di Rita Simonitto
[Quanti sé convivono in ciascuno di noi? Perché tanto smarrimento quando ascoltiamo (o siamo costretti ad ascoltare) i “messaggi” che il corpo ci manda? Serve poi a qualcosa ascoltarli? E tra ascolto allarmato del “dentro” (il corpo) ed ascolto altrettanto allarmato del “fuori” ( i medici a cui ci affidiamo, ma…) che relazione c’è? Esiste un limite chiaro tra ciò di cui vale la pena occuparsi e ciò che va trascurato? Più che una lamentazione sfiduciata o una critica al sistema medico, l’autrice, con molta ironia, vuole raccontare un’esperienza ancora più complessa: l’incontro con l’ineffabile, la Cosa senza Nome, Das Ding, appunto, con la quale il ‘corpo’ (nostro ma non nostro) ci impone, in circostanze quasi sempre impreviste, di fare i conti. (E.A. e S.D.)]
Si può dire che tutto cominciò da una mosca, o, a dir meglio, un moscerino. Di quelli che ti infastidiscono l’occhio e tallonano come segugi la pista del tuo sguardo quasi a non volersi sentire esclusi da niente.
Miodesopsie vengono chiamati questi effetti legati a imperfezioni nella trasparenza del corpo vitreo. Un nome simpatico, che suona bene e non fa nemmeno tanta impressione, anche se poi il fenomeno può degenerare creando seri problemi alla vista.
La sappiamo lunga su questi trucchetti linguistici per cui ‘operatore ecologico’ è più gradevole che ‘spazzino’! Così la vita ci sembra più amabile, più tollerabile.
Ciò accade anche quando ci riferiamo al corpo chiamandolo ‘nostro’.
Sappi che esso non è per niente ‘tuo’: è solo un modo di dire, che usi per darti una certa importanza, sentire che possiedi qualche cosa, che hai potere su qualche cosa.
Ma veniamo ai fatti.
Fu che l’altra mattina, quando alzai la testa dalla vasca dove mi ero lavata i capelli, il mio corpo inopinatamente parlò.
Ovviamente non come fece Zarathustra scendendo dalla montagna. E non solo per il fatto che non c’era l’accompagnamento musicale di R. Strauss in Also Sprach Zarathustra. Ma perché parlò ‘mostrandosi’. Semplicemente.
E la cosa non mi piacque. La sgradevole presa di coscienza che ciò che io prima pensavo fosse il ‘parlare al proprio corpo’ in realtà era una immagine fasulla, una ideologia bella e buona. Dove mai si dava questa reciprocità di dialogo? Ero sempre io a parlare con lui ma non certo lui con me!
E ciò era inequivocabile a partire da quello che stava succedendo.
Le strisce al margine esterno dell’occhio destro, tenui filamenti corallini che si muovevano di per loro, anche con una certa grazia, direi, mi stavano segnalando in un linguaggio cifrato a me sconosciuto che c’era qualche cosa che non andava.
Lo specchio cui mi rivolsi con una certa apprensione mi restituì – in peggiorativo, vista la cornice scomposta di capelli ancora grondanti d’acqua – la arcinota faccia di mia conoscenza, ma nessun segno percepibile sull’occhio nel mentre proprio lì quei rossi straccetti continuavano a galleggiare indisturbati per conto loro.
Anzi, avevo la singolare percezione di non essere io a guardare l’occhio ma che fosse lui a guardare me … e placido mi guardava mentre io lo guardavo. Imperava un senso di straniamento: non è per niente piacevole sentirsi ‘fuori’, superflui, di troppo. Era una situazione oscena.
Eppure io ‘vedevo’. Ma se ciò non era ‘percepibile’ a me – che pur li ‘vedevo’ – come avrei potuto farli percepire agli altri? Come bypassare questa difficoltà?
Di quale fantasioso racconto, di quali immagini avrei potuto avvalermi per rappresentare ciò che si rifiutava di apparire?
