Di fronte allo scempio di quel che sta accadendo a Gaza sento sempre più spesso ripetere: Israele oramai è peggio dei nazisti. E non capisco.
Intanto Israele è uno Stato e i nazisti furono un partito politico, sì che bisognerebbe dire semmai “Israele è peggio della Germania” o “I sionisti sono peggio dei nazisti”, ma questi son dettagli da professore. Quel che non mi spiego è in che senso “Peggio dei nazisti”?
Non sono ingenuo, comprendo la funzione di shock dell’esagerazione, della bestemmia, dello slogan feroce o del paradosso. Eppure i conti non tornano.
Mi chiedo: c’è del vero? In che cosa Israele è oramai peggio dei nazisti? E faccio l’elenco, il tristissimo elenco.
Non nel numero dei morti, per quanto si voglia rivedere e revisionare, e neanche nel modo di uccidere, di condurre esperimenti scientifici sulle vittime, di violentare le donne.
Non nelle prigioni, per quanto vivere a Gaza sia duro e umiliante oggi, i campi di sterminio nazisti erano sicuramente posti peggiori, né nella sistematica ferocia con la quale le vittime vengono raccolte, ammassate e uccise.
La situazione attorno agli ebrei durante lo sterminio era sicuramente peggiore di quella che vivono oggi i palestinesi di Gaza che hanno, se non altro a parole, alleati vicini e lontani, e il mondo, seppure in modo spesso solo scandalistico e poco onesto, si occupa di loro, mentre gli ebrei vennero sterminati nel generale silenzio.
Le dichiarazioni di principio contano al tempo stesso pochissimo e molto. È un dato di fatto che nessun governo Israeliano ha mai detto che bisogna sterminare tutti i palestinesi del mondo per pulire la “razza” ebrea (che del resto non esiste), mentre i dirigenti del partito Nazionalsocialista proprio questo dicevano. E cercarono di portare a termine l’operazione con efficienza.
Si potrebbe dire che l’occupazione della Palestina dura dal 1948, non sarei d’accordo ma si potrebbe dire che Israele è oramai peggio dei nazisti perché è più tempo che si accanisce contro le sue vittime. Ma anche qui, ci si dimenticherebbe che i nazisti ereditarono una lunga, lunghissima tradizione di stragi, deportazioni e massacri di ebrei nel corso dei secoli, e non furono loro a iniziare ma solo a dare un volto terribile alla cosa.
E così mi ritrovo al punto di prima.
Se chiedo agli amici, l’unico argomento serio con il quale mi rispondono è che “proprio gli ebrei che hanno per millenni sofferto la persecuzione, adesso tiranneggiano un altro popolo”, insomma: “Da vittime si sono trasformati in carnefici”. Rifletto: in che senso?
È vero, nella vittima che improvvisamente si ritrova a poter esercitare potere si assiste spesso all’insorgere di una violenza spropositata. Tralascio il fatto che un conto è la psicologia individuale, un altro la storia di un popolo, e mi domando: è in questo senso che Israele è peggio dei nazisti? Perché prima gli ebrei erano vittime e adesso sono gli aggressori? Israele non è gli ebrei e gli ebrei non sono Israele, ma facciamo finta che l’identificazione sia completa, se i nazisti fossero stati a loro volta vittime prima di far strage degli ebrei cambierebbe qualcosa? Sarebbero a questo punto loro i peggiori?
L’argomento non funziona. Di solito se un individuo è stato vittima di una violenza si tende semmai a scusare il suo comportamento successivo (entro certi limiti d’intende) non a considerare la violenza subito in passato una aggravante. Ma in questo caso sì. Che cosa dunque non si vuol perdonare agli ebrei, al punto da dire che oramai sono peggio dei nazisti?
In giro si legge di tutto. Anche amici e compagni, di solito informati, colti e razionali nel loro argomentare, si lasciano andare a slogan contro il dominio di Israele e degli ebrei nel mondo, da Hollywood alla finanza mondiale, da Internet ai Mass Media. Ma se voglio capire in che senso per loro Israele è “peggio dei nazisti”, devo far finta di nulla e ascoltare solo la parte razionale delle loro argomentazioni.
E così si torna allo sterminio degli ebrei, come pietra di paragone di tutto. I miei amici sono persone di buon cuore (sia detto senza alcuna ironia), e sono portati a stare dalla parte di chi soffre, del più debole, sempre. Ieri sarebbero stati con gli ebrei (voglio sperare), oggi stanno con i palestinesi; insomma stanno dalla parte delle vittime. E fanno bene aggiungo io, per quanto poco valga il mio apprezzamento. Ma il problema è che stanno dalla parte delle vittime, solo e fin tanto che restano vittime.
Le persone, gli amici che dicono che la storia dello Sterminio degli ebrei è oramai vecchia e non può servire a giustificare la presenza di Israele in Medio Oriente, sono gli stessi che poi dicono che Israele “oramai è peggio dei nazisti”, e che proprio perché gli ebrei hanno subito un tempo quello sterminio oggi sono più colpevoli ancora. Sono un po’ strabici a volte i miei interlocutori. Si può decidere e argomentare che lo Sterminio degli ebrei non giustifica l’esistenza di Israele, ma non si può al tempo stesso rimproverare le vittime di aver tradito l’eredità morale di quella immane tragedia. Lo so, lo disse a suo modo anche Fortini; ebbene, mi dispiace, non sono d’accordo col mio maestro su questo punto.
E mi viene in mente che forse una spiegazione c’è a questo mantra del “peggio dei nazisti”, ma è da ricercare in noi stessi e non nella storia degli ebrei, o dei palestinesi.
Chi dice che “Israele è peggio dei nazisti”, dice in un sol colpo molte cose. Che lui non è nazista, per esempio, e che quel che fecero i nazisti fu orribile, ma che naturalmente non c’entra niente lui, né il paese dove vive, né le comunità delle quali fa parte. Dice anche che quel che soffrono i palestinesi è terribile, e lui è un giusto e si commuove e si preoccupa per loro, ma naturalmente anche in questo caso lui non ha colpe o responsabilità. Dice insomma, questo uomo, che lui è un giusto, che ama sinceramente le vittime e vuole aiutarle, anche se lui di colpe proprio non ne ha nessuna.
Chi condanna Israele con lo slogan “peggio dei nazisti” in realtà sta semplicemente assolvendo se stesso. E non perdonerà a nessuno di mettere in discussione l’immagine di sé che ha, neanche alla vittime delle quali tanto ha a cuore il destino.
Non esiste una cosa come il popolo palestinese … Non è che noi siamo venuti e li abbiamo cacciati , o che abbiamo preso il oro paese. E’ che essi non esistono.Quindi come possiamo restituire i territori occupati? Non c’è nessuno a cui restituirli.
–Golda Meir, 1969
È un dato di fatto che nessun governo israeliano ha mai detto che bisogna sterminare tutti i palestinesi del mondo
Ezio Parte-Sana, 2014
Non trova nessuna differenza tra la mia affermazione e quella di Golda Meir? O tra quella di Golda Meir e il Protocollo Eichmann? Il mio piccolo pamphlet si occupa di ideologia, della nostra, non della correttezza della politica israeliana sotto il primo ministro Golda Meir, del contesto di quelle affermazioni (che per altro appartengono a due interviste diverse, ma poco importa) o del credo politico e carattere di quella donna.
Io come vicini di casa preferisco gli svizzeri, a nord, e i profughi africani a sud. Gli svizzeri si fanno gli Affari loro, noi facciamo affari con loro e i profughi sperano che resti qualcosa anche per loro. Così si vivacchia, ciascuno a casa propria o provvisoriamente in casa degli altri, ma pagandosi l’affitto. Certo, potremmo affondare tutte le imbarcazioni che arrivano senza visto e preavviso, potremmo essere tutti dei marò, e magari prenderci la briga di ripulire il mare dai cadaveri… è questione di difesa, avremmo la ragione dalla nostra parte! anzi, meglio sarebbe stare sulle coste africane, mitragliatori alla mano per farli fuori prima che partano: bambini, donne, chiunque ci provi. Chi sono per noi? Niente, non avrebbe senso neanche cercare di stabilire con loro delle alleanze, cosa ci guadagneremmo? Non hanno risorse, niente da vendere. Sono solo un impiccio. In più, chi ci dice che non siano terroristi? La ragione sarebbe dalla nostra parte. Anche i palestinesi di Hamas sono un impiccio per Israele, però si fanno sentire lanciando razzi. E’ un’altra faccenda. In questo caso sì, l’unica è sterminarli come si fa coi topi. Lasciamo le discussioni alla cronaca nera, lo facciano loro il conto dei morti. Ma guarda caso ci sono più morti di genere maschile che femminile, e i bambini sono in percentuale molto bassa rispetto agli altri ( da un articolo filoisraeliano che ho letto). Questo vorrà pur dire qualcosa, no? Gli israeliani sono ben diversi dai nazisti, i nazisti facevano il conto dei propri morti e non perdevano tempo con gli altri. Per uno di noi dieci di loro, dicevano. E’ così che si vincono le guerre.
(spero si colga la metafora)
Se fossi in vena di ironia direi (ma non lo sono): come si volevasi dimostrare.
Certo non si possono paragonare due questioni tanto differenti, di sicuro una parte (minoritaria) degli italiani butterebbe a mare tutti i profughi. Dunque sbaglio a credere che il principio per il quale Israele parta con l’esercito per risolvere la sua questione, in fondo sia lo stesso? è un ragionare sbrigativo, fazioso? cosa impedisce a Israele di scegliere altre vie, altre soluzioni? perché dare sempre e solo prove autoritarie, di forza?
Per quel che riguarda poi il “peggio dei nazisti”, a me non è mai passato per la testa. E’ lei che ha sollevato l’argomento. Su questo aspetto non sono mai andato oltre lo stupore nel vedere un popolo tanto provato dalla storia, al punto che dovrebbe stare in cima alla graduatoria del pacifismo per almeno un millennio, vedere che si comporta con tanta determinazione e spietatezza. Tutte le religioni si dicono perseguitate, gli stessi cristiani dai romani in poi, tutta la storia delle religioni è costellata di martiri e martìri: è questo, questo risentimento, che incattivisce i loro messaggi di pace? e poi di che Pace parliamo? per un pacifista basterebbe la morte di un solo bambino per provvedere a risolvere la feccenda. Veda lei quanto sia giusto concedere alla ragione.
“Chi condanna Israele con lo slogan “peggio dei nazisti” in realtà sta semplicemente assolvendo se stesso”. Eh no! Questa conclusione è inaccettabile. “L’argomento non funziona”. Concordo invece con tutte le restanti argomentazioni. Ritengo infatti che sia sempre un errore stilare graduatorie di delitti e assassinii. Il “peggio” o il “meno peggio” che mai può contare in queste tragedie? Ma forse l’errore nasce proprio dall’aver assunto l’Olocausto come il male assoluto, il più grande di tutti. Magari dimenticando altri genocidi. Vedi, per esempio, la storia del continente americano.
Gentile Paolo Ottaviani,
lo Sterminio degli ebrei è assunto, diciamo così, a esempio assoluto per via dei modi e dei tempi. Se lei crede che si debba ripensare questo giudizio, e non c’è nulla di male, racconti e spieghi.
Gentile Ezio Partesana,
le confermo che ritengo assai pertinenti le sue argomentazioni ed errata la sua conclusione. Non credo infatti che nessuno stia cercando di autoassolversi. (Da quale colpa poi?). Ne consegue che, sempre a mio modestissimo parere, Ennio Abate ha sbagliato un titolo nel contesto di sacrosante, giustissime riflessioni e, soprattutto, ha saputo porre il quesito fondamentale: perché il potente Stato d’Israele non risolve, laicamente e pacificamente, la questione palestinese? Domanda che resta tragicamente inevasa. Per quanto riguarda infine la classifica dei peggiori genocidi perpretati nel corso dei millenni non ho nulla da spiegare. Semplicemente ritengo non giovevole a nessuno stilare questo genere di graduatorie. A che pro intestarsi tanto infelice primato?
Gentile Paolo,
sul perché Israele “non risolva, laicamente e pacificamente, la questione palestinese” si potrebbe discutere, ma affinché i ragionamenti siano seri bisognerebbe iniziare da una ricostruzione delle vicende storiche di quella terra, senza tagli verticali (una data di “inizio”) né orizzontali (una limitazione geografica) che si vogliono neutri ma che contengono, va da sé, già buona parte delle risposte. Dubito che questo sia il luogo adatto, però accoglierei gioiosamente una smentita.
Non sono invece d’accordo con lei quando non vede da quale colpa mai ci si debba assolvere; credo che noi europei odierni ne abbiamo invece assai di che rimpiangere, sia storicamente che socialmente. Ci fu un periodo, che va grossomodo dalla fine della Seconda guerra mondiale sino agli anni Settanta, nel quale un gruppo di intellettuali, racchiusi per brevità dentro la formula “Scuola di Francoforte”, rifletté su questi temi (in buona compagnia per altro); nel contesto di questo blog non posso che maleducatamente (e me ne scuso) rimandarla a quei ragionamenti per capire cosa io intenda per “colpa”.
Gentile Partesana, pur non avendo studiato sui blog, conosco queste scuole o scuolette alle quali Lei fa riferimento. Ma io rimango fermo a un vecchio principio, forse neppure mai scritto, di un’antichissima scuola della quale non ricordo più il nome: non esistono colpe “sociali” o “storiche” – altrimenti esisterebbero anche quelle “originali”! – bensì soltanto le eventuali, miserrime colpe personali. Lei intanto, “affinché i ragionamenti siano seri”, studi pure le “vicende storiche di quella terra, senza tagli verticali (una data di “inizio”) né orizzontali (una limitazione geografica)”. Magari scoprirà che è tutta colpa di Caino.
