di Ennio Abate
1.
«Viaggi» è smentita e critica indiretta del viaggiare reale (e dell’ideologia del “nuovo” che al viaggio spesso s’accompagna). L’io poetante che parla in questi versi, infatti, dichiara subito d’essere stato uno scrittore sedentario e offre un bilancio dei viaggi mentali da lui compiuti sul «foglio bianco di carta». Di altri possibili viaggi, non avvenuti e per giunta imprecisati, apparentemente si rammarica. Accampando ragioni alquanto generiche («Ci sarebbero stati altri percorsi,/ ma infermo era il proposito/ e la meta era incerta» (13), che paiono in contrasto con la ragione profonda (e filosofica) della sua scelta sedentaria desumibile dal senso generale della sua stessa poesia.
2.
Cosa avrebbe potuto spingerlo a viaggi diversi da quelli sulla carta? Forse una donna? Egli dichiara di aver cercato intensamente un tu femminile: «Come lungamente ti ho cercata/ in ogni piega del pensiero, in ogni/ indugio della vita, in ogni sogno!», ma ha sempre trovato «ovunque/ ombre e nebbia» (15). Tanto che ora s’è «spento/ il desiderio». E, se ancora egli va, non sa più verso «dove» (15) o verso chi. La figura femminile, infatti, può essere rintracciata solo in qualche componimento della raccolta e molto indirettamente. Ad esempio, in «Dopo la pioggia» (Cfr. qui). Resta, dunque, indefinita: «senza volto, immagine / rada nell’aria e desiderio / mai appagato» (15). Non alimenta nessun canzoniere. Né spinge a un viaggio fuori dall’ordinario (si pensi alla Beatrice di Dante). Il rapporto sia con la donna che col mondo è di sguardi desideranti («Gli occhi sono anemoni che spargono/ sguardi incerti nell’aria/ come polline/ che si sparge [al] vento», 11). Che, tuttavia, non hanno presa sulle persone o sulle cose. Le quali tutte restano «ombre» ( 11) o miraggi: «E agli occhi restano/ miraggi irraggiungibili ed immagini/ di cose che non furono» (30).
3.
E pertanto il silenzio – ora della natura, ora degli stessi esseri umani (comunque sempre indefiniti) – è sfondo costante di questi viaggi mentali: «il silenzio del mare che prepara/ altre maree» (16); «Il silenzio/ resta la sola cosa che ci unisce» (41); «Solo il silenzio fu tra noi che disse/ parole fisse come un muro, e dure,/ e invalicabili»(57).
4.
E con più forza ancora c’è la solitudine, sentimento assoluto e insuperabile più che oggetto da teorizzare o dimostrare. Essa occupa totalmente la mente: «Nella mente non vagano pensieri/ se non di solitudine, e ci seguono/ fino a sera» (24). E’ comune a tutti: «Gli uomini sono, ognuno, soli/ […] Gli uomini rimangono, ognuno, soli» (21). L’attrazione che esercita è tale che sembra possa dare una inaspettata (e astratta) libertà: «Si è liberi soltanto/soli, in un universo inesistente, /un mondo senza cielo e senza niente/ un infinito totalmente vuoto» (43,44). Il valore che il poeta le attribuisce è così alto che per lui un’isola – simbolo eccelso della solitudine – «è sola con sé / è solo sola contro/ il sole che la screpola, l’acqua che la dilava,/ il vento che sgretola, il mare che l’erode». quel che vagheggia, invece, è una solitudine più impervia e quasi impossibile: «Solitudine sarebbe esser soli/ in un universo vuoto e non avere/ intorno a noi nient’altro che ci limiti/ o per cui ci si senta solo un limite» (66). In altri passi, però, la solitudine svela il suo lato oscuro. Essa è sorella dell’impotenza: «Ci spaventa/ questa nostra impotenza. Non sappiamo/ se chiuderci in noi stessi ed aspettare/ chissà che cosa, oppure esporci all’ombra/ e ai pericoli occulti ed affrontare/ un nemico invisibile, da soli,/ solo gridando forte il nostro sdegno/ fino a morirne» (59). Comunque è insuperabile. O pare la si possa sfuggire solo regredendo nell’inconsapevolezza o a una condizione vegetale o a cosa: «meglio della solitudine c’è ancora/ essere senza consapevolezza,/ come un albero o anche come un sasso, / che non sente e non sa la sua tristezza» (63). Di fronte a questi versi non si può non parlare di solipsismo (togliendo al termine ogni connotazione morale negativa). Perché in «Viaggi» parla davvero un io chiuso in sé. E va notato che di sé dice pochissime cose. Anche quando pare esporsi con spietata schiettezza:
Ed io che non ho niente più da dare
e niente da aspettarmi,
niente da dire e niente
da domandare,
io che sono un albero abbattuto
che conta i cerchi della sua memoria,
io so che la voce che mi giunge
è una voce di prefiche, è un richiamo
estremo.
E torno, e sto in ascolto:
dalle finestre chiuse giunge ancora
il rumore di un carro
che passa greve sull’acciottolato
e si perde alla svolta.
(82)
5.
Questo io se n’è andato da solo, anche quando è stato in mezzo agli altri. La città (o le città o i luoghi) in cui è vissuto, le persone con nome e cognome conosciute, i fatti vissuti in in società dilaniate dalle tensioni sociali e politiche restano quasi innominati. Sono stati sottoposti ad un procedimento di ascetica estraneazione, che alla fine ne mostra esclusivamente l’inconsistenza (e si potrebbe pensare a quanto avvenuto in pittura con l’astrattismo):
Eppure anche gli alberi,
se mi estraneo, se guardo
da una distanza di tempo maggiore,
ora mi paiono l’uno all’altro uguale,
e li vedo oscillare
dal germoglio alla morte e poi rinascere
come il mucchio di sabbia che s’accumula
nella clessidra e poi si capovolge
(55)
6.
Svalutati e inutili sono poi la parola e lo stesso pensiero: «Le parole hanno forme passeggere/ e fragili, e sono fatte di sabbia» (27);«I pensieri /vorrebbero evadere ma incontrano/ l’ostacolo del muro e si ritraggono/ in un guscio di chiocciola» (31); «Sopra il mare/ restano relitti le parole/ che non offrono appiglio e presto sfumano/ per lontananza opache» (45).
7.
Mentre gli animali – è il caso delle formiche – sembrano a volte suggerire modelli di comportamento agli uomini: «Scavare / come le formiche dimore/ sotterranee, e rifugiarvisi / per sfuggire i pericoli» (17). Altre volte la loro esistenza fa semplicemente da specchio alla inutile fatica del vivere umano che pure gli altri umani, sempre del tutto indefiniti sociologicamente o storicamente e separati e irraggiungibili dall’io, ricordano: «Rivedere negli altri anche la nostra/ fatica, comprendere /l’inutilità della vita» (18).
8.
Svalutato è lo stesso mito. Alcuni versi alludono a quello del vello d’oro. Ma si tratta di un mito ormai inerte. L’io poetante ha colto orami il suo lato illusorio e ne dice in modo disincantato: «occorreva aggiogare tori indomiti,/ vincere draghi per trovare alfine/ nient’altro che una pallida illusione» (p. 19). La stessa Itaca – altra figura emblematica della mitologia greca e qui letta in netto contrasto con l’immagine ideale e tenace che ne diede Kavafis[1] – non è più isola fisicamente esistente o scopo da raggiungere ad ogni costo, ma si riduce a «un desiderio/ liquido che le onde allontanavano» (32). Lo stesso vale per ogni cosa bella: «Le cose che durano perdono/ col tempo ogni bellezza» (23)
9.
E pure la storia sembra andata in sordina. Viene presupposta, ma pare non possa essere più rivissuta e riattualizzata, ma esclusivamente contemplata nelle sue rovine. Si veda la poesia intitolata «Città greche dell’Asia Minore». Inizia con un affresco quasi vitale:
Queste città che un tempo erano vive
di rumori e di voci
e di mercanti audaci
giunti su barche fragili dai mari
lontani,
portando merci e doni di parole, sogni d’acqua, riverberi fugaci,
luci d’alba tra fitti labirinti
d’isole e sole
e silenzi di notti e canti arcani
appena emersi tra gli scogli e l’ombra
umida della sera.
Ma si conclude così:
E il silenzio ha una voce, arcana,
un canto che sgomenta. Sono solo
pietrificato tra le rocce e i ruderi
che ogni giorno si sformano, si sgretolano
al sole inesorabile, che restano incomposte macerie a caso sparse
per un pendio di pietre che vacillano
sotto i passi; di erbe riarse
che scricchiolano, di sterpi
secchi che si spezzano.
E i giorni che mi lasciano non hanno
più parole che restino, si perdono
come polvere
(pp.73-76)
10.
Si ha ancora la riflessione su un mondo, che è fondamentalmente quello antico (greco-romano), ma esso viene fissato in una sua immobilità, che è al contempo mitica e post-storica. Come se tra l’antico e l’oggi non ci fosse stata l’«esperienza della modernità» (Marshall Berman) o la sua oggi evidente sconfitta non avesse lasciato, accanto a quelle antiche, le sue tracce. Come se la scomparsa dell’antico (e della modernità) confermasse definitivamente un unico e impotente sentimento: quello della fragilità e inutilità della vita.
11.
A questo punto devo affacciare un dubbio: che anche la produzione di poesia “politica” o “civile” di Grandinetti, che è reperibile su questo stesso sito e che pare far proprie le spinte fondamentali della modernità verso la libertà, l’eguaglianza, la fratellanza – i valori civili minimi dell’Occidente borghese e illuminista – non si stacchi davvero dallo sfondo “nichilista emozionale” che domina in «Viaggi» e nelle precedenti raccolte.
12.
Il dissolversi, il disfarsi, l’evaporare delle cose e del vivente è per il poeta la sostanza stessa di esse. L’io pure viene contagiato da questo processo disgregativo generale e desidera «evaporare senza pena e perdersi/come nebbia nell’aria» (42). Questo fascino per lo svanire, e dunque per l’immobilità della morte, è violento: «O, se strappati al vortice potessimo/ non essere più» (34); «Essere solo spuma, evaporare/ e non farsi nuvola, dimenticare/ il mare, dimenticare l’onda e la vicenda/ infinita della vita, essere solitudine/ lontana da ogni forma di essere, universo/ senza mutamenti» (47). E viene indicato come atto ineludibile da compiere: «Eppure è solo questo quel che resta/ da fare: non cercare/ alibi che t’illudano, ma fuggire/ di nascosto come ospite sgradito» (53). Fino all’affermazione – da accostare a quella precedente sulla solitudine – che «libertà è solamente la morte […] o libertà è non essere sé, abbandonarsi/ alle forze nascoste, alla violenza/ come l’onde del mare» (48). La morte è la sostanza stessa delle cose. La vita vi è sottomessa, ne è quasi un derivato secondario: «noi siamo nient’altro/ che vite che si nutrono di morte […] Siamo/ generazioni saprofite,/ viviamo solo della marcescenza/ di altre vite» (49, 50).
13.
Per definire questa visione poetica di Grandinetti non trovo un termine più adatto di “nichilismo emozionale”. Nella intera raccolta (ma anche in quelle precedenti) poche volte esso si vela o s’attenua. Accade in alcune composizioni, quando l’io non interviene direttamente coi suoi pensieri, ma si sofferma sul paesaggio, accennando appena (soprattutto attraverso gli aggettivi) al suo sentire, una volta tanto senza spingersi verso il ragionamento, come in altri componimenti. Accade in «Aprile»:
Rapida un’ombra per un poco attrista
il tuo sorriso e i sogni discolora.
Eppure è aprile.
Le foglie hanno il tremore verdazzurro
dell’alba, e su una goccia
di rugiada sboccia
fugace un fiore d’iride
ed evapora. Ma
da qualche punto dell’autunno giunge
vago un richiamo:
un brivido di vento
che scuote le corolle e intorbida
l’aria chiara di petali e di polvere.
Nel cielo acerbo come un cenno passa
un velame di nuvole
e si scioglie.
(58)
Oppure in «Nebbia d’autunno»:
Inavvertitamente ombre ritornano
Delle cose che furono. Non hanno
più alito, ma offuscano
come d’un fiato umido la vitrea
trasparenza degli occhi.
Poi svaniscono e lasciano rimpianti,
rimorsi forse,
e agli occhi un velo di tristezza come
una nebbia d’autunno che s’attarda
nell’aria e che ristagna e non dirada.
14.
E anche in «Senza gratitudine», un componimento insolito rispetto agli altri. Perché l’io qui si strappa un poco al suo solipsismo o al suo dialogo ossessivo con il fantasma della natura; e tenta, invece, il dialogo con un altro fantasma – quello della figura paterna – tentando un bilancio del suo rapporto con quella. Il nichilismo appare quasi tenero e umanizzato. Viene ammessa una mancanza concreta e personale («sei tu che mi manchi»; « E so che sei la cosa che mi manca di più») non più confusa nella mancanza generale, assoluta e indefinita, oggetto di riflessione in altre poesie:
Dicono che la vita è un dono
– anche se infine poi risulti un peso –
e che perciò dobbiamo essere grati
a chi ci ha generati.
lo non ho gratitudine per te, ma pure
amo la tua memoria, però solo
perché sei stato un cuore accanto al cuore,
non un’epigrafe
di fredde perfezioni.
Se tu fossi stato un padre che chiedeva
d’essere amato, non perché sapesse
dare amore, ma solo per il fatto
d’essere il padre-dio, che potesse
punire anche i pensieri, che potesse
dettare a suo piacere le regole e pretendere
solo ubbidienza
ora che non ci sei più sarei me stesso
e non mi sentirei mutilo e solo
per un’assenza che non so colmare.
Cerco di richiamare alla memoria
la tua voce, i tuoi gesti, la tua immagine,
ma sei tu che mi manchi, il tuo guardare
con occhi miti,
il tuo giungere piano che i tuoi passi
non si avvertissero,
la tua voce dimessa, i tuoi silenzi
attenti, le tue reticenze. Ora mi pare
di sapere di te soltanto quello
che non dicesti: i tuoi stupori
ingenui, il tuo essere
mite e in disparte, i tuoi pensieri,
segreti, di speranza.
E so che sei la cosa che mi manca
di più, per quanto più discreta
era la tua presenza.
Ma non ti sono grato, e forse tu
nemmeno lo vorresti,
che non chiedevi niente, che volevi
essere solo un cuore accanto a un cuore
ed essere uno sguardo
che s’appagava solo d’uno sguardo.
15.
In passato ho pensato che l’influenza più forte su questa poesia venisse dalla visione materialistica antica. Ed essa c’è indubbiamente. Ma oggi penso che il sentimento nichilista di Grandinetti può anche essere accostato a quello dell’autore di «Qoelet» (forse IV o III sec a.c., Bibbia LDC p. 942). Nel quale ritroviamo quasi gli stessi temi di «Viaggi»: assurdità e inutilità degli sforzi e delle gioie umane, della giovinezza, della fama, del lavoro, della saggezza e così via [2]. Con una differenza significativa: in «Qoelet» le immagini che esemplificano il concetto di inutilità della vita («”Tutto è come un soffio di vento:/ vanità, vanità tutto è vanità”, dice Qoelet») restano concrete e sono tratte dalla vita sociale; e, alla fine, il suo nichilismo si inchina alla potenza imperscrutabile di Dio. In «Viaggi» abbiamo invece in prevalenza immagini della natura che – o attuali e riferibili ai paesaggi della terra d’origine dell’autore, la Calabria, o filtrate attraverso quelle depositatesi in lui dalla cultura greco-romana, che Grandinetti ha assorbito in profondità e conservata quasi intatta dentro di sé -, non rimandano a nessun Dio e a nessuna speranza.
16.
Di fronte alla poesia di Grandinetti un lettore partecipe e non distratto è messo di fronte a tre problemi: uno esistenziale (“l’inutilità della vita di cui qui si parla è anche la mia”); il secondo intellettuale (“ha ragione o no questo poeta a insistere sulla solitudine della condizione umana, sull’inutilità della vita, sulla vanità della storia?”); il terzo estetico (“questi versi – diciamolo pure – attardati nell’Antico e paghi di rimanere nella forma classica dell’endecasillabo sono, sì, belli, ma quel loro ritmo ci raggiunge ancora oggi?”). E’ possibile dare ad essi una risposta unitaria? Lo chiedo perché ho l’impressione che i pochi o tanti lettori di queste poesie di Grandinetti tendono a considerarli separatamente, separando cioè i tre piani – emotivo, di pensiero ed estetico – e, di solito, privilegiando l’ultimo e accantonando gli altri due. Anche per il fascino indubbio che hanno ancora su molti la fluidità di questi versi, la loro architettura sintattica che procede sicura per espansioni robuste, la pacatezza o persino dolcezza delle immagini evocate.
17.
