di continuità che andava dal Potere Operaio pisano attraverso il movimento e arrivava a Lotta Continua. A quel punto io lavoravo con il movimento studentesco, anche se sempre con un occhio alle lotte operaie. Lì ci sono esperienze come quella della Lega Studenti-Operai, su cui Liliana Lanzardo credo che abbia pubblicato uno studio. Nel movimento studentesco c’era uno scontro tra chi voleva proiettarsi sulle lotte operaie e chi no, per cui all’inizio del ’69 davanti ai cancelli non c’era la corrente dominante del movimento studentesco, la quale in qualche modo era collegata a Sofri, ma c’erano dei frammenti residui di Quaderni Rossi e dei gruppi che facevano riferimento a Classe Operaia che nel frattempo era diventata La Classe, c’era ad esempio Mario Dalmaviva, più un po’ di gente che arrivava dal movimento studentesco di Medicina. Poi via via che le lotte di reparto si estesero arrivarono un po’ tutti. Quindi, c’era la fase dell’assemblea studenti-operai, la nascita della sigla Lotta Continua, che inizialmente è nata non come sigla di un gruppo: mi ricordava Mario Dalmaviva che, a quanto pare, l’abbiamo inventata io e lui perché ogni giorno si faceva un volantino e, siccome le lotte si estendevano, una volta l’abbiamo titolato La Lotta Continua, dunque era un titolo descrittivo che poi è rimasto. Sofri poi si è impadronito di questo, ha rotto l’unità molto confusa dell’assemblea studenti-operai, ha costruito il suo gruppo e a quel punto io non l’ho seguito nel suo progetto. Successivamente siamo andati a Parigi da Thiennot, che aveva dato vita al gruppo da cui sarebbe nato Servire il Popolo in Italia, che però ne era la versione caricaturale, mentre quello era un gruppo maoista serio, con cui io avevo avuto già rapporti. Un elemento che prima ho dimenticato è che, a partire dalla questione della rivoluzione culturale, erano iniziati dei rapporti con le Edizioni Oriente, che non costituivano un gruppo politico, ma erano di fatto l’unico nucleo realmente maoista: mentre qui si avevano i vari partiti leninisti (Linea Rossa, Linea Nera ecc.) di tipo dogmatico, questi facevano una bellissima rivista, Vento dell’Est, in cui sceglievano testi, traducendoli direttamente dal cinese, ed era uno strumento di informazione ma anche di educazione politica. Quindi, c’era questo rapporto che continuò fino alla fine dell’esperienza delle Edizioni Oriente. Attraverso loro io ho avuto contatti con Thiennot e altri del suo gruppo. Quindi, quando ci trovammo in quattro gatti, io e la mia compagna di allora andammo a chiedere consiglio a Thiennot su cosa dovevamo fare, e lui ci disse che anche tre o quattro persone possono essere una cellula comunista senza avere un partito. Dunque, noi iniziammo a reintervenire alla Fiat, mi ricordo inizialmente con un opuscoletto su cosa insegnava la rivoluzione culturale agli operai nella situazione di qui. Eravamo chiamati il gruppo “leggete e fate passare” perché non avevamo una firma. Dopo di che ci mettemmo insieme al Collettivo Lenin e quindi nacque un gruppo abbastanza consistente che ebbe un salto di qualità nel ’71 perché vi aderirono una serie di delegati di punta della Fiat, in particolare delle carrozzerie, che erano critici verso la linea sindacale ma non condividevano la linea avventurista di Lotta Continua, che diceva “siamo tutti delegati”; questi invece erano delegati e ci credevano, ma erano spesso in scontro con il sindacato. Da qui nacque un’organizzazione che aveva in Fiat un ruolo che poi divenne crescente con il declino di Lotta Continua. Nel ’73 confluimmo in Avanguardia Operaia, rispetto a cui avevo inizialmente delle diffidenze per la loro matrice trotzkista, ma non di tipo stalinista ovviamente: i trotzkisti li ho sempre frequentati, c’è una storiella che dice che un trotzkista fa il partito, due trotzkisti fanno l’internazionale, tre trotzkisti fanno la scissione! E’ una logica di questo tipo, dovuta anche al loro tragico destino originario. Quindi, sono stato in Avanguardia Operaia fino allo scioglimento nel ’77, quando poi nacque Democrazia Proletaria io vi ho aderito formalmente ma mi sembrava un qualcosa di sopravvissuto. Per dovere di cronaca, sono poi entrato nel PCI. Con il ’77 il mio impegno politico vero è finito, dopo di che non è che abbia smesso di occuparmi di queste cose, ho sempre collaborato con il sindacato, ho fatto ricerche; quando Bassolino era responsabile del lavoro di massa nel Partito Comunista, nel tentativo di rilanciare il rapporto PCI-classe operaia, ha promosso una grossa inchiesta e mi ha chiesto di coordinarla. A quel punto io mi sono iscritto al partito, anche se devo dire che lui non me l’ha chiesto, dicendomi che anzi non era una condizione. Ci ho provato un po’, sono rimasto ancora un anno dopo la scissione, poi più tardi sono entrato in Rifondazione, rispetto a cui non ho un ruolo politico rilevante: lavoro molto, ma sempre con inchieste e cose di questo genere. Dunque, una militanza politica organica come quella dei periodi precedenti non c’è più stata.
Che rapporto c’è tra la tua formazione politica e quello che è poi stato il tuo percorso professionale?
Il problema è che le mie scelte professionali sono sempre state subordinate a quelle politiche. Per fare un esempio, io volevo laurearmi in Storia perché mi piaceva, poi mi sono laureato in Sociologia in quanto ciò serviva per l’inchiesta alla Fiat e queste cose qui. Successivamente, per un po’ sono stato assistente volontario di Gallino, con il movimento del ’68 sono andato via dall’università, insegnavo alla scuola serale perché questo andava benissimo con i turni alla Fiat, in quanto noi facevamo la riunione alle 14.30 all’uscita del turno, poi io alle 19 andavo a scuola, finivo alle 22.30 e arrivavo in tempo per il secondo turno. Successivamente sono andato ad insegnare a Modena per ragioni di nuovo organizzativo-politiche, in quanto, avendo responsabilità nazionali in Avanguardia Operaia, dovevo potermi spostare: la scuola serale aveva un gran vantaggio dal punto di vista degli orari, ma non potevo muovermi da Torino. In più AO era interessata alla facoltà di Modena proprio come luogo di elaborazione. Per cui io sono andato lì sostanzialmente per “meriti politici”: siccome quelli che insegnavano lì erano compagni, erano stati vicini ai Quaderni Rossi o addirittura dentro, come Salvati, e avevano un po’ la coda di paglia perché non avevano fatto il movimento del ’68 e invece avevano fatto carriera in università, mi hanno preso. Quindi, mi sono inserito all’università perché era più compatibile con la mia militanza, dopo di che il mio impegno politico è scomparso e sono rimasto lì. Però, quando poi sono stato stabilizzato e quindi la cosa è diventata possibile, nell’89 mi sono fatto mettere in distacco sindacale lavorando all’IRES CGIL qui a Torino, e adesso sono in pensione. Dunque, la mia carriera professionale non ha una sua logica, anche se a un certo punto mi sono trovato a fare il professore universitario in sociologia. Come diceva un compagno mio collega: gran brutto mestiere il professore di università, ma sempre meglio che lavorare! A quel punto la logica era quella.
Secondo te, c’è o c’è stata una specificità torinese nelle lotte e nella militanza?
Nella militanza non so, nelle lotte sì. Cito due aspetti. Una era una specificità che si riflette proprio nella storia del sindacato torinese, per esempio negli anni ’70. Torino ha avuto una rottura di continuità nell’organizzazione operaia più drastica che qualsiasi altra città: anche a Milano negli anni ’50 la CGIL andò indietro, gli scioperi magari non riuscivano, ma c’era un elemento proprio di continuità organizzativa e non c’era una cesura così grossa. Quindi, il sindacato torinese doveva ricostruire da zero il suo rapporto con la classe. Anche nei periodi di lotta alla Fiat, il primo sciopero non riusciva mai, quindi era sempre una scommessa. In Emilia si aveva una situazione in cui il 90% degli operai era iscritto al sindacato, sapevi che lo sciopero riusciva, spesso non lo facevi, nelle vertenze aziendali a volte non c’era bisogno di farlo perché il padrone sapeva già che lo sciopero sarebbe riuscito. Quindi, ciò non era dovuto a particolari posizioni “di destra” del sindacato, ma al fatto che tu andavi lì con la piattaforma, lui sapeva che lo sciopero sarebbe riuscito e non c’era bisogno di farlo. A Torino è sempre stato molto diverso: non a caso i delegati sono nati qui, in quanto il sindacato di Torino ha dovuto riproporsi il problema dell’organizzazione e del rapporto con le masse, non ha potuto semplicemente coltivare quello che già c’era, rafforzandolo solo. Quindi, le lotte hanno queste caratteristiche meno routinarie: a volte, anche nei periodi di forza, hai degli scioperi che non riescono, e a volte hai invece la classe operaia che scavalca il sindacato. L’altro elemento che riguarda la Fiat, e non Torino in generale, anche se poi influenza il resto, è la composizione di classe, quello che è stato chiamato l’operaio-massa. Già allora ma soprattutto adesso io tendo probabilmente ad avere una visione eccessivamente critico-riduttiva della soggettività dell’operaio-massa. Allargo un po’ il discorso. Avendo avuto la fortuna di occuparmi di Fiat con il sindacato fin dagli anni ’50 ho potuto misurare il salto di soggettività: andando ai cancelli e parlando quando distribuivo i volantini si capiva ciò che dal ’68 in poi si è manifestato a Torino, ti accorgevi proprio dell’emergere di una coscienza di classe, di una spinta anche antagonistica, dunque c’era una conoscenza molto quotidiana. Però, spesso in questo c’era un fondo qualunquista, del tipo che gli accordi, qualsiasi fossero, erano tutti uguali: la Fiat ha fatto degli ottimi accordi, ma venivano tendenzialmente considerati un bidone, l’idea che i sindacati fossero un po’ venduti non è mai scomparsa del tutto. Tra l’altro anche la qualità dei dirigenti operai emersi dalle lotte alla Fiat è rimasta bassa, salvo per i casi in cui hanno incontrato degli strumenti di formazione: spesso però queste situazioni, guarda caso, riguardavano operai relativamente più qualificati. Noi abbiamo fatto un po’ di formazione con i nostri operai, il sindacato la faceva ma anche in modo abbastanza superficiale, però all’interno di questo c’era per esempio tutto il gruppo che si era raccolto attorno a Ivan Oddone, uno psicologo del lavoro che è stato il primo che fin dagli anni ’60 con la CGIL ha impostato la lotta contro la nocività, l’analisi dei nuovi fattori di nocività legati all’organizzazione taylorista del lavoro e ha contribuito all’idea dei delegati in una forma moderna. Gli operai che hanno lavorato con lui avevano livelli molto elevati di coscienza politica. Però, c’era un elemento pesante dell’operaio-massa che era un limite. Alleggerisco quanto ho detto con un aneddoto, perché appunto del termine operaio-massa io ho sempre un po’ diffidato, anche se è efficace. Un compagno sindacalista, Gianni Marchetto, sostiene di avere l’itinerario opposto a quello che per la classe operaia teorizza Toni Negri: in quanto giovane immigrato ha cominciato come operaio sociale, scioperava solo per spaccare i vetri; poi è diventato operaio-massa, cioè operaio dequalificato in una grande fabbrica; infine, è diventato operaio di mestiere. Quando gli si chiede che esperienza ha avuto dell’operaio-massa, lui risponde: “quando ero segretario della lega di Mirafiori ne ho conosciuti due: Massa Giacomo, che era della manutenzione e iscritto al sindacato, e Massa Giuseppe, che era uno combattivo delle carrozzerie non iscritto”. E poi da lì chiede: “come vi spiegate che a Mirafiori il turno A ha sempre scioperato meglio del turno B malgrado avessero ovviamente la stessa composizione di classe? Perché la soggettività del singolo operaio c’entra, perché in uno c’erano certi operai e nell’altro certi altri”. Questo è un contributo teoricamente importante per il rapporto tra composizione di classe e soggettività.