Mah… mi sembra una ironia un poco senza senso la sua, però ognuno reagisce come gli pare. Certo, non posso fare a meno di notare che una certa resistenza, se mi si passa il termine analitico senza troppo astio, esiste eccome su alcuni argomenti, giacché si comincia a parlare di “scuolette” e “colpa di Caino”. Io ho solo scritto che l’individuo moderno soffre di alcune debolezze e che propaganda e ideologia campano e funzionano anche a causa di una struttura del Sé non proprio cristallina e solida, e credo anche di essere in buona compagnia su questo punto.
Non capisco poi perché chiedere di ragionare senza particolari presupposti sia offensivo; ovvio che ci siano cose “sgradevoli” da conoscere o ammettere (per me, per lei, per chiunque si metta a pensare), ma non mi sembra un buon motivo allora per lasciar perdere tutto. A meno che lei non intenda, ma non lo credo proprio, che bisogna discutere solo con chi condivide i nostri stessi presupposti, anche se anche questo, mi rendo conto, è argomento complicato, perché qualche terreno comune ci deve essere eccome per poter ragionare insieme (il Fortini che cita spesso Ennio lo ripeté assai).
E per finire, e a scanso di equivoci, guardi che il mio riferimento ai blog era a questo blog, e mi scusavo per la mossa poco gentile di rimandare a un gruppo di pensatori che non tutti conoscono non avendo il tempo (in questo blog appunto) di raccontare tutti i termini di quel che vado pensando; non c’era la minima intenzione offensiva, insomma.
M’immagino l’ideologia come un vapore che appanni i vetri delle finestre di casa mia e impedisca di guardare cosa c’è fuori. È giusto disappannare. Mi chiederei però quale vetro, dei tanti lati della mia casa, io debba per primo disappannare. Fuor di metafora: mettersi a ripulire, come fa con grande intelligenza Ezio, il vetro “Israele=nazismo o peggio”, che pur offusca molte menti, mi pare lavoro sprecato. Come se ci si ostinasse a distruggere qualcosa che è già distrutto o che, comunque, non nasconde qualcosa di essenziale, di principale, in quel conflitto. Più urgente mi pare disappannare un altro vetro che ci permetta di vedere la scena madre, la scena “giusta”.
Faccio un altro esempio. Ricordate, ai tempi della guerra del Golfo nel 1990, la formuletta “antifascista” «Saddam=Hitler», che pur ebbe presa su molte menti “di sinistra”? O la menzogna delle «armi di distruzione di massa» pronte a essere usate contro l’Occidente?
Ecco, per me quegli stereotipi, obsoleti e menzogneri, servirono ad animare per un bel po’ la chiacchiera da guerra psicologica che accompagnò quel conflitto, e impedirono alla gente di interrogarsi sull’essenziale: la minaccia alla pace veniva dagli Usa o da Saddam? (O più dagli Usa che da Saddam?).
E così, oggi, il sempre rispolverato stereotipo “Israele=nazismo o peggio” impedisce di interrogarsi sulla cosa essenziale: la qualità della politica, che Israele dalla sua fondazione a Netanyahu, sta facendo in Palestina.
Il solito ragazzino che grida al momento giusto «il re è nudo», oggi, invece di gridare “Israele=nazismo”, sta gridando: «Israele continua a schiacciare ogni opposizione e non concede ai palestinesi nulla; anzi gli strappa ogni giorno qualcosa». È questo è evidente tutti i giorni, anche prima dei vari bombardamenti “a puntate” di Gaza, ma si fa finta di non sentirlo e non vederlo. È questo squilibrio che va almeno un po’ – facciamo i riformisti e i non violenti! – sanato.
Perché, insomma, anche “noi” dovremmo perdere tempo a discutere su un immaginario del passato, evocando fantasmi del passato e dandoci poi da fare con grande intelligenza a scacciarli?
Riconoscessimo tutti – in una sorta di razionalissima tavola rotonda habermasiana, a cui partecipassero i rappresentanti del governo israeliano, di Hamas, di Abu Mazen, di Renzi, di Obama, dell’ONU – che Israele non è nazista e non sta facendo un genocidio, resta il fatto che da settant’anni Israele non sa trovare o non vuole trovare una soluzione decente alla questione palestinese.
È questo lo scandalo storico che si vede disappannando i vetri della finestra giusta.
La vera domanda da porci possibilmente, anche in questa auspicabile discussione e dato per scontato (da parte mia) che gli altri, i palestinesi, essendo in ginocchio o stesi tramortiti per terra, non possono permettersi di fare quello che può fare lo Stato d’Israele ben in piedi e nel pieno (fin troppo) vigore delle sue forze – è questa: perché non riesce? perché non vuole?
La mia casa è piccola, ha poche finestre. Ci sono già così tanti uomini che soffrono al posto mio, perché dovrei pulire una sola finestra? Perché ogni volta (“fuor di metafora”, come scrivi tu) che uno ricorda delle differenze, della storia, delle colpe nostre e via dicendo, c’è sempre qualcuno pronto a dire che “sì, tutto bene, però intanto c’è una urgenza…”.
Visto che noi siamo i fortunati che non sono bombardati, né bombardano, perché non possiamo “pulire” un po’ di finestre tutte insieme alla volta? Perché non posso essere assolutamente contrario a quel che il governo israeliano sta facendo a Gaza e contemporaneamente criticare certi slogan un po’ sciocchini che sembra come quando i bambini dicono le parolacce per scandalizzare i grandi? Perché non posso essere a favore di una terra, una pace e una dignità per i palestinesi e nel contempo criticare nella sostanza, nel modo e nella forma la politica di Hamas?
La tua mi sembra, caro Ennio, una “chiamata alla armi”, o con noi o contro di noi. Io invece – che poco o nulla posso per i palestinesi e gli ebrei – cerco almeno di far qualcosa perché qui da noi si continui a ragionare con il minor tasso di ideologia possibile. Cerco di pulire le nostre di finestre insomma, tutte.
L ytalya bombarda eccome, eccome se bombarda.Che differenza c é , infatti, fra chi schiaccia un bottone per un missile a margine (rigorosamente protettivo) e chi vende il missile e molto altro? Contratti. Di morte.Merci, congegni. . a colui che da tre falsi rapimenti innesca l’ennesimo margine (sempre rigorosamente protettivo) con un’altra paccata dimigliaia di vittime e tanta bella terra rasa al suolo e pronta per altri milioni di danni (leggi occupazione)
Io ho scritto sulla nostra ideologia, e lei mi conferma che i cattivi sono altri e noi siamo sempre buoni e puri, anche se in questo caso gli “altri” sono le industrie che producono e vendono armi.
Non credo abbia voluto comprendere il mio brevissimo intervento , peraltro limitato ad una delle tante sue affermazioni perentorie in cui lei, non altri, escludeva che gli altri , in questo suo caso gli italiani, fossero esenti da responsabilità sul genocidio dei palestinesi….peraltro come non lo sono sui massacri e la distruzione in Iraq o in Libia, in Libano o in Ucraina…però magari può aver pensato che stiamo andando a proteggere i curdi o che mare nostrum abbia a cuore i siriani o gli africani.lei ai miei occhi di cannibali democratici , noi o altri, ha capito nulla.Per vedere gli assassini e la morte lei ha bisogno di vedere fornetti o lager. E per vedere eliminazione di popoli e occupazioni di terre e risorse e rotte, sempre lei e i suoi simili avete bisogno di apparenze convenzionali…insomma alla fin della fiera anche di Hitler e di cosa ha avviato, complici anche i suoi apparenti nemici, avete imparato nulla di nulla.infatti l attuale storia degli states e dei suoi alleati in Ucraina con i nazisti, é la dimostrazione di questo splendido occidente democratico nato a conclusione di un nazismo per l’avvio di una seconda versione “democratica “
…considero lo slogan ideato da Ennio Abate nei confronti dello Stato di Israele di grande ferocia (anche perchè la macelleria solitamente precede il cannibalismo) ma é come una piccola pietra scagliata da una mano coraggiosa ontro un esercito armato di giganti crudeli…esprime un’insofferenza che é di molti nei confronti di chi commette o ha commesso eccidi o genocidi oggi come ieri (Mi é capitato recentemente di ascoltare un audiodramma di R. Bobbio sui genocidi dimenticati in Amazzonia e in Congo)…D’altra parte di quello che é successo qui in Europa ci sono ancora superstiti e testimoni…Gli Ebrei Giusti sparsi in tutto il mondo, anche in Israele, hanno condannato lo sterminio di Palestinesi in corso e per loro, forse, bisognerebbe inventare un altro slogan di riconoscimento e di incoraggiamento. Dev’essere terribile, solo perchè ebrei, essere accostati a comportamenti così insensati. Infine mi faccio una domanda, valida anche per me: si può arrivare a non far torto, nè patirlo? Cercare di non essere nè vittima, nè carnefice? Esiste oggi un piccolo spazio di libertà in questa direzione?
Insisto
il grande potere economico delle armi dove lo mettiamo? Non pensate che anche a Gaza questo potere abbia superato l’idea di una libertà basata su ideali di pace? Figuriamoci in Israele! Ormai basta un gruppo di esaltati , ben istruiti e monetizzati e il gioco è fatto. Al povero popolo non resta che soccombere e morire. Responsabilità verso gli oppressi, pace, giustizia (non parliamo di compassione e amore perché non s’usano più), sono così lontani che mi sembra a volte di essere una povera pazza che continua a credere in qualcosa di morto e sepolto. Le super potenze contano i bligliettoni e noi guardiamo i TG che ci riempiono di balle.
Lei è sicuramente una persona di buona volontà, ma a parte la divisione tra “ebrei giusti” e, si suppone, “ebrei non giusti”, posso chiederle che cosa ha a che fare il suo commento con quel che ho scritto io?
A Partesana
Scusi forse non ho compreso ma si riferisce a me nel commento del 28 agosto ore 16.25 o ad Annamaria Locatelli?
Ha ragione, perdoni, ho sbagliato il luogo del commento…
Gentile Annamaria,
anch’io sogno un mondo senza torti, subiti o procurati, esente quindi dal male. La storia degli uomini ci dice purtroppo dell’altro. La presenza oscura del male sembra essere ineludibile. Tanto vale allora – cosa che mi sforzo sempre di fare – esercitarsi a praticare l’insegnamento socratico. Meglio, o se si vuole, meno peggio, subire che fare il male. Di più sembra proprio che non ci sia concesso.
Cordialità
* Chi condanna Israele con lo slogan “peggio dei nazisti” in realtà sta semplicemente assolvendo se stesso. E non perdonerà a nessuno di mettere in discussione l’immagine di sé che ha, neanche alla vittime delle quali tanto ha a cuore il destino* (E. Partesana)
*“Chi condanna Israele con lo slogan “peggio dei nazisti” in realtà sta semplicemente assolvendo se stesso”. Eh no! Questa conclusione è inaccettabile* (P. Ottaviani)
* Fuor di metafora: mettersi a ripulire, come fa con grande intelligenza Ezio, il vetro “Israele=nazismo o peggio”, che pur offusca molte menti, mi pare lavoro sprecato. Come se ci si ostinasse a distruggere qualcosa che è già distrutto o che, comunque, non nasconde qualcosa di essenziale, di principale, in quel conflitto. Più urgente mi pare disappannare un altro vetro che ci permetta di vedere la scena madre, la scena “giusta”.*
Ho l’impressione che l’analitico intervento di E. Partesana non sia lavoro sprecato perchè ci fa capire come rimanga da analizzare anche qualcosa di più profondo, di personale oltre che ideologico e che poi, partendo da un livello individuale ed espandendosi a ‘senso comune’, impedisce di andare a pulire altri vetri, quelli più importanti come Ennio Abate auspica – e qui con lui concordo.
Ci fa pensare come queste “attribuzioni” di “peggio dei nazisti” o “peggio dei fascisti” o “peggio delle purghe staliniane” che vengono fatte via via ora a carico di un soggetto ora a carico dell’altro (e ultimamente gli esempio non ci sono mancati né ci stanno mancando), siano funzionali a far muovere gli orientamenti emotivi in una direzione o nell’altra escludendo aprioristicamente ogni possibilità di pensiero. Proprio perché la parte emotiva ‘antecede’ la complessità del pensare essa è di più facile accesso. Si scaldano gli animi al solo pronunciare determinate parole a prescindere dal contesto in cui vengono dette.
Utilizzando la citazione di P. Valéry che diceva che “la coscienza domina ma non governa”, le emozioni invece rischiano di ‘governare’ – a modo loro, ovvero in modo anarchico – anche i nostri apparati percettivi: ognuno vede ciò che vuole vedere e * non perdonerà a nessuno di mettere in discussione l’immagine di sé che ha*.
Se non accettiamo di pensare anche in questi termini che ci sta a fare la psicoanalisi?
R.S.
Per quanto poco valga il mio apprezzamento… sì, sono d’accordo con lei. Come scrisse con molta ironia Adorno qualche decennio fa (molti decenni fa): “Nella psicoanalisi non c’è altro di vero che le sue esagerazioni”.
Ancora su Israele e i Palestinesi.
L’intervista a Uri Avnery ( fulminante la sua apertura su Churcill mascalzone ! ) e l’intervento di Partesana mi spingono ad aggiungere qualcosa a quanto ho già scritto. Possono sembrare modificazioni al mio punto di vista precedente,ma in realtà si tratta di una ricerca di maggiore chiarezza.
1.