A me pare, invece, che bisogna prendere atto che la poesia di Grandinetti è un tutto unitario. Si è saldata (o ha finito per saldarsi) soltanto e proprio con certe emozioni (da solitario) e certi pensieri (nichilisti), e ha fatto un tutt’uno con essi. Non ci sarebbe, cioè, senza quelle emozioni e quei pensieri (e quegli endecasillabi). Non è pensabile, cioè, che possa essere “corretta” da una visione diversa. La sua base è quella: solipsistica e nichilista. La sua bellezza non è separabile da essa. Si può essere d’accordo o meno con questo nichilismo, essere attratti o respinti dal desiderio del poeta di farsi pietra. (Come, per fare altri casi, si può essere d’accordo o no con il cattolicesimo di Dante o l’antisemitismo di Céline). Ma va tenuto presente l’insieme, che per me è unitario. Solo dopo averlo riconosciuto, si potrà porre anche il problema di come, in un contesto di modernità prima e ora di postmodernità, che Grandinetti ha attraversato assieme a tanti di noi, si possa essere conservata intatta una visione delle cose e un’emotività del genere.
18.
La poesia di Eugenio Grandinetti, pur avendo macinata molta strada («Inverni» è la sua quinta raccolta) passa tuttora quasi inosservata. Condivide un destino che è di molti poeti d’oggi condannati all’oscurità o a una scarsa considerazione critica delle loro opere. E non si vedono spiragli. Siamo purtroppo nella fase declinante della nostra società letteraria nazionale unitaria, autorevole e abbastanza inclusiva (le mitiche «patrie lettere» sono morte). E vediamo una critica ripiegata sulle passate sue glorie, poco generosa e tendenzialmente corporativo-amicale, una circolazione elefantiaca e incontrollata di testi, un pubblico frastornato dai mass media e, quando ancora attento alla poesia, composto in fondo dagli stessi poeti (e per di più in concorrenza, spesso sleale, tra loro). Non serve lamentarsi né intestardirsi in vane denunce. A me pare che ci si debba muovere nella logica dei naufraghi,alla Robinson Crusoe: compiendo la lettura dei testi che ci arrivano sulle isole (deserte o abitate?) dove siamo approdati; e interrogarli con la memoria della Tradizione e gli strumenti critici che ci restano o che riusciamo a ricostruirci. È in questa logica che mi sono voluto misurare con la raccolta dell’amico Eugenio. E tuttavia un’ultima cosa va detta: penso che non ci sia solo la disattenzione altrui nei confronti della poesia di Grandinetti, ma che egli stesso abbia perseguito coerentemente una propria estraneità, perché consapevole di quanto la sua poesia sia inconciliabile con la storia e la società moderna e postmoderna. Il che può essere un merito e non un difetto.
*Note.
[1] Riporto un brano della poesia di Kavafis, «Itaca»:
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
(http://www.poesieracconti.it/poesie/a/costantino-kavafis/itaca)
[2] Trascrivo vari versetti dove l’affinità mi pare più evidente:
«L’uomo si affatica e tribola/ per tutta una vita. Ma che cosa ci guadagna?/ Passa una generazione e ne viene un’altra;/ ma il mondo resta sempre lo stesso. […] Tutte le cose sono in continuo movimento,/ non si finirebbe mai di elencarle. […]Tutto ciò che è già avvenuto/ accadrà ancora;/tutto ciò che è successo in passato/ succederà anche in futuro. […] ho messo tutte le mie forze/ per indagare e scoprire il senso/ di tutto ciò che accade in questo mondo./ Ma devo concludere che ogni sforzo/ è stato inutile. […] ho meditato su tutto/ quel che gli uomini fanno/ per arrivare alla conclusione/ che tutto il loro affannarsi è inutile.[…] Il sapiente vede dove va,/ lo stolto invece cammina al buio. Ma tutti e due fanno la stessa fine./ Anch’io morirò come muore lo stolto./ Ma allora perché sono diventato sapiente?/ Che cosa ci guadagno?/ tutto mi appare inutile. […] Così ho cominciato a odiare la vita./ Tutto quel che si fa mi sembra male./ Tutto mi appare inutile. […] Verranno gli anni in cui dirai:/«Non ho più voglia di vivere» ( Qoelet, Bibbia, LDC 1985, pp. 943 – 953)
…nelle belle poesie di Eugenio Grandinetti si parla tanto coraggiosamente di solitudine, di cui spesso noi quasi ci vergognamo…Una solitudine in mare aperto, dove più soli non si può. Lì il poeta ha issato la sua bandiera e ha vissuto attimi di libertà e di respiro. Ma é rimasto così a lungo in quel elemento inquieto, se vuoi non naturale per l’uomo che é dotato di due piedi, che si é poi sentito accerchiato da possenti e incontrollate forze, ha visto naufragare navi, isole, la stessa Atlantide…Ora fugge fugge, forse ha paura, e desidera tanto la terra ferma e identificarsi in quella pietra così immobile e paga.
Per contrasto leggo la poesia di Kavafis, dove al nichilismo emozionale si contrappone l’appiglio emozionale…così umano. Non si fugge ma si insegue, si desidera raggiungere la propria isola, ben sapendo che il viaggio sarà molto lungo e ci vedrà invecchiare…
Ovviamente sono solo impressioni personali tratte dalla lettura. Ringrazio Ennio Abate per il commento critico completo…
La forza e il coraggio di Grandinetti sta nella grande purezza della sua scrittura e nel messaggio , direi oltre che coraggioso anche confessionale, che esprime un voler dare di se stesso ciò che diventa molto utile a tutti noi. La riflessione sul trascorrere della vita
inserita in una natura , che appare così come è , meravigliosa, malinconica a volte dura nella sua immensità nella quale il poeta trova ogni parte di se stesso fino a formare un puzzle da terminare solo con la morte, la morte come libertà, completezza . Resta il senso di un piacere insoddisfatto, di un dolore mai sopito che colpisce il lettore ma non solo, eleva il poeta in questa ricerca , durante un viaggio che Grandinetti compie senza mai fermarsi , in un mondo in cui prevale la chiarezza di una realtà che , se riflettiamo, serve anche per accettare la forza della delusioni. Grazie ad Eugenio Grandinetti per queste splendide poesie e ad Ennio che come al solito ci propone la sua critica attenta e molto utile.
…vorrei condividere con voi alcune riflessioni sul tema della solitudine , che questo post mi ha suggerito, come mi piacerebbe sentire le vostre…Mi scopro a credere, una delle mie tante contraddizioni, sia nell’esistenza di una rete che ci tiene profondamente interconnessi, tra noi uomini e con la natura e in questa affermazione di Eugenio Grandinetti in un suo verso: “Gli uomini sono,ognuno, soli…”. Del primo punto si é già parlato in un precedente post, d’altra parte è indubbio che l’uomo sia un animale socievole che tende ad aggregarsi (ma anche poi a disgregarsi…), sul secondo punto é altrettanto indubbio che tutti noi abbiamo affrontato l’esperienza della solitudine (come quella della paura e della sofferenza)…ma le sfumature possono essere state molto diverse: chi la nega, chi la sfugge, chi la detesta, chi ne é devastato, chi disgregato, chi la desidera, chi la insegue, chi la inganna, chi la stordisce…Poi c’é chi vi si immerge, chi la vuole ascoltare fino in fondo e ne fa un’esperienza assoluta e sovrumana…Mi colpisce sempre il coraggio di questo poeta, lo paragono ad un esploratore che si inoltra in un continente solo marginalmente conosciuto, come un tempo i primi esploratori del continente africano(qui vivono i leoni) o delle terre ghiacciate dei Poli, dove si sono sicuramente smarriti, ma conservando chissà quali immagini meravigliose e terrbili…La sua poesia ce ne parla…Un coraggio che io non avrò mai, ma sono anch’io un po’ solitaria. Non riesco a rinunciare agli appigli emotivi, a sperare di raggiungere Itaca o anche solo ad uno sguardo di simpatia tra isole lontane…
Grandinetti racconta la sua solitudine. La vera solitudine è quando non la puoi raccontare a nessuno, quando si confonde il male di vivere con la solitudine. Essere soli a volta è un’esigenza a volte una sfortuna , sì dico sfortuna perché al mondo siamo in tanti e se vogliamo , qualcuno che ci ascolta o qualcuno con cui dividere i nostri problemi e le nostre gioie, si trova. Spesso è proprio la gente con la quale viviamo (padri,madri,figli,mariti, ecc.) che riescono a farci sentire soli o comunque non utili alla convivenza, e qui sta il problema , la sicurezza del nucleo per sentirsi realizzati coperti dal sentimento, ma se noi riuscissimo a pensare che anche insieme la nostra libertà e quella degli altri è l’elemento indispensabile per poter vivere sereni, non dico felici, ci sentiremmo sicuramente meglio. Ognuno di noi ha bisogno degli altri per vivere , ma il bisogno e la sua soddisfazione sono diverse per ognuno di noi e questo non agevola certo le unioni. Il poeta Grandinetti fa delle emozioni la sua grande compagnia, ed io penso che chi si emoziona non potrà mai soffrire di quella solitudine terribile di chi non sente mai vibrare il suo spirito ed il suo corpo.
…sono assolutamente d’accordo con te, cara Emilia, soprattutto con quello che dici del poeta Grandinetti nelle ultime tre righe…Un’altra domanda che mi pongo é: allontanarsi dagli altri per non soffrire, rende davvero liberi? Ma so che tu parli di un’altra libertà…me ne vuoi parlare…se vuoi
Il critico meno affidabile di una poesia è certo il poeta che l’ha scritta, perché è come uno che si guardi allo specchio e gli specchi forniscono (a patto che non siano offuscati) un’immagine a due sole dimensioni. Perciò non pretendo di muovere degli appunti alla
citica ampia e dettagliata che Ennio ha voluto fare alla mia raccolta “viaggi”, anche perché, se la poesia è portatrice di un messaggio, la sola cosa che conti è quello che è riuscita a trasmettere. Perciò se è sembrato che i miei scritti sono sembrati rivelatori di una concezione solipsista e nichilista,vuol dire che, mio malgrado, hanno trasmesso un messaggio di tal tipo. La mia intenzione,invece, era quella di lamentare e non di compiacermi di una situazione di incomunicabilità e quindi di solitudine in cui si trova l’uomo che vive in una società basata su rapporti di tipo individualistico: quanto al nichilismo non è quella di distruggere alcunchè,bensì quella di indagare,in chiave materialistica,sulle vicende non solo dell’uomo ma dell’intero universo.
Un appunto invece vorrei farlo sul concetto di modernità che, a mio avviso, non è rottura ma continuazione col passato. In questo senso io mi considero un uomo moderno, pienamente inserito nella cultura e nel linguaggio di una società multimillenaria come la nostra e che utilizza entrambi (cultura e linguaggio) per dialogare con gli altri portatori della stessa cultura e dello stesso linguaggio. Capisco che ci sia qualcuno che voglia sperimentare strumenti di comunicazione nuovi, ma questo non vuol dire che il suo linguaggio sia più moderno ed efficace. Quando la sperimentazione avrà successo,allora questi strumenti saranno la continuazione degli strumenti precedenti che continueranno ad essere validi,se non altro perché serviranno come strumenti per spiegare il presente. Allo stato però mi pare che tante di queste sperimentazioni abbiano dato luogo a strumenti condivisi ed efficaci.
Facciamo qualche esempio: Montale non può certo esser considerato uno sperimentatore di nuovi linguaggi e di nuovi strumenti poetici:il suo lessico è quello condiviso dalle classi colte, ed in genere abbastanza condiviso dalla massa degli italianofoni e i suoi strumenti retorici sono quelli da sempre usati in poesia. Prendiamo da “Ossi di seppia” la poesia “Cigola la carrucola”:
Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce vi si fonde.
trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato,si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
ah,che già stride
la ruota,ti ridona all’atro fondo,
visione,umna distanza ci divide.
La lingua, come si vede, è quella condivisa sia nel lessico che nella struttura, e la poetica (metrica ed uso di figure retoriche) sono quelle condivise e,se moderno significa qualcosa che riguarda il vocabolo latino “modo”(=adesso), non si può negare che siano moderne.
Più sperimentali ma non più comprensibili ed efficaci a me paiono le poesie di altri autori che vengono considerati più moderni e che vengono lette solo da alcuni critici letterari che sono i soli che le capiscono o dicono di capirle, perchè prodotte in una lingua non condivisa nel lessico,nella struttura o nell’accostamento delle immagini.
Prendiamo ad esempio una poesia di Viviani (e non parlo della famigerato “ono”:
ono ono todào lota ma dina:
lota paramatè lello solai
o mino coti so malla sorina (risparmio gli altri 22 versi)
ma di una poesia che apparentemente usa un lessico condiviso come “da merisi”:
che fosse niente amore quell’avere
avuto i baci e ritornati a rtidere
quando finì la guerra e sulla via,
strilloni,se n’è preso l’agonia,
e noi nella penombra ad affondare
le mani al seno al grembo,a sollevare
l’odore riposto,
suore.
Oppure “ora c’è la disadorna ” di Milo De Angelis:
ora c’è la disadorna
e si compiono gli anni a manciate,
con ingegno di forbici e
una boria che accosta
al gas la bocca
dura fino alla spina
dove crede
oppure i morti arrancano verso un campo
che ha la testa cava
e le miriadi
si gettano nel battesimo
per un soffio.
Dovremmo considerare la poesia di Montale come un’inutile anticaglia da rigattiere e ritenere come valide le poesie sopra riportate perché moderne, cioè scritte in una lingua incomprensibile che perciò stupisce (o delude) le aspettative dei lettori?
E se anche questa fuga nell’inatteso fosse corresponsabile del disinteresse per la poesia?
Ringrazio Emilia Banfi e Annamaria Locatelli per aver partecipato alla discussione e spero che intervengano altri
@Annamaria
risponderò volentieri alla tua richiesta, appena mi sarà possibile ti manderò una mail- un abbraccio.
ringrazio l’autore per i testi presentati da Abate e per le precisazioni successive, assai utili per capire meglio la sua posizione intellettuale.
non conoscevo la poetica di Grandinetti e ammetto di avere perso una buona occasione di lettura, in ogni caso questo incontro è stato molto utile per riconfermarmi qualcosa che penso da sempre :
la condizione umana è quella della solitudine. Punto.
L’uomo e la società, di conseguenza, si sono inventati dei palliativi per superarla : l’eros, la famiglia, la lotta di classe, tutte ” sovrastrutture ” come qualcuno le catalogò ai tempi, ma quando apro il libro di Giobbe, quando leggo l’Ecclesiaste non posso far finta che la solitudine sia solamente il frutto dello ” sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo ” come in tanti credono ancora oggi.
La solitudine è insita nel fatto di esistere : noi non riusciamo a compenetrarci del tutto, mai, i nostri pensieri non sono mai completamente condivisi.
Pensate a quando scrivete una poesia e le attribuite un vostro significato, e poi raffrontate questo significato con gli eventuali commenti che riceverete e ditemi se è solo una questione culturale, oppure se è una questione di i-m-p-o-s-s-i-b-i-l-i-t-à a comunicare.
Bene o male i film di Antonioni e quelli di Bergman qualcosa ci avranno pur trasmesso ( o si tratterebbe, come affermava un certa critica dell’epoca, solo e soltanto di problemi che toccavano la classe borghese ? )
Se già il Quoelet 3 /4000 anni fa scriveva le parole che sono state riportate da Abate, se Giobbe si poneva tutte le domande che conosciamo sul dolore, sulla sofferenza, se Cristo stesso il venerdì santo si spegne gridando ” Padre perchè mi hai abbandonato ? ” penso che dovremmo essere convinti che ” la solitudine ” non è un problema che ha cantato solo Laura Pausini ( scusate la citazione volutamente ironica ) ma è un dato di fatto, al quale tutte le fedi hanno tentato di fornire una risposta, sia il marxismo attraverso la solidarietà di classe, sia il Cristianesimo attraverso la fratellanza che dovrebbe aprire le porte ad un riscatto ultraterreno.
Ma, noi che scribacchiamo ( parlo per me ) poesie non possiamo che abbracciare con serenità e quasi con voluttà quella che Montale espresse così bene quando scrisse ” noi possiamo dirvi / ciò che non siamo/ ciò che non vogliamo ”
E sorvolando sull’osticità dei versi di quei poeti citati da Grandinetti, desidero ringraziare questo autore per la chiarezza del suo linguaggio e per la facilità di esposizione a tradurre in poesia concetti duri da assimilare, e mi scuso per la lunga e forse inutile mia digressione
A Luigi Paraboschi
Grazie per l’utilissimo commento.
Stavo postando il mio breve commento quando ho letto sia quello di E. Grandinetti che quello di L. Paraboschi e ne condivido i contenuti.
Nel mio intervento volevo dire che, per la maggior parte, le poesie di E. Grandinetti sono poesie da ‘meditazione’ che non basta leggere una volta e via. In Francia, questi testi particolari vengono chiamati “livres de chevet” , libri da comodino.
Il valore della ricerca di questo poeta – di cui ho apprezzato altre poesie postate in questo Blog – risiede nella capacità di parlare della estraneità, della solitudine non fermandosi ad un livello descrittivo correndo il rischio di farsi bloccare da un ‘fuori’ dove questi fenomeni sono visibili e inflazionati dai luoghi comuni (‘siamo tutti soli, ma forse potremmo esserlo di meno se…’), ma ne parla da dentro, dall’introietto di questa estraneità, proprio per fartela vivere ‘dal di dentro’.