Che cosa ci dici di Cesare Del Piano, che è stata una figura sicuramente significativa a Torino?
Del Piano io non l’ho conosciuto molto direttamente, quindi lo conosco più per sentito dire. Torino fu uno dei rari casi in cui non solo ci fu l’unità dei metalmeccanici, che c’era dappertutto, ma ci fu l’unità delle confederazioni e su una linea estremamente avanzata: basti pensare all’autoriduzione delle bollette, considerata uno scandalo anche nella CGIL nazionale, che a Torino fu fatta. Sostanzialmente l’unità tra i tre sindacati voleva dire Del Piano e Pugno, quindi CISL e CGIL. Dunque, Del Piano è una figura straordinaria, credo che ci sia una monumentale biografia su di lui. Era proprio un cattolico sindacalista, di quelli che per onestà da un lato e lucidità di idee dall’altro arrivava poi alle posizioni più avanzate. Quindi, è stato un fattore decisivo, prima nel dare una sponda ai sindacati di categoria, ma poi proprio per il fatto che Torino è uno dei pochi casi in cui c’è stato anche il tentativo (più convinto che altrove) di fare i consigli di zona. Dunque, lì è proprio una situazione in cui ha pesato l’influenza e il ruolo di Del Piano, anche perché era un’autorità indiscussa nel sindacato, ha avuto un ruolo molto importante.
Da questa ricerca si può ricavare un’interessante ipotesi. Da una parte l’operaismo è andato avanti proponendo una lettura socio-economica completamente nuova dell’entrata ritardata dell’Italia nel taylorismo-fordismo rispetto ad un PCI e ad un Movimento Operaio completamente impantanati nelle teorie del ristagno e dei monopoli. L’operaismo, dunque, ha rotto con una certa tradizione individuando nell’operaio-massa una figura nuova non solo per un percorso anticapitalista, ma anche nell’ipotesi dirompente di una classe contro se stessa, contro il lavorismo, lo scientismo, il tecnicismo, lo sviluppismo su cui si è formata la tradizione del Movimento Operaio. Dall’altra parte, però, non è riuscito a rielaborare nuovi obiettivi e un progetto politico che fosse adeguato a quella lettura dirompente. Romano sostiene che l’operaismo si è mosso all’interno di un particolare poligono, in parte riuscendo ma in parte fallendo nel tentativo di fare i conti con i suoi vertici, rappresentati dalla politica e dal politico (intesa come gestione e come progetto di trasformazione), dalla cultura (quanto l’operaismo ha criticato la tradizionale figura dell’intellettuale organico e la concezione esclusiva della cultura umanistica?), dagli operai e dall’operaietà (intesa nell’interrelazione tra soggettività collettiva e soggettività individuale, cose molto o del tutto trascurate), dalla questione generazionale (per la composizione sia delle esperienze politiche sia dei giovani operai).
Sono d’accordo. Vorrei sottolineare, ma credo che questo sia scontato, che l’operaismo dei Quaderni Rossi non è mai stato operaismo riferito agli operai in senso stretto. Penso a Romano, il quale fin dall’inizio (parlo ancora dei Quaderni Rossi) propose di usare al posto di “operai” il termine “produttori”: la cosa scandalizzò molto Panzieri. Al di là del termine, c’era il fatto che l’attenzione di uno come Romano, ma anche la mia, è sempre stata all’insieme del lavoro dipendente. Lui poi aveva un amore particolare per i quadri intermedi, ha fatto le interviste con loro nella prima inchiesta Fiat, da cui veniva fuori una figura che è un intreccio di contraddizioni. Quindi, era un operaismo non gretto, non del tipo che se uno non aveva la tuta blu non ci interessava.
Come affronteresti tu il nodo della politica e del politico, categoria che oggi resta di centrale attualità?
E’ un discorso che necessita di un grande approfondimento che parta dall’analisi della situazione attuale. Però, è da tanto che io non penso in termini organicamente politici, le mie riflessioni sono individuali: diverso è quando uno milita in un’organizzazione e allora in ogni momento cerca di interpretare quello che succede e collegarlo ad una strategia.
*Nota. L’intervista è ripresa da: http://www.autistici.org/operaismo/rieser/index_1.htm
Interessante lo spunto, peccato che tutto sia rovinato ad esempio dal seguente cacofonico fraseggio: —- “Con quanti ci siamo incontrati nel fervore convulso di quegli anni, dove non c’era neppure il tempo per parlare di sé, della propria formazione o storia personale!”—— al contrario di quanto vorrebbe nobilitare a contenimento dell’ego, esalta il proprio a tal punto da ridurre la forza vuoi individuale di spirito e carattere, vuoi politica , non tanto dell’altro o eventuali altri del presente solo apparentemente negati , ma la propria che invece viene negata e con cui avrebbe tuttavia tante cose da dire, come anche questa pagina rilascia alla memoria attiva sulle cose del presente…pianeti su pianeti sempre più lontani, incomunicabili, senza altre parabole, altri radar, altri cavi eppure riempiti zeppi di connessioni, wireless, wi.fi, antivirus.
Hai capito, Vittò, che silenzio è calato su questo post che ti ho dedicato?
Tutti presi dalle elezioni europee! E l’unico commento mette sotto la lente d’ingrandimento un ” fraseggio cacofonico”!
Ah, Italia popol di morti!
Ce ne sono di più svegli da quelle parti?
Un saluto
Samizdat
Ennio , hanno fatto bene a fare i morti, dopo quella apertura così cacofonica ( ora ripetuta al quadrato col tuo commento di stamane che leggo), dopo che tale proposta di lettura l’associavi alla pagine da cui tutto era ripartito ( 2034 e Franco Nova), come potevi pretendere con quella tua caco-premessa che l’efficacia di quanto ti stava a cuore superasse pini o betule dei tuoi coatuori e dei tuoi lettori? Loro dovrebbero superarsi e tu invece, come un re, no? non sta né in cielo né in terra la tua erba voglio, le tue mazzate, le tue premazzate e postmazzate..ogni volta punto a capo, più di prima e peggio di prima. Altro che proporre allegorie, metafore, poesie, scritti politici, memorie e memoria . Qui siamo a prima dell’abc dei rapporti pre-vegetali e pre-animali.
…trovo molto angosciante questa intervista a Vittorio Rieser. Emerge la figura di un uomo degnissimo di stima, così impegnato in tante lotte nel movimento operaio e studentesco, soprattutto alla Fiat di Torino, dove svolge sia un’azione organizativa, nelle vertenze e negli scioperi, sia da intellettuale…Eppure l’intervista si rivela la cronaca puntuale di tanti fallimenti, di tante sconfitte, dovute più alle divisioni interne che all’opposizione dell’avversario. Secondo me, manca la narrazione di un iniziale pur comune entusiasmo, unità, condivisione di valori, che avrà fatto nascere un movimento, che poi si é spaccato. Sembra che sia nato già lacerato dalle varie correnti di pensiero…Nell’intervista V. R., alla fine ne parla come se fosse lui stesso scettico su ogni soluzione del problema “Quali possono essere le vie di una rivoluzione nei Paesi di capitalismo avanzato…”. Certo per recuperare il filo rosso di un pensiero é poco incoraggiante…
Mi pare giusto riportare questa testimonianza su Vittorio Rieser dello storico Angelo d’Orsi:
La flânerie di un rivoluzionario. Ricordo di Vittorio Rieser
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di Angelo d’Orsi
(da:http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-flanerie-di-un-rivoluzionario-ricordo-di-vittorio-rieser/#.U4Ljx4H1JVE.facebook)
Ho versato molte, caldissime lacrime, alla cerimonia di addio a Vittorio Rieser, in una calda fine di mattina, a Torino, addì 24 maggio 2014: mancato improvvisamente, ma forse non inaspettatamente, due giorni prima. Non era un amico, e lo avevo frequentato un poco, sempre con altri compagni, negli anni Settanta, quando, cessata l’onda lunga del Sessantotto, lui era divenuto comunque un dirigente politico nella Sinistra “a sinistra del PCI” che tra Parlamento e lotte di fabbrica e di piazza si stava istituzionalizzando. Una cerimonia breve, in quanto al tempio crematorio del Cimitero monumentale del capoluogo subalpino, i funerali si susseguono a ritmo di uno ogni venti minuti. Avevo gli occhi già umidi, ma quando ha parlato sua moglie Vanna Lorenzoni, con una intensità fortissima, ma sempre capace di contenere la commozione, è stato impossibile frenare il flusso delle lacrime. Il racconto della loro storia d’amore, la fotografia di una quotidianità fatta di gatti e di rose, di biglietti romantici e di gite, di letture e di discussioni, di pranzi e di amici, con quel sottofondo della malattia – le malattie, al plurale, che da tempo affliggevano Vittorio – è risultato struggente, proprio nella sua semplicità. Le malattie alle quali non voleva opporsi: “lascia che la natura faccia il suo corso”, ripeteva.
Chi era Rieser? Nato nel 1939, da Henek, un ebreo polacco comunista, e da una dirigente comunista piemontese di famiglia cattolicissima, Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca”, amata, invano, da Cesare Pavese, ma invece con successo da Altiero Spinelli, Vittorio era un uomo di rara intelligenza e altrettanta rara ironia. Avrebbe potuto essere un leader politico, o un grande studioso, se avesse avuto un po’ di quella necessaria ambizione che porta a salire i gradini delle scale sociali, di qualsivoglia natura. Ma non gli interessava. In fondo albergava in lui una sorta di flânerie che ne aveva fatto uno straordinario “uomo da caffè”, che, come ha ricordato la moglie, era divenuto il suo secondo ufficio, o forse il primo. Era, per qualifica, un sociologo dell’industria, che aveva alle spalle una militanza formativa con Danilo Dolci in Sicilia, e soprattutto, a Torino, nei Quaderni rossi di Raniero Panzieri, il vero incubatoio della rivolta studentesca e operaia dei tardi anni Sessanta. Aveva insegnato anche all’Università – quel “covo di sovversivi” che fu la Facoltà di Economia di Modena negli anni Settanta –, ma chiamarlo sociologo sarebbe riduttivo e a mio avviso persino offensivo: Rieser aveva non solo tante, molteplici passioni culturali, ma altresì il respiro dello storico, che gli consentiva, anche vivendo gli avvenimenti del presente nel loro sovente drammatico manifestarsi, di darne in diretta una lettura mai superficiale. Basti rileggere la sua magistrale inchiesta sulla Fiat di Melfi (1997).