C’è , o almeno io credo che ci sia, una ipocrisia di fondo tanto nelle posizioni filoisraeliane quanto in quelle filopalestinesi.Ma con questa osservazione non intendo esprimere una condanna. In questa comune ipocrisia ci porta la nostra condizione umana e la Storia che di essa è espressione. Condizione che nessuno,fino ad oggi,è riuscito a modificare.
Curiosamente tale ipocrisia è alimentata – persino discorsivamente – anche da chi se ne dichiara immune. Come si fa a non essere d’accordo con E.A quando – a più riprese – ricorda che la nascita di tutti gli Stati si fonda “ sulla violenza “ ? Lascio da parte ogni discussione sull’abolizione dello Stato quale remedium. E’ poi fin troppo evidente l’insufficienza ( e ambiguità ) dell’osservazione di Fortini secondo cui Israele è nato dalla guerra e attraverso la guerra morirà o sopravviverà. Perché ? Non è così “ per tutti gli Stati” che conosciamo?
Nella discussione il nesso violenza – Stato viene ricordato a fasi alterne, secondo la convenienza. Freud direbbe che ci troviamo di fronte ad una rimozione che ha radici nel nostro reale atteggiamento verso il conflitto e il suo esito.
Perché tale conflitto ci interessa tanto ? Questa domanda implica a mio giudizio una analisi delle specifiche caratteristiche di esso. Io credo che si tratti di un conflitto in un certo senso speciale. Non è cinismo ma esigenza di chiarezza quella che mi spinge a sottovalutare il richiamo “ alla difesa del più debole”, come se non ci fossero in giro nel mondo altri esempi,crudelissimi,di persecuzioni e oppressioni contro i più deboli.Non è questa la
“ specialità “ del conflitto di Palestina.
Esso affonda nella storia remotissima, nella storia passata, nella storia recente e recentissima.
E per tali ragioni si scompone in una serie di particolarità.
Comincio coll’osservazione che i Palestinesi ricercano una stabile identità nazionale ( Sia detto, en passant, che l’astratta equivalenza fatta da E.A tra nazionalismo e imperialismo a mio giudizio non regge ). Aggiungo altri dati. Che io sappia non vi fu mai una pacifica
“ coabitazione “ tra Ebrei e autoctoni della Palestina.Non vi è mai stata quella “ conquista violenta “ degli uni a danno degli altri che avrebbe – per così dire –coonestato il Giudizio della Storia. C’è di contro una situazione,per certi versi simmetrica, tra “ un popolo senza terra “ e una “ terra senza popolo” alla quale è seguita la costituzione di un solo Stato. La vittoria di questo determinerebbe non la fine di un altro Stato ( come organizzazione formale di un certo tipo ) ma la dispersione di un altro popolo. Se fosse quest’ultimo a vincere si avrebbe la vittoria non di uno Stato contro un altro ma la vittoria di un popolo contro uno Stato.
Mi raggiunge la confortante notizia di una tregua proprio mentre meditavo – pessimisticamente – su alcune testimonianze secondo le quali Israele ( il suo “ governo” ) vorrebbe proprio tale dispersione così come i Palestinesi ( più difficile per essi identificare un “ centro di responsabilità politica “ e una unitaria scelta di intenti ) vorrebbero distruggere Israele come Stato.
Altri dati di “ specialità” del conflitto. C’è la “ diaspora” del popolo ebreo; c’è l’antisemitismo diffuso ed ancora vivo e vegeto che mette d’accordo bellamente religioni disparate e antitetiche posizioni politiche; c’è il ritorno degli Ebrei in Palestina a seguito delle iniziative del Movimento sionista. E’ stato “ tollerato “quasi a risarcimento della Diaspora o favorito per ragioni di geopolitica a sfondo imperialistico? Non escludo che sia stato presente anche questo aspetto ma – visto dalla parte degli Ebrei – si è trattato pur sempre realisticamente di un appoggio richiesto a potenze amico ed ottenuto da esse a potenze secondo quanto da tempi immemorabili avviene e come presumibilmente avverrà anche in futuro. La stessa domanda –tolleranza o favore per altrui fini – si può porre anche per un’altra tappa del camino di Israele costituita dalla creazione dello Stato Israele voluta da un gruppo di Stati raccolti sotto una etichetta di sovrannazionalità. In questa fase è forse improprio parlare di mascherata e residue intenzioni imperialistiche,ma certo l’avallo di molti Stati rende più opinabile il drastico giudizio negativo sulla costituzione di tale Stato. Se tale costituzione fosse ritenuta “ illegittima” ne risulterebbe per così dire semplificato il problema della sua sopravvivenza. Su questo punto non ci possono essere equivoci. Infine si deve riflettere sulle caratteristiche oggettive delle due parti. Se si escludono frange più o meno consistenti di ultraortodossi la società israeliana appare tendenzialmente laicizzata; appare largamente assimilabile, nei comportamenti,nelle tecnologie,nell’organizzazione economica ( economia di mercato o se vuole,capitalista ), ad una scheggia dell’Occidente. A parte il “ monoteismo “ ( che non si sa se giovi o sia ostacolo alla pacificazione ) , cosa c’è di più diverso da essa che la società palestinese ? La mia impostazione mi impone di non fare giudizi di valore,ma non è possibile non rilevare “ differenze “ profonde. Se vogliamo semplificare – con gravi rischi di fraintendimento – possiamo parlare di scontro di civiltà che io preferisco chiamare collisione quasi naturale tra due modelli di vita. Credo che sia riduttiva – e l’ho già detto – vedere nelle varie “ rivoluzioni del medio oriente e dell’area mediterranea “ ,una sorta di rivolta anticapitalistica. Essa c’è o ci può essere ma compresa in una quadro più vasto che è una contestazione dell’european way life. Ne abbiamo segni evidenti negli episodi di quelle che possiamo chiamare “ conversioni “ che precedono scelte più radicali di adesione.
Quello che non riesco a concepire è – quale che sia la parte che li commette – la giustificazione di pratiche che aborriamo con l’argomento che anche “ noi “ nei tempi andati ci siamo resi responsabili di comportamenti simili. Ogni popolazione ha i propri tempi ma io non so rinunciare all’idea che si debba marciare verso “ un mondo migliore”. Infine una osservazione strategica. E’ vero che l’esercito di Israele è – per equipaggiamento, addestramento e tecnologie – tra i più forti del mondo ma a ciò non corrisponde una superiorità strategica.
A parte il fatto che il gap tecnologico su armamenti,esercito etc è – al giorno d’oggi – rapidamente colmabile ( lo dimostra l’efficacia dei razzi palestinesi ) ,va osservato che Israele è accerchiato da forze ostili e soggetto “ da ogni parte “ a minacce,giuste o sbagliate che siano .
E’ un paese accerchiato. Se il conflitto dovesse continuare ( quod deus avertat ) la sorte di Israele nel lungo termine è segnata ( questa è almeno la mia opinione ).
Al termine di queste mie osservazioni leggo l’intervento di Partesana dal titolo “ Peggio dei nazisti”. Esso contiene osservazioni acutissime che dovrebbero essere meditate nelle loro implicazioni . Ad esse sono debitore per le osservazioni che seguono. Curiosamente gli intellettuali che eleggono la parola come “ luogo privilegiato “ del loro apparire ed operare fanno di esse – poi – un uso disinvolto. Mi ha stupito molto il termine macelleria usato da E.A.
Esso è – questo è l’aspetto per me veramente negativo – assolutamente improprio. Infatti suggerisce una equivalenza – che non esiste – tra l’atto volontario di uccisioni mirate
e effetti assolutamente deprecabili ,certo, di atti di guerre (Sul fatto che la guerra tolga a tutti l’innocenza mi sono già espresso ). Il termine “ macelleria “ mi ha richiamato alla mente quello che scrive Shirer ( Storia del Terzo Reich,Einaudi 1963,pag. 1955-1956 ): “ …furono ammassati ( n.d.r : i protagonisti della rivolta contro Hitler del 1945 ) in un piccolo ambiente dal cui soffitto pendevano otto ganci da macellaio….e furono impiccati a quei ganci. “
Le parole sono pietre non è uno slogan.
Giorgio Mannacio, agosto 2014.
A Rita
Ma se la coscienza domina ma non governa, coloro che decidono le guerra , una coscienza ce l’hanno per dio ! Trasformata dal potere, e allora la psicanalisi che ci aiuta a capire, come mai non arriva mai a questa gente? Forse è gente che si fa psicoanalizzare da individui come loro che pensano che i fatti devono andare proprio come stanno andando….Ebbene penso che anche la psicanalisi sia questione di coscienza ma purtroppo passa a volte da psicanalisti troppo a doc. o mi sbaglio?
APPUNTI SUI COMMENTI
1. Mayoor
«sbaglio a credere che il principio per il quale Israele parta con l’esercito per risolvere la sua questione, in fondo sia lo stesso? è un ragionare sbrigativo, fazioso? cosa impedisce a Israele di scegliere altre vie, altre soluzioni? perché dare sempre e solo prove autoritarie, di forza? (Mayoor)
Condivido. È anche il senso del mio discorso.
2. Ottaviani
Ritengo infatti che sia sempre un errore stilare graduatorie di delitti e assassinii. Il “peggio” o il “meno peggio” che mai può contare in queste tragedie?… l’errore nasce proprio dall’aver assunto l’Olocausto come il male assoluto, il più grande di tutti. Magari dimenticando altri genocidi. Vedi, per esempio, la storia del continente americano (Ottaviani)
Condivido. E recupero il solito Fortini:
Franco Fortini, da Corriere della sera, in “Extrema ratio”, pagg. 108-115, Garzanti 1990
E ogni volta che toccai argomenti in qualche modo
relati a Israele ebbi a sentirmi rifiutato e contestato (e
proprio dal direttore o almeno per sua bocca) quel che
avevo inteso scrivere. D’altra parte l’interesse a diffondere
la storia del sovrano buono e dei suoi mali consiglieri e del
direttore sopraffatto dai vice direttori fa parte dei fonda-
menti di qualsiasi management e mi pare se ne trovi già
traccia nei poemi omerici.
Quando il presidente del Bundestag fu costretto alle di-
missioni per un discorso sulla Schuldfrage tanto coraggioso
quanto, o così parve, inopportuno e molto ne parlarono i
giornali, scrissi un articolo e lo portai personalmente al di-
rettore invece che al responsabile della Terza Pagina per-
ché, gli dissi, mi pareva toccare un tema che, se a Jennin-
ger era costata la presidenza, a lui avrebbe potuto costare
il posto. Infatti me lo respinse. Non molto prima sorte
analoga aveva avuto un intervento dove, a proposito della
scomparsa di Primo Levi, rammentavo come diversa dal-
la sua la mia opinione circa la “unicità” dello Shoa (la pa-
rola “olocausto” mi ripugna, mistico-dannunziana quale
è). Forse non ero ancora informato che qualsiasi dubbio
su quella unicità e singolarità sarebbe stato considerato
equivalente a complicità con il terrorismo mediorientale.
Lo trascrivo, insieme ad un appunto di allora.
«Caso Jenninger, crimini nazisti, consenso di massa. Di quel
che l’ex presidente del Bundestag avrebbe dichiarato, non so più
di quanto i giornali hanno scritto. Avrebbe, fra l’altro, afferma-
to che il nazismo aveva goduto del consenso della maggioranza
dei tedeschi. Un incidente protocollare, il suo; come di chi aves-
se indossato calzini a losanghe rosse e blu per esser ricevuto in
Vaticano. O un trionfo della ipocrisia internazionale. Tradu-
ciamo: il nazismo possedeva profonde radici culturali, prece-
denti la propaganda hitleriana.
«Due anni fa, venne recitato a Milano il testo teatrale L’i-
struttoria di Peter Weiss, montaggio di verbali di un processo
contro criminali nazisti celebrato a Francoforte. Una istituzio-
ne culturale tedesca mi invitò a parlarne in pubblico. Scrissi il
mio intervento e ritenni opportuno mostrarlo, per un parere
preventivo, a chi me lo aveva richiesto. Il mio cortese ospite mi
informò di un vivo dibattito che ignoravo, allora in corso in
Germania, sulle tesi cosiddette revisioniste, sostenute dalla au-
torità dello storico Nolte (ma anche da personaggi, come si suol
dire, infrequentabili) e avversate da una delle massime figure
dell’attuale pensiero tedesco, Habermas.
«Alcune parti delle mie pagine – mi disse – avrebbero po-
tuto venir interpretate come di appoggio alle tesi, politicamente
equivoche, dei cosiddetti revisionisti. Questi avrebbero voluto
combattere l’idea di una mostruosa (e quindi diabolico-divina)
singolarità storica dello sterminio nazista degli ebrei e accredi-
tarne una di sostanziale identità (per barbarie se non per meto-
do) fra quelle ed altri grandi massacri di popolazioni civili, in-
clinando ad associare a quelli nazisti i crimini dell’era stalinia-
na, anzi, di tutti gli eventi successivi all’Ottobre 1917. Quanto
a me, oltre ai grandi eccidi di Amburgo, Dresda, Hiroshima e
Nagasaki, ricordavo il macello di milioni di slavi compiuto dai
nazisti e, più in genere, la distruzione di popoli interi e culture
compiute dal colonialismo e dalle rivoluzioni industriali del-
l’Occidente. Non fa grande differenza sopprimere due genera-
zioni di esseri umani in cinque o in cinquant’anni. [1]
«Convenni col cortese interlocutore, tolsi, attenuai. Ma quel
che pensavo allora, ancora oggi lo penso anche se mi dispiac-
que sapermi in disaccordo con chi tanta maggiore autorità del-
la mia aveva nell’argomento, cioè un uomo dall’altezza intel-
lettuale e morale di Primo Levi.