Il suo poetare ti porta nei luoghi intimi (la natura, le figure familiari, ecc.) dove la familiarità dovrebbe avere il sopravvento. Mentre è proprio lì che avviene l’inversione paradossale: scoprire che più si è in comunione con l’oggetto e più se ne è fuori, una esperienza di ‘alterità’ dolente e senza remissione. Non ci vedo nulla di nichilismo in questo, semmai di tragico.
Perché, nonostante tutto, rimane l’incessante ricerca dell’intimità nonostante la continua espulsione.
Riuscire a rendere il dramma della assenza nella presenza non è cosa da poco.
Per queste ragioni sono poesie che apprezzo molto proprio per il continuo gioco con l’inquietante. Che, alla fin fine, non è che la nostra esperienza di umani.
R.S.
@ Paraboschi
« la condizione umana è quella della solitudine. Punto».
Quest’affermazione è un macigno. E viene posto davanti a tutti quelli che, in passato più che oggi, sostennero con troppo ottimismo che la solitudine era, in fondo, « solamente il frutto dello ” sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo ”». Paraboschi non lo avrà scritto con questa intenzione intimidatoria, ma io ho pensato lo stesso alla scena finale del Don Giovanni di Mozart, quando la statua del Cavaliere, il convitato di pietra, con voce cavernosa ordina all’eroe «Pentiti, cangia vita: è l’ultimo momento! Pentiti, scellerato. Pentiti».
Insomma si dovrebbe riconoscere l’errore? Abbiamo sbagliato a sentirci partecipi di un ‘noi’? Siamo sempre stati e restiamo degli ‘io’ solitari, monadi in sostanza, per cui «la solitudine è insita nel fatto di esistere» e «i nostri pensieri non sono mai completamente condivisi»?
Antonioni, Bergman, gli autori di Qoelet, di Giobbe, Cristo stesso nel Getsemani sono convocati come autorità a favore di questa tesi.
Neppure oggi che tutto pare confermare questo “dato di fatto”, sono convinto della tesi dell’io solitario. E alla “restaurazione” di una filosofia dell’io- monade senza porte e senza finestre penso sia possibile e si debba ancora contrapporre una filosofia dell’io/noi, problematica, dinamica e ancora storica.
Credo, cioè, che l’io solitario (per intenderci quello che parla nelle poesie di Grandinetti o quello ‘lirico’ di tanta poesia) possa solo *fingere* la sua solitudine, possa desiderarla, immaginarsela persinp assoluta (lui solo e la natura; lui solo e Dio), ma senza gli altri non esisterebbe; e neppure potrebbe godere di questa finzione o lamentarsene (perché indubbiamente gli procura sofferenza) . Su questo Marx non è affatto superato. E neppure Aristotele…
Precisiamo, però, come intendere questi ‘altri’. Sartre, nel suo «A porte chiuse», con grande realismo diceva: «l’inferno sono gli altri». Ed in effetti gli altri – indispensabili anche quando estranei e quasi sempre ostili – non sono affatto il ‘noi’ solidale o fraterno mitizzato sia dal cristianesimo, sia dall’illuminismo e sia da un certo marxismo. Anzi, come abbiamo avuto modo di sperimentare crudamente nella storia del Novecento, anche il ‘noi’ in cui riusciamo faticosamente a riconoscerci è in effetti un’altra finzione e dura temporaneamente come tutte le cose della storia.
Direi perciò che, sì, «la solitudine è insita nel fatto di esistere», ma non si esiste da soli. Si esiste insieme/contro gli altri. In altri termini: esistono gli altri; e a volte sono più o meno con noi; altre volte più o meno contro di noi.
Esistiamo, dunque, come io/noi. Mai soltanto come io in (completa) solitudine. E non soltanto come noi-comunità. Stiamo – purtroppo, per fortuna – in società. E in società conflittuali, sempre più sottoposte a veloci trasformazioni nel tempo. Siamo dentro una storia senza termine prestabilito, che ora pare costruire un senso valido per un noi e per i singoli io ( es. durante la Resistenza, attorno al ’68-’69). Ora invece piega, come oggi, verso il caos (o la barbarie, o la guerra). Mai però siamo davvero fuori di essa. Ci possiamo solo immaginare fuori di essa. (E i poeti lo fanno molto più facilmente di altri…). Ed è l’andamento finora mai del tutto controllato della storia, malgrado filosofie, politiche, visioni religiosi abbiano mirato o promesso questo controllo, che ora ci spinge a puntare sull’io come solitudine (dopo una sconfitta, un tradimento, un crollo dell’economia) quasi come ad un unico, possibile salvagente, ora ci fa confluire – comunque sempre provvisoriamente – in un noi (patria, chiesa, classe, gruppo, ecc.) più promenttente e rassicurante, ma poi deludente.
Quanto alla poesia (ma il discorso potrebbe estendersi alle pratiche d’ogni tipo), se fosse incontrovertibile l’incomunicabilità (l’« i-m-p-o-s-s-i-b-i-l-i-t-à a comunicare»), non ne scriveremmo più. Se insistiamo a farlo, direi che è proprio perché la presenza/assenza degli altri opera persino dentro l’io solitario o eremita o solipsista. E opera dentro questo io il linguaggio, che non è mai fatto solitario o per solitari. Opera pure la percezione di un’istituzione-poesia (tradizione, ecc.), che induce il singolo, anche quando eremita, a insistere e a scrivere malgrado tutto poesia. E diceva Fortini, certo in tempi più speranzosi: «ogni opera di poesia è una proposta politica perché ogni poesia è una notizia sui modi di essere degli uomini» (in «Disobbedienze 1, p. 50)
Il fatto poi che ad una poesia (scritta in apparente solitudine) noi attribuiamo un “nostro” significato, una “nostra” intenzione, mentre altri le attribuiscono significati diversi o persino opposti, la fraintendono, prendono fischi per fiaschi, ecc., non è affatto prova di « i-m-p-o-s-s-i-b-i-l-i-t-à a comunicare», ma semmai prova della crescente complessità dei processi di comunicazione, mai regolabili una volta per sempre e con certezza assoluta. Neppure quando si scelgono linguaggi controllatissimi e disambiguati come quelli scientifici.
@ Grandinetti
Ho già detto nel mio articolo che usavo senza alcun moralismo i termini di ‘solipsismo’ e ‘ nichilismo’. Che non contengono, dunque, da parte mia nessuna accusa di compiacimento. Sono definizioni (approssimative) di un atteggiamento verso il mondo che mi è parso di cogliere nelle tue poesie. Se non fossero esatte, vanno corrette e sostitute con altre.
Sul concetto di modernità, invece, sarebbe meglio capire il senso del nostro disaccordo. Per me la modernità è stata, sì, ricerca di «strumenti di comunicazione nuovi» o di linguaggi giudicati più efficaci da contrapporre ad altri considerati vecchi e antiquati. Ma siccome è andata in crisi, non ha realizzato quelle aspettative o utopie di progresso ed emancipazione che prometteva, oggi – che consideriamo (sempre approssimativamente) la nostra un’epoca postmoderna – è facile cancellare o fare la caricatura di quelle (ambigue) istanze della modernità e scandalizzarci o preoccuparci per il suo risultato: un capitalismo sempre più distruttivo; e non, come molti speravano, il socialismo o il comunismo, insomma l’uscita dalla “preistoria” (secondo Marx).
Ora, per non regredire ad una impossibile restaurazione dell’antico o ad ipotesi neoromantiche (ad es. le teorie della decrescita) e in assenza di una vera alternativa al capitalismo (non c’è, non s’intravvede), cerchiamo di capire almeno perché i moderni abbiano cercato il “nuovo” o nuovi linguaggi, ecc.; e se avevano dei buoni motivi per farlo e non accettare il mondo com’era ai loro tempi. Altrimenti qui torniamo a rivalutare persino l’ancien régime. Io risponderei semplicemente: perché del mondo, della realtà, coglievano aspetti prima poco o nulla considerati; perché al rapporto “antico” con la natura si andava sovrapponendo e sostituendo in alcune parti del mondo, con l’intervento umano ( a volte indispensabile, a volte avventuroso, a volte semplicemente distruttivo), una «seconda natura» meno “naturale” della precedente, industriale; e, di fronte ad essa e ai suoi effetti( positivi, negativi, contraddittori), si sentiva l’esigenza di adeguare le parole alle cose, di trovare nuovi ordini (anche politici), nuove parole, nuove metriche. Dopo le scoperte di Colombo un Nuovo Mondo appariva sulle carte geografiche e agli occhi degli europei che prima l’ignoravano. Con Galileo ci si accorgeva che le conoscenze degli antichi sull’universo dovevano essere riviste. Le percezioni e le deduzioni del senso comune e le ideologie che le consolidavano contrastavano con quelle attestate dal cannocchiale e dal metodo scientifico. Aumentava la distanza tra un certo tipo di cultura, quella scientifica, e quella comune e diffusa (diciamo religiosa e umanistica per semplificare).
Ciò che della natura solo alcuni uomini erano in grado di cogliere attraverso il metodo e la produzione dei linguaggi scientifici, di certo non immediatamente alla portata del senso comune e quindi non condivisi dalla maggioranza della popolazione, aveva le sue ragioni. Altre, diverse, a prima vista del tutto inconciliabili con quelle della tradizione. Ci fu conflitto vero. O si rimaneva alla Bibbia, come pretendeva la Chiesa, o ci si apriva al “nuovo” ( e ai suoi rischi). Ed è in questa direzione che con molte contraddizioni e compromessi che ci si è avviati.
La modernità, dunque, ha rotto una visione del mondo, ne ha intuito una diversa, possibile, ma non è riuscita a cancellare o sostituire completamente la precedente, a spiegare in modo convincente “tutto” , a placare le paure davanti all’ignoto, alla morte. Da qui la “crisi”, la persistenza o il “ritorno delle religioni”, l’ uso capitalistico ( e dunque niente affatto a beneficio di tutti) delle scienze e, nel campo di cui discutiamo (quello dei linguaggi poetici) , la coesistenza ambigua di due tradizioni riconducibili all’ingrosso e semplificanti a quella antica e a quella moderna.
Per tenermi agli esempi poetici che tu hai fatto, non è che la poesia di Montale, che usa un linguaggio condiviso dalla «massa degli italianofoni» sia da considerare «un’inutile anticaglia da rigattiere», ma sicuramente non è più l’unica. Accanto ad essa è presente anche la «lingua incomprensibile» (per molti lettori, non per tutti) di Viviani o degli sperimentatori o delle neoavanguardie, o delle post avanguardie, ecc. Che non può, secondo me, essere semplicemente ignorata o sbeffeggiata. (Semmai criticata politicamente, ma non mi inoltro nella questione).
Intendiamoci. Non è che gli uomini che, dopo le scoperte di Galileo, si attenevano ancora alla visione tolemaica non riuscissero a campare o a regolarsi in modo soddisfacente nella loro vita quotidiana. Hanno continuare a vivere, ma certo non hanno sperimentato quello che aveva visto Galileo e non hanno potuto porsi i problemi che dalle sue scoperte derivavano. E così, oggi, si può continuare a vivere senza sapere nulla di psicanalisi, di teoria della relatività o di quanti, di strutturalismo, di formalismo russo, ecc., ma certo la nostra visione del mondo si riduce, non considera certi problemi; e questo ha comunque delle conseguenze.
Il fatto che certe poesie scaturite dalla relazione tra poeti e psicanalisti o scienziati « vengono lette solo da alcuni critici letterari che sono i soli che le capiscono» non vuol dire che non hanno nessun valore. Non l’hanno per chi è fuori da quei linguaggi e da quei problemi. E’ un vantaggio o uno svantaggio? Lascio in sospeso la questione. Mi pare, però, sbagliato svalutare il lavoro di quelli che se ne occupano dicendo che “fingono di capirle”. alcuni fingeranno, ma altri no. Il divario di conoscenza tra uno di noi che è un utente semipassivo del PC e un informatico è indubbio, ma non si può dire che l’informatico “finge di capire”. Io non mi sentirei di dire che la visione dell’universo di Galileo o quella della relatività di Einstein siano state una «fuga nell’inatteso». O che gli scienziati sono gli unici corresponsabili del «disinteresse per la scienza». E allora perché dovrei dire che quelli che in poesia hanno fatto un uso psicanalitico o strutturalista del linguaggio ( un Viviani, uno Zanzotto, un Sanguineti, ecc.) sarebbero stati i protagonisti di una «fuga nell’inatteso» o dovrebbero essere considerati corresponsabili del disinteresse per la poesia (che nasce da ben altri complicati processi)?
Abbiamo le scienze in continuo fermento e il senso comune, che resta più o meno pigramente ( e per ragioni non casuali, che qui non tocco) parascientifico o antiscientifico. Abbiamo la poesia sperimentale o di ricerca che si è distanziata molto, moltissimo dal linguaggi comuni e di massa; e quella che continua la sua ricerca con linguaggi più vicini a quelli comuni o apparentemente più vicini. Perché, diciamocelo, non è che il liguaggio comune usa la metrica degli antichi o di Montale nei modi rigorosi con cui lo fanno i poeti. Quindi lo scarto tra linguaggi comuni e linguaggi poetici resta. In alcuni casi è elevatissimo, in altri meno.
La splendida immagine iniziale è suggestiva, cioè suggerisce passaggi ulteriori e impliciti. Il vascello che campeggia su un mare calmo è – credo o almeno penso – quello di Ulisse alle Colonne d’Ercole. Ma – particolare curioso – non si inabissa affatto. Tuttavia sulla tolda e alle murate non si vede persona alcuna. La prima suggestione è questa. E.G,il capitano, si è buttato in mare. In fondo anche Ulisse che viaggia solo verso Itaca (non è dunque un viaggiatore curioso ma un viaggiatore coatto) vuole tornare alle origini. Cosa siano queste origini è tutto da scoprire, ma in senso naturalistico è il caos primigenio cioè la perdita di identità e l’annullamento. Ma torniamo al testo. Sono d’accordo con E.A. sulla struttura monolitica di esso, sulla sua compattezza che dobbiamo fessurare con tre scalpelli almeno (esistenziale, razionale, estetico). Certo, esso è pervaso da un nichilismo emozionale e già qui si coglie un significativa dialettica sulla quale tornerò. Ma fermiamoci al nichilismo. Possiamo rilevarlo quasi fosse una colpa? Direi di no. Smentiremmo tutta la nostra storia letteraria e non (W.Stevens: La teoria della poesia è una teoria della vita). Lascerei subito da parte questo aspetto, che – lo ricorda E.A. – ha precedenti illustri e continuerà ad avere sconsolati eredi. Tale aspetto si salda – mi pare – con il secondo fendente, quello razionale. Anche qui, come fare a non rendere giustizia a E.G. per l’adesione ad un senso della vita che sembra sempre di più senza senso? Tale senso lo abbiamo via via attinto dai miti, dalle religioni, dalla politica. Sono riferimenti che ci appaiono – razionalmente – svuotati e che a volte si tenta (questo è il mio credo se così posso esprimermi) di sostituire con un umanesimo laico e solidale ( La Ginestra docet).
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque e E.G. non fa che testimoniare una condizione che da sempre ha affascinato e respinto noi umani. E.G. dà notizia sui modi di essere degli uomini (Fortini) ed uno dei modi d’essere – condiviso o no, ma oggettivamente presente – è proprio questo segnalato dalla vanitas vanitatum.Se qualcosa vi ha aggiunto la modernità è ” la conferma ” ,tanto più dolorosa quanto più illusoria è stata la promessa.
Cosa possiamo dire a E.G. se non che ha ragione ovvero – nella migliore delle ipotesi – che ha qualche ragione? Ma tale parzialità di visione è quello che “ci emoziona” e ci induce a consentire o a dissentire ma ci costringe ad ascoltare. E con l’ascolto si arriva al dunque e al fendente estetico. Alla fine – depurato il nostro leggere da morali più o meno laiche e da respingimenti dettati da paure varie o da varie e nuove illusioni- si torna a parlare di bello e brutto, o no? Ovviamente il discorso è talmente complesso che lo si può solo ricordare. Esso coinvolge – è chiaro – anche una analisi sui “modi” (tradizionali, stantii, inadeguati?) di scrivere e dare notizia. Mi limito ad osservazioni per così dire descrittive. La scrittura di E.G. è certamente coerente con il messaggio. Le parole sono poste non a caso ma tutte (o quasi) funzionali ad esso. Il messaggio arriva (è emozionante). Ed allora l’obiezione è quella di sempre. Si può scrivere oggi come ieri? Un polemista direbbe: è perché no,se l’effetto c’è? Forse sarebbe il caso di riesaminare il problema con meno pregiudizi che poi sono i giudizi di critici militanti e no. Quanti orrori (di incomunicabilità, di irresponsabilità estetica, di pressapochismo) non si annidano nello sperimentale, nell’avanguardismo di ieri e di oggi? Perché non se ne parla se non per criticare e contrario il “tradizionale”? Non so – al momento – trovare altro modo di giudicare quello che leggo se non quello di ricercare un senso del testo (una sua filosofia), una aderenza con la (mia) visione del mondo, verificare la funzionalità del modo alla comprensione del messaggio. Se la poesia è – in fondo in fondo e in modi formali diversificati – un “promemoria” l’uso di modelli tradizionali potrebbe essere recuperato quale valido segnale di una inattualità essenziale al discorso poetico. In questo la natura appartata dell’esperimento di E.G. sarebbe una conferma del suo valore, e non del contrario.