Fu uomo della CGIL, ma anche dell’IRES, e poi di vari centri di studio e di lotta sindacale. Appartenne ad Avanguardia Operaia, il più serio e rigoroso dei gruppi della sinistra estrema dei primi anni Settanta, quando appunto lo frequentai un po’. Ma lo avevo conosciuto prima, nel vivo della battaglia che da studente dell’Università di Torino conducevo con i compagni e compagne di studio, contro l’autoritarismo dei “baroni” e contro la scuola di classe (non sapendo che vincendo quelle battaglie saremmo a distanza di qualche decennio ritornati molto, molto più indietro). Nelle assemblee la presenza di Rieser mi rassicurava: mi consideravo allora un osservatore partecipe del “Movimento”, e ne vedevo tutti i limiti anche se ne ero parte convintamente. Detestavo le perdite di tempo, gli estremismi parolai, le urla scomposte, i gesti luddisti (la distruzione di arredi, i crocifissi gettati nelle latrine, la carta igienica usata come addobbo della sala del Senato accademico): la goliardia contro cui combattevamo evidentemente aveva infettato molti di noi. Non sopportavo la prevalenza degli slogan sulle analisi, non mi piacevano i leaderini figli di papà, non tolleravo l’intolleranza, a meno che avesse un preciso e immediato significato politico. Ebbene, Rieser era lontano da tutto ciò. Il fatto di avere 10/15 anni più di noi, lo aiutava, certo, e induceva noi a guardare a lui non solo con l’ammirazione per il vero intellettuale del movimento, ma anche con il rispetto che si deve agli anziani. Agli urlatori replicava con leggero sarcasmo; gli estremisti li teneva a bada con pochi gesti e parche parole; i luddisti li ignorava, persuaso che erano poche “teste di c.”: pazienza e ironia, la coppia di virtù del rivoluzionario secondo Antonio Gramsci, erano rappresentate in quel bel volto quasi sempre sorridente, incorniciato da una barba rossiccia. Era il compagno-maestro, per la generazione dei “contestatori”, almeno sotto la Mole, anche se le sue analisi lo avevano fatto conoscere a una platea nazionale, almeno nell’ambito della sinistra che non riusciva a riconoscersi nel Partito comunista, e che, anche quando provvista di matrice socialista, aveva voltato le spalle a quel partito, ben prima dell’ascesa di Bettino Craxi.
Ricordo, a distanza di qualche anno, certi incontri di discussione, conditi da fumo e vino rosso, a un tavolo di cucina con un piatto di formaggi e qualche fetta di pane non proprio freschissimo (chissà a casa di chi…), e sempre lui, con la sua voce un po’ roca, mi appariva la saggezza che temperava la sapienza, era l’intelligenza che guidava l’entusiasmo. Eppure, senza mai assumere l’aria del capo, anzi rifiutando categoricamente quel ruolo, in ogni circostanza. Forse ha sbagliato: perché la sinistra avrebbe avuto bisogno proprio di capi come lui, rigorosi e insieme appassionati, rivoluzionari dal volto umano, capaci di combinare cultura e impegno al massimo grado. Rieser aveva percorso molti partiti della sinistra; dopo AO (che oggi per tanti è una catena di supermercati, ma allora indicava Avanguardia Operaia), militò in Democrazia Proletaria, poi nel PRC, per rientrare poi nel PC, infine appartandosi. Avrebbe potuto essere un líder maximo in ciascuna di queste formazioni, ma non volle, in parte; per altra parte, forse non lo vollero. Lo pensavo mentre dietro il feretro che percorreva il breve tratto di sentiero fino al tempio, sbirciando gli astanti: tutti ma proprio tutti, della generazione di Vittorio o di quella immediatamente successiva. Di “t-q” non ne ho veduti. I più giovani avevano, insomma, cinquant’anni. E riflettevo sull’abbandono in seno ai partiti e ai sindacati della pratica della trasmissione della memoria interna: quanti tra vent’anni sapranno chi era Vittorio Rieser? No, mi correggo: un paio di ragazzi c’erano: vestiti rigorosamente di nero, che, al passaggio della bara, hanno con rispettoso timore estratto un drappo rosso, e hanno salutato Vittorio alzando il pugno, con gli occhi arrossati dalle lacrime, anch’essi. Mi hanno colpito. Non c’erano bandiere, tranne una: un grande stendardo rosso con la faccia di Karl Marx: a Rieser, ho pensato, sarebbe piaciuto, anche se per lui aveva contato anche il grande oppositore di Marx, Max Weber (si veda il suo brillante, acuto divertissement “Fabbrica oggi. Lo strano caso del dottor Weber e di Mister Marx”, del 1992), senza contare Lenin e persino Mao nel lungo periodo di infatuazione per la Cina rivoluzionaria che ci contaminò pressoché tutti.
Ma la meditazione più amara, mentre guardavo i presenti, riguardava la molteplicità delle appartenenze politiche declinate anche nella diversità delle collocazioni professionali: politici di professione, liberi professionisti, docenti, sindacalisti, amministratori pubblici, ma anche operai e impiegati in pensione… Politicamente, c’erano dirigenti dell’ala postcomunista del PD (ho apprezzato per una volta Piero Fassino, anche per l’atteggiamento dimesso e sobrio con cui si è presentato), c’erano socialisti, c’erano militanti e dirigenti delle due ali di Rifondazione, c’erano esponenti di altre formazioni di quella che oggi viene chiamata sinistra radicale, c’erano gli ultimi irriducibili “cani sciolti”, e c’erano anche alcuni folgorati da Beppe Grillo, e che dalla Falce e Martello sono passati alle Cinque Stelle. Meditavo e mi dicevo: incredibile. Fino a poco tempo fa tutti costoro, me compreso, eravamo membri di un unico campo politico, “la Sinistra”, sebbene provenienti da diverse “famiglie”. Oggi quel campo non esiste più, se non come forma umbratile: e sul vasto terreno da essa occupato, accanto al corpo del maggior partito, che ai valori della Sinistra ha rinunciato in modo definitivo, rendendo si pressoché indistinguibile dalla Destra, crescono populismi o disinteresse, ma non cessano, pur nella pochezza dei mezzi, liti e frammentazioni.
E mi sono sorpreso a dire fra me e me: Caro Vittorio, beato te che sei mancato alla vigilia delle elezioni. Almeno non dovrai porti il drammatico interrogativo: “chi voto?”.
(26 maggio 2014)
…grazie per questa bella testimonianzadi Angeo d’Orsi che ci restituisce viva e intera la figura di Vittorio Rieser…
Qualche riflessioni a margine del post su Vittorio Rieser.
1.
Ho letto spesso su Poliscritture scritti di diversa struttura (commemorazioni, interviste, interventi) relativi a personaggi che hanno militato nel PCI o in formazioni critiche da sinistra di tale partito. Ultimamente Ennio Abate ha riprodotto una remota intervista a Vittorio Rieser attualizzandola con ua breve introduzione. In essa sono contenuti un accenno critico al “ritorno di Vittorio Rieser nel PCI ” di allora ed una nota di disincanto e allontanemento dello stesso Ennio Abate verso la politica di sinistra (o della politica tout court ?) espressa terminologicamente come situazione di esodo. Premesso che la totale assenza di notizie su Rieser non mi consente alcuna seria osservazione specifica sul di lui percorso poltico,debbo però dichiararmi riconoscente verso tale scritto perchè mi ha quasi costretto ad alcune riflessioni personali che qui rassegno.La lettura del testo di Abate mi ha provocato stupore. Intendo: non stupore come ironica manifestazione critica (anche se una critica vi è sottesa) ma piuttosto come partecipazione e preoccupazione.
2..
Perchè preoccupazione, perchè partecipazione? Il senso della seconda è questo. Nonostante la mia personale distanza dal PCI e dalle posizioni radicali di sinistra, ho sempre nutrito grande rispetto per quel partito e grande ammirazione per qualcuno dei suoi rappresentanti. Il c.d anticomunismo viscerale mi è sempre stato estraneo ed odioso.
3.
Più complesso è il tema della preoccupazione. In essa la distanza tra me e la sinistra si accorcia a tal punto che in essa (la sinistra di oggi, ovviamente) mi riconosco, anche se immagino che su tale riconoscimento qualcuno esercitarà la propria ironia). Ironia per ironia mi sono chiesto – in polemica con un immaginario interlocutore – perché mai la gente dovrebbe sentirsi di sinistra ed appoggiarla se assiste in continuazione a celebrazioni funebri sulla morte della sinistra messe in atto da vecchi rappresentanti del PCI o suoi oppositori da sinistra. Osservo poi che queste discussioni sono spesso impostate su antichi temi di mero interesse storico, su riferimenti culturali indifferenti ai pressanti problemi dell’oggi e al “modo di risoluzione di essi”, su richiami ad esperienze a paesi remoti di cui sono ignote molte cose e incomparabili le coordinate storico-culturali.
Ho cercato di mettere ordine nelle mie riflessioni compiendo una distinzione tra ” aree di interessi dell’attuale società ” e ” strumenti per la gestione efficace di tali interessi “.
La mutevolezza, complessità e a volte contraddittorietà di tali aree è sotto gli occhi di tutti. Io cerco di non prescindere mai ” dai fatti ” (che sia un vero marxista ?).
Il discorso sulle aree di interessi riguarda tutti i partiti e – quindi – anche l’attuale PD e gli altri operanti in Italia. Non mi dilungo più di tanto su tale argomento che esigerebbe ben più che queste riflessioni. Mi limito a dire che ciascun partito – come rappresentante di interessi collettivi diffusi – ha o dovrebbe avere un settore privilegiato di interessi da difendere e in questo – mi pare – sta la identità di ciascuno di essi.
La prima domanda che mi sono posto (domanda legittimata dal continuo ripetersi di celebrazioni funebri sulla sinistra) è stata questa: vi è ancora un’area di interessi che possano caratterizzarla “come sinistra”? Prima di dare una risposta, e a margine, ho creduto di poter constatare ( sempre in ossequio ai ” fatti ” ) che le attuali società sono attraversate da interessi nuovi,sempre più complessi e spesso in conflitto tra di loro.
Interessi che un tempo erano valorizzati ed assunti come propri dalla ” sinistra storica ” oggi sono comuni a tutte le rappresentanze. Alcuni si prestano ad equivoche valutazioni (i Verdi e gli ecologisti sono di destra o di sinistra ? : ma lasciamo stare questi giochi di società ) Alla domanda cardinale che mi sono posto ho dato una mia risposta: certamente sì, la sinistra ha un ampio territorio da conquistare o riconquistare se è vero come è vero che vi sono nuove ( antiche ) povertà; nuove (antiche) schiavitù; diritti individuali di libertà negati, etc.