«La questione è quella delle radici dei sistemi autoritari. Fin-
ché ci si limiterà a parlare di “personalità autoritaria”, in ter-
mini di sociologia freudiana, temo si farà poca strada. Si ridefi-
niscano le nozioni di consenso, di democrazia rappresentativa,
di finalità della politica; si cerchi di farlo, evitando le sedi (che
non sono solo i parlamenti e i mass-media) dove le menzogne
siedono in scranno, convenzionali e necessarie. Per questa pe-
riodica e quindi relativa e provvisoria “verifica del linguaggio”
si discriminino gli interlocutori e i destinatari con un atto preli-
minare, che è già politico; e non si pretenda ad una ingannevo-
le universalità. Penso ad alcuni nodi della riflessione storico-po-
litica, che porta i nomi (simbolici, naturalmente) di Arendt,
Bloch, Merleau Ponty, Adorno, Lukàcs, Sartre, Weil, Althus-
ser, Bateson, Marcuse, Foucault. Quella della generazione che
nel ventenni o successivo alla guerra si interrogò sul cinquan-
tennio precedente. Rimuovendo (non senza qualche buona ra-
gione) quelle “letture del mondo”, il pensiero successivo si è pe-
rò guardato dal sostituirle con altre interpretazioni. Ha esorciz-
zato un mezzo secolo, nella illusione di possedere così le chiavi
del successivo. Nei confronti di una storia intollerabile ha emes-
so una propria “dichiarazione di inesistenza”, degna di Alice
nel Paese delle Meraviglie.
«Per questo i discorsi di un Jenninger (e dei suoi critici) suo-
nano, al di là delle loro ottime intenzioni, curiosamente infanti-
li alle orecchie di una generazione avviata, come la mia, allo
Exit. Forse siamo rimbambiti (o imbarbariti, è lo stesso). Uden-
do quei discorsi, il gesto di insofferenza, seppure inevitabile, è
inutile; come certo è ridicolo quello che ho compiuto, poche ri-
ghe sopra, rimandando ad una qualche bibliografia. Presuppo-
ne viva una decrepita illusione e cioè che gli “addetti” possano
mediare le loro riflessioni e letture ai “non-addetti” quando in-
vece questi ultimi sono essi, i consumatori della informazione di
massa e illusi di partecipare direttamente alla menzogna ceri-
moniale, coloro che si alzano indignati alle parole di Jenninger,
reagendo insomma secondo uno dei due o quattro modelli di
formule accettate come tollerabili. Avete notato come quelli
che dibattono in TV sono sempre ben preoccupati di rispettare
le regole della tolleranza ideologica? Anche quelli che si alzano
e se ne vanno se odono quelle che loro paiono inaccettabili
enormità, lo fanno (ma in genere non lo fanno) con un gesto-
parola, come fossero rappresentanti di una nazione all’ONU e
non già perché personalmente indignati. Laddove chi gridasse
“Bugiardo!” o “Buffone!” sarebbe solo considerato un maledu-
cato.
« Eppure, qualche sussidio bibliografico … Qualche anno fa
alcuni cosiddetti “nuovi filosofi” francesi ebbero un momento
di volgarissima fama per certi loro libri dove si dimostrava che
le grandi menti della Germania dell’età di Goethe e Hegel e
fino a quella di Marx incluso erano le orribili madri dell’antise-
mitismo, del nazismo e del comunismo staliniano (equiparati
tra loro, per non creare troppi problemi a chi deve solo annusa-
re il vento che tira). Erano sciocchezze. Però servirono, anche
da noi, ad un preciso programma di demoralizzazione ideologi-
ca rivolto alla generazione degli anni 1967-1973. Dopo di che,
eseguita la bassa bisogna, quei filosofi furono rimandati alle lo-
ro cattedre o redazioni.
«Parlare del consenso della maggioranza dei tedeschi verso
la politica hitleriana, almeno fino al 1942; e di quella della
maggioranza degli italiani verso il fascismo, almeno fin verso il
1938; e della maggioranza dei sovietici per quella staliniana,
almeno fin verso la fine della guerra, pone interrogativi cui non
è facile rispondere. Ci si avvedrà che una cultura, se non del
nazismo, certo introduttiva al nazismo, “dai romantici a Hi-
tler” (titolo di un remoto saggio dell’inglese Peter Wiereck) esi-
steva, eccome, e non coincideva con quella dei portavoce o dei
portapenna delle S.S. ma di tutta una parte della grande cultu-
ra tedesca dall’età romantica a quella guglielmina e nella qua-
le rientravano anche le massime figure dell’umanesimo deca-
dente, George o Rilke o Mann o Gundolf o Spengler o Junger.
«Non è forse questa una chiamata in correità di tutta l’eredità
culturale europea? Di quel che abbiamo di meglio? Come è stato
possibile che si sia giunti dove si è giunti? Chi è il responsabile,
qui? Subito dopo la guerra, a fosse aperte, ce lo siamo chiesto.
Oggi, mentre continuiamo a scoprire inimmaginabili fosse co-
muni, accettiamo che la storia del secolo, cioè la nostra vita, ci
sia raccontata come una favola di burattini, i buoni qui e i cat-
tivi là, tutto chiaro.
«I bambini, credo lo sappiate, non sono portati dalle cico-
gne. La storia degli uomini non è un parlamento di brava gen-
te. Quello Jenninger voleva essere (che dico: certo era) un si-
gnore dabbene. Ha avuto la dabbenaggine di dire quel che
pensava e non avrebbe dovuto dire. Ma non innocentemente si
diventa così autorevoli personaggi. Peggio per lui. Contraria-
mente a quel che alcuni suoi critici hanno detto, quel che pen-
sava e dichiarava era probabilmente cauteloso, circonlocutorio,
generico. Se non si provvede, non già a dire o a scrivere (che
serve a poco) ma a pensare anche in luogo suo e dei milioni di
persone dabbene e di media buona coscienza, allora sarà tanto
peggio per noi». [2]
Sarebbe bastato correggere con due o tre parole prese
dal repertorio della ovvietà e quelle righe sarebbero state
pubblicate senza difficoltà. Naturalmente, posso dirlo
perché mi faccio volontariamente più ingenuo di quanto
non sia e fingo di non sapere il senso e avviso che il ri-
fiuto voleva avere, qualcosa come il gatto morto buttato
sulla soglia di casa. Quel che oggi, in quelle mie righe,
mi urta, non è già quanto vi è detto ma quanto non vi è
detto o è appena accennato o sottinteso. Al limite,
uno potrebbe parlare di rose e di nuvole invece che di Intifada e, nondi-
meno, introdurre nelle forme sintattiche o nelle scelte les-
sicali qualcosa che ferisca l’ordine più gravemente di un
appello alla insurrezione. (Le polizie, manifeste o segrete,
di tutto il mondo, queste cose le hanno sempre sapute).
Sono probabilmente il solo autore del mio paese che a set-
tantadue anni di età scrive un articolo inaccettabile per
un grande quotidiano indipendente. Di che insuperbire.
Note.
[1]
Nota 1990. Naturalmente fa grandissima differenza. I processi di rimozio-
ne di cui godevano i ceti borghesi del secolo X1X consentivano una falsa co-
scienza che la concentrazione della violenza nazista non permise a nessuno.
Ma il discorso della storia è appunto una accelerazione innaturale della mo- viola o un suo tremendo rallentamento. Non diverso, in questo, da qualsiasi
discorso profetico o di nèmesi. Nell’opera di Peter Weiss, dove tutte le battute sono trascritte da verbali del processo di Francoforte ad aguzzini nazisti, un sopravvissuto dice una verità irrespingibile: «Se eravamo in tanti / nel Lager / e se furono tanti / a portarci dentro / il fatto si dovrebbe capire / ancora oggi. / Molti di quelli destinati a figurare come Haftlinge (prigionieri) / erano cresciuti con gli stessi principi / di quelli / che assunsero la parte di guardie. / Si erano dedicati alla stessa
nazione / impegnandosi per uno sforzo per un guadagno comuni / e se non fossero finiti
Haftlinge / sarebbero potuti riuscire guardie. / Smettiamo di affermare con superiorità
/ che il mondo dei Lager ci è incomprensibile. / Conoscevamo tutti la società / da cui uscì
il regime / capace di fabbricare quei Lager. / L’ordine che vi regnava / ne conoscevamo il
nocciolo / per questo riuscimmo a seguirlo / nei suoi ultimi sviluppi / quando lo sfruttato-
re poté / esercitare il suo potere / fino a un grado inaudito/ e lo sfruttato / dovette arri-
vare a fornire / la cenere delle sue ossa» (ed. it. pp. 131-132).
[2]
Un anno più tardi, queste sono opinioni correnti, persino sul «Corriere».
Jenninger può essere intervistato dalla TV italiana. Più significativo il modo
con cui si è recentemente introdotto in Italia lo studio di uno storico tedesco
“revisionista”. Chi lo presenta accetta l’idea, fino a oggi considerata aberran-
te, della non unicità storica degli eccidi nazisti compiuti contro gli ebrei; ma
lo fa al fine di dimostrare che l’origine della persuasione della inconfrontabi-
lità e unicità risiede nella mitologia dell”’antifascismo”, troppo tenero, come
Roosevelt, con i Comunisti. Si afferma che altri e altrettanto efferati massacri
si dettero: quelli russi, sovietici, staliniani contro la popolazione civile tede-
sca. E che quella mitologia ha contribuito a farli dimenticare o passare sotto
silenzio; per di più tacendo della complicità degli alleati occidentali.
Così si assume la gradevole figura di chi combatte pregiudizi ben radicati e,
nel medesimo tempo, invece di chiedersi quali siano, e quali cause abbiano, i
grandi massacri nel mondo contemporaneo, si aiuta a fissare identità (Stalin
eguale a Hitler, comunismo pari a nazismo, Lenin gemello di Ceausescu) che
seppelliscono qualsiasi giudizio storico sotto la contabilità dei cadaveri. Quel-
la contabilità, lo so bene, è insensata. Eppure non posso trattenermi dal chie-
dere perché si rimproverano gli inglesi e gli americani di non aver fermato la
mano delle « bestie marxiste» (ossia di non aver rovesciato le alleanze prima
che i sovietici fossero a Berlino … ) quando le armate bolsceviche, entrando in
Germania, fecero strage di civili tedeschi; tuttavia tacendo delle centinaia di
migliaia di civili senza nessuna seria ragione militare arsi a Dresda, Hiroshi-
ma e Nagasaki.
[CONTINUA E.A.]
Non capisco.
Nel mio pamphlet non scrivo nulla sulla “unicità” dello Sterminio degli ebrei, non vi accenno neppure. Eppure qui mi si dice che tutto dipende da quello.
Resto persuaso, sia inteso, che nei modi e nelle motivazioni e nel tempo sia stato un evento unico, come le bombe atomiche statunitensi o il colonialismo spagnolo e portoghese in America latina, ma questo che c’entra?
Non mi si dice nulla o quasi su quanto sostengo, ovvero che negli slogan che usiamo spesso siamo più preoccupati di assolvere noi stessi (diciamo così) che non di dire una verità, ma si prosegue imperterriti a ricordarmi quanto male ci sia nel mondo e in Israele in particolare. Ho forse scritto che è bene quel che accade a Gaza? Stavo forse parlando di Gaza?
L’amico Ennio addirittura cita un mezzo libro di Fortini, con tanto di note, per illustrare come anche quell’intellettuale a noi tanto caro avesse dei dubbi circa l’uso politico della Shoà (השואה). Ebbene, quand’anche fossimo tutti d’accordo su ogni parola e virgola del Fortini che cosa cambierebbe riguardo al giudizio da dare sul mio articolo? Che me lo si spieghi, per favore, o si cambi argomento per discutere sul nostro, nostro ripeto, modo di assolverci e condannare.
A ro…
Mi fa capire dove io avrei perentoriamente escluso: “che gli altri , in questo suo caso gli italiani, fossero esenti da responsabilità sul genocidio dei palestinesi”? Perché io ho scritto proprio il contrario, ovvero che è per mantenere la coscienza tranquilla che si scrivono certe cose.
E la pregherei anche di voler rimanere sul piano del confronto, per quanto magari aspro, senza eccedere in giudizi personali, come: ” Per vedere gli assassini e la morte lei ha bisogno di vedere fornetti o lager. E per vedere eliminazione di popoli e occupazioni di terre e risorse e rotte, sempre lei e i suoi simili avete bisogno di apparenze convenzionali…”, che sarebbero difficili da dimostrare vista la mia storia personale, politica e intellettuale.
“Visto che noi siamo i fortunati che non sono bombardati, né bombardano, perché non possiamo “pulire” un po’ di finestre tutte insieme alla volta?”
Ezio Parte-Sana, 28 agosto 2014
Lei mi ha frainteso. La frase incriminata appare nel contesto di una risposta a Ennio Abate, e poiché a me pareva che lui raccomandasse una certa urgenza, io ribadivo che al momento noi non siamo né israeliani né palestinesi. Tutto qui.
APPUNTI SUI COMMENTI (2)
3. Partesana
Certo la discussione dovrebbe stare al tema del post, ma spesso si ramifica e non mi pare un danno. Ottaviani aveva scritto:« l’errore nasce proprio dall’aver assunto l’Olocausto come il male assoluto, il più grande di tutti». E a me è venuto in mente di riportare il «mezzo libro di Fortini, con tanto di note», convinto che una rilettura di quell’articolo abbia comunque a che fare con i temi di cui stiamo discutendo: la storia degli ebrei, la fondazione di Israele, la questione palestinese. (Interloquivo appunto con Ottaviani non con te, Ezio). E, come Ottaviani, insisto a sostenere che non «siamo più preoccupati di assolvere noi stessi (diciamo così) che non di dire una verità». No. La verità la stiamo cercando quasi al buio. E rovistando in una cloaca di bugie, di mezze verità, di verità provvisorie o approssimative, di ideologie appunto. Tentando di ragionare – spero – soprattutto sul piano storico e politico; e, dunque, se possibile, fuori della cappa religiosa e moralistica della colpevolezza o dell’innocenza nostra o altrui. (Infatti al mio amico ebreo del post precedente ho scritto: « Non vedendo uno scontro tra “buoni” e “cattivi” ma un rapporto di dominio squilibrato (tutto a vantaggio di Israele), il problema per me è almeno di ridurre questo scarto inaccettabile. Solo così ne potranno trarre qualche giovamento i civili (ancora una volta soprattutto palestinesi) coinvolti comunque nello scontro tra le élites contrapposte.»).