E.G. prima di buttarsi in mare ci ha lasciato una bottiglia. I veri nichilisti distruggono e basta. Anche Kafka non distrusse la propria opera, ma chiese a M.Brod (così dice la leggenda) di distruggerla, sapendo che non l’avrebbe fatto. Così noi discendenti lo leggiamo ancora. Non è un bel paradosso che ci lega noi a lui? Non recuperiamo così una comunità?
Giorgio Mannacio.
@ Giorgio Mannacio
in risposta al tuo ultimo commento:
PASSAGGIO
Strappato al muro il bianco intonaco,
pietre e terra affiorano libere.
D’altri tempi era il lavoro ,
sotto la coprente luce resta
il grande sforzo, una fede di casa,
un preciso fare di mani sparite
e quel poco di noi che cerca
nell’oggi lo stesso valore,
così , tanto per ricordare, per sentirsi
vicini ad un fatto pur sempre nostro
che appare attraverso una crepa ,
ma l’antico messaggio resta nel buio
di una sera d’estate, la bella foto
di preziose rocce portate dal tempo,
dove, come appeso, oggi è fiorito,
un ramo di camomilla.
Emilia B.
…Ora mi pare / di sapere di te soltanto quello / che non dicesti
nella sua forma discorsiva, questo verso va nella direzione del misticismo, che è secondo me successivo al nichilismo, sempre che si sia d’accordo sul fatto che questi due atteggiamenti filosofici, in apparenza opposti, possano essere invece conseguenti uno all’altro. Infatti in entrambi i casi si guarda al vuoto e alla mancanza di senso, riconoscendoli, ma uno prova sgomento e l’altro si meraviglia. Questo è dovuto all’accettazione, che manca al nichilista. L’approccio di Grandinetti è contemplativo, ed è potenzialmente mistico perché la sua silenziosa attenzione lo porta a fare l’esperienza diretta, esistenziale, di quel che va osservando. E questo accade anche ai mistici, almeno a coloro che sanno mantenersi al di qua della fede.
E’ un verso molto bello, pieno di significato ma soprattutto di silenzio, perché di silenzio a me sembra siano fatte le poesie di Grandinetti, e di rumori naturali, di acque e di vento tra gli alberi, che lui restituisce intatte, senza un sé che le alteri.
Quindi il suo significante sta negli oggetti stessi, ma non nella forma che si mantiene diligente nella tradizione. Non è una differenza da poco quella che lo separa dai poeti dello sperimentalismo da lui citati. Ma non me ne preoccuperei più di tanto, in fondo se passate al setaccio, di quelle loro poesie non resta molto, prova ne sono quelle che han scritto dopo, quando han scelto di tornare al significato. A me invece piacevano tanto: mi aiutarono a trovare il coraggio di scombinare la scrittura per cercare me stesso. E ne avevo bisogno perché ero giovane.
@ Mannacio
Spero che si possa andare davvero a fondo sul tema nichilismo-solipsismo. Devo dire, però, che io continuo a dissentire. Anche con questa difesa del nichilismo abbozzata da Giorgio [Mannacio] nel suo commento.
Lungi da me pensare che sia una colpa professare una filosofia nichilista o, semplicemente, cogliere i tratti della negatività, della vanità, della distruttività, della morte come dominanti nella natura, nella storia e nella vita umana e quotidiana. E, infatti, non ho usato il termine ‘colpa’ né ho un atteggiamento “colpevolizzante” nei confronti dei nichilisti, dotti o spontanei. Anche perché non li critico dalla posizione di chi ha o pretende di avere un’alternativa, una visione positiva (religiosa o laica) o ha da proporre una nuova utopia. Credo, anzi, che la situazione di crisi incoraggi potentemente il nichilismo, che esso sia ideologia oggi dominante. E anche per questo resisto a farla mia e la rifiuto. Spero non solo emotivamente o “visceralmente”, ma anche ragionandoci su.
La vita – dice Giorgio – oggi «sembra sempre di più senza senso» e non possiamo più attingere «dai miti, dalle religioni, dalla politica»? Bene, una cosa è “sembrare”, altra essere certi del venir meno o dell’assenza totale di senso. Mi pare elementare verificare quanto senso (magari potenziale) potrebbe ancora venirci dalle passate esperienze (mitiche, religiose, politiche). E poi ho sempre pensato che il senso non ci venga dato, non lo si trovi “in natura”, ma è una *costruzione*. Costruzione fatta dall’io e dal noi . (Ho già detto, contro il solipsismo, quanto sia conflittuale, ambivalente e storico questo rapporto tra io e noi…). E in continuo riferimento con l’esterno, la realtà. Che, a sua volta, è anch’essa *costruzione* fatta tramite immaginazione, esperienza e conoscenze scientifiche. (E quindi – altra necessaria precisazione – non fondata esclusivamente su una pura soggettività o sulla nicciana volontà di potenza).
Mi pare inoltre evidente che, se si fa propria (e in modi più o meno definitivi) la convinzione che non c’è «nulla di nuovo sotto il sole» o si dà piena ragione al Qoelet biblico (««Tutto è come un soffio di vento:/ vanità, vanità tutto è vanità”»), sia impossibile (o e comunque contraddittorio con il principio nichilista) accingersi a un qualsiasi tentativo di costruzione del senso. Fosse pure la costruzione di una poesia metricamente ordinata. Perché per un nichilista il “senso” sta nel cercare conferme del Nulla non nel costruire. Dandosi da fare smentirebbe lo stesso principio generale della sua visione. Il nichilista è profondamente contemplativo e prossimo al mistico, come ha fatto ben rilevare Mayoor. Ed è indubbio che la contemplazione nichilista e solipsista ha un suo fascino profondo, difficile da respingere soprattutto quando ci troviamo di fronte a malattie, morte, distruzioni, malvagità prepotenti ed efficaci. Non è dunque che il nichilismo non abbia nessuna carta da giocare. E non a caso Freud aggiunse accanto alla pulsione erotica la pulsione di morte. E’ il suo predominio che va contestato. E aggiungerei un’altra cosa: chi parte da o è arrivato a una concezione nichilista coerente (Leopardi ad es.), quando tentasse in qualche modo di sottrarvisi o di correggerla, lo può fare solo puntando sulle illusioni o sulla resistenza (La ginestra). Questo è il massimo di *costruzione* che gli è concessa, partendo da quelle premesse.
Dunque il nichilismo sarà pure «uno dei modi di essere degli uomini» e la poesia ne ha dato e dà notizia – cioè non c’è contraddizione tra essere nichilisti e essere poeti e c’è tanta buona poesia nichilista…- , ma dev’essere chiaro che esso non ha nulla a che fare con la modernità. Semmai si è sempre opposto ad essa. Il principio «vanitas vanitatum» è stato la negazione, la svalutazione preventiva delle spinte innovative e costruttive (riuscite, fallite, fondate, infondate) della modernità. Se proprio vogliamo riconoscergli un merito, il nichilismo ha svolto nei confronti della modernità una funzione di critica, le ha ricordato l’ombra che quella non vedeva (o era costretta a non vedere per agire, per fare, per costruire). Un po’ la funzione che, durante la cerimonia del trionfo, svolgeva il servo che, sul cocchio e alle spalle dell’imperatore romano vincitore, aveva il compito di ripetergli all’orecchio: “ Ricordati di essere solo un uomo! “. (Ma accettare che oggi il servo stia al posto del signore mi pare troppo).
Può, allora, la modernità essere azzerata a «vanitas vanitatum»? Questo è il punto dove forse ci dividiamo. Rispondere sì significa adottare il punto di vista del nichilismo più rigido. O il punto di vista religioso più ascetico, che anch’esso, appunto, svaluta quasi del tutto la vita e la storia considerandole un viaggio di preparazione alla Vera Vita nell’al di là della storia e della fisicità. Solo dando ragione al nichilismo, possiamo dire allora che Grandinetti ha ragione. Io non accetto questa liquidazione delle spinte *costruttive* della modernità. Neppure oggi che la modernità “è morta” ( è data per morta ed in buona parte lo è davvero) ed è stata sostituita da una paludosa e “democratica” postmodernità.
Che il messaggio nichilista e solipsista contenuto nella poesia di Grandinetti arrivi e sia «emozionante» non l’ho mai messo in dubbio. Ma è questo messaggio che va apprezzato e valorizzato? Io dico di no. E non ci devono essere ambiguità. Una cosa è apprezzare la poesia, un’altra rassegnarsi al nichilismo, che già si respira abbondantemente nell’aria. Quello che non accetto è l’ideologia nichilista che sta alla base della poesia di Grandinetti o di altri. Si può apprezzare la sua poesia, ma non l’ideologia nichilista ad essa sottesa. E perciò ho fatto gli esempi di Dante e di Céline, autori diametralmente opposti e che ho citato proprio per evitare alla mia critica accuse di moralismo o di contenutismo).
E qui sorgerebbe un bel problema: si può avere un frutto nutriente e saporito – la poesia – anche se il coltivatore ha usato “veleni” per produrlo? O altra domanda spiazzante: non è che la poesia, per la semplice ragione che viene fatta, è cioè sia *costruzione*, sfugga in qualche misura al nichilismo, lo elude, lo contraddice persino, per cui un poeta non è mai un “vero nichilista”? Tenderei a rispondere di sì. E noterei pure che a un certo punto del suo discorso, quando Giorgio [Mannacio] sostiene che «la scrittura di E.G. è certamente coerente con il messaggio» (nichilista), fa alcune forzature e un po’ si contraddice. Ad es., non si capisce perché la metrica tradizionale (endecasillabica) sia di per sé coerente con il messaggio nichilista di Grandinetti. Ci sono autori chiaramente nichilisti che non l’hanno adottata. E non tutti gli autori che hanno usato l’endecasillabo classico hanno veicolato messaggi nichilisti. In un altro passaggio, dopo essersi chiesto: «Si può scrivere oggi come ieri?», non esita a rispondere « è perché no, se l’effetto [cioè l’effetto emozionate o bello, intendo io …] c’è? ». Lo dice in polemica con lo sperimentalismo e l’avanguardismo di ieri e di oggi, accusati di criticare il «”tradizionale”». Come se l’emozionante o il bello non siano venuti anche da testi sperimentali o avanguardisti.
Quando, infine, sostiene che egli cerca in quello che legge «un senso del testo (una sua filosofia) » a me pare ci sia una contraddizione con quanto affermato prima, a sostegno della visione nichilista, e cioè che il senso nella vita sembra non esserci quasi più. Ora come si fa a trovare un senso nel testo, se non lo si trova prima nella vita? O come fa il poeta nichilista, che non vede un senso nella vita, a mettercelo in un testo? Contraddizione che mi pare irrisolvibile, a meno di non uscire dal nichilismo rigido, “ortodosso” e ammettere, appunto, la funzione spiazzante, seducente e intortante per un nichilista (almeno) della poesia.
Non entro nel discorso del nichilismo anche se non considero nichiliste le mie posizioni, salvo che al termine nichilismo non si voglia dare il significato di visione pessimistica della vita.comunque non credo che ci sia contraddizione tra nichilismo e modernità, e soprattutto non credo si possa identificare la modernità con lo sperimentalismo. chi sperimenta pensa si possa in qualche modo progredire, però deve anche sottoporsi al vaglio dell’efficacia dei risultati della sperimentazione. abbiamo assistito a tanti rimedi sperimentali (l’ultimo è quello di stamina)che lungi dall’essere efficaci hanno distolto i malati dalle cure che in qualche modo potevano loro giovare.ma in campo comunicativo,siamo sicuri che sia utile la sperimentazione individualistica (o di piccoli gruppi) che tentando di superare i linguaggi attuali vengono meno alla comunicatività? lo stesso termine “comunicare” ci rinvia a qualcosa da condividere e che perciò non scontrarsi con le aspettative collettive. D’altra parte la tradizione non vuol dire passatismo, ma solo trasmissione di strumenti che -se mai- verranno modificati dall’uso comune.
la pretesa di comunicare con strumenti non condivisi è un atto di grande superbia e di poca efficacia.nè si può dire che la società attuale basata su uno sviluppo scientifico avanzato richieda strumenti linguistici diversi:lo scienziato se vuol farsi capire, usa un linguaggio condiviso dalla comunità scientifica sia nel lessico che nella struttura:e se c’è qualche elemento lessicale (a struttura del discorso è sempre rigidamente tradizionale) che può apparire nuovo, esso viene sempre ricavato dalla elaborazione di un termine tradizionale.quanto alla responsabilità del disinteresse per la poesia sia esclusiva degli sperimentalisti, ma certo c’è una loro corresponsabiltà.
“La pretesa di comunicare con strumenti non condivisi è un atto di grande superbia e di poca efficacia”
parole sagge, signor Grandinetti. Un maestro Zen non avrebbe potuto dire meglio, infatti mi pare che l’arte tradizionale giapponese si sia mantenuta intatta nei secoli proprio per queste ragioni. Ma noi l’abbiamo una tradizione secolare abbastanza credibile, tanto alta e unitaria da poter resistere agli scossoni del progresso? Scusi l’ingenuità della domanda.
La critica, apre , spacca, entra , sviscera, stacca,divide, tampona, scopre , guarda e ricuce. Sembra di essere in una sala operatoria . Eugenio Grandinetti, forse con poco di ciò che è stato rilevato dalla critica si trova d’accordo. Lui è il poeta, lui ha scritto questi bellissimi versi di una chiara e concreta poesia, invidiabile anche ai giorni nostri. Ma tutto si rifà prima o poi ed è giusto anche che la critica debba fare il suo compito, senza divertirsi, naturalmente.
@ Banfi
Ahimè, sentirmi ancora paragonare a un chirurgo che “apre , spacca, entra , sviscera, stacca,divide, tampona, scopre , guarda e ricuce” e, per giunta, neppure si diverte mi fa cadere le braccia!
Qui non c’è nessuna sala opertoria. Ed io ho letto solo attentamente e non mi sono limitato a complimenti generici!
@ Abate
la tua critica è stata ammirevole e tu non ti diverti , ma analizzi profondamente. Mi riferivo a tutta la critica in generale che sempre, per dovere ,deve fare del testo una analisi profonda. Tutto ciò sembra, almeno secondo me , una operazione chirurgica, di sicuro effetto ma non certo deve essere divertente. Certo io mi limito spesso ai complimenti , ma non solo porto spesso anche le mie riflessioni. Non essendo un critico non posso certo fare il tuo lavoro. Riconosco in quella di Grandinetti, una grande poesia. Del resto anche un critico dovrebbe qualche volta fare anche dei complimenti, perché no? Non toglierebbe proprio nulla alla sua critica. Il mio pensiero non penso sia così importante (rispetto la tua critica) al punto da farti cadere le braccia! Se poi ti diverti pure, ecco questo è un aspetto che non ho mai considerato, dovrei pensarci.
Rispondo sinteticamente un po’ a tutti, forse maggioremente a E.Abate.
1 ) la discussione è nata su un argomento non da me indicato. Grandinetti nichilista o no? E’ stato E.A ad affermarlo. Prescindendo da tale interrogativo ribadisco ( o forse hocreato un equivoco ) che ho detto semplicemente – e credo incontestabilmente – che da molto tempo il nichilismo è un fantasma che si aggira per l’Europa. E’ un tema rilevante e del quale i ” poeti c.d nichilisti ” danno notizia. Come tale va esaminato.
2 ) Il mondo della letteratura è pieno di contraddizioni che ne fanno la sua ricchezza. Rappresentare il nulla è stato il programma di molti artisti. Lo apprezzo, non lo apprezzo? Non è questo il problema. La questione esiste. La contraddizione logica tra volere dire qualcosa di indicibile ci appartiene da millenni. Che si debba superarla è auspicabile. Ma non è mai stato questo il senso di molte avanguardie..
3 ) Tra i referenti che ci hanno deluso ho dimenticato la scienza e la tecnica.Ne faccio ammenda ma inserirli comporta altre difficoltà per noi uomini. Non capisco cosa intenda E.A per modernità e credo che ne abbia una visione specificamente sua. Io – molto terra a terra – dico che la ” modernità ” è quello che viviamo: prendere atto dell’esistente non significa accettarlo acriticamente. Non l’ho mai nè scritto nè pensato.
Cosa significa vivere criticamente il proprio presente cioè ( per me ) la modernità è un problema che coinvolge la letetratura ma non si esaurisce in un problema letterario.
