di Roberto Bugliani
[Qui si parla del ’68 e di due suoi leader alle prime prove in una città italiana facilmente identificabile per la sua prestigiosa università. Lo si fa attraverso il filtro di due archetipi dell’immaginario letterario nazionale ( e non solo). Con sottile ironia. E la memoria ben solida in Italia della fiaba collodiana agevola l’operazione. Che sotto sotto resta amarognola per l’autore e per noi. Perché a fare le spese degli intrighi dei due loschi personaggi qui messi alla berlina è il Pinocchio-Movimento. Che fu fin troppo fiducioso – lo sappiamo col senno di poi – nella potenza delle operaie «mani callose» e ignaro di quanti forti e diffusi (ovunque) erano ( anzi sono) i comportamenti servili, omertosi e complici coi potenti, su cui la politica “alla Volpe” sa far leva. Specie quando manca il “Lione”. Ma questa sarebbe un’altra storia e si uscirebbe dalla fiaba. (E.A.)]
La Volpe era in realtà un lupo. Aveva il muso, le zampe, il pelo, la coda da lupo. Ma lo sguardo, che è l’avamposto dell’animo, era quello d’una Volpe, una Volpe un po’ particolare, che suppliva alla carenza d’astuzia con una furberia sempre alla ricerca d’espedienti e scappatoie, divenuta proverbiale tra gli iscritti al Partito in cui militava.Il Gatto, invece, era proprio un gatto. Un comunissimo, volgarissimo gatto, che non vantava pedigree di persiano, d’angora o di siamese e se ne stava tranquillo al suo posto di subalterno, fungendo di rincalzo al compare e brillando della sua luce riflessa, anche se talvolta il suo solido buon senso riportava coi piedi, pardon, le zampe, per terra la Volpe, evitandole d’ingarbugliare ancor più la matassa dei suoi arzigogolamenti politici, la cui perseveranza non sarebbe pervenuta a districare alcun bandolo, ma avrebbe unicamente confermato la sua sesquipedale supponenza.
Al tempo in cui si svolge la nostra storia, ossia verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, Volpe e Gatto andavano sempre a zonzo insieme e formavano una coppia ben collaudata, nella quale scaltrezze e dabbenaggini s’integravano in un tutt’uno granitico eretto a barriera contro le ondate ribelli di quegli anni scapestrati dell’assalto al cielo. Una coppia alla Cip e Ciop, alla Gianni e Pinotto, alla Sussi e Biribissi, nelle definizioni sbertuccianti del Movimento.
Un giorno del dicembre 1968, che aveva preso a fare un freddo boia e le braccia scheletriche dei platani dei viali cittadini erano incamiciate in un velo di brina, la Volpe e il Gatto varcarono l’austero portone della Facoltà di Lettere incrostato d’antica storia baronale e di controstoria contemporanea vergata dalla vernice spray di bombolette proletarie, attraversarono l’atrio semideserto dove attempati signori in completo blu scuro nel ruolo d’improbabili studenti fuori-corso stazionavano davanti alla bacheca leggendo con dubbio interesse i calendari degli esami fissati per il mese in corso, e s’arrestarono prudenti sulla soglia dell’Aula Magna sguinzagliando i loro sguardi spioni all’interno, dov’era in corso l’assemblea permanente di lotta indetta dal Coordinamento studentesco.
Subito una possente bordata di fischi accolse le loro facce lunari, e con malcelato stupore s’accorsero della gigantesca allegoria affrescata di recente sulla parete di fronte dall’estro artistico del Movimento, nella quale i corpi dei due compari sfrigolavano al fuoco delle loro abiure politiche infilzati nello spiedo d’acciaio della lotta di classe girato dalle mani callose d’un erculeo operaio della Saint-Gobain.
– ‘Sti stronzi -, sibilò invelenita la Volpe dinanzi a quella raffigurazione dantesca che si proponeva come profezia del loro destino prossimo venturo.
– Andiamocene -, fece eco il Gatto, che cominciava ad avvertire lungo la schiena brividi non propriamente piacevoli.