Sono d’accordo con te a guardare da tutte le finestre. E non c’è da parte mia nessuna “chiamata alla armi”. Armi, come si sa, non ne ho/non ne abbiamo. Sono gli altri – quelli che ci dominano (per me) – che le hanno e le usano contro di noi e contro altri meno potenti di loro (e nel mio pezzo mi sono pronunciato chiaramente su pacifismo e lottarmatismo). Né ho pulpito o tribuna di partito da cui imporre un qualsiasi “con noi o contro di noi”. (Figurati: dico che un ‘noi’ con cui identificarmi non c’è). Cerco, perciò, come te ed altri, di « ragionare con il minor tasso di ideologia possibile.». A differenza di te, però, ho chiesto di pulire la finestra da cui si vede che Israele ( e i suoi alleati) persiste nel suo rigore guerresco e oppressivo. A differenza di te, che pur ti dichiari (e sono convinto che lo sei) « assolutamente contrario a quel che il governo israeliano sta facendo a Gaza», io insisto sulla necessità di riconoscere la schiacciante (e negativa) superiorità israeliana (e occidentale). Se vuoi «criticare nella sostanza, nel modo e nella forma la politica di Hamas», dovresti tener conto che la politica di Hamas è in un certo senso obbligata e condizionata dalla politica di chiusura di Israele e dalla riduzione a quasi zero (da parte sempre degli israeliani) dell’autonomia finora concessa ai palestinesi. E perciò ho scritto: «E se vedo uno che si oppone ad un prepotente acclarato, cerco di dargli una mano. Non faccio prima degli accertamenti sulla “cattiveria” o “bontà” di chi è quello che subisce la prepotenza o si ribella. Soprattutto non chiedo prima a chi subisce un’aggressione o vi si ribella una dichiarazione di buoni intenti per il futuro (quando dovesse averla vinta con il prepotente e diventare magari a sua volta prepotente). Ecco perché non esito a stare coi palestinesi, anche se adesso alla loro testa c’è Hamas.». Non ci sarebbe neppure Hamas se lo Stato di Israele avesse fatto per i palestinesi un quinto di quello che fa per i suoi cittadini di serie A, se non li stesse riducendo a un regime di apartheid (ancora Bauman, da me citato). Non basta, secondo me, essere« assolutamente contrario a quel che il governo israeliano sta facendo a Gaza» in questi giorni (se così dicendo s’intende il bombardamento di questi giorni). Bisognerebbe riconoscere che tutta la politica dei governi israeliani (e occidentali) in Medio Oriente è stata ed è colonizzatrice e militarista; e non ha fatto nulla per integrare manco la parte più moderata dei palestinesi o degli arabi. È su queste cose che deve essere cercata e detta la verità. Che, in fondo, per me sta nei dintorni della filosofia del «mors tua, vita mea», del predominio. ( Ma ci tornerò rispondendo a Mannacio…).
[Continua]
Capisco la tua presa di posizione (dalla quale come sai dissento per altro), ma non capisco perché ogni volta che qualcuno, io in questo caso, cerca di spostare l’attenzione per un momento anche – e sottolineo “per un momento” e “anche” – dalle vicende di Israele e Palestina alla nostra condizione di “accecati” (diciamo così…), la reazione quasi immediata e quasi unanime sia riaffermare che il potente è Israele, che i palestinesi a Gaza sono oppressi al limite umano, che gli Usa finanziano Israele, e via dicendo.
Ammettiamo che sia tutto vero, che sia esattamente come dite voi, senza nulla altro da aggiungere; mi domando: su di noi, su come pensiamo e ragioniamo, su come facciamo o consumiamo informazione, su cosa ci smuova, quale coscienza portiamo, etc. non si può e non si deve dire niente?
APPUNTI SUI COMMENTI (3)
4. Locatelli
«si può arrivare a non far torto, nè patirlo? Cercare di non essere nè vittima, nè carnefice? Esiste oggi un piccolo spazio di libertà in questa direzione? (Locatelli)
Drasticamente, realisticamente, amaramente: no! La sempre desiderata, ideale, utopica “terza via” nella storia non funziona. Ci ispira, ci consola, ci può aiutare a non incarognirci e a fronteggiare l’orrore della storia senza cedere al suo fascino… Come la poesia.
5. Simonitto
«le emozioni invece rischiano di ‘governare’ – a modo loro, ovvero in modo anarchico – anche i nostri apparati percettivi: ognuno vede ciò che vuole vedere e * non perdonerà a nessuno di mettere in discussione l’immagine di sé che ha*». (Simonitto)…
Emozioni pure, che prendono il sopravvento e “governano” da sole, io nella storia non ne vedo. La storia non è romantica. Vedo emozioni sempre in buona o cattiva compagnia con ideologie, interessi, calcoli razionali (se non ragionevoli).
Nel caso di cui ci stiamo occupando, lo slogan “Israele=nazismo o peggio” tenta di raccogliere simbolicamente le emozioni indignate per i bombardamenti sui civili di Gaza (e, come ho detto, non mi paiono ben “governate” da una visione politica chiara, che potrebbe correggerle e farle maturare).
Teniamo poi conto che quanti hanno fatto confluire le loro emozioni su questo slogan reagiscono ad altri che fanno convergere altre emozioni sempre simbolicamente attorno allo slogan che all’incirca suonerebbe così:” Israele fa bene a difendersi; è sempre Hamas che comincia per prima. La smettesse…”.
La critica all’ideologia “Israele=nazismo o peggio” di Ezio per me è corretta. Ristabilisce una verità storica: Israele non è equiparabile ai nazisti. Ma la trovo parziale: tace o non si pronuncia con chiarezza su un punto che a me pare assodato storicamente: lo squilibrio tra i contendenti che lottano in quel territorio, fra israeliani e palestinesi, tra governo israeliano e Hamas. Se non si parte da questo dato, se – come sostiene (erroneamente per me, ma ci tornerò) Mannacio nel suo commento – ci sarebbe stata o ci fosse ancora oggi «una situazione, per certi versi simmetrica, tra “ un popolo senza terra “ e una “ terra senza popolo” alla quale è seguita la costituzione di un solo Stato», si finisce per fare parti uguali tra diseguali. Ad entrambi i contendenti verrebbe attribuita una medesima, generica e indifferenziata cecità nei confronti della realtà: «ognuno vede ciò che vuole vedere e * non perdonerà a nessuno di mettere in discussione l’immagine di sé che ha*.
Per me non è così. Anche a guardare le cose con la lente psicoanalitica, Israele avrebbe da mettere in discussione la sua immagine di prepotente e Hamas quella di ribelle senza sbocco. Ma per me resta fermo che a questa ribellione senza sbocco “ragionevole” di Hamas contribuisce – con azioni e leggi reali e non nell’immaginario! – la politica colonizzatrice e militarista d’Israele (e dei suoi alleati). Sono perciò due cose ben differenti. Lo psicanalista che dovesse “curare” Israele e i palestinesi non potrebbe insomma usare lo stesso metodo. Non potrebbe trattare i contendenti come se avessero la stessa “malattia”…
…sì, mi scuso con E. Partesana, qualche volta esco fuori tema, ma cerco comunque di rimanere nei paraggi. Stiamo parlando di un’intera area medio-orientale infiammata da dinamiche perverse di sopraffazione e di estrema miseria dalle radici antiche, quindi é importante parlare di Storia, di cause remote e recenti, ma certo si può anche sforzarsi di vedere le stesse nei rapporti di quotidianità tra familiari, amici, colleghi nei nostri limitati luoghi di esistenza…Male non ci farebbe, anzi. E a quale immagine che nutra la nostra autostima (ma a volte anche la disistima) vorremmo rapportarci? Vittima ? Carnefice? Difensore della vittima? Che reca torto al carnefice per soccorrere la vittima? Che spalleggia nell’ombra il carnefice? Che é “neutrale”? Poi c’é chi si sente di far prevalere il ragionamento, chi la sua parte emozionale o entrambe. Ma sono scelte coscienti o interviene qualcosa di più profondo e allora servirebbe la Psicanalisi, che purtroppo conosco poco, perciò posso solo affidarmi al buon senso per indagare su me stessa e sugli altri. Ma i “protagonisti” peggiori della Storia si guarderebbero bene dal guardarsi nel profondo e, “malati”, diventano arbitri del destino di molti…Resta a noi qualcosa? La poesia, come dice Ennio, e che altro ancora?
Ora una domanda a G. Mannacio, riferendomi all’ultima parte del suo intervento:
é più disumano e barbaro( macellaio per intenderci) chi uccide con le proprie mani, sporcandosi del sangue delle vittime o il soldato che, in immacolata tuta mimetica, premendo un pulsante scaglia bombe(anche armi non convenzionali) su scuole, ospedali, orfanotrofi e lascia lo scempio e lo strazio dei corpi alle vittime? Mi riferisco in genere alle guerre di oggi, compresa quella cosidetta “chirurgica”
Non capisco, non mi pare si parli per slogan solo per il fatto che, all’apparenza, si faccia schieramento. Se Partesana allude al pensiero collettivo, in voga nella sinistra degli anni 70, beh, pensavo di essermene liberato già da parecchi anni, e poi l’autocritica fatta a posteriori è secondo me una perdita di tempo; per quanto si sa che le radici culturali che formano il carattere di ciascuno non se ne vadano mai; ad esempio, se nasci cattolico, anche se poi non credi e ti fai ateo, ti resterà per sempre la tendenza al senso di colpa, ti aspetterai sempre un premio per ogni tua buona azione e via dicendo. Poi io non credo ai valori assoluti: la verità è ricerca della verità, cioè esiste l’esercizio della continua scoperta o della rivelazione, da quando apri gli occhi a quando ci ragioni, sia con logica che per ispirazione eccetera. Considero illusoria l’idea che esista una totalità del vero. Se la verità assoluta esistesse, e sapessimo qual’è, sarebbe dannosa perché ogni scoperta ne discenderebbe; in quanto tale la verità è sempre manifesta, altrimenti non è. Quindi ben venga il richiamo a non demonizzare il nemico, cos’ facendo, perfino magicamente si finisce col dargli un volto e un nome, col risultato che tutto il resto se ne va e si finisce col ragionare sulle briciole. Grazie, è bene chiarire.
@ Annamaria
Carissima , quante volte anch’io mi sono posta le tue domande, alle quali purtroppo riesco a rispondere emotivamente , più ci penso e più la mia emozione aumenta. Ho avuto un padre che ha fatto la guerra al fronte (Francia, Grecia,Albania) alpino della Julia . Questa esperienze lo avevano molto segnato non solo nel corpo ma anche psicologicamente, per cui mi ha insegnato ad odiare le armi e le guerre al punto che ogni volta che vedo scene di guerra, purtroppo, non riesco a vedere altro che crudeltà ,egoismo , tristi rassegnazioni e di conseguenza provo un grande malessere. Mi dovete scusare, tu e i lettori per questo mio sfogo ma era solo per giustificare i miei interventi che spesso sono pieni di rabbia e di dolore. Anche a me interesserebbe il parere di Mannacio riguardo la differenza che esiste tra la guerra che uccide in modo cruento con le proprie mani e quella dei soldati che premono pulsanti per uccidere. Io personalmente penso che il danno psicologico sia lo stesso e purtroppo si è pronti ad uccidere ancora,ancora , ancora….
…Cara Emy, per i tuoi sfoghi non ti devi assolutamente scusare, anzi é un onore per me, ma penso anche per gli altri, poterli raccogliere. In fondo far trapelare qualcosa del nostro vissuto personale é un vero dono e anche un atto di coraggio. Perciò, grazie…
APPUNTI SUI COMMENTI (4)
6. Mannacio
A scapito delle buone regole della comunicazione sui blog, sono costretto ad essere lungo, noioso e un po’ scolastico (dovendo citare numerosi passi del tuo intervento). Ci sono, infatti, punti che non mi sono chiari (non capisco e chiedo spiegazioni), altri su cui dissento fortemente; e altri, forse marginali, ma non indegni di replica.
– Punti oscuri:
1.
Scrivi: «C’è di contro una situazione, per certi versi simmetrica, tra “un popolo senza terra “ e una “terra senza popolo” alla quale è seguita la costituzione di un solo Stato. La vittoria di questo determinerebbe non la fine di un altro Stato ( come organizzazione formale di un certo tipo ) ma la dispersione di un altro popolo. Se fosse quest’ultimo a vincere si avrebbe la vittoria non di uno Stato contro un altro ma la vittoria di un popolo contro uno Stato».
La simmetria sarebbe o sarebbe stata quella tra ebrei e palestinesi (o arabo-palestinesi)? La costituzione dello Stato in questione si riferisce a quello di Israele? La «dispersione di un altro popolo» sarebbe meno grave della «vittoria» o distruzione di uno Stato?
2.
Scrivi: «La stessa domanda – tolleranza o favore per altrui fini – si può porre anche per un’altra tappa del cammino di Israele costituita dalla creazione dello Stato Israele voluta da un gruppo di Stati raccolti sotto una etichetta di soprannazionalità».