Se è utopistico pensare ad un ” ritorno al passato ” bisogna elaborare anche in letteratura un progetto. Nella sfida del presente bisogna mettere anche la prospettiva di una morte dell’arte. Il coraggio di vivere e scrivere – nonostante tutto – è esesnziale per la moralità di tutte le arti.
3 ) Dopo l’elogiaìo delle contraddizioni non saro certo io a rimproverare a E.A alcune sue affermazioni.Dato che lo conosco un poco mi stupisce che si chieda retoricamente : quanto senso magari potenziale potremmo ancora attribuire al mito,alla religione e alla politica. Ma non sono il passato?
4 ) E questo interrogativo mi porta a chiedermi – spezzando una lancia pro
” tradizionalisti ” : se sono il passato quale lingua è più adatta ad assumerli quali
” materia ” delle nostre notizie in versi se non il linguaggio del passato? La domanda è – ovviamente – provocatoria ma non si può eluderla. Io me la pongo . Non sono propenso a dare risposte definitive e trancianti ma credo che ” una certa dose di inattualità” sia coessenziale all’esperienza poetica. La quale – nella mia idea – è una acrobazia tra la danza sulla corda ( il presente ) e il vuoto sottostante ( il passato ). Insomma le esperienze poetiche autentiche sono davvero difficili . Parafrasando: è del poeta infin la meraviglia e chi non lo sa vada alla striglia ( a memoria: Marino, o giù di lì )
G.M
@ Mannacio
Brevemente:
1. «Non capisco cosa intenda E.A. per modernità e credo che ne abbia una visione specificamente sua».
Niente affatto. La mia è quella comunemente intesa come tale. Un’idea costruitasi storicamente in dialettico contrasto con quella di antichità. Cfr. la voce ‘antico/moderno’ di J. Le Goff in Encicopledia Einaudi 1, 1977. E oggi rivista (revisionata) dai teorici della postmodernità in modi non del tutto condivisibili. Qui c’è un enorme dibattito, sintetizzato di recente su LE PAROLE E LE COSE qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=11196; http://www.leparoleelecose.it/?p=11214.
2. «Dopo l’elogio delle contraddizioni non sarò certo io a rimproverare a E.A alcune sue affermazioni. Dato che lo conosco un poco mi stupisce che si chieda retoricamente : quanto senso magari potenziale potremmo ancora attribuire al mito,alla religione e alla politica. Ma non sono il passato?».
La mia non era una domanda retorica. Io credo che il passato, la tradizione vadano interrogati fino in fondo, non cancellati. Il che non vuol dire accettati tali e quali, ma rielaborati alla luce del presente mutato. E questa rielaborazione l’hanno fatta e la fanno anche le punte migliori della tanto detestata avanguardia o neoavanguardia. (Tu, invece, mi confondi con un certo neoavanguardismo estremo…).
rispondo a emilia.ho detto che non voglio fare il critico di me stesso perchè nessuno credo sia capace di anotomizzarsi per guardare al suo interno.ho detto solo che penso di non essere nè nichilista ,nè solipsistta,ma che -proprio perchè penso che la visione di se stessi non può che essere solo bidimensionale- penso che ci possa esser stato da parte mia un difetto di comunicazione.o forse non un difetto,ma solo la constatazione che ,per quanto si faccia uso di un linguaggio condiviso,ogni messaggio presenta sempre qualche aspetto di ambiguità,o forse meglio di polivalenza,per cui anche il ricevente diventa parte attiva nel rapporto comuvnicativo.quello che contesto alla critica di ennio era il concetto della modernità del lingaggio:il linguaggio per me è un elemento fondante della comunità e perciò non può esser gestito individualisticamente.questo non vuol dire che nell’atto di comunicazione l’emittente non debba intervenire attivamente nella scelta del messaggio:,ma questo non comporta che egli debba renderlo incomprensibile:la comprensione è assicurata proprio dalla condivisione della lingua,che persaltro è anch’essa modificabile,ma sempre a patto che non elimini la comprensibilità.ed è logico che il linguaggio di oggi (modo=adesso) in qualche modo è uno sviluppo di quello che ci è stato tramandato.basti pensare alla diffusione della parola stratta.ma la parola astratta deve essere appunto uno sviluppo e non una sostituzione arbitraria del linguaggio tramandato.questo per quanto riguarda il lessico.anche la struttura può avere degli sviluppi e uò esser oggetto di scelte,a patto però che ciò avvenga nell’ambito della comprensibilità.lo stesso vale per le scelte retoriche.il discorso però diventa lungo e noioso.magari qualche voltà ci riuscirà di fare un incontro e strattare l’argomento più diffusamente.comunque penso che confrontarsi e discutere sia sempre utile.un amichevole saluto a tutti
A Grandinetti:
spero davvero di rivederti e di ancora leggerti.
se qualche volta hai tempo potresti venire a trovarmi io abito in via giuseppe meda 14 e il mio telefono è 02 8394502
A Ennio.
Mio dio, come si travisano le mie parole. Stavamo parlando in generale di nichilismo ed io – a torto o a ragione, non interessa- ho attaccato l’avanguardia in un ambito che riguardava la comunicabilità. Punto e basta. In quale punto del mio discorso ti confondo con un ….avanguadista estremo? Dimmelo e farò ammenda. Mi sono limitato a constatare – cosa ben diversa – che tu, con altrettante ragioni o torti,non interessa – spezzavi una lancia a favore di un certo tipo di avanguardia. Quale confusione c’è in me?
Per quanto riguarda il moderno e il postmoderno.
Leggo e cerco di capire il nostro tempo anche attraverso le parole dei più saggi e più colti di me. Ma debbo vivere l’attualità in tutte quelle sfumature o ferite che essa mi propone e non mi interessa sistemarle in qualche casella. E’ l’essere nel tempo più forte di ogni categorizzazione. E’ mia opinione che la storia ci si presenti sotto due aspetti , come sequenza di fatto immediati e come descrizione/analisi di tali fatti . Nel primo aspetto non esiste un moderno o un postmoderno ; sotto l’altro aspetto vediamo una elaborazione di categorie,fondazioni ideologiche etc che ci aiutano a capire il passato nelle sue cause e nei suoi effetti e forse a vivere il presente in modo ragionevole ed accettabile. Forse è stato sempre così ma noi gurdiamo il passato con gli occhi del presente e ne travisiamo i reali modi. Quando ho detto che hai una visione del tutto particolare ti ho offerto ” il mio particolare ” e dunque nessuna offesa.
Semmai un invito a un minimo di chiarimento, come minimo è il mio.
Infine ” sulla comunicabilità “.
Pensiamo o no che la poesia debba essere compresa da chi condivide la nostra condizione ? Se si parte da questa premessa – che è quella del naufrago che nella bottiglia lancia un messaggio che non può incomprensibile – dobbiamo individuare gli strumenti perchè essa “riesca “e – entro certi limiti – questi sono offerti dalla
” tradizione ” non dalla distruzione di essa. Di quello che è l’esito non si può dire se non ad effetto raggiunto che non si presta ad alcuna ideologia. Chiamiamola esperienza poetica,moralità dello scrivere …..Un cordiale saluto. G.M
…La poesia di oggi, secondo me, oltre che essere influenzata dal passato (Storia, miti, religioni…) e dal presente e da quel clima di naufragio che ci investe tutti, lo è anche, in un certo qual senso, dal futuro e dalla risposta( o tentativo di risposta) alla domanda : come ci evolveremo? L’uomo contemporaneo è in bilico tra passato e futuro…Di ogni epoca si potrebbe forse dire cosi’, ma oggi vale maggiormente per quel senso diffuso di fallimento che puo’ generare non senso…Oltre al significato della poesia, che manifesta spesso il disagio e la disperazione dei nostri tempi, anche il linguaggio si puo’ muovere e diventare prosa-poesia, destrutturazione della parola stessa…Sperimentazioni comunque che ci pongono tanti interrogativi, in particolare: dove va la specie umana?
Cari amici e care amiche,
siccome vi stimo, e credo che un confronto schietto fra noi possa avvenire ovunque, anche in Rete (pur con alcuni equivoci o travisamenti fastidiosi, ma non insuperabili), a questo punto della discussione, vi pongo due domande:
– sono io l’unico che vede nella poesia di Grandinetti solipsismo e nichilismo?
– se mi sbagliassi, se nei suoi versi non ci fosse nichilismo e solipsismo, che cosa c’è al loro posto secondo voi?
Ho passato alcuni giorni a leggere e rileggere la raccolta «Viaggi». Ho scritto su di essa un mini-saggio (il post qui pubblicato) usando gli strumenti critici (intellettuali ed emotivi) di cui dispongo. Ma devo prendere atto che la mia interpretazione (questa poesia ha come base una visione nichilista e solipsista) non è accettata dall’autore (Grandinetti: «non considero nichiliste le mie posizioni»).
Inoltre c’è disaccordo tra noi anche su due altre questioni in apparenza laterali: – esiste o no contraddizione tra nichilismo e modernità; – gli sperimentatori o le avanguardie, staccandosi dal o rifiutando il linguaggio della tradizione, hanno svolto un ruolo soltanto distruttivo o no.
Che si fa a questo punto?
Ci si inchina di fronte alla poesia, che di per sé metterebbe tutto a tacere e specialmente ogni spirito critico o eccessivamente sottile o “chirurgico” o “anatomizzante e poco “divertente”?
Si mettono diplomaticamente da parte i contrasti e si “passa ad altro”?
Io so che i disaccordi si ripresenteranno. (Anzi, sul ruolo degli sperimentatori e delle avanguardie, ricordo che già in passato, ai tempi del Laboratorio Moltinpoesia, quando si parlò del poema di Majorino «Viaggio nella presenza del tempo», si presentarono quasi negli stessi termini di oggi). E so che sono importanti e non andrebbero mai aggirati. Perciò , senza pretese di avere io in tasca la verità, vorrei almeno sentire risposte più convincenti alle mie due domande appena poste, dispostissimo a rivedere sia la mia interpretazione di «Viaggi» sia le mie tesi su modernità e avanguardie. Non mi pare che quelle finora date lo siano. E preciso le ragioni di questa mia insoddisfazione:
1. Rispondermi come ha fatto Eugenio [Grandinetti]: «non considero nichiliste le mie posizioni», è legittimo; ma mi aspetterei che dicesse perché; e, possibilmente, definisse con altri concetti la sua visione delle cose e della sua poesia.
2. Anche aggiungere da parte sua: «salvo che al termine nichilismo non si voglia dare il significato di visione pessimistica della vita» mi lascia perplesso. Pessimismo? Ma il pessimismo da dove nasce? Ed è troppo lontano dal nichilismo?
3. A me pare, come ho già scritto, che versi come questi: «Gli uomini sono, ognuno, soli/ […] Gli uomini rimangono, ognuno, soli» (21); «Si è liberi soltanto/soli, in un universo inesistente, /un mondo senza cielo e senza niente/ un infinito totalmente vuoto» (43,44) neghino ogni possibile prospettiva di (possibile) cooperazione o di intesa tra singoli o gruppi. E che la sua tanto invocata necessità di un linguaggio comprensibile (in poesia o in altri campi della comunicazione) a fondamento della comunità non trovi nella sua poesia una solida base antropologica. Perché da questi versi non risulta che ci troviamo in una società (o comunità) atomizzata o con difetti di comunicazione, ambiguità e polivalenze del linguaggio derivanti da ragioni storiche, ma da ragioni ontologiche.
4. Anche il nichilismo mi pare evidente, come ho tentato di dire in questo passo che ripropongo in attesa di obiezioni:
” Il dissolversi, il disfarsi, l’evaporare delle cose e del vivente è per il poeta la sostanza stessa di esse. L’io pure viene contagiato da questo processo disgregativo generale e desidera «evaporare senza pena e perdersi/come nebbia nell’aria» (42). Questo fascino per lo svanire, e dunque per l’immobilità della morte, è violento: «O, se strappati al vortice potessimo/ non essere più» (34); «Essere solo spuma, evaporare/ e non farsi nuvola, dimenticare/ il mare, dimenticare l’onda e la vicenda/ infinita della vita, essere solitudine/ lontana da ogni forma di essere, universo/ senza mutamenti» (47). E viene indicato come atto ineludibile da compiere: «Eppure è solo questo quel che resta/ da fare: non cercare/ alibi che t’illudano, ma fuggire/ di nascosto come ospite sgradito» (53). Fino all’affermazione – da accostare a quella precedente sulla solitudine – che «libertà è solamente la morte […] o libertà è non essere sé, abbandonarsi/ alle forze nascoste, alla violenza/ come l’onde del mare» (48). La morte è la sostanza stessa delle cose. La vita vi è sottomessa, ne è quasi un derivato secondario: «noi siamo nient’altro/ che vite che si nutrono di morte […] Siamo/ generazioni saprofite,/ viviamo solo della marcescenza/ di altre vite» (49, 50).
5. Quanto a Giorgio [Mannacio], altro interlocutore centrale in questa discussione, fa bene a ricordare che «da molto tempo il nichilismo è un fantasma che si aggira per l’Europa», ma qui c’è una questione particolare e precisa, che aspetta possibilmente di essere chiarita dalla discussione: il nichilismo si aggira anche in questa raccolta di Grandinetti o no? Perché non pronunciarsi?
6. Quando Eugenio [Grandinetti] scrive: «il linguaggio per me è un elemento fondante della comunità e perciò non può esser gestito individualisticamente», a me pare che egli non tenga conto dei processi storici che hanno disfatto e stanno disfacendo le comunità (poleis, comuni, nazioni). Le comunità non ci sono più o sono in crisi profonda. E al loro posto ci sono le attuali società di massa. Nelle quali da una parte i linguaggi fanno pensare a una nuova incontrollabile Babele; e, dall’altra, la loro informatizzazione li ha in parte (se non totalmente) sottratti alle comunità che ancora sussistessero.
7. Credo poi che Eugenio sbagli a pensare (riferendosi alle avanguardie, penso) che il linguaggio possa essere gestito «individualisticamente». O detto in altri termini che le esperienze d’avanguardia o della neoavanguardia o della post-avanguardia siano operazioni “individualistiche”. Se un certo anarchismo individualistico era ancora presente nelle provocazioni delle avanguardie storiche, già con le neoavanguardie esso è diventato maschera, posa, facciata. Perché il linguaggio delle neoavanguardie è stato ed è quello di alcuni settori di società. Di settori di punta del ceto medio, che da noi negli anni Sessanta si sottraeva al discorso, apparentemente egemonico nell’immediato dopoguerra, del nazional-popolare e del neorealismo (“comprensibile” si diceva dal “popolo”).
8. Quando Eugenio (ma anche Giorgio [Mannacio], parla di linguaggio “incomprensibile” (sempre riferendosi alle avanguardie o, come nel suo primo esempio al Cesare Viviani influenzato dalla psicanalisi), non tiene conto che esso è incomprensibile, sì, ma per quanti sono esterni a quelle sperimentazioni linguistiche: e non per quanti le trovano – magari grazie anche alle attività professionali da “terziario avanzato” che svolgono – pienamente comprensibili e anzi ovvie e congeniali. (Ho fatto, in un precedente commento, l’esempio dell’informatico, il quale non trova affatto incomprensibile il linguaggio specialistico dell’informatica, del tutto ostico o incomprensibile invece a chi non ha studiato informatica ed è immerso soltanto o in buona parte nei linguaggi di massa; ma si potrebbero fare esempi per tutti i campi delle scienze, ecc.).
9. Eugenio ma anche Giorgio non mi pare che tengano presente l’aspetto politico (e non meramente linguistico) della “incomprensibilità” di certi linguaggi. Il rischio, a mio parere, è di non rendersi conto dell’attuale realtà iperframmentata e gerarchizzata dei linguaggi. E di aggrapparsi nostalgicamente ad un linguaggio, che sarebbe quello della tradizione da loro considerato comprensibile e comunitario. Secondo me, invece, i linguaggi “incomprensibili” non sono altro che quelli di certi settori del sapere e della società (prevalentemente di ceto medio) che, in seguito alle trasformazioni del capitalismo, si sono separati dal “resto”. E cioè dai saperi di massa e da quelle realtà sociali che in passato abbiamo chiamato nazioni, popolo, classe, proletariato e che risultano sempre più essere state “comunità immaginarie” (Hobsbwam, Benedict Anderson).
10. Sono i settori di questo ceto medio (oggi categorizzati da alcuni come”lavoratori della conoscenza” o in altri modi) a produrre, per conto di multinazionali e industrie culturali a vario livello di sviluppo, e tramite l’editoria, i giornali, le TV, il Web (la società dello spettacolo) – questi nuovi linguaggi “incomprensibili”. Che però – ecco il punto politico della questione – determinano o condizionano da posizioni di forza anche il mutamento complessivo dei linguaggi (a livello sia globale che nazionale); e rendono sempre più obsoleto o “vecchio” o “sorpassato” gli altri linguaggi, quelli a base umanistica, quelli della “tradizione”, quelli che ancora vengono “riusati” nella scuola ma con sempre maggiori difficoltà.