Senza aspettare che quegli scalmanati passassero dai fischi alle vie di fatto, i due fecero un rapido dietrofront, ma non prima che la Volpe atteggiasse le labbra nella sua consueta smorfia di sufficienza che le aveva attirato l’odio a ventiquattro carati del Movimento.
– Facciamo un salto in Federazione? – propose il Gatto dopo aver guadagnato l’uscita, come ringalluzzito dall’aria frizzante della mattinata.
– E’ presto. A quest’ora non ci saranno nemmeno i soliti quattrogatti -, rispose perentoria la Volpe, senza curarsi del fremito indispettito che agitò baffetti del socio per la metafora animalesca quanto mai inopportuna.
– Piuttosto accompagnami al Garibaldi. Devo vedere un tale.
Era il Garibaldi un bar situato sull’omonima piazzetta antistante il lungofiume, che apriva la sua porta a vetri ripetutamente infranta da sampietrini e candelotti lacrimogeni alla composita fauna di studenti squattrinati, i cui caffelatte duravano un tempo infinito. E, trascorsi che furono secoli di brucianti sconfitte, fu proprio il Garibaldi il bar scenario della disfatta finale allorché i farlocchi studenti fuori-corso in completo blu scuro, in combutta con la cosca politica nazionale, misero in circolazione tra i militanti del Movimento l’acido gratis.
Adocchiato dunque un tavolino in disparte, i due vi presero posto guardandosi attorno con fare circospetto, perché meno si facevano vedere in quel luogo e meglio era, non solo per la loro incolumità fisica, ma soprattutto per la loro reputazione politica. Il Gatto si dimenava senza posa sulla sedia d’alluminio come se fosse seduto sui carboni ardenti, e benché morisse dalla voglia d’un bel frappé di latte alla menta, non osava chiamare il cameriere impegnato a lustrare con indolenza il ripiano di metallo del bancone per non attirare l’attenzione di qualche studente che avrebbe potuto riconoscerlo, mentre la Volpe lottava spasmodicamente contro la tentazione d’estrarre dalla tasca interna del montgomery il giornale di partito e di mettersi a salmodiarlo per ingannare l’attesa.
Dopo un tempo che parve loro infinito, un tizio segaligno imbozzolato in un eskimo verde bottiglia entrò a testa bassa nel bar e si fiondò al loro tavolino. Senza accennare a un saluto si sedette e bisbigliò al cameriere di portargli un chinotto. A quel punto il Gatto si ringalluzzì e s’arrischiò a ordinare l’agognato frappé di latte alla menta. La Volpe invece, fedele al suo ruolo di capo integerrimo, non ordinò alcunché.
– Stamani ho parlato con il Gio’ – disse il tipo con l’eskimo alla Volpe che lo ascoltava con la sua solita aria di sufficienza. – M’ha assicurato che il direttivo di Lotta Continua intende espellere dall’organizzazione l’Erani per revisionismo. E che questo molto probabilmente causerà una scissione nel gruppo.
– Mooolto bene – giudicò la Volpe con una punta d’orgoglio nella voce. Poi, rivolgendosi al Gatto: – Ti dicevo che sarebbe andata così. Conosco i miei polli, io! e puntare sull’Erani si è rivelata la mossa vincente. Se avessi dato retta a te, che volevi lasciarli cuocere nel loro brodo, non si sarebbe cavato il classico ragno dal buco.
Il Gatto abbozzò il rimbrotto, si raggomitolò sulla sedia abbassando il capo, e il lampo di fastidio che gli attraversò lo sguardo era dovuto più alla pletora di quelle stramaledette metafore animalesche con cui la Volpe amava infiorettare il suo dire che alla ramanzina del compare, alla quale era oramai avvezzo.
– Ora ascolta bene – seguitò solenne la Volpe, come ispirato da una delle sue innumerevoli astuzie. – Oggi stesso mettiti in contatto con l’Erani, vallo a trovare e convincilo a tener duro, dàgli da intendere che siete in tanti a condividere le sue posizioni politiche, che vedete in lui il leader d’un nuovo gruppo… Fagli credere quello che vuoi, ma ricorda che il tuo compito è di rendere definitiva la rottura tra l’Erani e il direttivo di ellecì. Domani mi riferirai com’è andata.