Dunque, tornando alla distinzione tra interessi e strumenti di realizzazione di essi, il funerale non dovrebbe riguardare una morte per mancanza di ossigeno ma una morte per tardiva applicazione della bombola salvavita. Sia detto ancora a margine che vi sono segnali – non ha senso dire se inquietanti o no – di insufficenza degli strumenti rappresentativi di tali interessi; ma ciò significa solo che ” anche questo è un problema del nostro tempo “.
4.
E’ difficile affrontare tale argomento senza dare uno sguardo – ancorché superficiale – ai modelli di organizzazione degli stati democratici occidentali.
Preso atto dell’esistenza di un sistema di democrazia parlamentare non dobbiamo nasconderci dietro un dito ignorando il fatto elementare che anche le elezioni a suffragio universale con identificazione del vincente sono un ” metodo di selezione del potere “. Non si governa senza potere.
Ho proseguito le mie meditazioni simulando uno Stato in cui un partito risulta vincitore assoluto (ha la maggioranza assoluta nel linguaggio comune) e può governare indisturbato. Ho presupposto la carenza di qualsiasi tipo di tensione (interna o esterna) ed ho concluso che questo Stato realizza la Città del sole del mio conterraneo Campanella. Preciso che mancanza di tensioni interne significa – utopisticamente – che il Governo di tale città soddisfa tutte le aspettative dei suoi abitanti.
Così non è, come è noto. Ogni comunità subisce tensioni interne (dovute ad aspettative diversificate e confliggenti dei propri consociati) ed esterne (dovute a rapporti con altre comunità,rapporti che diventano conflittuali per le più svariate ragioni: ognuno ha i propri esempi da raccontare…). Altro dato indiscutibile sono: a ) la massima diversificazione e la massima discordanza deglli interessi ; b ) la indiscutibile connessione tra condizionamenti esterni e tensioni interne.
Mi ritrasferisco all’interno, che è la dimensione che interessa i cittadini e il loro governo.
Come si risolvono le tensioni se si intende governare, cioè assicurare la vita pacifica, serena e ricca di speranze di una società (credo che gli agglomerati sociali si istituiscano – all’origine – in funzione difensiva e di sostegno in senso lato).
Il dilemma si schematizza non secondo il principio del tertium non datur ma secondo tre possibilità: a ) l’imposizione di una linea politica che sacrifichi certe tensioni e plachi altre; b ) il compromesso con sacrifici reciproci delle tensioni contrapposte; c ) la rivoluzione da parte di un gruppo e gruppi con interessi identici o simili a scapito di altri gruppi titolari di interessi diversi e come tali produttori di tensioni di altro tipo.
Si tratta di soluzioni tutte possibili; e parlando di rivoluzione non si intende sostenere che essa è la soluzione preferibile o auspicabile, ma solo sottolinearne la possibiltà e praticabilità. Ancora guardando “i fatti ” si deve dire che essa fu praticata ed è praticata ( ciò dimostra la permanenze di certi tipi e qualità di tensioni). Resta salvo il giudizio sulla intrinseca bontà di essa così come resta salvo il giudizio sulla bontà delle altre soluzioni.
Mi sono chiesto – a questo punto – se non fosse cinismo o segno di indifferenza morale da parte mia concludere che rivoluzione e democrazia rappresentativa sono una sorta di esperimento in corpore vili.
Dicono – pare che sia vero – che Marx, morente o quasi, abbia esclamato: non sono marxista ! o qualcosa di simile. Mi piace – in omaggio alla sua grandezza e al suo pensiero dialettico – pensare che ciò sia un richiamo alla necessità di analizzare i fatti,individuare i fini della politica, definire gli strumenti migliori per attuarli e verificarne gli effetti secondo lo stato dei tempi, dei luoghi e dei soggetti coinvolti. Così questi ultimi – cioè ciascuno di noi – cesserebbero di essere corpo vile per tornare uomo (nobile)
Un cordiale saluto a tutti da Giorgio Mannacio.
CITAZIONE/SEGNALAZIONE.
IN PREPARAZIONE DI UNA RISPOSTA AL COMMENTO (SOPRA) DI GIORGIO MANNACIO
«Esiste l’imprevedibile, ecco la tragedia», constata Merleau-Ponty. Inoltre, bisogna davvero che questa libertà tragica, a costo di ritornare ad essere puro capriccio del desiderio, conosca i limiti che la congiuntura e le circostanze le assegnano. A differenza del santo o dell’eroe classico, che agiscono in un solo colpo, il militante profano affronta l’incertezza di una decisione, di cui il risultato rischia sempre di contraddire le sue proprie intenzioni. La fragilità dei giudizi politici e storici s’impone così come antidoto necessario alle tentazioni dogmatiche e dottrinarie esattamente come a quelle dell’indifferenza cinica.
Cambiare il mondo vuol dire interpretarlo per cambiarlo.
E anche cambiarlo interpretandolo.
[…]
Dalla metà degli anni sessanta, il mondo è caduto in un’atmosfera di crisi che le effimere riprese economiche non riescono a dissipare. L’avvenire sociale, ecologico, tecnologico, resta adombrato da inquietudini e pericoli. Indefinibile, la crisi si attarda. Il timore di una spaventosa fine si eternizza nel prolungarsi di uno spavento senza fine 28.
Si tratta di ben altro che di una crisi industriale o finanziaria: si tratta di un nuovo disagio della civiltà. Di una crisi globale dei rapporti sociali e dei rapporti dell’umanità con il suo stesso ambiente naturale, di uno sregolamento generale degli spazi e dei ritmi. La crisi della civiltà è una crisi di dismisura e di errata misurazione. Che dura e si protrae in un deterioramento senza esito. Negri ne deriva l’ipotesi secondo la quale le grandi crisi scomparirebbero con la modernità a vantaggio di una proliferazione postmoderna delle “piccole crisi” ramificate in rizomi.
Se è vero che le sovranità statuali si disgregano tra le maglie della rete imperiale, non è sorprendente che le crisi rapide e violente, che ruotano attorno obiettivi di potere identificabili, cedano il posto a lente crisi di «corruzione».
La nozione di crisi cambierebbe allora di senso e funzione. Non perforerebbe più la struttura, non sarebbe più una rottura nella continuità. Sarebbe ormai un tutt’uno con la storia. Coinciderebbe con la ”tendenza naturale della storia“. Ne sarebbe la stessa modalità [30. Empire, op. cit., p. 458 et 465 (Edizione italiana non consultata per la traduzione, Toni Negri e Michael Hardt, Impero, Rizzoli, Milano 2000, NdT)]. Ritroviamo qui gli accenti catastrofici che Negri pretendeva di evitare. Marx riteneva, più sobriamente, che il capitale diventasse una barriera per se stesso.
Questa contraddizione giunge oggi ad un punto critico.
Ma come venirne fuori?
Abbiamo conosciuto numerosi imperi decadenti e molte civiltà in rovina. La storia non è un lungo e placido fiume. Non ha un lieto fine assicurato. L’alternativa tra liberazione o barbarie, posta all’inizio del secolo scorso, è più incalzante che mai. Da guerre mondiali a bombardamenti atomici, da genocidi a disastri ecologici, la barbarie ha preso diverse lunghezze di vantaggio. Se la crisi non è ancora l’evento, essa ne è la manifestazione della possibilità concreta. Il suo esito non è già stabilito in anticipo. La crisi appare ben altro che un semplice “tornante storico”: come un grande passaggio, una ramificazione cruciale, dove si incontrano le necessità della situazione e la contingenza dell’azione.
La catastrofe può essere ancora scongiurata. Se…
Non c’è altro da fare se non investirsi nel processo. È il lavoro stesso della talpa.
(Daniel Bensaïd:http://www.consecutio.org/2014/05/desiderio-o-bisogno-di-rivoluzione-4/
)
@ Giorgio Mannacio
Caro Giorgio,
no, non ironizzerò sulla tua adesione alla «sinistra di oggi» (abbondantemente rottamata da Renzi e prima di lui dai suoi predecessori, a partire da Occhetto). Mi limito a farti notare solo alcune cose:
1. sono stati proprio costoro – i “traghettatori” del consenso dal PCI all’attuale PD – ad officiarnei funerali; e non i «vecchi rappresentati del PCI o i suoi oppositori da sinistra». Per cui sarebbe il caso di accertarsi se la sinistra (ideale) a cui tu pensi, mentre voti “a sinistra”, esista ancora;
2. è impossibile che si possano affrontare i «pressanti problemi dell’oggi» senza tener conto della storia che li ha prodotti; sarebbe un appiattimento su un presente del tutto slegato dalla storia e perciò ampiamente manipolabile (come si vede dall’azione massiccia dei mass media);
3. non so quale sia la tua conoscenza di Marx, ma è certo che egli non solo non prescindeva dai fatti ma di sicuro ad essi non si fermava; e li interrogava per andare oltre la loro apparenza. Mai avrebbe scoperto lo sfruttamento dietro l’effettiva eguaglianza giuridica (formale) dei rapporti tra capitalista e proletariato, che è il suo principale merito;
4. sarebbe bene non sorvolare sulla crisi della rappresentanza ( alias democrazia parlamentare o democrazia tout court) su cui c’è abbondantissima documentazione. Copio qui questo puntuale commento (27 maggio 2014 a 18:39) letto oggi su LE PAROLE E LE COSE :
«d’altronde non sono io a dire che “il 40% degli italiani ha votato tizio o caio” come si usa sempre, mi limito a registrare la fallacia di questa frase. ci sono 10 milioni di italiani che non si ritiene degni di esprimersi e altri 20 milioni che hanno ritenuto di non farlo, più tutti i non italiani che abitano in Italia, insieme fanno ben più di metà della popolazione che viene sottoposta alle leggi di persone votate da una parte del resto degli italiani.
con questo faccio notare il semplice FATTO che la nostra democrazia non è, come si suol dire, il governo della maggioranza, ma il governo della minoranza organizzata più consistente.
non si è detto che gli astenuti adesso ” voterebbero tutti in blocco per un solo partito alternativo al PD”; si è detto che non hanno votato il PD, segno che non ci si riconoscono. la cosa è molto semplice.
chiamarla disaffezione non è arbitrario, alla luce del calo costante dell’affluenza sia rispetto alle scorse europee dove i votanti furono 32.749.004 (ma la serie storica ci racconta di un calo costante, salvo un paio di eccezioni, dalle prime europee a oggi), sia rispetto alle politiche di un anno fa, dove furono 37.271.542 (dove per la prima volta nella storia italiana l’affluenza alle politiche scese sotto l’80% degli elettori, anche qui seguendo una serie storica tendenzialmente declinante, soprattutto nell’ultimo ventennio, si veda: http://elezionistorico.interno.it/index.php?tpel=C&dtel=24/02/2013).
e dunque, ci sarà pure un dato endemico di disinteresse per la politica, ma si consideri che in Italia abbiamo avuto affluenze stabili ben oltre il 90% degli elettori per 40 anni, si consideri che il calo della tornata del 2013 è stato uno dei più grossi nella storia delle elezioni politiche, che mai a un’elezione di portata nazionale l’affluenza era stata così bassa, ma che a queste elezioni è stata ancora, e nettamente, più bassa.
si può trarre la conclusione che questa astensione non sia un dato endemico di disinteresse per la politica, ma denunci l’esistenza di ampie aree di opinione sottorappresentate o non rappresentate nell’agone politico.
si potrebbe discutere del perchè ciò avvenga, ma è un discorso che meriterebbe un proprio spazio.
sicuramente si può dire che il governo Renzi non è legittimato dalla maggioranza degli italiani; d’altronde, essendo noi in una Repubblica Parlamentare, gli basta la legittimazione del parlamento.».