11. Può dispiacere, può farci sentire periferici o fuori gioco, ma è solo con certi linguaggi “specialistici” o “d’avanguardia” o “incomprensibili” (ai più) che oggi si ha accesso a certe realtà “specialistiche” (o almeno ci si può fare un’idea dello scombussolamento dei linguaggi i ngenrale e anche di quelli poetici). Possiamo anche trascurarle, ma il danno di autoghettizzarci non è irrilevante.
12. Continuare a sognare, a Novecento finito, un’evoluzione pacifica del linguaggio, immaginare che i poeti (o gli scrittori o gli intellettuali o non so chi) come a dei campioni – mi viene da pensare ai ciclisti di una volta – che non si devono mai staccare dal gruppo o come un partito gramsciano, che non si deve mai staccare dallla classe o dal popolo, significa non accorgersi di quanto sia mutata la realtà linguistica (e non solo), di quale irreversibile, nuova, per certi versi indecifrabile, situazione (frammentata e gerarchizzata secondo le esigenze del Capitale) si è andata formando a livello mondiale e anche in Italia. Significa pure ritenere moralisticamente che certi processi siano solo prodotti da superbia o arroganza e non vengano invece da mutamenti materiali ben più complessi. Semmai i dominatori riescono a far leva anche sui desideri inconsci o semicoscienti: voglia di successo, di guadagno, di “potenza” dei singoli o dei gruppi organizzati.
13. Va capito che l’avanguardia o la neoavanguardia non hanno fatto nessuna « sostituzione arbitraria del linguaggio tramandato». Non è stato un capriccio. È stato un atto politico da loro compiuto valutando una serie di circostanze storiche ( quelle che si sono presentate a inizio o negli anni Sessanta del Novecento). In proposito la lettura politica delle avanguardie storiche e della neoavanguardia anni Sessanta e la polemica politica che contro di essa egli sostenne è per me l’unico punto valido per capire cosa si giocò in quegli anni, cosa ne è venuto dopo e perché la poesia sia “in crisi”. Proprio perché Fortini capì – non a caso lavorava alla Olivetti e aveva un quadro realistico della potenza dell’industria culturale in marcia anche in Italia – che la neoavanguardia (Sanguineti, Eco, etc. che polemizzarono contro lui, Zanzotto, Pasolini, Roversi, ecc. ) operava una rottura appoggiandosi sulla spinta vincente del neocapitalismo. Il quale mandava all’aria tutta la cultura nazional-popolare e neorealistica più “comprensibile”, con cui la Sinistra d’allora tentava di contrastare l’avanzata trionfale dei panzer dell’industria culturale. Che di lì a poco approfittarono anche del ‘ 68 e dell’”immaginazione al potere” per sfondare completamente ogni forma di resistenza.
14. Fortini riconosceva, però, che la neoavanguardia, pur scegliendo politicamente e in un modo inaccettabile per chi leggeva ancora in termini marxisti e non anarchici quei processi, la “modernizzazione” capitalistica, aveva posto un problema reale. Che non era possibile risolvere solo restando fedeli alla tradizione (e cioè, allora, all’idealismo crociano che dominava nel PCI e nel PSI); e puntò tutte le sue carte – dovendosi poi arrendere e riconoscere il fallimento – su una lettura marxiana-gramsciana-adorniana del mutamento capitalistico in corso. Non cancellava, dunque, il problema posto dalla neoavanguardia. Non lo riduceva ad una questione di linguaggio “comprensibile”. Uno dei suoi motti era “Non parlo a tutti”. E non per arroganza o aristocraticismo, ma per consapevolezza delle fratture profonde che stavano avvenendo e la necessità di raccogliere minoranze consapevoli capaci di reagire.
15. Quanto alla mia posizione, non dico che l’ideale della comprensibilità sia da scartare, ma non ritengo che esso sia raggiunto o raggiungibile, tenendosi attaccati – permettetemi questa battuta – alla gonnella di Mamma Tradizione e, dunque, al suo linguaggio, che voi supponete essere più “comprensibile”, trascurando da quale storia elitaria esso proviene. Questo linguaggio – bisogna dirselo – è oggi altrettanto distante da quello di massa quanto lo sono quelli delle avanguardie.
16. Ho cercato di spiegare che i linguaggio poetici sono comunque sempre a una certa distanza dai linguaggi “comuni”. Si tratta di gradi di distanza. Che valgono sia per i linguaggi della tradizione (sotto l’aspetto lessicale, metrico, etc.) sia per quelli dell’avanguardia (o della post- avanguardia). Perciò è illusorio credere di raggiungere più lettori tenendosi al linguaggio “comprensibile” dei “tradizionalisti”. I potenziali lettori sono oggi fuori dalla portata sia dei “tradizionalisti” che degli “avanguardisti”. Sono ostaggio dei linguaggi di massa. Non leggono poesia, ecc. Però smettiamo di dire che la colpa è soprattutto degli “avanguardisti”.
17. Dunque – e qui rispondo a Giorgio [Mannacio], chiarendo tra l’altro che non sono stato offeso da nessuna delle sue affermazioni – non è che io spezzi «una lancia a favore di un certo tipo di avanguardia». Io constato innanzittutto che l’avanguardia e la neoavanguardia ci sono state e hanno avuto una ragion d’essere. Il loro ruolo – ambiguo, contraddittorio, alla fine “filocapitalista” – non può essere semplicemente cancellato né demonizzato né sottovalutato. Come mi pare voi facciate. Non sono state, insomma, un semplice incidente di percorso, un delirio di cui si poteva facilmente fare a meno e da mettere definitivamente tra parentesi.
18. Quei problemi sollevati dalle avanguardie storiche – si pensi ai surrealisti e ai futuristi (e non solo al futurismo italiano per favore) – si ripresentano in altre forme. E non è spezzando una lancia a favore dei tradizionalisti o a favore di un “linguaggio comprensibile” che vi si darà una risposta efficace e non soltanto consolatoria o semplicemente autodifensiva.
P.s.
Non riesco a sviluppare il tema del contrasto tra nichilismo e modernità e il legame tra modernità e avanguardie. Ma se si rileggono con attenzione i miei precedenti commenti, qualcosa di preciso l’ho detto. Altro lo dirò, se ci sarà l’occasione e il tempo.
Penso che per quanto riguarda l’incomprensibilità del linguaggio non sia poi così difficile digerire in poesia, una realtà da decifrare, in fondo anche attraverso linguaggi comprensibili si nascondono concetti incomprensibili. Ma secondo me non è questo il problema . La grandezza della poesia sta nell’esporre con linguaggio scarno o addirittura inusuale , un concetto comprensibile ed altamente utile a chi legge. Certo il poeta può preferire qualsiasi tipo di linguaggio che non sia mai a discapito del senso dei versi, cosi amo leggere poesia e questo è il mio modo di interpretarla. Per quanto riguarda la poesia di Eugenio Grandinetti, egli non nega la realtà, ma la vive in una dimensione a lui più consona, cercando al di fuori del sua corporeità, la cerca chiedendo aiuto ad una natura che vede tanto grande e s’immerge in essa fino al desiderio di diventare tutt’uno con essa, denunciando la grande amarezza che prova quando pensa alla società in cui vive che ormai senza valori vive di un grande passato forse ormai lontano. Tutto ciò delicatamente descritto ma fortemente vissuto con grande amarezza. Lo stile si addice perfettamente al concetto e ci lascia una disillusione che leggera si dissolve e non diventa nuvola. Ribadisco :grandissimo!
Questo “Viaggi” di E. Grandinetti sembra non attenere soltanto al suo percorso poetico ma ha sollecitato nei commentatori un altro tipo di viaggio, ovvero sul senso da dare al poetare oggi, agli ‘ismi’ che lo accompagnano (nichilismo, solipsismo, modernismo, futurismo, ecc.).
Ennio Abate, Giorgio Mannacio e Eugenio Grandinetti stesso (oltre ad altri commentatori) si sono via via confrontati negli interventi che si sono succeduti nel tentativo di ‘eviscerare’ gli elementi su cui poter poggiare un pensiero critico.
E qui (sull’’eviscerare’), do un po’ ragione ad Emy non tanto per gli aspetti ‘chirurgici’ che lei sottolineava quanto – ad esclusione, ovvio, di Grandinetti – per quel fare una specie di indagine da anatomopatologo, come se si trattasse di avere a che fare con un ‘corpo morto’ di cui vanno analizzate le patologie che lo hanno portato al decesso o alla sua ‘inattualità’.
I punti che Ennio Abate ci porta con generosità all’attenzione sono davvero tanti. Non solo per il numero (18 punti, quelli recenti, più i 18 di commento iniziali, più le varie contro risposte) quanto per i temi che spaziano davvero in lungo e in largo e ci testimoniano non solo del fatto che sta parlando a ragion veduta ma che mettono, nello stesso tempo, il lettore nella necessità di farsi dei piccoli schemi per poter intervenire adeguatamente.
Onde evitare che si inveri la lamentazione di Ennio che * Si mettono diplomaticamente da parte i contrasti e si “passa ad altro” [?] Io so che i disaccordi si ripresenteranno. (Anzi, sul ruolo degli sperimentatori e delle avanguardie, ricordo che già in passato, ai tempi del Laboratorio Moltinpoesia, quando si parlò del poema di Majorino «Viaggio nella presenza del tempo», si presentarono quasi negli stessi termini di oggi)*, forse sarebbe il caso di istituire una sezione ‘Cantieri’ in cui si possano articolare meglio le proprie idee in merito, senza i limiti di spazio che, se presi nel contesto del post ‘poetico’, tolgono respiro al poetare stesso.
Ci potrebbero essere due sezioni: una legata ai testi e l’altra legata alle teorie.
Quanto al mio intervento, per quanto riguarda i testi di E. Grandinetti, sbrigativamente e succintamente (e di questo chiedo scusa), farò questo ‘botta-risposta’ fra le osservazioni di Ennio e le mie:
da Ennio
* E pertanto il silenzio – ora della natura, ora degli stessi esseri umani (comunque sempre indefiniti) – è sfondo costante di questi viaggi mentali: «il silenzio del mare che prepara/ altre maree» (16); «Il silenzio/ resta la sola cosa che ci unisce» (41); «Solo il silenzio fu tra noi che disse/ parole fisse come un muro, e dure,/ e invalicabili»(57).
Da Rita
Il luogo comune ritiene che sia il linguaggio ad unire. Ciò è vero solo in parte. Perché il linguaggio, in quanto fa parte di una costruzione più evoluta, attiene al noto (e anche a ciò che noi desideriamo sentire), mentre il silenzio è gravido di infinite possibilità di discorso. Il poetare si colloca, per lo più, lì.
Da Ennio.
* L’attrazione che esercita è tale che sembra possa dare una inaspettata (e astratta) libertà: «Si è liberi soltanto/soli, in un universo inesistente, /un mondo senza cielo e senza niente/ un infinito totalmente vuoto» (43,44). Il valore che il poeta le attribuisce è così alto che per lui un’isola – simbolo eccelso della solitudine – «è sola con sé / è solo sola contro/ il sole che la screpola, l’acqua che la dilava,/ il vento che sgretola, il mare che l’erode».
Da Rita
Sembra spaventare molto questa ricerca spasmodica di E. Grandinetti la cui sfida va a sciogliere tutti i legami relazionali, ragion per cui anche l’isola, in fondo, ha dei legami con ciò che la attornia. Ci spaventa sempre quando un ‘individuo’ si manifesta nella sua ‘individualità’. Lo sentiamo come un ‘anarchico’ che attenta alle nostre certezze.
Da Ennio
* In altri passi, però, la solitudine svela il suo lato oscuro. Essa è sorella dell’impotenza: «Ci spaventa/ questa nostra impotenza. Non sappiamo/ se chiuderci in noi stessi ed aspettare/ chissà che cosa, oppure esporci all’ombra/ e ai pericoli occulti ed affrontare/ un nemico invisibile, da soli,/ solo gridando forte il nostro sdegno/ fino a morirne» (59). Comunque è insuperabile. O pare la si possa sfuggire solo regredendo nell’inconsapevolezza o a una condizione vegetale o a cosa: «meglio della solitudine c’è ancora/ essere senza consapevolezza,/ come un albero o anche come un sasso, / che non sente e non sa la sua tristezza» (63). Di fronte a questi versi non si può non parlare di solipsismo (togliendo al termine ogni connotazione morale negativa). Perché in «Viaggi» parla davvero un io chiuso in sé.
Da Rita
Qui non c’è nulla di solipsistico, anzi. E’ la cifra dell’essere vivente che lo si voglia o no, che lo si riconosca o no. Che non ci piaccia questa dimensione, è un altro paio di maniche. Qui, nel poeta, non c’è nessun crogiolamento solipsistico, anzi. La richiesta di aiuto c’è: è la risposta che manca producendo il ripiegamento nel gridare forte *il nostro sdegno/fino a morirne*
Da Ennio
* Questo fascino per lo svanire, e dunque per l’immobilità della morte, è violento: «O, se strappati al vortice potessimo/ non essere più» (34); «Essere solo spuma, evaporare/ e non farsi nuvola, dimenticare/ il mare, dimenticare l’onda e la vicenda/ infinita della vita, essere solitudine/ lontana da ogni forma di essere, universo/ senza mutamenti» (47). E viene indicato come atto ineludibile da compiere: «Eppure è solo questo quel che resta/ da fare: non cercare/ alibi che t’illudano, ma fuggire/ di nascosto come ospite sgradito»
Da Rita
Nella mia lettura, non ci vedo nessun fascino per lo svanire, nessuna indulgenza verso l’inedia solo una dolente constatazione dei nostri limiti. E anche l’invito a non cercare alibi.
Quanto agli aspetti tematici, farei innanzitutto una considerazione.
Tutti gli ‘ismi’, in quanto portatori di ideologie, non sono sganciati dal sistema socio-politico temporale in cui si collocano, ragion per cui bisogna anche considerare l’utilizzo ideologico che di essi viene fatto, contesto per contesto. Questo vale sia per il nichilismo, per il comunismo (Oggi Papa Francesco dice: “i comunisti ci hanno rubato la bandiera dei poveri”. Ha proprio capito tutto di Marx! Non aggiungo altro!), per il modernismo, ecc. ecc.
In secondo luogo partirei dalle ultime domande che Ennio pone e che, secondo me, sono illuminanti proprio rispetto a ciò su cui lui si interroga.
* – sono io l’unico che vede nella poesia di Grandinetti solipsismo e nichilismo?
– se mi sbagliassi, se nei suoi versi non ci fosse nichilismo e solipsismo, che cosa c’è al loro posto secondo voi?*
Infatti, se Ennio fosse l’unico, sperimenterebbe una situazione ambigua:
a) “io la penso così e voi non contate niente” (solipsismo)
b) una sensazione non piacevole, di isolamento e, a fronte di ciò, potrebbe lamentarsi e chiudersi in se stesso oppure potrebbe adeguarsi alla visione dei più (nichilismo oppure annullamento della propria individualità).
La ‘comunità’ – e lo vediamo anche in questo contesto di Poliscritture – è difficile a farsi perchè non è mai esente dalle dinamiche di gruppo che richiedono ‘doni sacrificali’ da parte dell’individuo che vi accede. C’è chi ci sta e chi non ci sta.
Per ultima cosa, ce ne sarebbero un migliaio di altre ma bisogna restringere il brodo,
riporto questa domanda di Ennio:
* O come fa il poeta nichilista, che non vede un senso nella vita, a mettercelo in un testo?
Rita:
E’ proprio perché la vita non ha senso (in sé) che siamo noi a darglielo. La differenza sta proprio in quel ‘noi’ che gliela dà. Solitamente sono stati i dominatori….
R.S.
@ Rita Simonitto (29 giugno 2014 alle 17:17 )
1. Proposta di separare la pubblicazione delle poesie dai commenti. Per non togliere respiro al testo poetico o distogliere l’attenzione da esso con un eccesso di commenti, che potrebbero distrarre dal suo “ascolto”?
Si può fare. Ma il caso di commenti troppo numerosi e non di routine è raro. Ho pubblicato testi poetici che non ne hanno ricevuto quasi. A volte, come nel caso di “Viaggi”, la moltiplicazione dei commenti si ha perché c’è dissenso con l’interpretazione dell’autore del post o con alcuni commentatori; e si avvia il botta e risposta, che può essere fecondo o fastidioso. Sarebbe un po’ artificioso, secondo me, traslocare in altro post o rubrica e trattare in modi più generali o “impersonali” un tema, senza più guardare al testo-pretesto, da cui comunque è scaturita la discussione. Ma si può fare. E in effetti, in passato, è stato fatto. Ad es., anche l’ultimo commento- intervento di Mannacio intitolato «Grandinetti e altro» poteva essere un post autonomo. E ho avuto la tentazione di “trasferirlo”. Ma ne vale davvero la pena? Comunque esso era in continuità e collegato ai precedenti commenti. Poi bisognerebbe segnalare la cosa con un link. Perché se a distanza di tempo un lettore attento volesse seguire l’intera discussione, dovrebbe averla tutta sottomano.