– D’accordo. Ci proverò. – Poi il tipo con l’eskimo parve tentennare, e con voce ingolfata nell’esitazione aggregò: – E… l’appoggio che m’avevi promesso?
– Al momento è prematuro. Non puoi bruciarti proprio ora con una nomina ufficiale in Federazione. Lo capisci, vero? C’è ancora molto da fare, bisogna lavorare di fino, e ciascuno deve fare la propria parte.
– Sì – ammise quello. – Però, mi raccomando… Lo stipendio da funzionario mi risolverebbe parecchi problemi, ora che non ho più la borsa di studio.
La Volpe assentì brevemente, l’eskimo schizzò in piedi e con altrettanta fretta si catapultò fuori del bar.
Anche i due s’alzarono e si diressero verso l’uscita. La Volpe fece scivolare una banconota da mille lire in mano al cameriere. “Resto mancia”, mormorò. Non era un bischero come il Gatto lei, sapeva che in situazioni del genere bisognava ungere gli ingranaggi se si voleva che la macchina dell’omertà funzionasse a puntino.
– Adesso andiamo pure in Sacrestia – disse al Gatto fregandosi soddisfatta le mani, pardon, le zampe, e infrattandosi con lui nei vicoli della città monumentale.
Era, la Sacrestia, una mescita di vini nei pressi del mercato della frutta, che aveva preso quel soprannome dal suo proprietario, un democristo marcio che aveva tuttavia l’accortezza di non mettere mai il carro della sua appartenenza politica davanti ai buoi dei suoi clienti. In questo Amilcare, il proprietario, era fatto della stessa pasta della Volpe, e tra i due correva buon sangue, malgrado le loro opposte fedi politiche.
– Oste della malora, mescici due rossi come Sant’Antonio… Gramsci, intendo, comanda – scherzò la Volpe all’entrata, imitando con affettazione la voce del primo Nazzari.
Amilcare rispose con un grugnito da dietro il bancone e riempì due coppe di Brunello di Montalcino. Mentre il Gatto, accoccolato su uno sgabello, faceva le fusa gustando quel nettare d’annata ed emettendo a raffica schiocchi entusiasti dalla bocca, la Volpe sparò subito in faccia all’Amilcare la domanda per cui aveva trascinato il Gatto fino a lì.
– Senti, carissimo, dove posso trovare il vostro intellettuale emergente, il Vinciguerra? Devo parlargli d’una faccenda che mi sta a cuore, e non sarebbe elegante recarmi nel suo ufficio frequentato dai baciapile come te.
– Brrr – fece mostra di rabbrividire l’oste. – Il diavolo e l’acquasanta! Cose da non credere…
– Vedo che da buon dinosauro vivi ancora nella preistoria. Ti comunico che non siamo più al tempo di Peppone e don Camillo, quando ci se le dava di santa ragione.
– O che devo sentire! – esclamò di rimbalzo l’Amilcare, facendo una smorfia di plateale stupore. – Adesso vi mettete anche a dialogare! Ma che vuoi dal Vinciguerra? Se è per l’assoluzione dai tuoi peccati, c’ho don Sandro a portata di mano, un pretino molto tollerante, che ti costerà di meno.
– Voglio confidarti un segreto. Ma mi raccomando, acqua in bocca! -, e strizzò l’occhio all’interlocutore, che aveva messo su un’espressione attenta e incuriosita. – Si tratta della rivista di cultura politica che il Vinciguerra sta progettando. Avrei delle proposte da fargli.
– Immagino oscene, visto che provengono da te.
– Ascoltami bene. Se la rivista, tanto per fare un’ipotesi, nascesse esclusivamente in funzione della ricerca teorica e del dibattito culturale, ossia al di fuori dei recinti politici, con una redazione indipendente, cani sciolti se m’intendi, non aprioristicamente condizionati da tessere e appartenenze… Bene, se così fosse, io m’impegnerei, naturalmente in via riservata, a trovare un certo apporto economico, almeno per i primi numeri, fino a che non decolla, oltre che proporre una rosa di collaboratori, naturalmente qualificati.
