di Velio Abati
Riprendo tempestivamente dalla rubrica “Mattinale” del sito di Velio Abati (qui) questo importante e calibratissimo scritto critico. Sollecitato dal testo di Zanzotto su Fortini del 1995 ripubblicato su LA PRESENZA DI ERATO (qui) e da me già commentato (qui), ne approfondisce ben oltre l’occasionalità le implicazioni meno evidenti. Considero questo saggio un esempio vivo e incoraggiante di quella tenace continuità con un grado altissimo di comprensione critica della poesia e della storia raggiunto da quei due autori del secondo Novecento. Come nota Abati, «il bla bla soffocante dei nostri giorni» e la «neo-lingua angloamericana» hanno spinto in basso e ai margini quel loro sapere che chiamerei senza perplessità “poetico-storico”, aggravando paurosamente la «“disgregazione italiana”» che ci impedisce di ragionare e agire conseguentemente. E cioè di recuperare o ridisegnare «un orizzonte di senso che sappia riconnettere le parti del vivere comune e ne mostri la verità storica ». [E.A.]
Qualunque lettore di critica sa la differenza tra il gusto collezionistico dell’erudito e la forza del critico che ti coinvolge con nuove domande, se non con le risposte. Il primo è fisso al passato, il secondo non cessa di parlare al futuro, per quanto distante e imprevisto esso sia. Un italianista statunitense ebbe a osservarmi, a proposito di una raccolta di scritti su Manzoni, tra cui uno di Fortini: non c’è bisogno di leggere la firma, il critico vero non ti fa distrarre, addita sempre te nella sua pagina. Se è vero per la critica, non lo è meno per l’opera letteraria, perché ciò attiene alla misteriosa, difficile e pericolosa qualità di ogni azione umana. È insieme nell’hic et nunc, ne subisce la genesi, la natura, ed è eterna. Anzi, tanto più è vera, ossia porta limpida la radice della propria profonda storicità, tanto più essa è di ogni uomo, di ogni tempo. Dunque esiste un criterio sicuro di rilevanza d’un testo come di un’azione comune, è il suo quantum che ci riguarda. Nel confrontarci con l’intervento zanzottiano su Franco Fortini, partiremo dunque da questo semplice metro immediato.
Diciannove anni dopo, chiuso con ogni evidenza il periodo storico del Novecento (intendo valori culturali, condizioni civili e istituzionali, associazioni sindacali e politiche, forme degli assilli, delle attese e delle relazioni della vita quotidiana), insomma catapultati in un altro mondo, al punto che l’ordine del discorso di Zanzotto potrebbe apparire non più distante da noi di un qualunque altro secolo trascorso, quali piaghe odierne mette a nudo, a quali mete sollecita l’attenzione?
Nell’immediata relazione con il testo, qualunque lettore di media consapevolezza e sufficiente attitudine al disinganno non sfuggirà ad almeno tre punti d’attrito. Non ha importanza, in prima approssimazione, distinguere quanto pertiene alla voce del soggetto e quanto a quella dell’oggetto critico. Chiara è comunque la sottolineatura di alcune urgenze. Nel mettere in guardia da fraintendimenti, Zanzotto addita l’energia, la fecondità creativa della “totalizzante fede in un senso del mondo”. Lasciamo agl’imbonitori e ai gazzettieri la trivialità di leggere nell’espressione un bisogno generico, quindi innocuo dell’uomo senza tempo. Nella realtà storico-concreta delle nostre strade, delle case dove consumiamo la vita tra alternative senza speranza, assiepate nel giorno come marruche e sterpi, quell’appello a un senso del mondo irrompe con la forza di un urlo d’allarme, di un palpito di speranza. Si proclama “totalizzante”. Non è una parte, nemmeno una somma; è una relazione, un insieme di relazioni, dove tutto si tiene. Di quel tutto noi stessi siamo parte, ogni nostro agire e dire e pensare. Ecco perché le impotenze e le umiliazioni che ci assalgono non sono né naturali né opera di un dio nascosto, ma prodotto storico-umano. Ecco perché esse non sono mai completamente tali, senza l’acquiescenza del nostro consenso. Zanzotto dà a quel senso il nome di “fede”, perché c’è ma si nasconde, va costretto a disvelarsi, meglio ancora a prodursi con il sudore della nostra fronte.