Ma, piuttosto che argomentare o controbattere, vorrei farti presente pubblicamente un mio stato d’animo e lo faccio ricorrendo a una poesia.
Proprio oggi su FB qualcuno (Stefano Guglielmin) ha proposto un brano di Giorgio Caproni, da «Congedo del viaggiatore cerimonioso» (si legge interamente qui: http://it-it.facebook.com/notes/luigi-vannucchi/congedo-del-viaggiatore-cerimonioso-giorgio-caproni/10150143253540074?comment_id=13822357).
[…]
(Scusate. E’ una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare. Ecco.
Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).
Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo- odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, son certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento
Caproni, in questa sua raccolta (del 1965) medita sulla morte. Per me questi suoi versi rendono bene sia quel sentimento di «disincanto e allontanamento», che tu mi hai attribuito, sia l’alone piscologico della «situazione di esodo» di cui parlo da anni.
Ma specie l’ultima strofa a me pare alluda quasi alla perfezione a quello che io provo in questo momento dopo il risultato elettorale che ha visto il “trionfo” di Renzi.
Pure io «son giunto alla disperazione /calma, senza sgomento». E sono sceso (da tempo) dal “vostro” (credo…) treno della sinistra e vi auguro «Buon proseguimento».
Hai pienamente ragione Ennio,
ma visto che non stiamo morendo prima o poi su un treno si dovrà salire, almeno lo spero.
…molti i presenti al commiato doloroso del poeta e per tutti c’é una parola di addio, tra tristezza e nostalgia; loro sono stati i compagni di viaggio. Ma anche noi ora che lo leggiamo, lo diventiamo. e perciò mi sento di rivolgermi a lui, sperando che non si offenda, così: “Su, fermati…riapri, se vuoi, la pesante valigia, riparliamone…siamo tutti disorientati, non vedi…Un capitano abbandona la nave? “…
Caro Ennio, prima di tutto un sincero grazie per due ragioni. Da tempo non dialogavo di politica e tu me ne hai data l’occasione,favorendone anche il corso con una serie di osservazioni condotte con civiltà e lealtà. E poi hai citato Caproni (chissà se annoverabile tra i frequentatori della Palazzina Liberty), poeta a me congeniale. Ed eccomi a rispondere alle tue osservazioni,seguendo – per quanto è possibile – l’ordine di esse. Ma è necessario che io faccia una premessa di tipo generale. La tua risposta non incide ” verticalmente ” sulla mia meditazione ma si pone, per così dire, come parallela ad essa e, dunque mai incontrandola del tutto. Intendo dire che il senso della mia vera proeccupazione era ed è la ” governabilità ” in senso politico (che prescinde ovviamemnte e in prima battuta dal discorso sulle persone chiamate ad attuarla ). Ritengo – e su tale punto sono irremovibile – che il fine dello Stato o di altre aggregazioni similari sia e non possa non essere quello di assicurare ” il benessere ” dei propri cittadini o partecipanti. Questo effetto si può raggiungere solo se esiste un potere idoneo ad assicurare la governabilità. Tale discorso non è – a mio giudizio – eludibile ma su di esso non ho letto una precisa risposta,se non quella – del tutto scontata – che Renzi o chi per lui non è un buon governante. Non era e non è questo il senso della mia meditazione. Chiarito questo punto preliminare passo ai punti specifici.
1.
E’ possibile, e te lo concedo, che io non abbia centrato il bersaglio relativo al ” caro estinto ” (la Vera Sinistra) e che abbia sbagliato nell’altro punto da te rilevato (gli Assassini). Mi sorge il dubbio che non sia questo il centro della discussione ma posso che anche su questo punto concederti il vantaggio. Ma di Vere Sinistre olim viventi e poi defunte per qualche ragione non si è vista alcuna realizzazione storica. Ci sarà una ragione o no? O sbaglio? Conosciamo meditazioni interessanti su Marx, i postmarxisti, i neomarxisti, i rappporti tra Marx, Althusser, Foucault,persino Freud etc. ma questo – è chiaro – ” è un altro campo di indagini “. Quanto poi alla causa della morte si può discutere se sia stato omicidio o suicidio. I nomi degli omicidi mi interessano poco ma il fatto obbiettivo della morte della “Vera Sinistra” è denunciato anche da te. Come la mettiamo? E perchè escludere l’altra ipotesi ( a proposito di analisi concreta dei fatti…) che sia morta di morte naturale? Non mi rassegno a tale ipotesi. E ho dato conto di tale mia opinione.
2/3
Hai ragione nel rilevare – con tatto e cortesia – la mia scarsa conoscenza di Marx. Quel poco o pochissimo che conosco mi convince che ne ho acquisito una certa ” conoscenza intuitiva ” che del resto è ineliminabile per appartenere al nostro ineludibile orizzonte culturale. Credo di essere dentro tale orizzonte nel momento in cui osservo i ” fatti ” e non li confondo con le apparenze. E’ proprio l’osservazione dei fatti che mi porta a concludere sulla sopravvivenza di ” aree di interventio della sinistra ” e di non cedere alla tentazione di parlare- senza precisarne il senso – di epoca postideologica ( vd oltre ). Tutta la mia meditazione si muove nella direzione di una ricerca di come assicurarsi il raggiungimento di un ” ideale possibile “.
A poposito di ” postidelogico ” riconosco di essere stato eccessivamente laconico sul senso di tale abusata espressione. Ne approfitto per chiarire la mia idea su tale punto.
Per dare ad essa un senso occorre riflettere sul fatto che la complessità del mondo attuale non è dominabile ( o se preferisci governabile ) atraverso una ” sola ideologia ”
( idea guida ). Siamo postideologici perché vi sono molteplici e spesso confliggenti
” modi di pensare la realtà “. Ciò non dipende da una sorta di Spectre impersonale ma dal fatto concreto che è ” lo spirito inquieto ” degli uomini che fa la Storia e determina sempre nuove e impensate situazioni di fatto ( citi Merlau-Ponty: ma cosa serve dire che il terribile è l’imprevisto ).
Mi permetterai un acrobatico salto all’indietro nel quale anche tu sei coinvolto: non è in un certo senso la situazione che si riscontra nella letteratura ? Perchè parliamoi di fine del canone solo rispetto alla Poesia ?
Ma torniamo – come vuole Marx – a camminare con i piedi. E mi viene incontro ( o io vado incontro ) al Caso ILVA che tu conosci molto bene. In tempi per così dire remoti chi avrebbe pensato alla salute degli abitanti di fronte alla prospettiva reale di un lavoro remunerato? Oggi chi può mai pensare che il lavoro remunerato abbia aggio assoluto sulla salute? Eppure sappiamo quante tensioni vi siano state su tale punto tra gli stessi lavoratori. E’ uno dei tanti esempi del c.d ” tramonto delle ideologie ” e, allo stesso momento, delle tensioni tra ideologie.
4.
Non ho scordato il problema della rappresentatività,da me anzi espressamente sollevato.Non credo che si voglia una mia ricetta così come non ne pretendo da te, Ennio. Ho solo rilevato, credo opportunamente, che il problema centrale della governabilità non può prescindere da un esame di quello sulla rappresentatività. A tale proposito non si può trascurare ” il dato di fatto ” che in tutte le democrazie rappresentative occidentali il ” calo di percentuale dei votanti ” è un dato costante. Per quale ragione ? Questo è il punto che merita una analisi concrete e reale.Se tale calo è un sintomo, quale la malattia sottesa ad esso? Disaffezione non è un termine di
” comodo”? E’ possibile che si intuisca l’insufficenza del tradizionale sistema rispetto agli interessi in gioco, così come è possibile che i governati privilegino altri interessi a quelli della libertà. Non azzardo, per onestà, alcuna opinione. Se i governati avessero più interesse agli effetti che al metodo, occorrerebbe stabilire se tale disaffezione sia funzionale all’effetto privilegiato oppure no. Alcuni fatti recenti sembrano indicare una tendenza a metodi diversi di espressione del consenso, metodi che si avvicinano all’assemblearismo( forse peggiorandolo ). Personalmente ritergo che l’assemblearismo sia coerente a strutture di governo ristrette e a sistemi ” chiusi”.Ma si tratta di una mia opinione discutibile.
In definitiva la Storia – nonostante i pareri di molti professori più interessati alla pubblicazione delle loro meditazioni e che si servono abbondantemente e con cinismo degli strumenti ” dell’odiato nemico ” – continua il suo viaggio tra lacrime e sangue.
Vogliamo – più ottimisticamente – parlare di un viaggio avventuroso e stancante verso…..?
Mi piace concludere con quello che scrive la “nostra Emy” con quella carica di saggezza lombarda che ha finito per contagiare un (ex) terrone come me, portato piuttosto a speculazioni filosofiche: “….prima o poi su un treno si dovrà salire “. Che bella metafora!
A voi due, dunque, un saluto davvero affettuoso. Giorgio.
Grazie Giorgio! Io un treno l’ho preso, spero mi porti lontano, ci vorrà del tempo…ma mi piace viaggiare. Spero di incontrarti.
@ Mannacio
Caro Giorgio,
io da ex-terrone della «saggezza lombarda» continuo a diffidare; e anche delle belle metafore (compresa quella bella di Caproni che ho citato). La prima è un mito a cui non m’inchino. Le seconde funzionano alla perfezione solo nella serra protetta della poesia o del sogno. Non nei campi sempre più aridi della politica, di cui qui tentiamo di occuparci.
Proseguendo perciò, per quel che è possibile, questa nostra discussione, ti faccio notare che la «governabilità» è solo un aspetto della politica e non l’esaurisce affatto. La «governabilità» è la preoccupazione principale di un corpo speciale – quello dei politici di professione. Non capisco perché dovrebbe essere però principale anche per i “governati” o “comuni cittadini” se mancano le condizioni che li avvantaggino sia pur in misura ridotta rispetto ai governanti.
Ora non “governati” ( mai tutti e mai in contemporanea) abbiamo acquisito prove sufficienti per convincerci che « il fine dello Stato o di altre aggregazioni similari [NON È AFFATTO] quello di assicurare ” il benessere ” dei propri cittadini o partecipanti».
Questo è il punto che ci divide.
Fermo subito una possibile obiezione: non parlo da posizioni anarchiche, che vedono nell”ingovernabilità” una soluzione o la soluzione ottimale e presuppongono una società capace di governarsi da sé; e quindi senza politica, cancellando persino la necessità che essa sia una dimensione indispensabile della vita umana. Però – ammetterai – che c’è governabilità e governabilità. Quella che viene imposta a milioni di cittadini nelle “nostre” democrazie, come ho detto prima, non mira affatto al loro “benessere”, come tutti stiamo sperimentando e da decenni. E non è questione di leader, che sono solo dei personaggi-simbolo incarnanti interessi di parte che fanno passare – grazie alle elezioni – per interessi “democratici” di “maggioranze”.