Quest’ultimo gruppo di Stati sarebbe l’ONU?
3.
Scrivi: «Nella discussione il nesso violenza – Stato viene ricordato a fasi alterne, secondo la convenienza».
Vorrei capire se ti riferisci a cose da me scritte. E se intendi dire che io o qualcun altro tace sulla violenza di Hamas? (Dello “Stato” di Hamas?)
4.
Non ho capito bene quale sarebbe la «“ specialità “ del conflitto di Palestina». Non è un conflitto – semplificando – tra un prepotente e uno molto meno potente (o debole)? Il conflitto avverrebbe in una situazione di simmetria? Cioè – sempre semplificando – si tratterebbe di una sorta di braccio di ferro tra due contendenti forniti di quasi equivalente “muscolatura”? Per cui, puoi concludere dicendo: «Che io sappia non vi fu mai una pacifica “ coabitazione “ tra Ebrei e autoctoni della Palestina. Non vi è mai stata quella “ conquista violenta “ degli uni a danno degli altri»?
Punti su cui dissento:
1.
A me pare che, quando ricordi il sostegno dell’Inghilterra al nascente movimento sionista e alla sua idea di costituire un “focolaio ebraico” in Palestina, territorio fino ad allora sotto protettorato inglese, ne dai una visione come minimo unilaterale: «visto dalla parte degli Ebrei – si è trattato pur sempre realisticamente di un appoggio richiesto a potenze amico ed ottenuto da esse secondo quanto da tempi immemorabili avviene e come presumibilmente avverrà anche in futuro». Dimentichi di considerare il punto di vista e la prevedibile ostilità degli arabo-palestinesi.
2.
Non condivido l’affermazione: «certo l’avallo di molti Stati rende più opinabile il drastico giudizio negativo sulla costituzione di tale Stato [d’Israele, cioè]». Che molti stati europei nel secondo Ottocento abbiano colonizzato l’Africa, spartendosi le zone d’influenza tra loro e usando la riga per delineare i confini è un fatto storico, un evento accertato. Ma che la cosa andasse o vada bene o appaia “normale” (o addirittura “esportazione di civiltà”) per gli Stati costituitisi in – permettimi questo lessico terra terra – “banda di rapinatori” non significa che sia accettabile sul piano morale; e, per fortuna, non è stata alla lunga accettata neppure su quello politico grazie al risveglio successivo dei colonizzati.
3.
Scrivi: «Se si escludono frange più o meno consistenti di ultraortodossi la società israeliana appare tendenzialmente laicizzata; appare largamente assimilabile, nei comportamenti, nelle tecnologie, nell’organizzazione economica (economia di mercato o, se si vuole, capitalista), ad una scheggia dell’Occidente. A parte il “ monoteismo “ (che non si sa se giovi o sia ostacolo alla pacificazione ), cosa c’è di più diverso da essa che la società palestinese? La mia impostazione mi impone di non fare giudizi di valore, ma non è possibile non rilevare “differenze “ profonde. Se vogliamo semplificare – con gravi rischi di fraintendimento – possiamo parlare di scontro di civiltà che io preferisco chiamare collisione quasi naturale tra due modelli di vita».
Ma il problema a me pare questo: le differenze profonde perché dovrebbero comportare automaticamente una gerarchia? È chi spinge per collocarle gerarchicamente (superiore/inferiore; civile/incivile; dominatore/dominato) che parla fin troppo volentieri di « scontro di civiltà» (Huntington). Invece che di scontro di classe o di etnie o di religioni o di conflitto strategico tra potenze o élites dominanti. Come se fossimo ancora in secoli in cui il capitalismo e le sue “rivoluzioni” non fossero mai state indagate con rigore (da Marx per primo). E allora come si fa a parlare di «collisione quasi naturale tra due modelli di vita», se la “collisione” è storica? E senza porsi il problema che un modello (quello occidentale-israeliano nel nostro caso) è aggressivo tecnologicamente, militarmente, ideologicamente e l’altro è costretto a subire o a reagire con i mezzi e la cultura di cui dispone? Insomma, fino a prova contraria sono stati gli Europei e poi gli USA a colonizzare le altre popolazioni e non loro noi! (Questa è forse la verità su cui dovremmo interrogarci…)
4.
Scrivi: «Non riesco a concepire – quale che sia la parte che li commette – la giustificazione di pratiche che aborriamo con l’argomento che anche “ noi “ nei tempi andati ci siamo resi responsabili di comportamenti simili».
Se ti riferisci alle violenze di Hamas o adesso dei fondamentalisti islamici (veri, presunti), devo ancora ricordarti che chi semina vento raccoglie tempesta. Le politiche di colonizzazione aggressiva (in passato o oggi) producono reazioni. E dunque «pratiche che aborriamo» da parte di quelli che le hanno “da noi” (direi: dai nostri Stati) subite e, ad un certo punto, hanno trovato l’occasione e la forza per ribellarsi (come possono e non si sa con quali prospettive). Non possiamo inorridire soltanto quando a subirle sono quelli che sentiamo vicini (i cristiani in Irak ad es.) e a distrarci quando a compierle sono i “nostri” (esercito italiano, alleati europei o statunitensi), come è avvenuto in modo scandaloso contro Gheddafi in Libia. (Tra poco lo rimpiangeranno…). Vorremmo forse che gli altri patissero senza fiatare? O consideriamo che il “nostro” non è stato un far torto ad altri popolazioni ma una civilizzazione, un’esportazione di un valore universale, come la democrazia?
Punti marginali:
1.
Lascerei per ora da parte ogni discussione sull’abolizione dello Stato quale rimedio alla sua violenza costitutiva. «Stato e rivoluzione» andrebbe riletto alla luce del Novecento concluso. Questi problemi oggi sono purtroppo sprofondati nelle tenebre e difficili da esplorare. Io ho dichiarato che non mi identifico neppure con lo Stato di cui sono nominalmente cittadino, ma non ho detto che ho la soluzione per cambiare la sua funzione strutturalmente favorevole ai prepotenti.
2.
Perché mai sarebbe insufficiente o ambigua la frase di Fortini, secondo il quale lo Stato d’Israele è nato dalla guerra e attraverso la guerra morirà o sopravviverà? Certo lo si può dire « per tutti gli Stati che conosciamo»…
3.
Capisco il tuo stupore per l’uso da parte mia del termine ‘macelleria’ nei confronti dello Stato d’Israele. Dubito che, pur essendo metaforico e poetico-popolaresco ( anche Brecht – « La lingua mi ha tradito al macellaio» – parlava di Hitler in questi termini), sia davvero «improprio». Le guerre non fanno pensare ad operazioni di macelleria? I corpi non vengono squartati, maciullati? E si può negare che ogni operazione militare non programmi l’eliminazione fisica del nemico? (Sarebbe da rileggere il dialogo tra Freud e Einstein su questo tema). A me non va di usare di fronte ai massacri degli eufemismi (tipo «effetti assolutamente deprecabili»). Preferisco ancora il termine popolaresco ‘macelleria’ di cui ancora dispongo e che mi rimanda ad immagini concrete. Ma se mi si vuol suggerire termini più adatti, vedrò di arricchire e rendere più esatto il mio lessico.
Questo “pamphlet” di Ezio Parte-Sana può solo dispiacermi, in quanto conferma, con un apparente anticonformismo, la totale distrazione dal tema geopolitico , storico, umanitario che proprio non vorrebbe affrontato con un semplice slogan…finisce invece per adottare identica tecnica , facendo domande o risposte facilmente soggente ad ambiguità e fraintesi, cosa che non può che facilitare i grandi manovratori del crimine in esame. Ezio Parte-Sana , così come G.M. e intellettuali simili, che perseguono una cerebralitá di cosiddetta sinistra, finiscono come sempre, per amore del cervello o per ideologia o antideologia, a non disturbare mai i manovratore dei grandi crimini dei potenti che fanno la mitica Storia.non importa se essi si chiamino colonizzatori in nome di uno stato sionista o di chi esulta come qualsiasi venduto, vedi Hamas, a una tregua dopo milioni di danni e migliaia di vittime a favore del sempreterno u$asraele vincitore.
La macelleria c’è è evidentissimo possiamo definirla carneficina oppure direi anche sadismo ma vado troppo in là. Compra e vendita è evidente , non nascondiamolo come giustamente dice la Ro.
Proverò a rispondere sia all’amico Ennio che al per me sconosciuto ro.
Negli interventi di Ennio leggo, ribadita a più riprese, l’idea di una enorme sproporzione tra l’esercito israeliano e i militanti di Hamas, il che è naturalmente vero. Da qui poi muove, mi sembra, parte dell’emotività che spinge Ennio a schierarsi così decisamente. Tuttavia, se è vero che in questa ultima “guerra” c’è un potente esercito da una parte e un movimento armato di difesa (chiamiamolo così) infinitamente più debole sul piano militare, basta allargare lo sguardo oltre i confini di Israele o della Palestina per rendere molto più complesso il giudizio su chi sia il potente e chi il debole. Certo gli Stati arabi non sono gli abitanti di Gaza, e resto umanamente e politicamente convinto che Israele potesse e dovesse agire in modo diverso, ma questo non toglie che se pensiamo ai popoli anziché agli Stati, una possibile relazione diversa tra ebrei israeliani e palestinesi debba essere trovata su temi molto meno emotivi, e in fondo semplici come il diritto al lavoro, all’istruzione, alla sanità, e i conseguenti anche se un po’ sfumati diritti alla dignità, libertà personale e via dicendo.
Ma, mi si dirà, gli ebrei lì sono degli usurpatori, cosa sono venuti a fare?
È senso comune l’idea che esistesse, prima della proclamazione dello Stato di Israele, una entità palestinese e che poi i sionisti siano arrivati e con armi e soldi, e con l’aiuto delle Grandi potenze, se la siano comprata e conquistata, sino a cacciare chi ci stava “da sempre”.
Si può discutere, probabilmente non saremmo d’accordo ma si può discutere sul legame tra ebrei e Palestina, su quali fossero i motivi per i quali a un certo punto della storia così pochi ebrei abitassero quelle terre, e persino sul diritto di ogni popolo ad avere una terra. Ma una cosa è certa: l’immagine di Israele che arriva e si prende tutte (o quasi) le terre della Palestina del Mandato britannico è un falso storico.
Purtroppo non è possibile inserire qui immagini (o forse è possibile e sono io a non essere capace), ma basta guardare una qualsiasi cartina del Mandato britannico (e anche francese, già che si siamo, così si capisce meglio la situazione di Siria e Libano) e poi una altra dei confini di Israele al momento della sua proclamazione o nel 1967 (risoluzione Onu post Guerra dei sei giorni), per rendersi conto che dei territori del Mandato britannico solo una parte, e relativamente piccola, fu “attribuita” a Israele, mentre il resto andò a formare o ingrandire altri Stati.
Questo non significa, ripeto ancora una volta, che adesso Israele può fare quello che vuoi e tenersi o annettersi tutti i territori che desidera, ma ignorare la storia non è un buon modo per discutere insieme né, come vorrebbe Ennio, di uscire dallo sdegno e dalle emozioni verso una ragione politica condivisa.
«Negli interventi di Ennio leggo, ribadita a più riprese, l’idea di una enorme sproporzione tra l’esercito israeliano e i militanti di Hamas, il che è naturalmente vero. Da qui poi muove, mi sembra, parte dell’emotività che spinge Ennio a schierarsi così decisamente» (Ezio)
Direi al contrario: il dato di fatto reale e che non si può smentire (tu stesso dici: « il che è naturalmente vero» ) smorza la mia “emotività” e mi rende più vigile e cauto nel valutare le prospettive di uscita da quel conflitto. Il mio schierarmi “dalla parte dei palestinesi” deriva da ragioni più complesse, politiche, e, appunto, anche emotive ma non solo emotive. E mi sento di confermarlo sia quando considero il conflitto “a due” (Israele/palestinesi; Netanyahu/Hamas) sia quando mi spostassi sullo scacchiere mondiale dove gli attori che operano in un territorio entrano in rapporti complicati con altri più potenti di loro. (Tant’è vero che cerco sempre di sottolineare: «Israele (e i suoi alleati occidentali)»; e ovviamente questo intendo anche per i palestinesi che ne hanno meno potenti e, pare, più infidi).
Credo che, spostandoci dal piano locale a quello mondiale, ci si possa schierare coerentemente e senza esitazioni. E che al “dalla parte dei palestinesi” sul piano mediorientale possa corrispondere un “dalla parte dei meno potenti” sul piano mondiale. Perché, sia sul primo che sul secondo, il gioco lo fanno i “prepotenti” (i dominatori).
Schierarsi però oggi non vuol dire aderire a una politica precisa o collaborare con forze ben organizzate. Qui emerge l’aspetto più amaro e problematico della situazione confusa e caotica in cui ci troviamo. Quando tu, Ezio, scrivi: « se pensiamo ai popoli anziché agli Stati», salti problemi, che una volta chiamavamo “teorici”, diventati ingarbugliati e dei veri rompicapo.
È forse così facile oggi pensare ai popoli anziché agli Stati? (E aggiungerei: agli stessi Stati come se fossero entità omogenee e sovrane)?
Ed è facile, in Palestina o da noi, ritrovarci su « temi molto meno emotivi, e in fondo semplici come il diritto al lavoro, all’istruzione, alla sanità», dopo tutto lo sfascio avvenuto di quei concetti e di quelle pratiche con la globalizzazione?
Per non parlare della riduzione a termini irrisori dei cosiddetti « diritti alla dignità, libertà personale e via dicendo»…
Siamo in un immenso, buio, mare in tempesta e su zattere da naufraghi. E per passare da una metafora così generica a un linguaggio politicamente incisivo ce ne vorrà…
Caro Ennio,
non puoi ogni volta “spostare il pallino” secondo quanto ti aggrada.