Mi venne in mente una possibile scenetta riguardante una di quelle noiose miodesopsie di cui sopra: una moschina che, alla fine, gira che ti rigira, era andata a sfracellarsi sul ‘vitreo’ dell’occhio e, da quella spiaccicatura, ne erano risultati poi quei rivoli sanguigni che ora mi infastidivano la vista e che io sola, però, vedevo dall’interno.
Ma immediatamente mi resi conto che, se avessi utilizzato questo linguaggio a mo’ di scambio interlocutorio, un qualsiasi medico mi avrebbe guardata con sospetto: la metafora, il ‘come se’, l’immaginifico arrivano fino ad un certo punto. Oltre, c’è il niente. L’abisso del non-senso. La Cosa.
Perché queste forme linguistiche, al pari dell’arte, si muovono sui contorni del vuoto, lo costeggiano; civettano anche con lui, ma ci rimangono ai margini. Precipitarvi dentro sarebbe la fine, il non ritorno della parola. La scienza, invece, audacemente, tende a chiudere quel vuoto, a saldarlo…
Come due trapezisti ‘dimezzati’, corpo e psiche oscillano ritmicamente nel vuoto cercandosi, o forse no: se si agganciano possono anche comporre una specie di unità di senso, altrimenti…
L’immagine della mia ‘moschina spiaccicata’ non mi risolveva nulla se non si agganciava ad un linguaggio mediamente condiviso; anzi, rischiava di complicarmi ulteriormente le cose. Stavo delirando? Uscendo dalla ‘lira’ condivisa?
L’inversione di prospettiva (passare dal ‘corporeo’ al ‘mentale’ e viceversa oscillando da una posizione all’altra) serviva soltanto a me stessa, al mio pensiero, per non schiattare di paura, per riderci un po’ sopra questa boutade narrativa, ma a livello comunicazionale nulla di nulla. Il fatto se ne stava lì nella sua estraniante crudezza.
Mi sono sempre interrogata in merito alla ‘indicibilità’ del percepito, uno scoglio che mi attira e mi fa paura.
Che cosa udì Ulisse legato all’albero maestro della sua nave che transitava vicino alla rupe delle Sirene? Sentì forse il linguaggio degli Dei, dei Demoni? Che cosa lo faceva supplicare, rivolgendosi ai sordi suoi compagni: “Slegatemi, slegatemi!”?
‘Sentì’ forse la rigidità marmorea della Morte nella sua carne di mortale e da cui non era possibile scioglimento alcuno? Pietra eri e pietra ritornerai? Prima che gli umani creassero le divinità olimpiche a loro immagine e somiglianza c’erano gli Dei di pietra della Morte? E che cosa Odisseo raccontò ai compagni della sfibrante esperienza dalla quale era emerso? Che posto aveva avuto, se lo aveva avuto, la sua Metis in quel frangente?
Ma non divaghiamo. Non ci rimane che riprendere la strada sensoriale, mi sono detta. Dolori all’occhio? no. Mal di testa? niente. Vertigini, nausea?: nulla di tutto questo. Un po’ di spossatezza, ma tant’è….
Perché quando non sei a conoscenza di tutte le ipotesi, i campi delle possibilità e delle probabilità si contendono la scena.
Lo sconcerto era anche legato al fatto che ‘quel corpo lì’, quello che io mi ostinavo a chiamare ‘mio’, non stava provando niente, nessun dolore di alcun tipo, o disagio, mentre in me incominciavano a montare stati d’animo inconsulti. Paura sì, ma anche irritazione.
Infatti, se il corpo ti vuole parlare, ha ben cinque giorni a disposizione, non lo fa a fine settimana quando il medico di base è assente, et pour cause, e il SSN diventa un catino di Malebolge (ogni riferimento ai fraudolenti è puramente casuale) dove tutte le odissee del mondo sembrano precipitare senza fine.
E mentre quella ragnatela rossiccia e sbrindellata, dopo aver fatto il suo giro di ricognizione, sembrava prendere la via da dove era venuta, rimanevano comunque in sospeso delle domande. Che è successo?