Zanzotto proclama inoltre l’urgenza di non porre in ombra il fondamento di “ogni atto culturale”, che è, dice, “etico-politico”. Il richiamo trova giustificazione nella già indicata totalità di senso, ma ciò che esso più scuote dell’odierno consenso è l’ovvietà che la politica sia tecnica e non etica; che l’etica sia un dato naturale o astorico, non scelta politica, dunque storica e di parte.
Dato che ogni atto culturale è etico-politico, qual è il senso della scelta linguistica di un poeta? Il segnale del pericolo di “parlare in lingua mortua cum mortuis” è, prima di tutto e ancora una volta, un avvertimento a tener desto l’occhio sul molto di scarto, di falsa-vita, magari incipriata dalla moda che affolla il bla bla soffocante dei nostri giorni. Un avvertimento a evitare di appagarci con il narcisismo della nostra irrilevanza. Poi è, più in concreto, un sorprendente squarcio sulla realtà linguistica italiana, sul suo quasi inerme cedere alle pressioni – oggi lo vediamo bene – della neo-lingua angloamericana, al suo impidocchiarsi di locuzioni intraducibili, storture sintattiche, tanto da esporsi al contraccolpo della riemersione dei forti sostrati antichi, traboccanti fino all’idiotismo. Colpi dal basso e dall’alto, dunque, oggi autorevolmente assecondati dall’esibizione di interi percorsi universitari italiani in lingua inglese. Questo frangersi che appare senza scampo, ci avverte ancora Zanzotto, non è un fatto esclusivamente linguistico: è il prodursi stesso della “disgregazione italiana”. Compagni, ripeterebbe ancor oggi Bertolt Brecht, come già fece al Congresso internazionale degli scrittori in difesa della cultura del 1935, parliamo dei rapporti di proprietà; dunque dell’odierno finanz-capitalismo e, in esso, del ruolo subalterno della classe dominante italiana, disposta a tutto sperperare e tutti ridurre a plebe, pur di conservare il proprio comando e ricchezza.
Registrati gli urti, si tratta di rispondere alla domanda fondamentale: chi è che ci parla? Perché solo con la sua risposta possiamo comprendere le circostanze da cui quegli urti ci giungono, il sottointeso di cui si caricano: natura di cose – cioè fatti storico-umani, spiega una volta per tutte Vico – altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise. E comprendere la determinazione storica di chi ci parla è il dé-tournement necessario per intendere noi nella nostra. L’articolo zanzottiano per la solennità della circostanza, il rilievo della figura e la forza della frequentazione si presenta come uno specimen altamente emblematico per indicarci il timbro fondamentale dell’autore, la nervatura del suo discorso, le strategie su cui si muove. Nel contempo, la natura seconda dello scritto obbliga a intrecciare ad esso l’ulteriore détournement su Franco Fortini.
Clamorosa – per chi conosca l’imponente rilievo politico e saggistico di Fortini nel suo tempo – è la scelta zanzottiana di mettere in primo piano Fortini poeta, quando la critica coeva non era mai stata su questo generosa. Saremmo tuttavia assai lontani dal vero, se vedessimo quella scelta dettata dalla svolta post-ideologica affermatasi alla fine del secolo breve, che ha portato un’intera generazione di uomini della politica, della cultura o della militanza politico-sindacale intermedia all’esplicito misconoscimento del proprio passato, con franca adesione all’antisocialismo e all’antimarxismo. Quell’avvio della restaurazione liberista e antidemocratica ha prodotto, tra i suoi effetti, il ritorno a una visione della poesia “pura” da implicazioni diverse da se stessa, fino ad asserirla, in certe aree, fatto assolutamente privato. Che la strada di Zanzotto sia diversa – e, per chi lo conosce, in intima coerenza con sé – è chiaro fin dall’abbrivio, dove si riconosce con parole nette, condividendola, la complessità della figura intellettuale di Fortini. Ma, più cogentemente, è l’intero sviluppo del ragionamento a connettere lo sguardo sulla poesia con l’insieme dell’attività saggistica, secondo l’ottica della totalità.