Renzi oggi e prima Letta e Monti e Berlusconi, ecc. governano in sintonia (concorde/discorde tra loro e con altri leader europei) ma contro di noi. (O almeno di quella parte di noi nella quale io sto o con quella che, nel mio immaginario, è la parte “buona” o “sana” …).
Sul discorso che la sinistra (vera o sedicente, quotidiana o storica) «sia morta di morte naturale» dissento. Qui la biologia non c’entra: gli organismi viventi hanno un ciclo di trasformazione “naturale” e prevedibile di nascita-crescita-morte, ma le trasformazioni degli istituti socio-politici avvengono in base a spinte e controspinte, spesso imprevedibili ( e oggi sempre più complessi e ardue da decifrare), in cui entrano in gioco credenze e saperi di ogni tipo: economici, ideologici, religiosi, politici, culturali, storici.
Quelli che usano la metafora della “morte della sinistra” indicano all’incirca: o questa difficoltà di leggere la realtà secondo schemi ( “di sinistra”) che parevano solidi e efficaci; o la necessità di prendere atto che al nome (sinistra) non corrisponde più la cosa. Perciò la mia battuta: « sarebbe il caso di accertarsi se la sinistra (ideale) a cui tu pensi, mentre voti “a sinistra”, esista ancora». Quanti hanno votato Renzi pensando che sia di sinistra o abbia ancora nel suo programma qualcosa di sinistra l’hanno fatto senza accertarsi se in quella sua botte così lodata dai mass media in coro e dai “poteri forti” c’è il vinello che ancora li inebria e non qualcosa d’altro. Che è riduttivo anche definire semplicisticamente “di destra” o “democristiano”.
Per me, se vogliamo un esempio di progetto che va “oltre la destra e la sinistra”, possiamo fare proprio il nome di Renzi. Ma “oltre la destra e la sinistra” è anche Grillo. E lo era anche Berlusconi. Perciò forse il termine ‘populismo’ (con varie coloriture e aggiustamenti contingenti a seconda del pubblico – o target – a cui costoro si rivolgono) è più adatto a farci intendere la trasformazione che sta avvenendo e i rischi o le possibilità che si presenteranno.
Ciò detto, prima di salire su un treno qualsiasi, sarei più cauto. Se tutto quello che la “saggezza lombarda” di Emilia riesce a suggerire è: «visto che non stiamo morendo prima o poi su un treno si dovrà salire», io dico: no, grazie. A meno che non mi costringano, non salgo su un treno senza capire dove va e in che tempi, chi guida, ecc. Se devo salire su un treno che si presenta “di sinistra” (magari “radicale” come si dice), voglio capire prima se ha senso tale etichetta, se non è un semplice specchietto per le allodole, se quelle che tu definisci « aree d’intervento della sinistra» non lo siano oggi anche «della destra». Perché non c’erano e non ci sono più campi d’intervento riservati “alla destra” o “alla sinistra”. Sono state approvate guerre (in Irak, in Afghanistan, in Libia) da”destra” e da “sinistra”. Le classi operaie votano la Le Pen. Si parla di “ post-ideologia” ma in modi altrettanto ideologici di quando c’erano le ideologie nettamente contrapposte. Ecc.
Quanto all’esempio che fai dell’Ilva e della contrapposizione tra gli stessi lavoratori, a me non pare che dimostri il “tramonto delle ideologie”. Semmai il tramonto o la fine della politica. Quei lavoratori sono stati *costretti* a scegliere tra lavorare sapendo che si ammaleranno di cancro e rimanere disoccupati. Dove sarebbe la situazione “post-ideologica” per loro? Siamo nella classica situazione del più forte che impone al più debole di sottostare al suo ricatto presentandolo come un “interesse generale” (della produzione o del progresso o della nazione). Di post-ideologico quei lavoratori hanno solo un vuoto: non hanno più il sostegno di un forte partito ( magari di sinistra o socialista o comunista) alla loro lotta, che doveva poter difendere contemporaneamente posto di lavoro e condizioni lavorative non nocive.
E perché non l’hanno più quel partito? Non perché era troppo vecchio e doveva morire o è morto di morte “naturale”, ma perché i suoi gruppi dirigenti hanno deciso che, caduta l’Urss, bisognava diventare “democratici”, cioè accettare il liberismo ( o il neoliberismo trionfante) come unico orizzonte politico, sbarazzandosi di quel poco di “tradizione marxista”(anticapitalista) che s’era inflitrata nella loro storia di sinistra.
Sul tema complesso della rappresentanza o delle soluzioni assembleari ad altra occasione.
SEGNALAZIONE
Ecco un’accuratissima e chiara analisi anche storica della nostra situazione “post-ideologica”.
E’ un po’ lunga, ma vale la pena di leggerla. Anche perché l’occhio che guarda le cose italiane non è italiano:
Il disastro italiano di Perry Anderson
http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/3752-perry-anderson-il-disastro-italiano.html
A Ennio Abate:
Nessuno ha detto che bisogna salire su un treno che non sa dove va.
La meta la conosco, ma senza un treno difficilmente riuscirò a raggiungerla. Certo posso anche starmene seduta ad aspettare il da farsi, a capire chi mi possa degnamente rappresentare, immaginare un mondo migliore, ma poi io ho deciso di prenderlo il treno .Forse a qualche stazione dovrò scendere , modificare il percorso …altrimenti non resta che la rivoluzione, pensiamoci. Il quadro è questo. Per quanto riguarda la saggezza direi che i meridionali sono molto più vicini al mio modo di vivere e di pensare , ma se Giorgio ha voluto cogliere in me una “saggezza lombarda” beh, non oso contraddirlo , lui è molto più saggio di me.
Caro Ennio,mi spiace di non poter essere ” soft” come al solito. Ti rispondo quindi con più determinazione. Tu ” sposti” sempre il discorso. Ribatto quindi CONCLUSIVAMENTE – per quanto riguarda le mie osservazioni – nel modo che segue.
1) Io ho fatto un discorso di tipo generale,giusto o sbagliato che fosse. Tu lo ” sposti” su Renzi come se io avessi parlato di lui o di chicchessia,contestandomi,ovviamente l’errore di questa scelta.Sotto questo aspetto assomigli a quegli inquisitori che estrapolavano dal discorso degli avversari una singola frase per accusarli di eresia.
2) Io mi riconosco nel PD e penso – dato che nulla è immutabile in politica – che vi sia una certa interazione tra leader e base. Pragmaticamente aspetto gli effetti di tale presupposto. E’ – quindi – un travisamente logico trarre dall’adesione al PD un’automatica adesione a ” tutto Renzi”. 3 ) Tu cosa ti aspetti e da chi? 4 ) La morte biologica riferita ad un partito era una ” metafora”,una immagine,figure delle quali nessun discorso più fare a meno. Pensare che io non sappia che un partito non muore per incidente stradale è quasi offensivo, ma non sono suscettibile. 5 ) Allo stato delle cose non riesco a capire perchè una collettività di individui si organizzi in Stato o Nazione e simili se non per la sicurezza e per vivere in uno stato di ” benessere “. Anche qui ti attacchi alle parole. Ho parlato di ” benessere ” con le dovute virgolette per esprime sinteticamente un fascio di diritti,aspettative,memorie, tradizioni,lingua, costumi etc.Non ti dice nulla il rinascere dei ” nazionalismi” se inteso in senso positivo?
6) Confondi governabilità come condizione per governare ed esito di essa ( buon governo,cattivo governo )7) Ho indicato – tra le soluzioni per cambiare l’effetto negativo della governabilità ( cattivo governo ) – anche la rivoluzione,soluzione possibile ,praticabile e qualche volta praticata. Vuoi sciogliere questo nodo? Quale soluzione preferisci? Se ANCHE la rivoluzione ti ha tradito non puoi pensare di assomigliare a quegli uomini traditi dalle proprie numerose donne delle quali non hanno capito quasi niente ? 8 ) Sei tu – a ragione o a torto – che continui a parlare della morte della sinistra. Ti ho invitato a dirmi quale è stata la sinistra olim vivente che è morta dopo una certa durata di vita accettabile ( nome e cognome, per favore ) 9 ) E’ possibile che le tue citazioni finiscano sempre nell’area marxista ( ultimo Anderson )e che vengano trascurati nomi seri come Pellicani o più remoto,Weber?
10 ) Rifiuti sempre o quasi sempre il possibiloe qui ed ora. Utopista ? Solo attraverso la finzione della quadratura del cerchio si è arrivati alla concreta operatività del calcolo infinitesimale. Ti dice nulla questa ” metafora”? Come sempre cordialmente. Giorgio.
@ Mannacio
Caro Giorgio,
capisco che sia arduo discutere tra uno che si riconosce nel PD e uno che vede la vittoria di Renzi (e/o del PD) come un disastro. Ma il bello di POLISCRITTURE è di accettare la scommessa che si possa e si debba farlo (ancora).
Non – l’ho ripetuto altre volte – perché sia possibile trovare un argomento decisivo che convinca l’interlocutore antagonista o lo metta con le spalle al muro dimostrando la superiorità della propria intelligenza o vis polemica. Ma solo per misurare meglio vicinanze (sempre possibili) e distanze (forse incolmabili) e regolarsi, poi, in piena autonomia.
Non vedo – se accetti questa premessa che mi pare semplicemente ragionevole – che senso abbia rimproverarmi di “spostare il discorso”. Io *faccio il mio discorso e lo misuro col tuo*. Come tu fai il tuo e lo misuri con il mio e/o con quello di altri.
Preciso. Non ho parlato di tua adesione automatica a Renzi. Né credo di averti offeso ricordando che la morte di un partito è cosa diversa dalla morte di organismi biologici. Ecc. Anche quando riferisco parole dette dall’altro/a o, persino, le cito, lo faccio *per esemplificare in modo concreto dei modi di pensare diffusi*. Non ho mai l’intenzione di personalizzare il discorso più di tanto. Altrettanto puoi fare tu. Perciò permettimi di fare le citazioni che mi piacciono o mi dicono qualcosa. Questo non vieta che altri, invece di citare un marxista, citino Weber o lo stesso Renzi.
Ciascuno, insomma, sprema il limone di cui dispone. Poi chi assaggerà il succo mio lo troverà acido e lo respingerà e preferirà il tuo o quello di altri/e. Tutto qua.
Caro Ennio,
nonostante il mio ” buon proposito ” di non rispondere ( per non allungare il brodo,come si dice ) debbo replicare, se non altro al fine di rendere DAVVERO UTILE ogni possibile futura discussione su qualsiasi argomento. Premetto. Non sono un socrate che voglia mettere spalle al muro l’avversario ed anzi credo che i dialoghi platonici siano una vera e propria finzione. E te ne dò dimostrazione lampante. Con le mie dichiarazioni mi SONO ESPOSTO COMPLETAMENTE ALL’AVVERSARIO. Infatti ho dichiarato di avere ancora una sufficente fiducia nel modello democratico-parlamentare di stampo occidentale come più accettabile modello di risoluzione dei conflitti.