Ah, essere laureati in medicina! Ma il medico ‘fa’ il medico ‘dopo’. Prima c’è quel momento lì, in cui senti che avviene una specie di accadimento, uno strano ‘discorso’ dal quale ti senti tranciato fuori.
Allora, intanto accontentiamoci di seguire quel ‘dopo’.
I tempi per le visite ambulatoriali sono lunghissimi e non rimane che la strada del ‘privato’, e, ‘privato-per-privato’, perché non consultare il ‘primario’ il quale, in quanto ‘primario’ qualche cosa di quel ‘prima’, di quel sentimento di collasso di appartenenza, magari ne sa qualche cosa? Forse. Ma in quel contesto è irrilevante.
All’appuntamento agognato – dopo una settimana – il professionista, oltre che mostrare la sua competenza, è gentile e sa metterti a tuo agio.
Ovviamente c’è sempre una parte del paziente che tende a subodorare inganni e a non fidarsi del tutto. Non consapevolmente, di certo. Non tutti conoscono la formula del ‘perinde ac cadaver’, ma inconsciamente corre il sospetto che ci sia in ogni Istituzione un Ignazio di Loyola che esige l’obbedienza a qualche istanza superiore a cui ci si deve sottoporre ‘come se fosse corpo morto’.
Dalle prove pare che non ci siano problemi di rilievo: una pressione oculare un po’ fuori norma ma non preoccupante, un leggero inizio di cataratta ma, al momento, è esclusa ogni ipotesi di intervento.
L’episodio anomalo che riferisco viene ricondotto ad una risposta auratica, magari determinata da una particolare situazione di stress.
Se si dovesse ripetere – mi dice – si può fare una visita neurologica e, ma solo per completezza d’indagine, mi viene prescritta la visita per un ‘campo visivo’.
Detto in sincerità, ero contenta e mi sentivo sollevata di un peso: se il mio corpo aveva parlato, io avevo raccolto il suo discorso dalla montagna, anche se un po’ sui generis, e, visto che c’ero, perché non fare anche una visita cardiologica alla quale si era pensato da tempo a causa di una frequenza cardiaca un po’ alta che non mi permetteva di fare camminate, che mi faceva fare le scale con fatica ma a cui non avevo dato la giusta attenzione?
Anche in questo caso la scelta del ‘primariato’ era d’obbligo: non si può andare da un luminare per la visita oculistica mentre per il cuore, organo così importante, fidarsi (ahi, Malebolge!) di un ‘tasta-cuori qualsiasi’. E anche lì, per completezza d’indagine (euro che rotolano a go-go dalle tue mani sempre più vuote), non si può non fare l’ecocardiogramma!
Ma le ‘visite’, appunto, dovrebbero essere ‘visite’ e non luoghi di tortura dove ti rivoltano come un calzino e tu, che non hai alcuna dimestichezza con le acrobazie fisiche perché a quelle hai sostituito quelle mentali, senti pena per questa tua massa corporea che non riesce a tenere le posture a cui le macchine la tengono vincolata.
Neanche avessi dovuto fare i test di abilitazione per la NASA!
Ragion per cui, terminato l’esame, ascolto il referto con una attenzione distratta: si parla di iniziale cardiopatia ipertensiva, di un ingrandimento dell’atrio sinistro, mi colpisce solo la dicitura “cuore punta avanti” (non so che cosa significhi, ma tra me e me dico, ‘almeno lui’); ma ciò che mi sembra liberatorio è aver ripreso la mia condizione ‘eretta’.
Felicità che dura poco.
Guai al portiere che si inorgoglisce della sua capacità di uscire in campo e di ritornare velocemente in porta! Gli fanno ‘gol’ sotto il naso!
Da poco emersa dal refrigerio della Clinica Medica e inoltratami nell’afoso (40°) piazzale antistante, la ‘mia vecchia’ (così affettuosamente (!) chiamo il mio mal di schiena) incomincia a reclamare attenzioni al punto tale che, dopo pochi passi, faccio fatica a mantenere quella posizione eretta così orgogliosamente guadagnata.