Zanzotto poeta e critico, come ho cercato di mostrare altrove, muove da un’originaria, potente spinta orfica che presto ha accettato di confrontarsi con le ragioni altrettanto perentorie della storia. Egli ha saputo acutamente far di questo suo dualismo costitutivo chiave d’accesso al proprio tempo. Per un verso ha ricondotto l’urto deflgrante dei suoi demoni interiori – che costantemente lo risucchiavano ben oltre il paesaggio, verso la cancellazione di ogni cultura umana e di sé medesimo – alla disciplina insieme funambolica e iperraziocinante della psicoanalisi lacaniana; per l’altro ha coltivato la sua compromissione con la storia, passata a contrappelo dall’ostentata marginalità solighese, mettendo via via a frutto tanto il socialismo resistenziale, quanto una vitalissima radice sensista e materialista di derivazione e natura indubitabilmente colta, ma in parte consonante con l’universo rurale cui è rimasto fedele.
Credo che le ragioni del primato che, “tra le figure dell’umano”, egli assegna al poeta si trovino sia nell’orfismo che su per li rami lo collega alla grande stagione romantica europea, sia nel ricorso al surrealismo lacaniano. Un primato che però mai ha ceduto alla presunzione di sufficienza e di esclusione dalla totalità storico-umana, come anche nell’articolo in questione ben si conferma. Totalità non ricomposta, si capisce: strenuamente inseguita, ora raggiunta, ora dileguante, ora semplicemente segnata da una béance sanguinante. Zanzotto ha saputo portarsi all’altezza del proprio tempo proprio facendo circuitare la personale ferita originaria con il fermentante conflitto sociale, politico e culturale che ha caratterizzato il trentennio del secondo dopoguerra. Conflitto tra capitale e lavoro, donne e uomini, movimenti sociali e istituzioni, creatività e conservazione. Un conflitto assai aspro, anche cruento, che ha però prodotto nel mondo e in Italia una decisa democratizzazione.
Come accade a un pensiero forte e ai poeti autentici, Zanzotto impiega il proprio metro anche nella lettura degli altri, tanto più penetrante quanto più affini gli autori, né sorprenderà che in quella qui in questione muova sul filo del ricordo personale. Come ogni pensiero, sgorga con la sua lingua. Il lettore non tarderà ad accorgersi che la nota dominante dell’articolo è il contrasto, ora nei modi sintattici più distesi dell’antitesi, ora nell’ossimoro, per quanto esso qui figuri nella giuntura attenuata da congiunzione: “Bellicoso e contemporaneamente rattratto in sé”; sentir “peccaminoso” il “degustare, porsi al servizio”; “nell’estremamente futile” una “verità”; “le sue insicurezze diventavano cogenti”; ecc. La frequenza e la concentrazione nell’ossimoro del procedimento si accentuano via via che l’avvicinamento all’oggetto si fa maggiore, insieme con la condivisione: “generoso e intransigente”; “raggiunto e risparmiato”; “verificarsi e vanificarsi”; “un vagito” che “sa di essere un rantolo”; ecc. È appena il caso di notare che l’antitesi non è a somma zero, ma affina lo sguardo su elementi realmente confliggenti, innescando al contempo l’insofferenza contro ogni acquetamento.
