di Roberto Bugliani
– Ero giovane allora e quel giorno là mi trovavo a Siena ospite di mio cugino, un artigiano affermatosi nel settore della ceramica artistica, che aveva la bottega nella Contrada dell’Onda. La notte fui svegliato da una serie di rumori provenienti dalla cucina. Erano suoni secchi e brevi, con risonanze sorde, emessi a intervalli ravvicinati ma irregolari. Mi misi in ascolto per cercare di capire la ragione di quei rumori, ma non riuscii a darmene una spiegazione convincente. Allora voltai la testa verso mio cugino che dormiva accanto a me e gli sussurrai: “Ascolta. C’è qualcuno che sta trambustando in cucina”.
– Non ti preoccupare – mi fece lui, la bocca impastata dal sonno -, è Santa Caterina che lava i piatti. Viene una volta la settimana.
– Ricordo che pensai: “E’ proprio scemo mio cugino a scambiare una santa per una colf”. Poi mi girai dall’altra parte, i rumori cessarono e io finalmente mi riaddormentai.
Da quella notte senese passarono molti anni, mio cugino se lo portò via un infarto ancora in giovane età e io finii col dimenticarmi del tutto quello stranissimo episodio. Ma quando venni ricoverato in ospedale per una brutta polmonite, un pomeriggio che m’aveva preso lo sconforto, sai, ero convinto che ci avrei lasciato le penne in quell’ospedale di merda, coi sensi sospesi in un dormiveglia febbricitante vidi me stesso dall’esterno, come il personaggio d’un film, alzarmi dal letto e a passi spediti dirigermi in cucina in preda a un’oscura apprensione. Accesi la luce e mi trovai faccia a faccia con una donna dal volto ascetico e il corpo da anoressica persa annegato in un saio nero di stoffa grezza che sembrava animato dal solo spirito. Un velo candidissimo le avvolgeva il capo e la duplice banda s’allungava sinuosa sulle spalle e il petto per terminare sui fianchi. Come se m’aspettasse, la donna mi guardava con un’espressione affettuosa, le mani infilate nei guanti di lattice che adoperavo per lavare i piatti, e notai che le stoviglie incrostate d’avanzi di cibo lasciate sul ripiano del lavandino brillavano terse e fragranti di detersivo. Dal movimento agile e flessuoso del suo corpo nell’avvicinarsi a me capii che la donna era più giovane di quel che il viso ossuto precocemente consunto dal dolore e dalla privazioni lasciava intuire. La guardai con stupore misto a sconcerto, immagina che faccia stravolta dovevo avere, mentre lei, con un tono confidenziale ammantato di dolcezza, mi domandò di rimando: – Sai chi sono?
Senza esitare, compunto come uno scolaretto che sciorina a memoria la lezione per una interrogazione a lungo attesa, le risposi: – Tu sei Caterina Benincasa, ventiquattresima figlia del tintore Jacopo e di Lapa di Puccio de’ Piacenti, nata a Siena nel rione di Fontebranda, oggi Nobile Contrada dell’Oca, il 25 marzo 1347, e morta a Roma all’età di 33 anni, dopo esserti astenuta dal bere per un mese intero…
Come se quella situazione incredibile fosse la più normale del mondo, dalla mia bocca erano balzate fuori le parole sulla vita della santa donna che mio cugino (cazzo, aveva ragione! allora non era così strambo come avevo pensato, che riposi in pace dov’è, mi dissi lì impalato come un allocco) m’aveva raccontato durante i miei soggiorni senesi. – Non devi più aver paura di nulla, figliolo -, riprese benevola Caterina. – Sappi che d’ora in avanti ci sarò io a proteggerti. Infine i suoi occhi vellutati da cerbiatta mi rivolsero a mo’ di congedo uno sguardo minerale dietro cui si celava l’enigma.