I giorni seguenti si susseguono sotto la cifra del dolore ileo sacrale e relativo bastone di appoggio fino al fatidico appuntamento per il ‘campo visivo’: appuntamento a cui mi accosto con disinvoltura, date le premesse.
La prova è un po’ faticosa per via della schiena che devo tenere in una posizione un po’ curva, ma la tollero anche perché presa dal moto di simpatia, mista a tenerezza, alla percezione, durante il test, del movimento dell’occhio sinistro verso l’occhio destro (bendato) quasi chiedesse aiuto interpretativo nei momenti di affaticamento visivo: “mi stanno scappando tutte le lucette! Mi aiuti a prenderle?”
Che è, che non è, a prova ultimata la testista mi fa vedere che il campo visivo di ambedue gli occhi è scuro nella parte superiore e che dovevo ricontattare il primario per la diagnosi finale.
Gentilmente si informa se mi sono mai accorta di sbattere la testa sulle parti alte e io, coscienziosamente, rispondo che no, non mi è mai successo.
Fra me e me, penso che sì, a casa mia ci sono in alcune stanze dei soffitti bassi, ma non mi sembra di averci mai rotto le corna. “Le corna?????”
Ma quando un primario – che è un primario e che quindi sa il fatto suo – guardando i referti dice una sola parola “Ohibò”, chi la ascolta davvero si smarrisce.
Io non ci avevo dato molto peso alle parti scure del campo visivo superiore: pensavo (e mi narravo) che io ero un soggetto molto semplice, che si limitava a guardare di fronte, di lato e terra-terra. Di guardare in alto non ne sentivo bisogno; poi i miei rapporti con il Supremo non erano mai stati così significativi da non poterne fare a meno.
Ma anche per questo ultimo pensiero, non esente da sensi di colpa, quell’”ohibò” suonò minaccioso e punitivo.
Il medico chiese ad una me, allibita per questo importante cambio di registro, se soffrivo di asma e alla mia risposta negativa mi prescrisse un collirio le cui gocce dovevo subito incominciare a prendere mattina e sera perché, per fortuna, eravamo (eravamo chi?) in tempo per fermare il GLAUCOMA.
Apriti cielo! Era proprio il caso di dirlo!
Il Glaucoma! Questo voleva dire che, nel mentre io me ne stavo tranquilla a pensare alle mie quotidianità il GLAUCOMA piano piano, senza dare a parere, faceva il suo lavoretto di calare da monte a valle, senza preavvisi! E questo lo chiamano ‘parlare’?
E qui davvero incomincia il calvario e ancora non so chi stia portando la croce se il mio corpo o la mia mente.
Il mio ‘allegro’ (si fa per dire) costeggiare il vuoto della Cosa, rimanendone sui bordi, fiduciosa dell’importanza delle capacità rappresentative, viene improvvisamente sedotto da questo abisso che aspira, l’orrore di ciò che non ha nome.
E’ una zona di incandescenza, un vortice senza fine.
Ormai la sarabanda persecutoria tocca il parossismo.
Che cosa c’entrava l’asma? Leggo subito il bugiardino del collirio: lì, la precauzione relativa all’asma viene collegata al fatto che uno dei componenti di questo collirio è un betabloccante.
Ma io sto già prendendo un farmaco betabloccante per la pressione sanguigna! E se i due fanno sinergia? Però, coraggiosamente decido di mettere le gocce. Suvvia, fidiamoci!
La notte che segue è di quelle da scordare. Una tosse secca, stizzosa, con punte di cavernosità sonora come se l’Acheronta movebo di freudiana memoria si fosse dato appuntamento in camera mia e da lì non si schiodasse.
Sfinita da questa prova notturna, il giorno dopo corro dal medico di base, la mia colonna portante, il quale, perplesso di questa mia reazione così violenta, mi dice di togliere uno dei due betabloccanti (quello antipertensivo) e di continuare con le gocce oftalmiche.
Forse è meglio morire vedendoci chiaro?