Anche la scelta lessicale è mossa da un’energia che mentre cerca ora la precisione tecnica – principalmente della psicoanalisi, ma anche delle scienze, come “clonato”, o del linguaggio sportivo, “sprint”-; ora di ben determinati campi della cultura – dal dantesco “dittar dentro”, alle “nuge” dei neoteroi latini, fino al latino biblico, all’immancabile francese surrealista e al classicismo filosofico della “cosa in sé” -; tale energia sempre pone quegli appoggi specialistici al servizio di una più ampia connessione e del sapere e dei tempi storici. Da qui la sorvegliatezza del registro, la complessità e le impuntature della sintassi, in perfetta coerenza e quasi in reazione all’allarme sullo sfaldamento dell’italiano.
Zanzotto, come da sua premessa, articola il breve percorso, che in verità abbraccia l’intero quarantennio della frequentazione, intorno alla questione della poesia. Tralasciando i riconoscimenti ricevuti sulla propria poesia, portati a riprova della coerenza fortiniana tra poetica e prassi critica, risultano con nettezza il terreno comune e la diversa ‘traduzione’ che nei due intellettuali esso riceve. Se sotto l’aspetto delle genealogie culturali la consonanza tra i due affonda nel condiviso magistero del romanticismo europeo, sul piano più strettamente storico-sociale loro coevo identica è l’acutezza di sguardo su ciò che Fortini ha chiamato fine del mandato degli intellettuali, di cui il poeta è forma particolare.
Per Fortini la poesia e in genere l’opera d’arte nella società capitalistico-borghese soffre di una doppia mistificazione, che acceca il lettore così come il suo autore. In quanto totalità realizzata ‘in figura’ e in forza del suo costitutivo imperativo al fruitore – sii come me – la forma artistica dà l’illusione di attuare quella pienezza di senso del mondo cui solo una riappropriazione reale del destino comune e di ciascuno può effettivamente approssimarsi. Una mistificazione assai palese e talvolta – come in D’Annunzio – cinica di tale condizione è nell’equiparazione di arte e vita compiuta dall’estetismo primo novecentesco. La seconda mistificazione deriva dalla più ampia condizione della lingua e della cultura. In Fortini ferma è la convinzione marxista che ogni produzione culturale e, prima ancora, ogni enunciato semiotico prende significato dal contesto in cui nasce e vive, compreso quindi il suo medesimo fruitore: due persone diverse che dicono la stessa cosa non dicono la stessa cosa, indica icastico. Tale condizione paradossale, che in verità è diretto portato della socialità dell’uomo, della sua capacità di produrre la storia del proprio genere, incide nella pretesa autosufficienza dell’opera d’arte una seconda ferita, per quanto nascosta dal godimento estetico.
Si tratta di una condizione storica insuperabile in una società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; una contraddizione reale che solo la consapevolezza dello sfruttamento e dell’alienazione rende possibile all’autore e al fruitore di vivere alla sua altezza, cioè in uno stato di negazione e insieme di rifiuto di quell’impotenza. Tale condizione da Fortini è rappresentata con due diverse espressioni: il significato delle parole lo decide chi comanda; la poesia è sempre poesia dei padroni. Per questo, in compagnia di grandi e diversi marxisti, da Lenin a Benjamin fino a Gramsci, sia rammenta a se stesso il comandamento qui ricordato da Zanzotto: non serve a niente, ma scrivi; sia, ricorda ancora il solighese, per lui il poeta non occupa il primo posto. Se solo sul terreno reale, ossia esterno alla totalità dell’opera d’arte, è possibile rendere effettivo l’orizzonte di senso che essa propone e mistifica; è però altrettanto vero che nel tout-se-tien della sua opera fermenta quel bisogno di riappropriazione comune della vita che, dice Fortini, costringeva Lenin a interrompere furioso l’ascolto di Beetoven.
Esattamente questo snodo costitutivo Zanzotto mette a fuoco, perché esso rifrange la propria medesima croce, tradotto, come dicevo, “iuxta propria principia”. La fortiniana lingua dei padroni diventa la lingua dell’inconscio. Il salto tra poeta e saggista, cui Fortini fa fronte con, come con acuta sensibilità dice Zanzotto, “quel tipo di presicurezza insonne che lo travagliava […] una stretta, una tenaglia, un invito ad un’ordalia non evitabile”, mentre Zanzotto, sopraffatto piuttosto dal suo “rapporto col nulla”, cede all’acedia.