In primo luogo accolgo con un certo stupore l’assenza di risposta a una metà intera del mio intervento, quella sui mandati inglese e francese; ne deduco che o ho scritto terribili castronerie e stai solo aspettando di aver tempo per smentirmi, o le cose stanno come ho indicato, ma non hai ritenuto opportuno parlarne.
Per quanto è del resto, non mi va bene (abbi pazienza) che un argomentare contro le tue tesi sia sottoposto alla critica facile del “e… ma questo è un concetto complicato”. Per esempio: tu scrivi che io “salto problemi, che una volta chiamavamo “teorici”, diventati ingarbugliati e dei veri rompicapo”… già, ma sei stato tu a parlare dello Stato di Israele e ad accennare alla critica, diciamo così per brevità leninista allo Stato. Se poi uno ti risponde che per per “Stato” non intende la “macchina di affari della borghesia” ma la residenza organizzata di un popolo su una terra, non è che puoi spostarti, fare un oplà, e proferire che non abbiamo un concetto chiaro e univoco di “Stato”. Certo che non lo abbiamo, am neanche di “palestinese”, “resistenza” o “Ennio” se è solo per quello lo abbiamo!
Altro esempio: accenno al fatto che se si discutesse meno per entità interclassiste e più per diritti di classe, forse alcune cose sarebbero più semplici in prospettiva (certo, in prospettiva), e tu rispondi che oramai la globalizzazione etc. etc. hanno “sfasciato e ridotto a termini irrisori” quei diritti. L’unico concetto che è rimasto sano e saldo in mano nostra è che bisogna stare dalla parte dei palestinesi “senza se e senza ma”, come si dice oggi con orrida espressione?
Quando parlo della nostra ideologia, mi rispondi che c’è una altra finestra da pulire prima, se si fa cenno ai meccanismi di rimozione e spostamento sociali, rispondi parodiando uno “psicanalista” per Israele e uno per i palestinesi, come se tu non avessi mai letto Adorno o Marcuse o Fortini, e via dicendo. Abbia pazienza: mi sembra di giocare a nascondino!
Sull’invito, sul mio invito, poi a guardare da una prospettiva più ampia il Medio oriente, riesci a essere così… come posso dire: “palestinesocentrico”?, da considerare solo che i palestinesi hanno pochi o punto alleati, mentre Israele ha gli Stati Uniti.
Intanto credo fosse la ottima Rita Simonitto, poco più sopra, a farti notare che su questo infinito amore degli Usa per Israele bisognerebbe andarci un poco più piano. Ma poi, e sopra tutto, come mai non ti è venuto in mente di contare anche i nemici? Quali nemici hanno i palestinesi? E quali nemici ha Israele? Se domani per assurdo (e Dio volesse) tutti gli ebrei si Israele si innamorassero perdutamente di tutti i palestinesi e riconoscessero come naturali tutti i loro diritti, dentro o fuori lo Stato di Israele, in terre, acque, educazione, sanità e quanto altro, secondo te là intorno nessuno ce l’avrebbe più con lo “Stato degli ebrei”?
Questo non significa – credo di averlo detto e scritto sino alla nausea – che allora Israele “fa bene” a attaccare la striscia di Gaza, uccidere militanti di Hamas e civili insieme a casaccio, e tutte le altre cose che sappiamo benissimo. Significa invece che un ragionamento politico non può esser condotto senza concedere agli avversari (a scanso di equivoci: io sono il tuo “avversario” qui, non gli “ebrei” o gli “israeliani”) quel minimo di credito necessario a comprendere i loro argomenti. Quando io critico il tuo slogan sulla “macelleria”, non mi sogno nemmeno per un momento di affermare che il corrispettivo sia “ma Hamas lancia i missili”, perché me (o ce) lo metti in bocca? Hai citato Brecht, infatti: lui dava del macellaio a Hitler tu lo dai a Israele, vedi che anche per te lo slogan “peggio dei nazisti” è all’opera?
Concludo questo sconclusionato intervento dicendo che tutto questo non significa affatto che io abbia ragione, ma piuttosto che, come raccomandava il solito vecchio che conosciamo e del quale come sempre preferisco non fare il nome, quando ci si confronta con avversari bisognerebbe farlo rispondendo alle loro tesi come se fossero addirittura migliori di quanto in effetti non siano, e non il contrario.
Un abbraccio,
Ezio.
P.S.
Dove aver visto scritto “qual’è”, gli errori di battitura mi paiono un male emendabile… ma d’accordo, cercherò di fare attenzione.
Ezio caro, lei é stato invitato, non solo da me, a vedere la storia e i suoi grandi manovratori, quelli che non solo in terra santa, hanno occupato e cacciato, sia nel senso di ucciso che di portati via, gli abitanti e le loro terre….non volendo concentrarsi su questo é persino distantisimo e inconciliabile con gli stessi ebrei, a cui occorre tenere viste le vicende e le complicità dell occidente con i nuovi nazioni. ..quegli ebrei che da sempre, ben prima del secondo conflitto fino ad ora, sono contro l’ occupazione…..Ps domani danno film nel fornetto catodico, non so come mai, una grandissima opera poetica cinematografica, la donna che canta…é su vicende collaterali in cui lo Stato sionista e il suo fido magnaccia americano, hanno dato il peggio e che tuttora continua da una libanizzazione all’altra, da una balcanizzazione all’altra, da una libanizzazione etc etc …chissà se una tale visione potrà aprirle qualche squarcio….le auguro ovviamente tutto il bene che la Storia ha ucciso…saluti
Lei dà del “apparente anticonformista” e del portatore di “cerebralità di cosiddetta sinistra” (insieme a altre amenità) a uno del quale, arguisco, non ha visto, letto o ascoltato alcun lavoro, cosa che mi sembra un po’ offensiva e poco utile in un contesto di discussione come questo.
Ma ho promesso a Ennio di essere cortese, intervenendo in questo Blog, io che di carattere sarei piuttosto acerbo. Quindi non le risponderò adottando il suo stesso tono.
Aspetto invece di leggere i suoi contributi “geopolitici, storici e umanitari”, a partire dal nome dei “Grandi Manovratori” della storia, perché sino a ora non mi pare di averne intravisti nei suoi interventi.
Ezio caro, non é mai troppo tardi per documentarsi attraverso intellettuali dissidenti ebrei e non…non é in un botta e risposta di un Blog che si può alimentare e consolidare una formazione in tal senso, al massimo in questo contesto si può solo dare una miccia alla curiosità …buona visione per stasera (non é domani come scritto poco sopra ma sono all’estero con strumenti limitati…una connessione via cell.)…e buona lettura con quanto vedo linkato da Abate ( ci sono tanti testi e autori che le apriranno nuovi sguardi a diverse profondità, non dimentichi Norman Finkelstein e il suo La fabbrica dell olocausto)
ro, vabbé che sei una *habituée* prima di Moltinpoesia e poi di Poliscritture, ma non mi trattare sempre così acidamente almeno i nuovi collaboratori! E poi anche dall’estero!
Mhm… la ringrazio per i suggerimenti bibliografici; cercherò di ricordarmi in quale scatolone ho messo i libri di Finkelstein… devono essere insieme a quelli della Fallacci, visto che entrambi cominciano con la ‘f’.
Dopo di che speriamo che il mio “nuovo sguardo” vada abbastanza in “profondità”, anche se dubito che mi basti che un ebreo sia contro il sionismo per cambiare quello che penso.
Non c’é problema Ezio caro, come le dicevo ieri le auguro un gran bene, cosa che va al di là di uno e molti più dissidenti ebrei e delle nostre rispettive posizioni, inconciliabili, alla fin della fiera, perché se io avessi la sua bella testa e quella di una moltitudine di intellettuali , mi concentrerei sulle evoluzioni del nazismo 1.0 a 2.0 ovunque e con qualsiasi forma si presenti, compresa quella attuale in Ucraina dei democratici americani e europei con i nazisti di Kiev. Ovviamente é nella sua libertà impiegare la forza del sui intelletto sulla pericolosità di uno slogan quale quello in oggetto.non volevo certo urtare la sua grande sensibilità né tanto meno approfittare di uno spazio , peealtro pubblico, di Abate e i suoi ospiti …infine, ma é la cosa principale, non credo che , in questo o spazi simili, almeno per quanto mi riguarda che possiamo con i nostri pensieri e visioni, profondi o meno, contrapposti o in sintonia, influire minimamente su cio che in effetti conta sotto,sopra e di lato a ogni nostro pensiero, certezza o dubbio, di superfici o meno…e che é la distruzione , la morte e i fatti in discussione.
Un saluto di belle cose per lei e i suoi cari…
Non c’entra nulla, ma stavo pensando… Ennio Abate… “Abate”, Nomen est Homen!
SEGNALAZIONE
Desiderare l’impossibile. Un’intervista con Judith Butler:http://www.lavoroculturale.org/desiderare-limpossibile-intervista-con-judith-butler/
“Chi condanna Israele con lo slogan “peggio dei nazisti” in realtà sta semplicemente assolvendo se stesso”.
E’ vero che le parole sono portatrici di un alone semantico che va ben oltre la significazione stessa e questa frase, che utilizza i termini “condanna” e “assoluzione”, non lascerebbe scampo ad una lettura ‘dura’, ‘stitica’ direi, e che veicola una morale di tipo arcaico.
Però la frase potrebbe anche essere tradotta come un invito a diffidare da quegli slogan che, facendosi ‘portatori di verità’, in realtà ci allontanano dalla stessa.
Ma, se consideriamo il contesto in cui è inserita, ci accorgiamo che questa espressione lapidaria stona un poco con la modalità interlocutoria che E. Partesana ha voluto dare al suo articolo e il cui senso potrebbe riassumersi nella domanda: *Ammettiamo che sia tutto vero, che sia esattamente come dite voi, senza nulla altro da aggiungere; mi domando: su di noi, su come pensiamo e ragioniamo, su come facciamo o consumiamo informazione, su cosa ci smuova, quale coscienza portiamo, etc. non si può e non si deve dire niente?* (E. Partesana)
Anche parole come Israele, Palestina, nazismo, fascismo (e ci mettiamo tutti gli ‘ismi’ dell’ideologia) hanno questa particolarità di convogliare stati emotivi (di parte o di controparte), stati emotivi che non sono *emozioni pure, che prendono il sopravvento e “governano” da sole*, come Ennio traduce in spiccioli quanto io ho scritto, bensì *governano* accompagnandosi – e lui stesso lo aggiunge – ad *ideologie, interessi, calcoli razionali (se non ragionevoli)*.
E, aggiungerei, legandosi a ‘formidabili’ schematizzazioni: ‘formidabili’ nel senso che danno una ‘forma certa e sicura’ in merito alla direzione che dobbiamo prendere e verso la quale orienteremo, senza bisogno di ripensamento alcuno, i nostri ‘si’ e i nostri ‘no’, proprio come E. Abate scrive: *Teniamo poi conto che quanti hanno fatto confluire le loro emozioni su questo slogan reagiscono ad altri che fanno convergere altre emozioni sempre simbolicamente attorno allo slogan che all’incirca suonerebbe così:” Israele fa bene a difendersi; è sempre Hamas che comincia per prima. La smettesse…*.
Solo che il ‘simbolico’ che lui chiama in causa non c’è assolutamente, e non c’è perché non ci sono assolutamente le condizioni ‘mentali e storiche’ perchè si arrivi al simbolico né dalla parte dei contendenti né dalla parte dei cosiddetti ‘interpretanti’: altrimenti avremmo tutt’altra situazione.
L’accesso al simbolico permette una diversa ricognizione del ‘reale’, contemplandovi una ‘mancanza’, facendovi possibilmente un ‘lutto’ rispetto al ciò che si può fare e ciò che non si può fare. Permette una concezione di ‘tempo’ mentre, in questo tipo di conflitto (sottolineo ‘tipo’ di conflitto) sembra che il tempo non sia mai passato e la dinamica si svolge secondo cliché ormai noti: così come ‘titola’ un recente post di Ennio Abate “Ancora su Gaza”. Dove quell’”ancora” dice molto.
G. Mannacio chiede e nota: *Perché tale conflitto ci interessa tanto ? Questa domanda implica a mio giudizio una analisi delle specifiche caratteristiche di esso. Io credo che si tratti di un conflitto in un certo senso speciale….*
Non si tratta soltanto di un * richiamo “alla difesa del più debole”* visto che in molte altre regioni della terra ci sono *esempi,crudelissimi,di persecuzioni e oppressioni*.
*Non è questa la “ specialità “ del conflitto di Palestina*.
C’è dunque dell’altro che fatica ad emergere. Non è sufficiente parlare in modo ‘arcinoto’ del potere economico, del traffico di armi: tutto ciò coinvolge pure Hamas, uno dei tanti clienti degli Stati Uniti, anzi, di una particolare fazione della politica statunitense che, con ogni probabilità, vorrebbe ‘minare’ il potere di Israele togliendolo dalla posizione prima conferitagli in una diversa visione strategica americana sul M.O.
E’ che quest’altro, nel sotto-sotto-fondo coinvolge anche noi, popolo di navigatori nel nulla, santi dell’ebetismo, e poeti cha hanno ormai appesa al chiodo la loro capacità di poetare. Ma è molto più facile – e non sto mettendo in dubbio la validità nell’individuare i soprusi e prendere le difese di chi li subisce – guardare ‘fuori’ che guardare ‘dentro’.