2. Silenzio-linguaggio. D’accordo. Non sempre il linguaggio “unisce”, anzi può dividere. Ma se «il silenzio è gravido di infinite possibilità di discorso» e il poetare (o la poesia o, meglio, una certa poesia) è in questa zona di silenzio che bazzica, bisogna pur vedere che discorso da lì arriva, quando il silenzio in poesia si fa ( e non può non farsi) parola. Se «il luogo comune ritiene che sia il linguaggio ad unire» ( e cioè a rendere possibile – non certa – la comunicazione di un “qualcosa”) e ciò non sempre succede, questo fallimento può esserci anche quando ci si affida al silenzio o si ha una “comunicazione tramite silenzio”. Nei due versi di Grandinetti da te ripresi («Il silenzio/ resta la sola cosa che ci unisce» (41); «Solo il silenzio fu tra noi che disse/ parole fisse come un muro, e dure,/ e invalicabili»(57)) mi pare che ci siano entrambe le possibilità: il silenzio che «ci unisce» più della parola; il silenzio che separa come un «muro».
3. Rottura di «tutti i legami relazionali». È in poesia ( ma non soltanto in poesia) una possibilità. È proprio, direi, tolta la patina di moralismo o di condanna che accompagna il termine, quello che chiamiamo solipsismo. O, se il termine infastidisse, il desiderio di una solitudine assoluta e pacificante. Personalmente non è che ciò mi “spaventa”. Noto però che un tale desiderio o una tale condizione umana di esseri che anarchicamente si slegano dagli altri o sono così da sempre e “per natura”, quindi ontologicamente, contrasta con la “responsabilità comunicativa” attribuita alla poesia. O, se vogliamo, con l’esigenza, sostenuta in questa discussione da Grandinetti e Mannacio in contrapposizione con le avanguardie, di una poesia “comprensibile”. Che è tale solo se si presuppongono dei «legami relazionali» o si pensa che essi non siano impossibili “per natura”. Nella poesia di Grandinetti sono compresenti (contraddittoriamente) entrambe le esigenze (desiderio di una solitudine assoluta e voglia di essere “comprensibili” per tutti o almeno per una “comunità”. Ma bisogna pur tentare di dire quale delle due prevale.
4. Tale contrasto o oscillazione tra le due spinte mi pare che tu, Rita, tenda a negarlo quando scrivi: « Qui non c’è nulla di solipsistico, anzi. E’ la cifra dell’essere vivente che lo si voglia o no, che lo si riconosca o no. Che non ci piaccia questa dimensione, è un altro paio di maniche. Qui, nel poeta, non c’è nessun crogiolamento solipsistico, anzi. La richiesta di aiuto c’è: è la risposta che manca producendo il ripiegamento nel gridare forte *il nostro sdegno/fino a morirne*».
E lo fai a favore della solitudine, che giudichi «la cifra del vivente che lo si voglia o no, che lo si riconosca o no». Posizione che fa riferimento ad una visione filosofica fondamentalmente esistenzialista. (Sullo sfondo certi maestri: Kirkegaard, Nietzsche, Heidegger, il primo Sartre). Ed è coerente, da quest’ottica, negare che ci sia alcun «crogiolamento solipsistico» (espressione comunque che io non ho usato, intenzionato come sono a togliere ogni connotazione moralistica al termine ‘solipsismo’, che per me – semplificando -significa “primato” dell’ io rispetto al noi).
Questa visione filosofica comporta, però, una sfiducia o una messa sullo sfondo o un abbandono della visione storica e “aristotelico-illuminisico- marxiana” che mette l’”essere sociale” (vedi anche Lukàcs) prima dell’individuo, del solitario, del Robinson Crusoe ( e anzi polemizza con le “robinsonate”).
Non sono questioni facili da districare. E non è detto che le due posizioni non abbiano intersezioni o zone di raccordo. ( Io ad es. ho sostenuto l’ipotsi di un io/noi varie volte. L’ultimo Sartre s’era aperto al marxismo, ecc.). Ma è bene, se non ci si vuole mantenere alla superficie, sapere quante implicazioni filosofiche ci siano in questi versi di Grandinetti. E non è detto che l’ignorarle o saltarle permette di apprezzare di più la sua poesia.
5. Sul “fascino” o meno dello svanire, ecc. Giusto constatare i «nostri limiti» e non cercare alibi. Ma io non voglio esaltare l’illimitato o negare certe evidenze. Detto ancora in breve: vorrei che in un periodo di sconfitta e di crisi prolungata come questo le potenzialità che una volta erano state intraviste nella storia e nella politica non siano dimenticate o cancellate.
Non conoscevo le poesie d’Eugenio Grandinetti, per cui, leggendole attraverso la “copertura” del mini-saggio d’Ennio Abate, mi sono lasciato portare dal suo commento molto puntuale e articolato, trovando riscontro di quanto Abate sostiene (essenzialmente lo “sfondo nichilista-emozionale”, il sentimento d’assoluta solitudine esistenziale e la chiusura solipsistica dell’io) nei brani testuali da lui riportati. Ma, dato che questi testi erano a me sconosciuti, mi sono successivamente chiesto quanto il mio giudizio fosse condizionato, o quanto meno mediato, dalla lettura critica d’Abate. M’hanno aiutato a rispondermi gli interventi di Grandinetti del 25 e del 27 giugno, a cui mi riferirò in queste rapsodiche considerazioni. Ora, il commento d’un autore alla propria opera non ha valore definitivo o inappellabile, altrimenti tutta la critica letteraria si ridurrebbe a una mera elencazione di dichiarazioni degli autori e non esisterebbe il cosiddetto conflitto delle interpretazioni. Ma è pur vero, per contro, che la dichiarazione dell’autore sulla propria opera è comunque autorevole, anche perché delinea, come in questo caso, una poetica. E partirei accogliendo la precisazione di Grandinetti (27 giugno): “non considero nichiliste le mie posizioni, salvo che al termine nichilismo non si voglia dare il significato di visione pessimistica della vita”. Questione di sfumatura ri-tradurre nichilismo con pessimismo? A mio avviso non direi, perché mi pare che la poesia di Grandinetti si situi proprio sotto l’egida d’un pessimismo poetico di tipo classico (intendo cioè quella modernità otto-novecentesca che si può definire ormai classica), modellato dalle esperienze esistenziali dell’autore (trovo una certa corrispondenza lineare tra poesia e vita in questi testi), che va, per dire in modo complessivo, da Leopardi a Montale (due autori cui hanno fatto giustamente riferimento molti commenti), mentre non trovo, sempre per restare nel classico moderno, alcun “versante” Pascoli, né, tantomeno, Palazzeschi (e non a caso, se si considera il “taglio” sperimentale delle loro poesie).
Nel commento del 25 giugno, Grandinetti precisa che la sua intenzione poetico-esistenziale “era quella di lamentare e non di compiacermi di una situazione di incomunicabilità e quindi di solitudine in cui si trova l’uomo che vive in una società basata su rapporti di tipo individualistico”. Ossia, per fare un po’ d’etimologia, egli manifesta dolore per la situazione d’incomunicabilità che affligge l’uomo moderno, e, conseguentemente alla sua poetica, esprime questo dolore “lamentando” l’incomunicabilità assunta come dimensione umana oggettiva e universale. Anche questo aspetto, a mio avviso, è coerente con la poesia di Grandinetti, che è, s’è detto, poesia d’impostazione tradizionale, non solo per l’impianto metrico-ritmico endecasillabico, ma per gli specifici contenuti poetici da essa espressi (il pessimismo esistenziale, anche a respiro europeo: mi pare di percepire nei testi di Grandinetti richiami alla eliotiana Waste Land: in particolare le eliotiane “Aprile” e “Fleba il Fenicio”).
Tutto questo mi porta al secondo punto inanellato a questa identikit poetica (e dell’io poetante): il rifiuto delle avanguardie nettamente dichiarato da Grandinetti. Ora, rifiutare moduli formali e poetiche avanguardistiche è tradizione consolidata e dominante in Italia a partire dall’antologia “La parola innamorata” del 1978, ossia dopo il “tramonto” della neo-avanguardia italiana, e in parallelo con la sconfitta dei movimenti sociali dell’epoca. La poesia contemporanea italiana (fatte salve alcune eccezioni espresse da poetiche e autori marginali) ha cancellato dal suo dna ogni traccia di sperimentalismo, soprattutto di “spirito” avanguardista, il che spiega, sempre a mio avviso, la diffusione di poesie liriche cupamente pessimiste e fortemente intrise d’angoscia esistenziale, in cui la solitudine dell’io poetante e, azarderei, il suo senso di sconfitta, gioca un ruolo fondamentale nella visione del mondo e della vita. Manca, insomma, nello standard della poesia italiana, l’esperienza di gruppo che era proprio delle poetiche d’avanguadia, il cui fare fuori dal canone possedeva un respiro corale, collettivo. Questo lo dico in senso generale, ma mi sembra che anche la poesia di Grandinetti ricada per certi versi in questa istantanea della condizione dell’arte e della letteratura contemporanea – soprattutto quando si schiera a favore della “scelta” d’un linguaggio condiviso e rivendica la comunicabilità del linguaggio poetico -, in cui la linea più estrema e, etimologicamente, reazionaria, è data dagli scrittori dell’ombelico (categoria, naturalmente, da cui la poesia di Grandinetti è fortunatamente distante).
Sperimentalismo, e qui concludo, che, in origine, è proprio della “Commedia” dantesca e dell’uso “rivoluzionario” del volgare.
Quasi 17000 parole (mezzo libro a stampa) per commentare meno di 600 parole di poesia (150 versi, se non erro).
Conosco Eugenio Grandinetti da anni: la sua poesia mira a un cifra classica, che qui gli viene rimproverata con argomenti quasi sempre grotteschi. In altri testi, le stesse forme veicolavano contenuti utopici (comunisti: per chi non capisce), che peraltro intravvedo anche nei versi qui messi sotto processo.
Leopardi e Montale, e magari anche Sbarbaro, Sereni e Caproni, sarebbero dei nichilisti secondo l’interpretazione proposta da Ennio.
A cui non perdono la premessa del suo discorso: ho fatto un’obiezione a Grandinetti, lui non l’ha accettata, e quindi voglio che si apra il dibattito.
Mi spiace: non è con questi stantii ideologismi che si discute di poesia. Né, tanto meno, con il risentimento.
Ci vedo tanto stalinismo, lo confesso, con l’aggravante dei futili motivi (almeno ci fosse una rivoluzione in corso…).
E qui chiudo.
Rassegnando contestualmente le mie dimissioni dalla redazione di “Poliscritture”.
mi spiace che ci sia persi di vista con paolo giovannetti di cui ho sempre ammirato le capacità critiche tanto da chiedergli la presentazione del primo volume da me pubblicato. ed è proprio per questo che non riesco a capire il suo risentimento verso ennio, tale da indurlo a dimettersi dalla redazione di poliscritture.con ennio ho sempre avuto un contrasto per quanto riguarda il linguaggio della poesia,ma questo non mi ha mai fatto mettere in dubbio la sua onestà culturale. mi spiace perciò di esser stato in qualche modo causa involontaria del suo contrasto con ennio,contrasto che spero possa essere appianato al più presto..un caro saluto anche a paola
Grandinetti ed altro.
1.
Penso che non sia possibile proseguire il discorso sulla poesia di Grandinetti se non parlando di noi stessi, esponendo così non verità assolute ma verità nostre, linee guida del nostro pensare e operare poeticamente.
2.
Parto da una premessa che è una distinzione tra nichilismo e pessimismo. Ritengo che il nichilismo non sia la negazione del senso della vita, ma negazione della vita stessa. Raggiunta la convinzione che la vita è nulla, il nichilista uccide e si uccide nella certezza di rimettere “ le cose “ al posto giusto e cioè nel nulla. Per il nichilista così inteso non c’è spazio se non per la preparazione e l’attuazione del piano di annullamento. Non c’è spazio, in particolare, per svolgere una esperienza che implica un fare,un dire, un comunicare.
Concludo affermando che, a mio giudizio, parlare di poeta nichilista è contraddittorio e privo di reale significato.
3.
Il pessimista non nega senso alla vita ma ad essa attribuisce connotati di dolore e sconforto.
Approssimativamente sono caratteristiche della poesia pessimistica la convinzione: a) che non esiste un dio creatore dotato di razionalità; b) che la Natura ci crea e ci distrugge in un moto continua di generazione, distruzione, riappropriazione negli elementi primordiali; c) che non esiste un luogo dove riprenderemo la nostra identità corporea (resurrezione della carne) o rivestiremo una essenza incorporea (immortalità dell’anima) o tutte e due; d) che la Natura oltre che l’evento Morte ci riserva malattie, carestie, guerre, cataclismi rovinosi ed è dunque in definitiva una nostra nemica….Nonostante ciò il pessimista accetta la vita e la vive, cercando anzi di viverla nel modo migliore sia materialmente che spiritualmente. Agisce sostituendo alla caverna la casa; ai campi incolti terreni fruttiferi; si innamora, alleva e protegge figli e nipoti; inventa le arti e i mestieri e nella comunione con la morte rivendica, contro tutto e tutti, una dignità che chiamiamo umana. Pensa che il suo destino sia vivere con decenza nonostante tutto e si adopera in questo senso. Quello che si suole indicare con l’espressione “dare senso alla vita“.
Il poeta assume questi contenuti dolorosi e sconfortanti a messaggio della propria poesia ma opera, produce qualcosa (mi si passi il termine).
Ciò non significa affatto che “la poesia salverà il mondo“ o che la funzione della poesia sia “la consolazione“. La poesia è un modo di vivere (W.Stevens: La teoria della poesia è la teoria della vita).
Su queste basi imbastirei la definizione di poeta pessimista naturalmente attribuibile a E.G.
Ma andiamo avanti perché il discorso su di lui si è aperto ad altre suggestivi passaggi.
4.
Ha poco senso chiedere a E.G di “giustificare“ l’assunzione di questi tratti dolorosi né – mi pare – voglia farlo E.A. il quale – per come lo leggo e per quel che conosco di lui – è piuttosto
incline a vedere in tale atteggiamento un “pericolo” per la distruzione di una “comunità” di intenti idonea a coinvolgere socialmente anche la poesia. Ciò risponde ad una costante della sua visione del mondo e delle sue speranze. Nulla da dire a tale proposito. Nulla però deve stupirci nella “scelta“ di E.G. se è vero – e E.A. non sembra metterlo in discussione – il
“fantasma del nichilismo e la reale presenza del pessimismo“ si aggira da tempo per
l’Europa (assunta qui come metafora del Mondo intero) e nulla fa sperare in tempi migliori.
E.G. dunque “testimonia “ uno stato di cose realmente esistente e “comunica“ con la sua poesia una serie di notizie altamente pessimistiche.
Il pericolo paventato da E.A. (vd sopra) è apparente o reale? Non sono un mago e non credo molto alle profezie. Posso solo rilevare che l’atteggiamento c.d. pessimistico non ha mai impedito ai poeti di essere – nello stesso tempo e nonostante tutto – partecipi della vita di tutti, di esprimere idee positive cioè umanamente praticabili. Di essere, in una parola, cittadini e fratelli nostri.
Impraticabile ormai la poesia mitologica (ammesso e non concesso che il Mito sia stato mai vissuto come verità e non come metafora) l’unica poesia auteticamente ottimistica potrebbe essere la poesia religiosa che assume come verità gli articoli della propria fede.
Qui ci troviamo a fare i conti con la c.d. morte delle religioni, delle fedi politiche e sociali, con il sospetto della potenziale distruttività delle scienze e della tecnica, con la convinzione, da taluni conclamata, della c.d. morte della storia.
Ma ancora una volta l’obbiezione (che ripete in un certo senso l’angoscioso interrogativo che chiude Il Processo di F. Kafka: “La logica della legge è incrollabile ma non resiste ad un uomo che vuole vivere “) è questa: se da un lato l’adesione ad una religione non è garanzia di “buona poesia“ (e de hoc agitur!), dall’altro tutto sembra dipendere da noi e ci si offrono – modificati quanto si vuole ma eguali nella sostanza – gli stessi referenti che hanno ispirato i poeti civili, erotici, filosofici, etc. Abbiamo profetizzato mille volte gli Anni Mille.
5.
Come persona che si misura con la poesia non sono preoccupato tanto della mancanza di riferimenti o della modificazione dei loro modi di manifestarsi quanto piuttosto degli strumenti attraverso i quali tradurre l’esperienza poetica in un testo accettabile. Mi sembra che questo punto sia stato trascurato o, meglio, ne siano stati trascurati i necessari presupposti.
Si tratta – credo – di punti fondamentali.
Si è più o meno tutti d’accordo sull’idea che la poesia sia una forma di comunicazione. Lo attesta la storia dell’uomo e sembra inaccettabile che qualcuno dica o scriva qualcosa per non essere ascoltato. Anche la forma più disperata di comunicazione (il messaggio nella bottiglia) vuole far sapere qualcosa a qualcuno. La stessa ragionevolezza ci porta ad affermare che la cosa comunicata debba essere compresa dai possibili destinatari. Ma che cosa si comunica, a che condizioni il messaggio è intellegibile?