Entrambi gli autori, dunque, hanno saputo guardare oltre la superficie dell’impetuosa crescita del dopoguerra, il cui slancio in parte mascherava e rendeva più tollerabili contraddizioni sociali, sopraffazioni umane e alienazioni, sperimentate a partire dalla propria condizione di poeti e di intellettuali, mostrandone nel proprio diverso linguaggio la perdita di ruolo, gli smarrimenti di senso. Comune è anche l’apparentemente opposta marginalità: Fortini, al centro della scena culturale ma in posizione di cattivo maestro delle minoranze, guardato con sufficienza dagli stati maggiori della poesia italiana; Zanzotto, ai margini della marca trevigiana, senza influenza nello scontro intellettuale, ma subito accolto dai poeti più influenti della poesia italiana. Condizione e prezzo, la collocazione ai margini, di chi si ostinava ad ascoltare il vuoto (nella condizione quotidiana, nel cuore euroamericano, nei terzi e quarti mondi) e pretendeva, come aveva insegnato il grande pensiero critico otto-novecentesco, che esso non fosse un residuo, un’incompletezza non ancora raggiunta dalle magnifiche sorti, ma costituisse il prodotto costante e il nutrimento indispensabile del “pieno” che otturava la vista. In entrambi l’orizzonte di senso prendeva insomma la forma della totalità. Per Fortini, essa era una costruzione storica da produrre in una formazione economico-sociale futura, per cui all’intellettuale critico spettava il compito di porsi al massimo livello dello sviluppo intellettuale per mostrarne la contraddizione negativa che ne teneva aperta la dialettica – l’uno, diceva in quegli anni Mao, si divide sempre in due. Trova qui ragione fondativa la raffinata e potente pratica manierista della poesia fortiniana. Per Zanzotto, la totalità è un regno perduto – ma nella sua maggiore consapevolezza, si rammenti, al di là di qualunque dimensione storica, ossia di tentazione nostalgica – da tentare instancabilmente nel dispiegarsi più ampio della storia, di qui la ricorrenza del suo “rapporto col nulla”, le ricadute nell’acedia, di qui l’opposizione simmetrica tra l’impossibilità originaria della parola e la paradossale “verbalizzazione del mondo” (anche in senso tecnico, si pensi alla fertilissima disponibilità plurilinguista zanzottiana), di qui, infine, la centralità, nella sua pagina, dell’ossimoro.
Oggi la restaurazione di una feroce società verticale sotto il dominio triste del finanz-capitalismo ha così potentemente esteso le condizioni della marginalità, non solo del ruolo intellettuale, da farle apparire naturali e se le forme possibili dell’agire contro lo stato di cose presenti sono anch’esse mutate, scendendo ancor più rasoterra, più acuta che mai è divenuta la necessità di un orizzonte di senso che sappia riconnettere le parti del vivere comune e ne mostri la verità storica.