– Di questo dovrai parlarne con lui. – considerò Amilcare dopo averci riflettuto su. – Io posso impegnarmi a riferirgli la tua richiesta d’incontro, magari da realizzarsi in un luogo neutrale, fuori da occhi indiscreti.
– Bravo, m’hai proprio capito, sacrestano. Allora facciamo un brindisi alla riuscita dell’impresa.
Anche il Gatto allungò avido il bicchiere al secondo giro di Brunello, leccandosi i baffi e benedicendo in cuor suo quella sosta fuori programma, ma con la Volpe in azione era tutto un fuori programma, e mentre una rete veniva tirata su col pesciolino dentro, un’altra veniva subito calata nel mare sconfinato dei suoi intrallazzi.
– Adesso la Federazione! – annunciò solenne la Volpe. – E non dirmi che non ascolto mai i tuoi suggerimenti.
La Federazione pareva deserta, e la Volpe stava meditando d’andarsene quando una segretaria, uscendo dal bagno, attraversò di corsa il corridoio e s’imbucò nella stanza di fronte da dove si cominciò a udire il ticchettio dei tasti d’una macchina da scrivere. Poi un funzionario di secondo livello, uscito inaspettatamente dallo stesso bagno, incrociò il loro passo, inchinandosi deferente nel saluto prima di proseguire. Infine dalla stanzetta dei ciclostili adibita alla stampa e propaganda spuntò fuori l’Enrico. Enrico Destri era il segretario della Federazione cittadina, e appena vide la Volpe le assestò una pacca gioviale sulla schiena, non senza nascondere la preoccupazione che lo angustiava.
– Proprio te cercavo!
– Che c’è di nuovo, Enrico?
– E’ per la faccenda dell’Isolani… E’ diventato un vero e proprio problema.
– Continua a fare il bastian contrario?
– Peggio. Oramai è fuori controllo. Ieri pomeriggio abbiamo avuto un incontro piuttosto burrascoso con lui. Ma nessuna promessa o minaccia lo ha fatto ricredere, e ha ribadito che non ha nessuna intenzione di ritirare l’articolo.
– A questo punto c’è una sola cosa da fare. Buttarlo fuori dal Partito senza tanti complimenti.
– Ma bisogna valutare le reazioni politiche che ci saranno… Rischiamo di brutto con quel settore di intellettuali critici che fanno capo a Tronti e Asor Rosa. Ci accuseranno di stalinismo, d’agire da questurini per mettere le manette al dissenso interno, e minacceranno di restituire la tessera.
– Quelle serpi in seno non mi preoccupano più di tanto. Del resto, se l’Isolani è così imbecille da non capire che in discussione non è tanto il contenuto del suo fottuto articolo, quanto la rivista a cui l’ha inviato… Decidere di pubblicarlo sui Quaderni Piacentini di Bellocchio, anziché sulle pagine di Rinascita, via, è intollerabile!
– In altri tempi non ci avei pensato due volte, ma, vedi, un’espulsione come la sua, oggi…
-Niente ma, Enrico! E’ lui che ha scelto di chiudersi a riccio. Se quell’articolo di merda uscisse, che so, su un supplemento culturale della stampa di Partito, allora sarebbe facile circoscrivere la faccenda nel dibattito interno. In risposta si potrebbe organizzare una serie di interventi, polemizzare, fare un bel polverone, mescolare le carte in tavola, io stesso potrei intervenire con tesi opposte alle sue, e mettendo in campo il mio prestigio riscuoterei sicuramente un largo consenso…
La Volpe fece una pausa e guardò diritto negli occhi l’interlocutore. Poi, come riscuotendosi da certe sue fisime, gli ingiunse in tono perentorio:
– L’Isolani va espulso dal Partito. Per deviazionismo. Me ne assumo la responsabilità. Saprò contenere il danno, sarà minimo, vedrai, ho già qualche idea che mi frulla in testa per tacitare le critiche di chi sappiamo.