Mentre la pressione sanguigna non se ne sbatte di una virgola per il farmaco mancante (allora la sua ‘presenza’ a che serviva?), la tosse non diminuisce, anzi.
In particolare la notte, perché la testa sul cuscino fa da cassa di risonanza: quasi ogni flusso respiratorio si accompagna a fastidiosi suoni di rantolii, miagolii, fischi. Ho sentito anche un bip, bip che forse non aveva nulla a che fare con me, ma mi sono tenuta anche quello.
Consapevole del fatto che senza alcun dubbio si era innescata una componente ansiosa e guidata dall’illusione che al corpo si può parlare, gli ho fatto un discorsetto.
Anzi, ho fatto un discorsetto ai bronchioli, responsabili secondo me di trattenere tappi di muco senza rilasciarli nei tempi e nei modi adeguati.
Mi sentivo tanto il Console Menenio Agrippa quando fa il suo apologo alla plebe (i bronchioli in questo caso) perché la smetta di incrociare le braccia per protesta. Se la plebe continua a scioperare non danneggia soltanto il corpo sociale – che è il bene comune – ma, alla fin fine, danneggia anche se stessa.
Ma no, no. Non potevo perdere la faccia con questo tipico discorso all’italiana del “siamo tutti sulla stessa barca”! Va bene che “Parigi val bene una messa”, ma cadere così in basso, no!
Allora ho optato per un parallelismo animale: oltretutto il corpo è (?!) animale.
Il veterinario sostiene che i gatti – al pari di altri animali, immagino – percepiscono il dolore e i disagi come qualcosa che proviene dall’esterno anziché da loro stessi e quindi diventano aggressivi indiscriminatamente contro ogni movimento che viene da fuori anche se pacifico.
I bronchioli sembrano ascoltare quietamente la mia narrazione: l’aria che viene insufflata la devono far circolare liberamente, non la devono osteggiare come se fosse portatrice di chissà quali pericoli. Il loro silenzio mi sembra di buon auspicio… chissà che riesca finalmente a dormire… ma, finito il discorso che, me ne rendo immediatamente conto, è valso solo per me, riprendono la loro baraonda.
Rileggo il bugiardino dove si dice che, per evitare che gli effetti betabloccanti passino direttamente al sistemico, si potrebbe tenere chiuso il dotto lacrimale in modo da attutire tutto ciò.
Sono in ‘para completa’, come dicono gli adolescenti.
Io di mani ne ho due: se una tiene aperto l’occhio mentre l’altra dovrebbe far cadere la goccia nella sacca lacrimale me ne mancherebbe una terza per tenere premuto il dotto in questione.
Poi mi risollevo: ho ben dieci dita. Scartate quelle munite di unghia lunga, mi rimane il dito mignolo che, con spericolate acrobazie, riesce alla bisogna.
La gatta Ginevra, dal poggiolo della finestra del bagno, mi guarda girando il muso ora da un verso ora dall’altro, seguendo attenta le mie contorsioni. Oltre che essere una bella certosina è una stagista nata. Osserva e memorizza quello che vede fare e poi tenta di riprovarci anche lei. Nel regno dei gatti darebbe i punti a qualsiasi Monica Lewinsky perché non si sarebbe fermata allo Studio Ovale ma si sarebbe accomodata direttamente ai posti di comando della Casa Bianca.
I suoi neuroni-specchio pare funzionino a meraviglia. La osservo quando cerca di ripetere i movimenti sui tasti del computer conservandone l’ampiezza e i tempi; quando assiste al massaggio della fisioterapista, si avvicina alla mia schiena e con i polpastrelli cerca di ripetere l’impasto che vede fare. Non sembra però capirne il senso; forse crede che sia un nuovo gioco perché dopo poco si stufa. Che la mia schiena sia dolente o meno, che io sia sofferente per qualche cosa, questo rappresenta per lei (come per gli altri gatti) soltanto una variazione emotiva nelle dinamiche relazionali.