16 agosto 2014
Davvero un gran bel contributo questo di Velio Abati . Condivido l’entusiasmo di Ennio: “Considero questo saggio un esempio vivo e incoraggiante di quella tenace continuità con un grado altissimo di comprensione critica della poesia e della storia raggiunto da quei due autori del secondo Novecento”. E tuttavia sarei un po’ più cauto. Perché mi pare che neppure questo acutissimo intervento ci aiuti a sciogliere un nodo di fondo prodottosi assai prima del secondo Novecento e che pesa tutt’oggi. Dice giustamente Velio Abati: “la consonanza tra i due – Fortini e Zanzotto – affonda nel condiviso magistero del romanticismo europeo”. E già, nel Romanticismo. Di qui l’orfismo zanzottiano, il suo esistenziale, tormentato rapporto con il nulla e quella che, con un velo di canzonatura, io ho chiamato “la metafisica valdese” di Fortini. Il Romanticismo non può ammettere che siamo stati gas eterei, che saremo cenere e che potremo tornare ad essere rocce, gas e fuoco. La speculazione filosofica rinascimentale italiana – quel “Deus sive Natura” – che avrebbe fatto leggere in modo del tutto nuovo l’antico “deus est in nobis” tanto ai neo-orfici lacaniani quanto ai metafisici marxisti, è stata sostanzialmente ignorata in tutte le sue enormi potenzialità e implicazioni pratiche, culturali, rivoluzionarie, esistenziali e letterarie. E questo spiega molte cose. Forse anche il perché da noi non è nato un Bertolt Brecht. (Però in compenso, per chi si accontenta, abbiamo avuto un Edoardo Sanguineti). Ma soprattutto dà ragione del fatto che il più grande poeta e filosofo materialista della più recente modernità – materialista senza alcun tentennamento tanto da giudicare un fiore selvatico – la ginestra – ben più saggia degli umani per il fatto di non credersi immortale – e il suo potente, solidale messaggio di “vero amor” tra gli uomini “fra sé confederati”, sono stati, se non ignorati, certo per nulla “praticati”. Tranne rare eccezioni – Luporini, Timpanaro, Binni – il più autentico insegnamento leopardiano non è stato né disvelato né, tanto meno, è divenuto, come avrebbe potuto, critica operante, capace di incidere sulla realtà della storia, sulla nostra attualità e sul nostro futuro. C’è questo grande vuoto da colmare nella nostra cultura. Spero che anche da queste sporadiche riflessioni possa nascere qualcosa che vada in questa direzione.
Un’ultima noticina, un po’ marginale e un po’ no. Giustissimo reagire alle enormi pressioni sulla realtà linguistica italiana, ma allora, con buona pace dei situazionisti e dei lacaniani, usiamo “deviazione” invece di “détournement” e “mancanza” invece di “béance”. Capiremmo tutto lo stesso e il nostro l’orecchio ne sarebbe compiaciuto. Evviva, infatti, “le marruche e gli sterpi”!
Quando, nella presentazione di questo intervento prezioso di V. Abati, Ennio parla: * di comprensione critica della poesia e della storia raggiunto da quei due autori* ha già detto tutto. Ovvero come poesia e storia si necessitano l’una all’altra.
E che poi V. Abati precisa meglio con:
* Se è vero per la critica, non lo è meno per l’opera letteraria, perché ciò attiene alla misteriosa, difficile e pericolosa qualità di ogni azione umana. È insieme nell’hic et nunc, ne subisce la genesi, la natura, ed è eterna. Anzi, tanto più è vera, ossia porta limpida la radice della propria profonda storicità, tanto più essa è di ogni uomo, di ogni tempo*.
Ogni azione umana contempla dunque nel presente lo srotolarsi del passato in proiezione di un futuro la cui visione può essere sostenuta solo avendo una *“totalizzante fede in un senso del mondo”* (Zanzotto).
Al contrario, oggi assistiamo ad una cristallizzazione dell’ hic et nunc con una pesante abolizione del passato: tutto si esaurisce nel presente. Questa ‘rimozione’ a livello collettivo (‘rimozione’ nei casi migliori. A volte si tratta di una vera e propria ‘negazione’. O di tradimento del proprio passato) comporta poi, di contrappasso, alla necessità del rituale della ‘commemorazione’, una particolare forma di ‘coazione’ che svolgerebbe sì la funzione di una memoria, però sterile, non prodotta da nessun vero lavoro di lutto, nessun ripensamento critico.
Ogni atto culturale (e la poesia è un atto culturale) è, afferma Zanzotto, “etico-politico”. E un atto culturale non può prescindere dall’assunzione di una responsabilità personale, in cui ognuno fa la sua parte perché * le impotenze e le umiliazioni che ci assalgono non sono né naturali né opera di un dio nascosto, ma prodotto storico-umano* (V. Abati).
V. Abati scrive: * Come accade a un pensiero forte e ai poeti autentici, Zanzotto impiega il proprio metro anche nella lettura degli altri, tanto più penetrante quanto più affini gli autori…*.