Quindi si congedò da lui promettendogli il suo appoggio per la nomina del figlio a Direttore della Coop di Pontedera.
Il passo dei due compari risuonava stanco sulle piastrelle di ceramica del pavimento. Appese alle pareti del lungo corridoio, le foto color seppia dei leader storici del Partito, incorniciate sotto un vetro polveroso, accompagnavano come numi tutelari il loro andare. A ogni foto che incrociava, la Volpe gonfiava il petto spavaldo, e come se fosse una galleria di ritratti d’antenati a lui destinata borbottava parole di sfida.
Quando misero piede in strada la giornata era davvero finita. Il cielo serotino infestato di nuvole grigie e immobili annunciava l’ora in cui gli studenti che facevano lavoro politico nei nuclei di fabbrica si dirigevano a manipoli compatti verso la periferia della città dove sorgevano le fabbriche più importanti. Esercitandosi nei loro slogan preferiti: “Operai e studenti uniti nella lotta”; “Contro burocrati e padroni, lotta dura senza paura”; “Fascisti, carogne, tornate nelle fogne”; “Revisionisti e borghesi, ancora pochi mesi”, stringevano fiduciosi al petto il pacco di volantini ciclostilati in proprio che invitavano la classe operaia a ribellarsi all’iniquo sistema capitalistico e a scendere immediatamente in sciopero, beccandosi il vaffanculo di prammatica dei tesserati sindacali più tosti. Reduci da assemblee infuocate e cortei multitudinari, altri studenti setacciavano invece le vie cittadine alla ricerca d’una trattoria che potesse sfamarli con generose porzioni di ribollita a prezzo politico.
I due compari s’incamminarono lemmi verso le loro stanzette di normalisti in Piazza dei Cavalieri. La Volpe aveva ritirato fuori a mo’ di clausola il suo ghigno di sprezzante sufficienza, mentre il Gatto si domandava perplesso, cedendo una volta tanto alle metafore animalesche in cui il socio eccelleva, quanti rospi avrebbero dovuto ancora ingoiare e quanti pesci in faccia avrebbero dovuto ancora pigliare dal Movimento prima di venire eletti nel Comitato centrale del Partito, il sogno della loro vita da Volpe e Gatto.
…un racconto davvero accativante questo di Roberto Bugliani, scritto molto bene e giocato, secondo me, su alcuni contrasti…L’atmosfera da fiaba suscitata dalle descrizioni di luoghi e personaggi di una città monumentale, ben riconoscibile ma lasciata anche un po’ sul piano surreale, contrasta con la collocazione storica evidente, dove i due compari, il gatto e la volpe, penso del maggiore partito di sinistra, tramano inganni ai danni del movimento studentesco del ’68 che avrebbero dovuto appoggiare. Un altro contrasto deriva, credo, tra una certa comicità dei due loschi personaggi, nelle loro movenze, nel loro duettare in simbiosi, e l’effettiva loro cattiveria e corruzione…Un altro contrasto presente é tra la grande massa degli studenti che si intravede vociante e ignara nell’aula d’Università, come dei giovani che credono nel loro operato e alla sera si spingono nelle fabbriche di periferia a sensibilizzare gli operai sui loro diritti e il piccolo manipolo dei due compari e dei loro scagnozzi che si infiltrano dovunque. Pochi, ma come i tarli nel legno…
Questa arguta e pungente storia mi fa tornare ad un passato di lotte e illusioni. Incontrai una volta , ricordo, il Gatto e la Volpe, così proprio come li descrive Bugliani. Mi travestii da Fata Turchina per difendere Pinocchio il quale ingenuo come sempre ed anche un po’ pigrone cedette alle loro lusinghe, finii per diventare una fata rossa con la spada pronta , ma era solo un sogno, la realtà fu ben altra. Pinocchio al mio risveglio giaceva nudo a terra. Cercai di sollevarlo ,di scuoterlo , feci ancora qualche magìa, ma ormai era troppo tardi. Il rosso era sparito ed anche il turchino.
Bravissimo Roberto Bugliani.