Appena fui ristabilito, feci un voto a Santa Caterina. Le promisi che ogni anno, in concomitanza con il Palio dell’Assunta, sarei andato a Siena, sarei entrato nella Basilica di San Domenico dov’è conservata la testa della santa, della sdentata come la chiamano i suoi concittadini con la spigliatezza dissacratoria che li caratterizza, e avrei deposto ai piedi della teca collocata nella navata laterale un mazzo di gigli bianchi e due fazzoletti coi colori dell’Oca e della Torre, le contrade eternamente rivali. Sei libero di non crederci, ma l’incontro con Caterina non fu frutto d’un delirio, come si potrebbe pensare. Certo, avevo la febbre alta, ma Caterina era vera, madonnabo***, vera come lo sono io che ti sto parlando in questo preciso istante. Dall’ospedale sono uscito con le mie gambe, è stato un miracolo bello e buono, cos’altro se no? E da allora, madonnamaia***, la mia vita ha preso ad andare per il verso giusto… S’interrompe il tempo di destinarmi uno sguardo paziente e comprensivo, prima di sentenziare: – Sono ammesse.
– Cosa? – faccio io.
– Le bestemmie. Sono ammesse. Me l’ha detto Caterina in persona. Lassù, nelle alte sfere, non s’offendono. Capiscono che è una valvola di sfogo, e ci passano sopra. Anzi, in un certo senso sono contenti che l’uomo li invochi, anche in quel modo. Comunque, bestemmie o no, dal momento che ho incontrato Caterina sta filando tutto liscio come l’olio –, ripete, come se fossi tardo di comprendonio. Quindi si lascia sfuggire una smorfia di dispetto e prosegue: – Be’, un momento, tutto tranne l’euro, che con quello, madonnimp***, son cazzi amari. E’ una moneta troppo forte per la nostra economia, può andar bene per paesi come la Germania, non certo per noi. Credimi, te lo dice uno che con la lira non se la passava mica male, mentre adesso…
– Hai visto la russa? – mi domanda all’improvviso, passando bruscamente all’argomento che più gli sta a cuore stanotte.
– La russa chi? – gli ribatto. – Qui, tra russe e rumene, non se ne scampa.
– La nuova, Katarina. Ha diciannove anni e un corpo scolpito nel marmo che pare Venere.
– A quell’età è raro che una lapperina sia già da buttare. Ma dàlle qualche anno…
– Sempre ipercritico, eh? Vedi, il tuo problema, se posso dirtelo con franchezza, è che non ti lasci andare completamente all’incanto di questo reame di luci discrete, sorrisini ammalianti e occhiate biricchine.
– Un reame dove le regine hanno il tassametro incorporato.
– Ti stai dimenticando che entrare qui non è come entrare in un convento di clausura.
– Cambia la religione, certo, dal Dio dei preti si passa al Dio denaro, ma la fede resta la stessa.
Non so se l’amico ascoltò la mia considerazione. All’apparire in sala della ragazza reduce da un privé prolungatosi in un bis e poi in un tris che le lapperine più abili riescono a scucire al cliente, era schizzato in piedi come una molla e sfoggiando un sorriso smelenso le andò incontro a braccia aperte.
Lasciai l’amico al destino tracciato dalle smorfiette della sua Caterina, pardon, Katarina, m’alzai a mia volta dal divanetto e uscii nella notte estiva.
Ahahah! FORTISSIMO!
…davvero simpatico questo racconto, narrato in prima persona, dove sembra essere rappresentato un contrasto, che mi sembra compaia spesso ad arricchire gli scritti di Roberto Bugliani, tra sacro e profano…in realtà qui non c’é una linea di demarcazione (siamo noi ad averla inventata), se mai un crescendo di femminilità: la santa Caterina, ascetica, anoressica e avvolta in un alone di mistero, che dona la guarigione e la vita, e la russa Katarina “…un corpo scolpito nel marmo che pare Venere” che dona il piacere…
Dal sacro al divino…Se mai c’é un contrasto é tra le due monete, e l’autore sembra caldeggiare per la vecchia lira…
Delizioso questo racconto di R. Bugliani e anche ironico: la Santa che ‘trambusta’ in cucina (come fanno – pardon, facevano – quelle ‘sante’ donne delle mogli) mentre la Dea lapperina svolazza di fiore in fiore suggendo qua e là quella pecunia che non olet.
Interessante anche, oltre che il passaggio dal Dio dei preti al Dio Denaro, la morale rispetto alla potenza del credere: la garanzia della Santa produce ogni miracolo, la salute, le cose riprendono a girare, si può anche bestemmiare… ma l’euro, no.
Quello rimane inintaccabile!
Probabilmente ci sarà qualche conflitto di interessi anche in alto loco!
R.S.
Grazie di cuore per i commenti. Sì, nel passaggio sull’euro mi son fatto prendere la mano e ho dato al personaggio la mia voce.