Io credo che oltre a ciò (al riconoscimento dell’altro a partire dal proprio metro), ci sia anche un discorso che trascende il personale: il poeta ci fa capire che “non è solo di me che si tratta, ma è anche di te che sto parlando”.
R.S.
p.s. Condivido l’invito di P. Ottaviani a riprendere in mano, sottoponendolo all’attenzione *il più autentico insegnamento leopardiano [che] non è stato né disvelato né, tanto meno, è divenuto, come avrebbe potuto, critica operante, capace di incidere sulla realtà della storia, sulla nostra attualità e sul nostro futuro. C’è questo grande vuoto da colmare nella nostra cultura*.
Quanto alla ‘noticina’, la utilizzerei “cum grano salis”. Altrimenti non dovremmo scrivere né “Deus sive Natura” , né “deus est in nobis”. L’importante è non ricorrervi con ‘supponenza’ (Zanzotto era un artista nel fare questi inserimenti in lingue altre, e ovviamente, tutto ciò aveva un senso). Certe espressioni ormai fanno parte della competenza linguistica che il lettore ‘medio’ dovrebbe avere. Io non sapevo che cos’erano le marruche e, consultato il vocabolario, adesso lo so.
Oltretutto si tratta di termini il cui senso si esprime meglio nel contesto linguistico in cui sono stati scritti, per cui béance esprime molto di più che la traduzione di ‘mancanza’. Anche détournement non risponde soltanto al concetto di deviazione che è molto più riduttivo. Certo che ci sono pressioni di tipo ‘colonialista’ sulla nostra lingua ma, per salvarla, non possiamo cadere all’eccesso opposto (com’era successo al povero Louis Armstrong, tradotto con Luigi Fortebraccio!!!)
R.S.
Chiedo scusa per il refuso nella penultima riga del mio intervento; leggasi “e il nostro orecchio ne sarebbe compiaciuto”. Concordo inoltre con Rita Simonitto, la mia noticina va presa “cum grano salis”… ma le citazioni in latino per una lingua romanza non possono essere considerate un’aggressione straniera, piuttosto come una perdurante testimonianza e vitalità del nostro specimen culturale.
@ Ottaviani
Caro Paolo,
il mio entusiasmo è soprattutto per il livello alto del contributo di Abati, che ci trasporta “in più spirabil aere”, e in ogni caso non nasconde nessun « nodo di fondo prodottosi assai prima del secondo Novecento e che pesa tutt’oggi».
Per me il problema vicinanze-distanze tra Fortini e Zanzotto (che è poi anche tra due modi “diversi” di intendere la poesia e il rapporto con il mondo o la realtà) resta aperto, da esplorare.
E fai anche bene dal tuo punto di vista a prendere le distanze dai due, mettendo Zanzotto tra i «neo-orfici lacaniani» e Fortini tra i «metafisici marxisti», a richiamare un’altra “rivoluzione culturale tradita” come quella della «speculazione filosofica rinascimentale» (io però esiterei a qualificarla speditamente come «italiana»), a tirare in ballo Leopardi, a rinominare Luporini, Timpanaro e Binni. Il discorso si allarga, si complica, ma ce n’è bisogno, penso.
Vorrei però che non ci fermassimo a queste «sporadiche riflessioni». Perciò t’inviterei a produrre in vista della pubblicazione su questo sito delle riflessioni organiche sui temi e gli autori che hai nominato. L’invito è rivolto anche ad altri/e.
Da parte mia spero nelle prossime settimane di dar conto in particolare di due riletture che sotto la spinta di questi interventi ho fatto in questi giorni. La prima è di Romano Luperini, «Ricordando Timpanaro», in «L’ospite ingrato» 2001-2002. La seconda proprio di Velio Abati, di cui ho ritrovato «Dalla corrispondenza di Franco Fortini. Andrea Zanzotto-Franco Fortini». Due lettere (1960-1968) e un’intervista. A cura e con un saggio di Velio Abati», in «L’ospite ingrato» 1999.