E.A. richiamando Fortini parla di notizie sullo stato dell’uomo. La formulazione è generica
(necessariamente generica) ma consente di assumere nel contenuto della comunicazione ogni situazione che costituisce il tessuto del nostro vivere.
Un po’ più complessa si presenta la questione sul “perché“ della comunicazione. Nel mondo sociale vi sono comunicazioni di vario tipo ma viene unanimemente riconosciuto – e non potrebbe essere altrimenti,salvo che non si voglia “disconoscere “ la poesia come fenomeno reale – che la poesia ha una specifica funzione ( vd riferimenti in Jakobson: Linguistica e poetica in Saggi di linguistica generale, U.E.F , Milano 2002 ). Ci si può avvicinare ad una soluzione considerando che la comunicazione poetica non è diretta alla fondazione di diritti e doveri né alla produzione e circolazione di beni e servizi; essa non esige risposte operative da parte dei destinatari. Molti economisti hanno osservato come le attività spirituali (e tra queste quella che si manifesta nella poesia) sono estranee al circuito della domanda e dell’offerta e ai problemi dell’accumulo del capitale. Prevengo l’obiezione: ciò non significa che l’economia non condizioni la distribuzione delle opere poetiche e la loro “resa economica“ ma solo che l’esperienza poetica prescinde dalla produzione e distribuzione della ricchezza.
Non sapremo mai o meglio non sappiamo ancora quale specifica ragione abbia determinato la trasformazione degli oggetti magici (tra i quali metto anche le formule scritte od orali connesse all’incantesimo) in oggetti esteticamente connotati (cioè belli). Certo – e non si può inumanamente predicarne l’inesistenza – “ad un certo momento“ si è cercato e trovato IL BELLO ed è questo che forma oggetto della ricerca artistica. La funzione della comunicazione poetica è – a mio giudizio – la trasmissione di notizie sullo stato dell’uomo che siano dotate di bellezza e come tali accolte, cioè gradite dai destinatari. Gradito non significa gradevole ma accettato come rispondente ad un bisogno che il destinatario avverte, bisogno che forse potrà essere spiegato in termini che implichino anche il funzionamento del nostro cervello. Certo è che non accettiamo se non ciò che ci sembra artisticamente bello.
Si apre a questo punto una prateria di ricerche certamente più vasta delle mie capacità ma che si può affrontare con alcuni primi e minimi passi.
Essi riguardano gli strumenti “pratici“ per ottenere il risultato voluto e che si ritrovano in parte nella storia della letteratura e della poesia. Ho detto in parte perché – a tale proposito – si afferma, sulla premessa di una impossibilità di creare il bello attuale con gli strumenti del passato che è necessario scrivere in modo “diverso“, coerente con i tempi attuali. L’affermazione è ragionevole ma essa deve essere verificata sperimentalmente nel senso duplice di stabilire se sia vero che il nuovo “assetto delle cose“ renda inidonei gli strumenti antichi rispetto all’effetto voluto. La mia domanda – riconosco provocatoria – è formulata così: perché gli strumenti tradizionali dovrebbero essere inidonei? non vuole affermare l’idoneità degli stessi e negare la sperimentazione. Essa tende ad evitare risposte trancianti che “taglino fuori“ esperienze millenarie, stratificazioni culturali significative ed esiti estetici assolutamente inattaccabili. In esse si sono accumulati strumenti raffinati (penso esemplificativamente alla rima) la cui valenza estetica è indiscutibile.
Anche il “suono“ rientra in questa tradizione come avverte Valery quando definisce la poesia come “cette hesitation prolongèe entre le son e le sens“.
Quanto alla novità degli argomenti non abbiamo forse testimonianze che – purtroppo – sono sempre quelli? Morte, malattie, carestie, guerre, schiavitù (c’è ancora e come )…. Nihil sub sole novi non deve esprimere rassegnazione ma consapevolezza.
6.
La mia “polemichetta“ sull’avanguardia non deve essere letta come una sorta di sfogo personale in quanto in essa convergono anche riflessioni teoriche. E’ stato osservato (Asor Rosa: Tempo e nuovo nell’avanguardia in Le frontiere del tempo a cura di R.Romano –Ed. Il Saggiatore – Milano 1981) che l’arte di avanguardia è essenzialmente mimetica. Ma – dico antropologicamente – una persona ha bisogno degli Zum Za Bum di Marinetti per sapere cosa è il rumore? Basta che si affacci alla finestra. L’arte è sì imitazione ma poiché non è possibile la riproduzione perfetta della natura l’imitazione si risolve nella “tensione“. Così – mi pare – vada letto Leopardi (Zibaldone: 3-4) cioè nel senso della ricerca e dell’individuazione del punto archimedico in cui si realizza l’impossibile sposalizio tra “la cosa“ e la parola (ancora Jakobson: cosa è più lontano dall’albero che la parola albero?).
7.
Il resto (si fa per dire) si affida: a) alla convinzione sulle proprie idee; b) alla capacità di produrre un testo che ne rappresenti l’attuazione (ciò esige: pazienza, capacità autocritiche, cultura,una sorta di abnegazione, sensibilità, etc.). Si tratta – dunque e a mio giudizio – di un percorso fortemente etico.
Se tutto questo è accettabile non si può concludere assegnando alla poesia una posizione di “resistenza“?
La fretta di concludere (sempre cattiva consigliera) è responsabile di alcune ingenuità, approssimazioni, omissioni etc. Di altri errori le mie ineliminabili lacune su alcuni argomenti.
E ringrazio coloro che avranno la pazienza di leggere.
Cordiali saluti. Giorgio Mannacio.
*Nota. Il testo era stato copiato più volte. Ho eliminato le copie e corretto vari errori di battitura [E.A.]
Offro una visione nichilista della poesia, dove si neghi l’esistenza di aspetti ritenuti significativamente validi, quali il pubblico e i destinatari; cioè qualsiasi riferimento alla poesia intesa come pubblico fenomeno espressivo e comunicativo . I lettori non si riuniscono per leggere insieme: esiste un autore e un lettore, di volta in volta uno soltanto. Scrivere e leggere sono attività individuali. Gli “oggetti magici” si muovono in questo ambito. Si fanno divini allorché si elevano nell’immaginario collettivo, quello che sceglie di epoca in epoca le proprie divinità. In questo immaginario esiste tuttora la poesia, ma è poesia svuotata di poesie, un guscio dorato, disabitato e vuoto: tanto simile alla luna. Eppure alla luna ci tengono tutti, perché il bello cos’è se non il bello che manca?
@ Paolo Giovannetti
Caro Paolo,
vedi che lo «stalinismo», «il risentimento», gli «stantii ideologismi» proprio non c’entrano.
Mi conosci da troppi anni e hai avuto numerose occasioni di confronto con me, qui a Milano, per sapere cosa penso, scrivo e come opero. Sapevi pure, quando hai accettato di entrare in Poliscritture, che i redattori hanno posizioni diverse e spesso contrastanti; e che, dunque, la voce di Ennio è una tra le altre.
Proveniamo all’ingrosso da una comune area politica (“ex nuova sinistra”, “ex fortiniani”). Forse le nostre posizioni culturali, politiche e professionali si sono un po’ differenziate negli anni: io più di te legato a una problematica di ascendenza marxiana, tu più coinvolto in quella postmoderna ; io “militante samizdat” senza partito e ai margini delle istituzioni, tu a coniugare militanza e carriera accademica. Questo potrebbe spiegare una certa tensione tra noi. Ma è tanto diversa da quella che c’è tra me e altri/e della redazione e ci fa litigare ma anche (un po’!) collaborare?
Non ho capito, perciò, la tua improvvisa impuntatura, le accuse ingiuste e squalificanti e poi i modi sbrigativi nel replicare alle mie obiezioni. Come a dire: “ Le cose sono evidenti, se non lo capisci, non perdo tempo a spiegarle”.
Su questo sito non c’è stato nessun “processo”. Né a Eugenio Grandinetti né alla poesia. E lo ha riconosciuto lo stesso Eugenio, il quale – diciamocelo – ha fatto il callo (anche con lui ci conosciamo da decenni) alle mie critiche.
Insomma, invece di controbattere gli «argomenti quasi sempre grotteschi» che io (o altri/e) avrei usato o dimostrare – e tu ne hai più di me le competenze – che «Leopardi e Montale, e magari anche Sbarbaro, Sereni e Caproni» non sono nichilisti, perché interrompere i rapporti? Anche perché non tutta la redazione è stata coinvolta in questa discussione e, in fondo, non siamo affatto una «compagnia malvagia e scempia».
Un caro saluto
Ennio
Mi spiace, non ritiro le dimissioni, anche se apprezzo molto il gesto di Ennio.
Ho vissuto la vostra discussione come un’aggressione, un processo a un poeta e alla sua poesia. Per me è stato un brutto spettacolo.
L’esplosione di parole realizzata in questa pagina di blog sfigura un’esperienza letteraria che, viceversa, richiede un ascolto paziente, e un minimo – se permettete – di delicatezza ermeneutica. Non delle contrapposizioni frontali.
Questa la mia opinione, discutibile e contestabile – va da sé.
Ma ci sono anche alcuni dati oggettivi:
a. In cima allo scroll in cui mi trovo non figurano le poesie di Eugenio, ma – esplicitamente – il bisogno di Ennio di veder discusse le proprie opinioni. Un dibattito sulla poesia che non parte dalla poesia ma dal suo commento.
b. L’accusa di “solipsismo” era tipica dei burocrati di Ždanov, ai tempi di Stalin. (E poi: almeno in astratto, ogni espressione lirica è colpevole di essere solipsista come un pugile è colpevole di essere violento. Cfr. la notissima definizione di Frye, che tutti conoscono).
c. Fortini non aveva le opinioni sull’avanguardia che Ennio gli attribuisce.
[d. Se me lo permettete, infine: un poeta come Grandinetti, persona garbata e modesta, e forse per questo penalizzata, ha un talento superiore a quello di parecchi altri che oggi scrivono per editori anche di una certa importanza.]
Ripeto: non pretendo di avere a ragione. Ma questo modo di discutere mi mette a disagio. Non ho il tempo né – come vedete… – la pazienza di seguirvi.
Vi auguro, nondimeno, buon lavoro.
@ Giovannetti
Senza entrare nel merito della questione dimissioni di Paolo dalla redazione, replico qui solo alle sue quattro osservazioni/obiezioni:
1. Le poesie di Eugenio non figurano «in cima allo scroll», non per «il bisogno di Ennio di veder discusse le proprie opinioni» , ma perché ho voluto dedicare una mia riflessione a “Viaggi” di Eugenio Grandinetti, come segno di stima e di attenzione alla sua poesia e alla sua persona.
Lo scritto rientra tra l’altro nella “tradizione”: abbiamo in «Poliscritture» una rubrica intitolata «Letture d’autore» con sottotitolo: «Incontri e confronto con gli autori che ci parlano».
Faccio notare una “stranezza” che richiederebbe una qualche spiegazione. Da anni e frequentemente sui blog “moltinpoesia”, ora incorporati in questo sito, ho pubblicato poesie di Eugenio Grandinetti. Hanno ottenuto un’attenzione direi di routine. Oggi soltanto e con questo mio post s’è scatenata «l’esplosione di parole», che tra l’altro io non giudico del tutto negativa e che forse spingerà qualcuno a fare più attenzione alla sua poesia.
2. Ho parlato di «solipsismo». Ma ho detto più volte – ora anche in una risposta a Rita Simonitto (29 giugno 2014 alle 17:17 ) che non attribuisco al termine alcuna «connotazione moralistica» o negativa; e che il termine «per me – semplificando -significa “primato” dell’ io rispetto al noi»; e che, quindi, esso in poesia vuol dire appunto lirica, proprio come dice Frye, etc. Allora, come può venire in mente che io usi il termine in modo inquisitorio o accusatorio tanto da tirare in ballo il fantasma di Ždanov, ai tempi di Stalin? Siccome lo usò quel burocrate (aggiungendogli il famigerato aggettivo «borghese»), non possiamo più usare questa parola?
3. «Fortini non aveva le opinioni sull’avanguardia che Ennio gli attribuisce»?
Beh, Paolo, ancora troppo apodittico e stringato. Ti ho già spiegato in altra sede che sul rapporto Fortini-avanguardie sei tu ad attribuirmi un’opinione che io non ho. Che non ho mai pensato di conciliare o che si possano conciliare Fortini e l’avanguardia o la neoavanguardia. Che, nella discussione qui in corso, ho solo insistito contro il ‘vade retro’, che mi pareva di cogliere negli interventi di Grandinetti e di Mannacio. Che ricordare che l’avanguardia c’è stata, che è sintomo di problemi che si ripresentano e che Fortini non la demonizzava ma la criticava politicamente mi pare cosa legittima e utile.
4. Del silenzio sulla poesia e sul talento di Grandinetti mi sono rammaricato io pure nel punto 18 della mia riflessione su «Viaggi».
P.s.
La mia è una delle tante riflessioni possibili su «Viaggi» e sulla poesia di Grandinetti. Non pretende di essere quella giusta o esauriente. Ho trascurato l’analisi della forma, dello stile, delle immagini, ecc.? Non ho dimostrato un «ascolto paziente» e una «delicatezza ermeneutica»? Ho parlato solo dei presupposti filosofici di questa poesia? Può darsi. Ma non sono e non voglio camuffarmi da critico letterario di professione. Voglio sentirmi libero di interrogare i testi poetici come so fare, seguendo certe mie domande, che agli altri possono piacere o non piacere ma che per me sono vitali. E non capisco perché ciò possa mettere qualcuno a disagio. Specie quando continuo a dichiarare che sono disponibilissimo ad imparare da altre letture della poesia di Grandinetti, che Paolo o altri mi mettessero a disposizione.
Una grandissima parte dell’uomo non può essere detta. La poesia cerca di dire quello che non si può dire. È una scommessa rischiosa, che nessun sistema dell’informazione potrebbe accettare: se lo facesse, verrebbe subito messo in liquidazione.
Alberto Asor Rosa
mi fa piacere che sia sorta una discussione ampia sulla poesia,anche se mi dispiace che la discussione qualche volta sia andata troppo avanti.ho apprezzato le critiche di ennio e naturalmente ho espresso le mie posizioni,ma non ho notato nessun senso di
ostilità negli appunti critici nè ho inteso mostrarmi in alcun modo risentito.ho sempre apprezzato le capacità critiche di paolo e di giorgio (di cui ammiro anche le poesie) e li ringrazio per quanto hanno scritto sui miei lavori.fa parte della mia utopia non solo che tutti siano uguali ma anche che tutti vadano d’accordo e che lo scambio di opinioni non crei dissapori.
@ Grandinetti
Caro Eugenio,
purtroppo la discussione partita da “Viaggi” ha creato proprio dei dissapori, tanto che Paolo Giovannetti alla fine ha deciso di confermare le sue dimissioni dalla redazione di “Poliscritture”, che io e tutti gli altri abbiamo tentato di scongiurare.
Non è colpa di nessuno di noi.
Sono convinto, infatti, che siamo in un periodo difficilissimo; e che ci siamo sempre più disabituati alla fatica di un confronto serio e approfondito, specie quando le posizioni si presentano – realmente o in apparenza – divergenti.
A me era parso che le forti implicazioni filosofiche di “Viaggi” fossero tali da richiedere proprio questa fatica e che si poteva cominciare ad affrontarle anche in uno spazio virtuale come questo sito. Per chiarire e apprezzare di più la tua poesia non per svalutarla o dimenticarla.
Non è stato possibile. Sarà per un’altra volta, quando – si spera – tutti saremo più coraggiosi e generosi.
Giorgio Msnnacio a tutti.
Personalmente ho interpretato i lunghi interventi su E.G come un’occasione per discutere in generale sulla poesia ed altri argomenti ad essa connnessi. Da parte mia mai mi sarei impegnato nelle mie osservazioni senza un qualche stimolo,che invece è arrivato. In fondo se non si chiede non si hanno risposte. Ed è questo il lato positivo di quello che è accaduto. Che poi ci siano eccessi di informazione, malintesi etc fa parte della dialettica dei colloqui. Non avviene così anche parlando? Solo che verba volant con quel che segue. Un cordialissimo saluto ( sono in partenza ) G.M
Giorgio ha ragione, guardarsi negli occhi quando si parla è un’altra cosa, ma un critico normalmente scrive e in questo caso l’autore delle poesie è rimasto soddisfatto della critica e delle altre attenzioni riservate alla sua opera. Che vogliamo di più?! Torniamo a parlare di Poesia. Buone vacanze a Giorgio.
…sono assolutamente d’accordo con Giorgio ed Emy…il saggio critico di Ennio Abate sulla poesia di Eugenio Grandinetti ci ha fornito unainteressante chiave di lettura, da cui sono scaturite altre e l’interesse per il poeta è cresciuto. D’altra parte non potrebbe essere diversamente, visti l’intensità e il mistero presenti nei suoi versi. Secondo me, la lettura della poesia di E. G. è come una visione al caleidoscopio, ogni volta cambiano luce, disegni, figure…