Lo vedi come sono DISARMATO? Posso tranquillamente andare più oltre e dichiarare che in Italia tale modello non si è compiutamente realizzato. Ti basta? E allora devi concedermi, se vuoi una discussione vera ( che cioè chiarisca la posizione delle parti , punto di arrivo e basta ) di chiederti : quale modello auspichi? Se non mi rispondi ” sposti il discorso”. Ecco il senso della frase. Come sempre serenamente e cordialmente. Giorgio.
@ Mannacio
Caro Giorgio,
neppure io intendo allungare il brodo e ti rispondo senza diplomatismi o reticenze. Ti dico perciò che oggi non sono nella condizione di auspicare nessun modello, perché non ne ho. Non posso rispondere in altro modo alla tua domanda. Che è inappropriata al mio caso. E’ come chiedere ad un poveraccio a quanto ammonta il suo conto in banca. Non ho conto (politico) in banca.
Se mi avessi fatto la stessa domanda negli anni Settanta del Novecento, ti avrei risposto che un modello all’incirca ce l’avevo. Allora come alternativa al capitalismo e alla democrazia (rappresentativa) io ipotizzavo (sottolineo : ipotizzavo…) che ci poteva essere l’esperienza socialista di tipo maoista (la stessa a cui faceva riferimento Vittorio Rieser o il Fortini che allora parlava della Cina come «paese allegorico»).
A me e ad altri pareva che lì si stesse delineando una via d’uscita sia dal capitalismo sia dalla crisi in cui si era venuto a trovare per complesse ragioni l’esperimento “socialista” (le virgolette hanno un senso che qui sarebbe lungo spiegare) sovietico iniziato con la rivoluzione del 1917.
Dagli anni Ottanta in poi, fallita anche l’ipotesi “cinese”, per molti che avevano pensato nella cornice di una problematica socialista/comunista l’aut aut è stato netto. O accettare come unico orizzonte possibile il liberalismo, il capitalismo “da migliorare”, quello che tu chiami il «modello democratico-parlamentare di stampo occidentale come più accettabile modello di risoluzione dei conflitti ». Oppure continuare – ma senza più poter indicare una prospettiva politica reale e alternativa – a criticarlo per le sue effettive e anzi crescenti aporie. (La democrazia occidentale, tra le altre cose, venuto meno il suo antagonista “socialista”, è diventata sempre più la foglia di fico con cui si sono coperte scelte di guerra, crescenti diseguaglianze sociali, smantellamento del Welfare e perfino nuove forme di schiavitù). Si è trattato per alcuni di noi, come diceva Fortini poco prima di morire, di «proteggere le nostre verità» (tra l’altro diventate nel frattempo sempre più problematiche) spesso contro quelli – i “compagni” – che fino ad allora sembravano a noi i più vicini.
Dopo questa presa d’atto del fallimento del “socialismo” e dello sfondamento a livello mondiale del capitalismo ( o “turbo capitalismo” o “globalizzazione”) o dei capitalismi (La Grassa), c’è stato tutto un dibattito drammatico nell’area della sinistra che fu più o meno marxista. Semplificandone gli esiti, si puo dire che alcuni hanno accettato senza più esitazioni e doppiezze di americanizzarsi o democratizzarsi ( così ha fatto il grosso del gruppo dirigente dell’ ex-PCI riciclatosi in DS e poi in PD. Ricordarsi che fu sotto il governo D’Alema che si fece la guerra alla Serbia contribuendo allo sfascio della Jugoslavia… ). Altri hanno fatto una scelta simile ma solo in modi più blandi o moderati, mantenendo il riferimento ad una sorta di comunismo ideale da costruirsi in un futuro sempre più indefinito (Rifondazione comunista). Altri (e mi ci metto io pure) hanno pensato a una forma – etica prima ancora che politica, dato l’isolamento in cui si sono venuti a trovare – di *esodo* (dalla tradizione della sinistra socialista e comunista) portando con sé – un po’ come Enea con Anchise – il lascito “vecchio” della lezione marxista (e – nel mio caso – di Fortini o Montaldi e, in parte, sessantottino). Altri hanno puntato alla rivalutazione di Marx soprattutto come filosofo. Altri ancora hanno sottoposto a critica lo stesso lascito di Marx, mostrandone i limiti, ma tenendo saldo il punto alto e irrinunciabile della sua *scienza del Capitale*.
È difficile discutere di tutto questo con uno come te, che si riconosce nel PD. Non perché dubiti della tua intelligenza, indipendenza di giudizio e della tua apertura di idee, ma perché – ex terroni entrambi – ci siamo venuti a trovare su sponde contrapposte. E – su questo punto hai ragione – il nostro dialogo, se fosse platonico e persino cordialissimo, sarebbe una finzione. Della tradizione marxista o della storia dei tentativi socialisti in Urss e in Cina, come hai riconosciuto, poco ti sei occupato. E, anche se ti dimostrassi, che io ne parlo in modo critico e senza mitizzarla, ti apparirei lo stesso un nostalgico o un attardato.Troveresti sempre che io “sposti il discorso” o non risponda alle tue “precise” domande. Mentre in realtà io devo fare – per forza di cose – un altro discorso in contrasto col tuo e con quello del PD. Come tu fai- cordiale o a volte stizzito – un discorso in contrasto col mio.
Sarebbe perciò meglio chiudere il dialogo qui? E tentare di circoscriverlo ad altre questioni, pur sapendo che anche su quelle le nostre divergenti posizioni di fondo si faranno lo stesso sentire? Può darsi. Ma io preferirei continuare, assumendoci la responsabilità di acuire la polemica nella convinzione (o speranza) che comunque dal confronto/scontro ciascuno, separatamente, può imparare qualcosa anche dall’avversario. E andrà poi per la sua strada con più decisione.
Caro Ennio,confermando la mia idea sulla sostanziale finzione dei dialoghi platonici,penso che il nostro fitto colloquio ( mi meraviglio anch’io che nessun altro sia intervenuto )abbia avuto il suo esito più naturale e più utile: il chiarimento preciso delle nostre reciproche posizioni. Se stizza vi è stata da parte mia,essa non è dovuta al fatto che volessi far prevalere una tesi quanto piuttosto alla reazione su punti nevralgici della discussione. Un po’ di reattività è necessaria. Concordo anche – se questo è il tuo pensiero – che l’esito della nostra discussione è utile e sarò utile ogni qualvolta si vorranno toccare punti specifici di consenso o dissenso. E ciò anche in campi diversi dalla politica. Resta il mio grazie per avermi riportato indietro a qualche riflessione politica che vi è stata ( anche con le ” limitazioni ” che ho sempre riconosciute ma che non sono ” arbitrarie ” posto che provengono da una esperienza reale diversa dalla tua)
Buona domenica. Ci sentiremo presto per altri scambi. Cordialmente Giorgio.
Ennio e Giorgio: due fuochi che, mentre il primo incendia, l’altro prepara succulenti pranzetti.
@ G. Mannacio:
*( mi meraviglio anch’io che nessun altro sia intervenuto).
Quanto a me, ho avuto finora poco tempo, solo quello necessario per seguire questo interessante e civile scambio di pensieri tra Abate e Mannacio. L’ho trovato denso di stimoli: però il tema è così complesso che non può essere approcciato con le modalità “mi piace/non mi piace” sullo stile FaceBook, o seguendo le spinte emozionali come quando ci si trova di fronte ad un’opera poetica. Soprattutto in questo tipo di dibattito viene implicata una attenzione – e una formazione – storica non indifferenti. Perché non si tratta soltanto di ‘rappresentazioni’ o ‘interpretazioni’ di fatti (come può accadere per ciò che riguarda la via artistica) ma anche della difesa di una competenza storica che, invece, si sta sempre più falsando e azzerando.
* Io ho fatto un discorso di tipo generale,giusto o sbagliato che fosse. Tu [Ennio] lo ” sposti” su Renzi come se io avessi parlato di lui o di chicchessia,contestandomi,ovviamente l’errore di questa scelta*
Non voglio attribuire a Ennio intenzioni ‘altre’ rispetto a quelle che poi lui stesso ha esplicitato nel successivo commento. Quello che io penso è che il cosiddetto ‘spostamento’ non avviene sul Renzi-concreto-come-persona (vedi l’inesausto dibattito precedente sul post di Paolo Pagani) ma, per via rappresentativa, ragion per cui una parte, metonimicamente, rappresenta la tendenza generale.
@ tutti
Mi limiterò a queste osservazioni mettendo assieme i commenti di Emy (a) e di Ennio (b)
a) *La meta la conosco, ma senza un treno difficilmente riuscirò a raggiungerla. Certo posso anche starmene seduta ad aspettare il da farsi, a capire chi mi possa degnamente rappresentare, immaginare un mondo migliore, ma poi io ho deciso di prenderlo il treno .Forse a qualche stazione dovrò scendere , modificare il percorso …altrimenti non resta che la rivoluzione, pensiamoci. Il quadro è questo*.
b) *O accettare come unico orizzonte possibile il liberalismo, il capitalismo “da migliorare”, quello che tu chiami il «modello democratico-parlamentare di stampo occidentale come più accettabile modello di risoluzione dei conflitti ». Oppure continuare – ma senza più poter indicare una prospettiva politica reale e alternativa – a criticarlo per le sue effettive e anzi crescenti aporie. (La democrazia occidentale, tra le altre cose, venuto meno il suo antagonista “socialista”, è diventata sempre più la foglia di fico con cui si sono coperte scelte di guerra, crescenti diseguaglianze sociali, smantellamento del Welfare e perfino nuove forme di schiavitù)*.
Ci sono due cose da rilevare.
La prima è legata al privilegio dato al fare piuttosto che al pensare, e questa differenza la vediamo fra i contenuti degli interventi di Emy e di Ennio soprariportati.
Questo ‘previlegio del fare’ non può che richiamare il dibattito sollevato, sempre su Poliscritture, dal post di Paolo Pagani, post nel quale veniva sottolineata la pericolosità di questo anteporre il ‘fare’ -“la politica del fare” di berlusconiana memoria, però allora criticata – al ‘pensare’.
Ergo: si può solo salire sul treno e poi si vedrà che cosa succede in corso d’opera (della serie: lasciateli lavorare, loro sanno quello che fanno)? Ma perché non si è adottato lo stesso criterio con Berlusconi? Perché il suo ‘fine’ era di destra?
La seconda, non disgiunta dalla prima, ha a che vedere con la assoluta apoditticità delle premesse: una volta che si è dato ‘A’, non può che seguire ‘B’. Oppure, della serie: le scelte della cosiddetta sinistra, in quanto sinistra pluridotata, pluriacculturata, non possono essere che giuste!
Se, come dice Emy [Emy, sto prendendo le tue osservazioni come uno stimolo per pensare e non come una critica al tuo pensiero!]: *la meta la conosco* e poi *il quadro è questo*, non si dà la possibilità di ospitare il dubbio nè quanto dice Ennio rispetto alla difficoltà ad *indicare una prospettiva politica reale e alternativa* e a capire di quali tradimenti si sia coperta la cosiddetta democrazia occidentale con inimmaginabili e disumane *scelte di guerra, crescenti diseguaglianze sociali, smantellamento del Welfare e perfino nuove forme di schiavitù*.