Mentre io mi sto dannando nella ricerca di una possibile interazione tra il ‘mio’ corpo e la mente (quella sì che, invece, è MIA e guai a chi me la tocca!!!), i gatti non hanno questa scissione corpo/pensiero: sono corpo-pensiero.
Forse godevamo anche noi di questa costituzione, ab initio?
Penso invece che è come se il corpo procedesse per ‘rotture’, on-off, si può rompere senza un preavviso. Così come è capitato a me con i miei filiformi rossi.
La mente invece cerca una continuità pur prevedendo le rotture. E’ lo spazio vuoto che attiva il pensiero (Bion). Ma mentre per il corpo quel vuoto continua a rimanere vuoto, per la mente…che cosa succede per la mente? Cerca di avvicinarsi a quel vuoto, alla sua eccentricità così irriducibile rispetto alle immagini e al significante. Cerca di porsi là in una specie di inversione di vertice, di prospettiva (Bion).
Nel rovesciamento della prospettiva, richiamata anche dall’esperienza visiva delle figure ambigue, l’oscillazione si dà comunque tra due rappresentazioni figurali ‘in piano’: le due anfore affiancate che si possono vedere anche come due facce di profilo; la lepre che può anche essere vista come una papera e viceversa…
Sono comunque ‘immobili’: è lo sguardo dell’osservatore che permette il movimento e il passaggio dall’una all’altra.
E il soggetto che fa questa esperienza rimane comunque ‘integro’, non scisso. Oscilla.
In che modo posso ‘vedermi-come-corpo’ senza spezzarmi, senza ‘diventare davvero pietra’? E in che modo questo ‘corpo visto’ ne avrà la consapevolezza necessaria per venirmi in aiuto se mi sono spezzata?
La sua (del corpo) ‘anarchia’ mi spaventa.
Si dice “ridere così tanto da farsela addosso” oppure “scompisciarsi dal ridere” (ovvero mollare i freni inibitori).
Io adesso tossisco come un cane rabbioso e così tanto da farmela addosso! ‘Mi scompiscio dal tossire’.
Ma lui, il corpo, non capisce la differenza! Lui funziona per stimoli ‘tieni/lascia’. E, se lasci, lasci su tutta la linea.
Tutt’al più lui rispetta i suoi ritmi circadiani per la gestione dei suoi chimismi; oppure segue altri ritmi per la sua autocura (di solito 3 giorni per le piccole bue; 7 giorni per l’herpes; ecc. ecc.).
E’ comunque un baby particolare che adesso, alla sera , rientrata dal lavoro stanca morta, mi chiede: il cambio di pannolone, le gocce agli occhi, la crema sulla parte ileo sacrale artrosica e dolente. Se non gli dessi tutto questo, lui certo deperirebbe, si lascerebbe andare ma non muterebbe certo la sua struttura per facilitarmi le cose, non mi verrebbe incontro come fa invece un animale che mi si struscia attorno per ottenere ciò che gli serve.
Sono sgomenta.
La colf ucraina incomincia a guardarmi più con gli occhi da badante che da colf. “Siamo tutti ex bambini”, mi dice con la sua saggezza, forse ancora non contaminata dalla adultità forzata del sistema occidentale.
Dietro le sue parole sento la Matuška Rossija a cui mi vorrei abbandonare come un piccolo Oblȯmov (“Mammina, mammina!”), senza dover pensare a nulla perché ci saranno sempre altri che ci penseranno.
No. Non voglio regredire alla sterilità oblomoviana, trattare il corpo come zavorra e nonostante tutto investirlo di aspettative ideologiche destinate al fallimento né più né meno di quanto accade al corpo sociale.
E nemmeno cedere al richiamo del modello capitalistico, emergente che nel bel libro di I. A. Gončarov è ben rappresentato dal personaggio di Andréj Ivanovič Stolz, l’adorato amico che cerca di strappare Oblȯmov dal suo torpore esistenziale.