Ogni ‘fare’ viene così legittimato dal mantenere una ‘governance’: ma a favore di chi? Per il bene del Paese come ha detto Napolitano per giustificare le sue ‘scelte’ antidemocratiche iniziando con Monti e poi e poi….(anzi, e prima, e prima, e prima….)? Anche i ‘colonizzati’ possono ‘stare bene’ se la benevolenza dei colonizzatori lo permette: la storia delle Colonie questo ce lo fa vedere molto chiaramente, le differenze tra le colonie inglesi e quelle francesi…!
Se invece la ‘premessa’ concerne il ‘pensare’, allora è tutta un’altra musica e le cose si fanno diverse, più difficili e problematiche perché implicano la ‘responsabilità’ del soggetto che fa le sue scelte e che può anche dire ‘no’, può rifiutarsi di fare la scelta del meno peggio.
E’ una affermazione un po’ grossolana, ma parte del cambiamento del PCI incominciò a delinearsi quando abbandonò il pensare e scelse il fare a Resistenza conclusa. Quando, assieme alla parte sindacale, volle (o fu sedotto a) entrare (sotterraneamente) nella ‘governance’ politica (sotto l’egida dei vincitori/colonizzatori di allora) e sacrificò all’illusione di potere ogni – chiamiamolo così – “ideale rivoluzionario”, e dove per rivoluzione non si intende riformismo (le contrabbandate ‘riforme di struttura’ che riempirono le bocche di quegli anni) ma pensare come individuare (e affrontare) i punti di rottura del sistema dominante (e non dei dominati).
Perché sarà lì, in quei punti di rottura, che avverrà l’”hic Rodus, hic salta”.
R.S.
Il punto di rottura della classe dominante lo conoscono da sempre quelli dominati. Come intervenire sul marchingegno se non c’è altro che il marchingegno? in modo omeopatico, dall’interno ma senza cedimenti, con efficacia, di giorno in giorno, usando le sue stesse armi, obbligandoli a politiche diverse, seminando il dubbio nel compromesso, mettendo in luce i veri interessi che stanno dietro ogni loro parola (es. chi fu a dire che i provvedimenti legislativi sull’IMU nascondevano in realtà un regalo alle banch?) Questa sarebbe la sinistra, ed è per questo che il pd non è un partito di sinistra. Ora, io rispetto quanti si sono adoperati negli anni scorsi per fare contro informazione, per denunciare e divulgare e mettere luce dove possibile, solo ora chi lo sta facendo? La vera sinistra, Tsipras? e perché nessuno dice che Tsipras col suo 4% e rotti si è preso quote a sinistra del M5s? no, si preferisce dire che Grillo è un esagitato e che Renzi sa il fatto suo. Non so, le cose dette in questo articolo a me sembrano tutte sorpassate, ci vedo dell’eroismo ma non corrispondono al cambiamento sociale in atto. Una volta si diceva dell’individualismo che ad andar bene era un difetto contro produttivo, che serviva forza e unità, oggi secondo me basterebbe dargli un altro nome: cominciamo togliendo l’ismo e sarà più facile.
@ Mayoor
“Non so, le cose dette in questo articolo a me sembrano tutte sorpassate, ci vedo dell’eroismo ma non corrispondono al cambiamento sociale in atto”
Lucio non capisco a quale articolo ti riferisci. Se all’intervista a Rieser del 2001, mi pare ovvio che non riguarda direttamente i problemi d’oggi ma richiede considerazioni di tipo storico…
Quel che mi ha colpito nelle parole di quell’intervista è che parli per sé, individualmente: ci ho sentito dell’amarezza, e in qualche modo questo corrisponde ad una considerazione politica e storica. Tutto qui. La centralità operaia, dare forza al partito, son tutte cose che oggi andrebbero ridimensionate, riviste alla luce del fallimento di un’utopia. Cos’è una sinistra se priva di qualsiasi prospettiva rivoluzionaria? ed è giusta l’analisi che ingigantisce la portata storica di una minoranza? Scrive Giorgio Mannacio, di avere “una sufficiente fiducia nel modello democratico-parlamentare di stampo occidentale come più accettabile modello di risoluzione dei conflitti.” A me sembra realista, e se ben interpretata è una posizione tutt’altro che di comodo. Molto dipenderà da DOVE e in COSA si andrà a porre la fiducia, il CHI mi sembra relativo.
@ Mayoor
Caro Lucio,
non mi pare che il rendiconto di una sconfitta (personale, generazionale e storica) presentato nell’intervista a Vittorio Rieser nel lontano 2001 ponga in primo piano l’«amarezza», che pur si sente.
I temi-valori di allora (centralità operaia, partito) sono senz’altro improponibili oggi, data appunto la sconfitta delle figure reali che di quei valori si fecero o sembrarono farsi portavoce.
Non bisogna però semplificare le cose, uscendo, come a me tu sembri fare, dalla dimensione storica. Nella quale il conflitto permane in forme non più decifrabili con quelle categorie (appunto: centralità operaia, partito). E allora perché appiattirsi sul presente, cioè sulla “democrazia” (reale o realistica, verrebbe da aggiungere), di cui Mannacio in questa discussione si è fatto paladino sia pur con prudenza e senza eccessi trionfalistici o ipocriti?
Se il comunismo (nella forma utopica o scientifica) è fallito, non è che la democrazia rappresentativa sta molto meglio. Se ci si pensi bene, anche la democrazia (reale o realistica) è in fondo propugnata attivamente da minoranze, non solo il comunismo: le élites (o, nei momenti di maggiore crisi, le lobby) dei paesi di tradizione liberale occidentale. Queste minoranze hanno saputo imporre la loro egemonia (mai priva della forza anche militare, come sapevano bene Gramsci e Lenin e Mao) e riescono ancora oggi a presentare – oh miracolo dei mass media e della società dello spettacolo (moderno *instrumentum regni* al loro servizio)! – il consenso alla loro politica ottenuto da una parte della popolazione come consenso “di tutti”. ( Cfr. i dati davvero problematici sull’astensionismo che ormai vengono fatti passare per “normali”, ecc.).
Ti chiedi:«Cos’è una sinistra se priva di qualsiasi prospettiva rivoluzionaria?». È la democrazia rappresentativa di stampo occidentale. Stop. Ma è, altresì, il «più accettabile modello di risoluzione dei conflitti», come pretende l’élite che ha per così dire il coltello “democratico” dalla parte del manico?
Questo andrebbe dimostrato “coi fatti”, mettendo in fila (e la cronistoria – ammetto un po’ lunga e troppo dettagliata di Perry Anderson da me segnalata (qui: http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/3752-perry-anderson-il-disastro-italiano.html lo fa) gli eventi, i personaggi, le conseguenze economiche, politiche, culturali del periodo ( dal fatidico e simbolico 1989) in cui la democrazia rappresentativa di tipo occidentale ha preteso nuovamente – a suon di guerre “umanitarie”! – di aver riconquistato, dopo i fasti ottocenteschi (ricordi Kipling e i discorsi sul «fardello della civiltà»?), una sua “universalità” assoluta. Che fino agli anni Settanta era stata contestata sia da minoranze “etiche” sia dalle élites delle cosiddette “democrazie popolari” di stampo sovietico-cinese ancora capaci di far loro concorrenza. Contento chi risponde sì. A me preme ricordare che chi concede oggi un punto in più al modello della democrazia rappresentativa si mette nella stessa posizione – per me contorta e ambivalente – di chi, proveniente dalla tradizione marxista, concede – ovviamente sempre appellandosi ad un “ sano realismo” – alla Cina d’oggi (post-maoista) la patente di Stato ancora “un po’ socialista” o con elementi di “socialismo”.
In entrambi i casi si fa prevalere l’ideologia (o una nostalgia ideologica): democratica nel primo cosa, socialista nel secondo. Omettendo o arrestandosi ai primi passi di una difficilissima ma indispensabile analisi critica sia nei confronti della “democrazia occidentale” che dell’esperienza “socialista” (non spiego la ragione delle virgolette) .
Qual è la situazione concreta in cui ci dibattiamo? Io dico: non lo sappiamo. Ma non per scetticismo, per intellettualismo per la presunzione di non volersi “sporcare le mani”. Bensì per difficoltà di decifrarla e rappresentarla. È certo dal mio punto di vista che non basti semplicemente allineare un po’ di “fatti” (positivismo). Avremmo bisogno di leggerli e interpretarli alla luce di una effettiva teoria, quali erano quella di Marx o quella di Lenin. Oggi purtroppo essa manca. E allora la tua giusta esigenza d’indicare « DOVE e in COSA si andrà a porre la fiducia» ( e magari anche in «CHI») resta generica. Ed è per questo che rispetto ancor più l’«amarezza» di Rieser.
A me sembra che le tue perplessità in merito alla mancanza di “un’effettiva teoria” siano oggi state bene espresse anche dai rappresentanti di Tsipras, proprio per contrastare lo spontaneismo e l’improvvisazione del M5S. Insomma, sono saliti in cattedra. Hanno valutato il clima di disagio sociale e la disponibilità di molti italiani a voler cambiare, e secondo me si sono mossi alla maniera storica delle avanguardie, come dire: lasciamo a Grillo il lavoro sporco e ora proviamo a metterci al loro comando (pardon: alla guida). Sono europeisti, ma in chiave socialista, e convinti sostenitori dell’euro. Ce ne sarebbe da dire, intanto però hanno superato la soglia del 4% (cosa mai accaduta per Rifondazione comunista), percentuale che corrisponde alla perdita del M5S ( a riprova del fatto che il M5S ha basi di sinistra, non fosse che si pone in modo non ideologico). Che aspetti? comincio a pensare che dovrei farti posto nel movimento del libero pensiero, se così ti do il mio affettuoso benvenuto.
Anche il mio.
AL VOLO/GIACHETTI SU VITTORIO RIESER
Quando il 21 maggio 2014 Rieser si spense a Torino, il suo amico Giovanni Mottura ricordò il commento di un compagno catalano, dirigente negli anni Settanta di una organizzazione comunista a Barcellona: «quando parli con Rieser, te ne vai sempre sentendoti più intelligente». Si riferiva ai molteplici talenti del personaggio, nessuno dei quali, proseguiva Mottura, era stato abbandonato, ma neppure investito per autoaffermarsi, né per realizzare carriere di prestigio potenzialmente possibili. Neanche quando fece la sua scelta di parte, si avvalse delle sue capacità per ottenere o consolidare ruoli influenti o di leadership che in diversi momenti o passaggi del suo percorso politico, avrebbero potuto rivendicare. Non accademico, non leader politico, ma conricercatore alla pari dentro e assieme alla classe lavoratrice, sempre alla ricerca di ricostruzioni conoscitive aventi per oggetto e soggetto i lavoratori, i protagonisti diretti, in un percorso che intrecci la conoscenza con la trasformazione della situazione conosciuta. Ci ha lasciato con una domanda impegnativa: «chi farà il partito, come lo farà, che tipo di organizzazione sarà?».
(https://www.machina-deriveapprodi.com/post/vittorio-rieser-il-compagno-che-di-mestiere-faceva-il-sociologo?fbclid=IwAR3RDzHLU9qq1sXTNih2Mtkeldj2b9POLXv0n3wDCe5IrJ0QDFrOG7DNbUE)