L’intolleranza e la paura dell’incontro col vuoto e col silenzio hanno fatto sì che oggi al corpo-muto, questo inquietante ospite straniero, sia stato impresso sulla fronte – moderno Golem – un marchio funzionale al sistema: ivi si racconta che il corpo ‘parla’, il corpo ‘ha dei bisogni’ che il sistema è lì pronto ad ascoltare e soddisfare. E’ un dialogo fittizio in quanto c’è un solo parlante, ma ciò basta per farci sentire onnipotenti.
Ma anch’io con questi pensieri mi sto allontanando da una realtà corporea che non mi piace!
Come legata alla corda di un Bungee jumping eccomi però tirare indietro. Una voce che mi dice – e che io sola sento (ci risiamo!): “Ehi, sveglia! Che vai cianciando corpulenta polena che frange i marosi dell’ignoto? Altro che Ulisse! Non darti delle arie solo perché dopo tre soli giorni hai acquisito l’abilità fondamentale di metterti il collirio con una mano sola!”
21.06.2014 –
Ma che bel racconto Rita! Il tuo corpaccio è davvero resistente e la tua mente anche.
Io ho avuto il distacco del corpo vitreo , ed i primi mesi mi sembrava di essere invasa dalle mosche , finchè un giorno mi sembrò che fossero sparite, ma così non era , la mia mente le aveva rifiutate,odiate,uccise, ma ci sono ancora ed ogni tanto le vedo , ora però so come eliminarle.
Il gatto , è l’animale più adatto al mio carattere è pigro ma non lo freghi MAI! Mi ha dato un sacco di lezioni la migliore è stata quella sulle “Opportunità” davvero interessante…
Mi permetto di darti un consiglio anzi un ordine: -Lavora meno!- Un abbraccio.
…grazie, Rita, per questo bel racconto tragi-comico, che ci riporta molte riflessioni sullo stato di consapevolezza della mente nei confronti del corpo quando si ammala… La mente è molto vigile, ma il corpo, nei suoi repentini cambiamenti, sfugge alle analisi piu’ sottili e, nello scollamento, la domanda conseguente è: il corpo è davvero nostro? In quello spazio vuoto, cosi’ almeno mi sembra di avere capito, l’uomo avverte la presenza del dio pietra, un richiamo, un brivido, che genera sbigottimento ed attrazione. Ci sentiamo solo frammenti…irresistibilmente attratti dal tutto, come Ulisse dal canto delle sirene. Ma la doppia significanza di alcune immagini, non è poi cosi’ immediata…per la gattina Ginevra, meno mentale di noi, è piu’ semplice, lei avverte come esterna la provenienza del dolore…Noi, in genere, difendiamo la nostra integrità fisica finchè la vita ci attrae ancora e allora, nella nostra società, dobbiamo affrontare il SSN, con i suoi molti limti, le cure stesse, con le varie controindicazioni…e il territorio che ci sfugge diventa sempre piu’ vasto, sino a diventare un intero continente, e noi regrediamo bambini…Sarà un’epidemia, ma anch’io, come te ed Emy, ho in questo periodo qualche problema agli occhi…
@ Emy e Annamaria
Vi ringrazio per i vostri commenti.
Ciò che in realtà volevo sottolineare e condividere era il difficile e sconvolgente incontro con l’ineffabile. Con il ‘senza parola’ – di cui il corpo è il rappresentante più prossimo e al quale ci accostiamo con le due modalità dell’approccio scientifico e di quello narrativo. E di come questo incontro ci sbigottisce perchè ci siamo formati con l’idea (e il bisogno) della ‘comunicazione’, e che è questo ‘affare dello scambio comunicativo’ a renderci appartenenti all’umano consesso. E’ che, a volte, pensiamo che questa capacità ci renda divini, immortali. E sarà il corpo a ricordarci che così non è.
p.s. Cara Emy, raccoglierei volentieri il tuo invito se non fosse che… se si vogliono pagare le tasse, si deve lavorare. Se avanza qualche cosa per mangiare, sarà suppergiù corrispondente ad 80,00 € che Pina Picierno, graziosa deputata casertana del Pd, sostiene siano sufficienti anche per poter mangiare due volte fuori (forse intende ai giardinetti).
R.S.