Forse potrebbe essere letta in questo modo l’ipocrisia, quella ‘falsa recita’ di cui parla G. Mannacio: *una ipocrisia di fondo tanto nelle posizioni filoisraeliane quanto in quelle filo palestinesi. Curiosamente tale ipocrisia è alimentata – persino discorsivamente – anche da chi se ne dichiara immune.
Freud direbbe che ci troviamo di fronte ad una rimozione che ha radici nel nostro reale atteggiamento verso il conflitto e il suo esito*.
Ergo, contemplare solo ciò che si coerentizza con il nostro pensiero di superficie e rimuovere tutto ciò che può ostacolare questa ‘coerenza’.
Così come quando diciamo ‘nazisti’: isoliamo soltanto un aspetto – una operazione metonimica di ‘pars pro toto’ che impoverisce una conoscenza più allargata – che viene messo in relazione diretta, direttissima, esclusiva ed escludente, solo con l’Olocausto.
Del tentativo (onnipotente e ‘folle’, sostenuto dall’ereditata parola d’ordine “Gott mit uns”) di far risollevare la Germania dalle vessazioni umilianti e devastanti imposte dal trattato di Versailles, nulla.
Espungendo di qua e cancellando di là, in questo modo capiamo poco della ideologia romantica cui fu necessario attingere per mobilitare le masse in un’impresa di guerra prima e di abbrutimento poi. E non perché intenda il capire = conoscere la Realtà.
Il Reale non è conoscibile, tanto quanto è impossibile “cantare le patate” (W. Bion).
La teoria psicoanalitica va nella direzione dell’allargare il campo del pensiero: la cura non è che l’effetto di questo allargamento.
Rispondo così sia alla osservazione di Ennio, anche se mette il termine ‘cura’ tra virgolette: *Lo psicanalista che dovesse “curare” Israele e i palestinesi non potrebbe insomma usare lo stesso metodo. Non potrebbe trattare i contendenti come se avessero la stessa “malattia”*… e sia alla domanda di Emy (*e allora la psicanalisi che ci aiuta a capire, come mai non arriva mai a questa gente? *)
Ci può servire per evitare di ripetere gli stessi errori: ad esempio rimuovere i ricordi dolorosi sostituendoli, tout court, con ideali di amore e solidarietà. O di potenza..
Come diceva S. Bordi, “il salto culturale degli anni ’60, era legato -sì- alle nuove speranze e al miracolo economico, ma rifletteva anche l’idea, un po’ forzata, che gli italiani non avessero più niente a che fare col loro passato”.
Quindi c’è ben altro che si ‘nasconde’ alla nostra consapevolezza e, se intraprendessimo tale ricerca magari scopriremmo non tanto *che è tutta colpa di Caino*, come provocatoriamente dice P. Ottaviani, ma che c’è un bel po’ di Caino in noi.
E io, avendo studiato anche sui blog, e non soltanto nelle scuole e scuolette, non posso non accorgermi di quanta aggressività circoli negli ambienti bloggisti, aggressività, acrimonia e quant’altro, proprio favorite da quell’”occhio non vede e cuore non duole”, giusta la domanda di Annamaria Locatelli.
Per quanto possa intervenire la rimozione (Freud) o la ben più pesante forclusione (Lacan), averci messo le mani nel sangue espone emotivamente molto di più che farlo per interposta persona, o interposti ausili tecnici in modo da poter sempre dire “non sono stato io, è stato l’altro”.
Ma se c’è una Lady Macbeth che, pur avendo inviato sicari sente le sue, di mani, lorde di sangue (sangue che, per quanto le lavi, non riesce ad eliminare), e quindi impazzisce e si suicida, di contro c’è chi, come lo stesso Macbeth, incurante del delitto e della realtà, si fida solo degli ambigui vaticini delle streghe fino alla tragedia finale.
Paolo Ottaviani scrive che *non esistono colpe “sociali” o “storiche” – altrimenti esisterebbero anche quelle “originali”! – bensì soltanto le eventuali, miserrime colpe personali*.
Esistono invece anche ‘colpe sociali’, o, per dire meglio, ‘pesanti responsabilità sociali’ allorquando i gruppi più maturi della società, quelli che un tempo erano rappresentati dagli intellettuali, ovvero coloro che occupandosi di ‘sapienza’ e di ‘arte’ si impegnavano nella ricerca del ‘vero’ in una dinamica ‘trasformativa’ dell’esistente, sono ristagnati in un certo conservatorismo (a cui fa da ‘pendant’ uno sperimentalismo fine a se stesso), collassando sulle parti più retrograde – da intendersi non in senso morale ma dinamico -, assecondandole in un progetto utopistico (non utopico) di liberarsi dalle sofferenze e dalle schiavitù.
E quindi diventando prigionieri di due padroni: le cosiddette masse che li investono del ruolo di ‘sapienti’ (e su questa posizione moltissimi ci marciano), e il regime politico-padronale che li costringe a suonare il piffero in un certo modo (e su questa posizione moltissimi ci campano alla grande).
Ennio Abate nella sua risposta mi scrive: * Anche a guardare le cose con la lente psicoanalitica, Israele avrebbe da mettere in discussione la sua immagine di prepotente e Hamas quella di ribelle senza sbocco*.
Innanzitutto – come peraltro Ennio stesso ha osservato in un suo commento al recente post di R. Bugliani su Lacan -, la psicoanalisi non si può occupare né della prepotenza né della ribellione a questa: fare ciò significherebbe entrare in una logica morale che non le pertiene. Ciò che intende è sondare le dinamiche che si articolano attorno a questo particolare tipo di relazione (solitamente ‘perversa’).
Nel rapporto perverso ‘carnefice-vittima’ che, non a caso, è di difficile elaborazione analitica proprio per l’ambiguità di cui è portatore, per poter fare qualche cosa bisogna ‘starne fuori’. Il che non significa non tenere conto delle parti sofferenti, anzi. E’ che esse non stanno solo là dove sono state depositate.
Quando noi prendiamo parte per la ‘vittima’, diamo conferma al ‘carnefice’ che la sofferenza non sta in lui ma sta da un’altra parte ed è ciò che lui persegue strenuamente: “non sono io a soffrire, ma l’altro”.
Si creano delle situazioni, perverse appunto, di “solidarietà antitetico polare” (per utilizzare una terminologia di Lukàcs), ragion per cui una posizione non può sussistere senza l’altra.
Ora, detto tutto questo, un ‘prepotente’ (esprimendomi secondo un linguaggio moraleggiante), o uno stratega della tensione che mira al predominio in una particolare zona di influenza (esprimendomi secondo una lettura politico-strategica), costoro, se vogliono realizzare i loro obiettivi, avranno più facile successo se hanno a che fare con livelli bassi di consapevolezza e livelli alti di paura su ciò che andrà a succedere.
Fatti quattro conti, non ci dovrebbe essere difficile capire che la Gaza di cui stiamo parlando, non sta là ma sta qui, dentro di noi.
E fatti altri quattro conti (otto in tutto, non è poi granchè) vediamo come sia sempre all’opera – in questa sequenza di ultimi interventi che leggo or ora dopo aver finito il mio ‘lenzuolone’ – un sistematico processo di mistificazione di quello che l’altro afferma, o intenderebbe affermare, o ha affermato ma non del tutto perché dietro all’anticonformista si nasconde sempre un conformista, e l’imperativo del “tu non sai quello che io so” – come se si avessero in mano le redini della storia (ahi noi!) – fosse diventato l’imperativo categorico e si perdessero così tutti quegli spunti dubitativi – anche fuori dal coro – che comunque il lavoro di E. Partesana ha portato alla nostra attenzione.
R.S.
Non riesco più a pensare che ” i ricordi dolorosi” degli israeliani possano contribuire ad allargare il campo del pensiero fino ad arrivare a comprensione e solidarietà, proprio non ci credo. I ricordi dolorosi sono i primi che hanno cercato di rimuovere ,(come tutti del resto) questa carneficina sembra l’epilogo di una lunga storia che si concluderà …come ho già detto in una sola grande e ricca potenza. Vorrei tanto che non fosse così. Leggeremo libri, vedremo film che saranno richieste di perdono dietro a visioni di guerre e soprusi, e il gioco sarà fatto. Vorrei che fosse vero e solo disfattismo il mio , almeno così sarebbe già tutto finito,spero al più presto.
A E. Abate.
Caro Ennio, mi atterrò scrupolosamente ai punti segnalati, ma dovrò necessariamente concludere con osservazioni generali sulle modalità di svolgimento dei nostri interventi.
PUNTI OSCURI.
1.
La distinzione da me operata era solo il tentativo di dare un certo ordine all’argomento mettendo in risalto alcune particolarità del conflitto. Tale distinzione non ha alcuna influenza sul merito della questione stessa e poteva essere tranquillamente trascurata.
La domanda che fai – la dispersione di un popolo sarebbe meno grave della vittoria o distruzione di uno Stato ? – è poi introdotta da te in modo del tutto gratuito se non arbitrario.
2.
Era chiaro che intendevo riferimi gremericamente alle Società delle Nazioni e alle Nazioni Unite. Quale è il punto oscuro?
3.
Il mio rilievo sulla convenienza ad invocare il nesso violenza-Stato sono nate dalla notizia che un deputato della destra italiana ha inneggiato a favore di Israele, (ovviamente in funzione razzista/antipalestinese). Non l’ho attribuita a te e dunque non deve interessarti. Se ti interessa è un tuo problema.
PUNTI SUI QUALI DISSENTI.
1.
Ho tanto poco trascurato il punto di vista dei Palestinesi da aver ricordato – storicamente – come gli Inglesi fossero favorevoli ad uno stato a maggioranza palestinese e – dal canto mio – di essermi espresso nel senso della piena legittimità delle aspettative palestinesi ad uno Stato indipendente. Hai tutto il diritto di pensarla diversamente ma non puoi dire che ho dimenticato il problema o non mi sono espresso su di esso.
Per il resto hai completamente travisato le mie parole. Mi sono limitato ad illustrare il punto di vista degli Ebrei riguardo all’appoggio inglese. E’ un giudizio di valore su qualche cosa? Parlando del punto di vista dei palestinesi avrei potuto dire che vedevano negli Arabi un loro alleato.
2.
Hai completamente dimenticato che mi sono espresso sull’intervento internazionale nel problema Palestina-Israele. Non sei d’accordo,va bene. Ma non puoi dire che non ne ho parlato. E ti ho fornita ancha la motivazione che ripeto. Repetita juvant. Ritengo (sbaglierò ma questa è la mia opinione) che il caso di Istraele sia stato il primo (e lodevole tentativo per quanto approssimativo e in parte insufficente) per risolvere – fuori dal conflitto – una controversia tra popoli. E’ curioso che si gridi contro la guerra ed anche contro gli strumenti alternativi.
Ma tu come la pensi? Sei per l’eliminazione dello Stato di Israele, per lasciare tutto ” al giudizio della Storia ” che significa poi……
3.
Io parlo di diversità di civiltà e di culture e tu introduci surrettiziamente il tema della gerarchia tra civiltà e culture, problema da me non sfiorato neppure e completamente estraneo al mio discorso. Cerchi in tal modo di costringere il tuo intelocutore a rivelarsi come razzista? Nel mio intervento – che trattava esclusivamente di diversità – ne ho tratteggiate alcune, magari approssimativamente e magari sbagliando su qualche punto. Ma cosa hai risposto – SU TALI DIVERSITA? Nulla. Cosa ne debbo dedurre? Che tu non vedi diversità oppure che sei d’accordo con me?
Mi pare indiscutibile che il giudizio di diversità non implichi un giudizio di valore.
Quanto all’argomento che la atrocità passate (intesi: nostre) legittimino le atrocità presenti, continuo a reputarlo profondamente incivile perché contrario a quel minimo di speranza che abbiamo di un nostro miglioramento. Ho parlato di atrocità senza riferirmi ad alcuno in particolare. Così spero di evitare code di ulteriori chiarimenti.
PUNTI MARGINALI (?)
1.
Stato quale remedium. Accantonato.
2.
Quanto a Fortini la sua frase è ambigua. Da un lato non aiuta a capire da che parte sta e dall’altro sembra alla fine coonestare il c.d giudizio della Storia. Violenza o che altro?
Ma spezzando una lancia in suo favore debbo dire che tale ambiguità coinvolge, da un certo punto di vista, un po’ tutti noi. Poiché sappiano che le nostre opionioni non potranno cambiare il corso degli eventi ci permettiamo qualunque opinione. L’unica opzione seria e non ambigua è quella di imbracciare il fucila a favore di uno o dell’altro, come fecero le Brigate internazionali nella Spagna divenuta poi franchista.
3.
Ribadisco il mio giudizio negativo sul tuo “slogan”. Non si tratta ovviamente di un frase inserita in un testo letetrario ma di uno slogan inserito in un teto politico e tale da rendere netti consenso e dissenso rispetto ad essa. Da questo punto di vista se la pensi così è la tua idea e tue le responsabilità. Io contesto la “correttezza semantica di essa” e la non corrispondenza ad una situazione reale che mostri di ignorare, almeno in parte. I macellai identificano uno per uno i capi da uccidere e volontariamente li portano a quella fine che è coerente con il loro mestiere e con il “ruolo” delle vittime.
Tu trascuri totalmente il quadro d’assieme, cioè la guerra rispetto alla quale ho scritto ripetutamente che essa ” toglie a tutti l’innocenza “. Puoi non essere d’accordo,va bene. Ma non puoi trascurare la rilevanza dell’argomento guerra. E allora ti pongo un quesito. Se il comando israeliano decidesse di assoldare dei bambini e di incaricarli di fornire di armi letali un avanposto che bombarda le postazioni difensive palestinesi come definiresti l’atto difensivo dei palestinesi diretto a contrastare tale invio? Coventry è stata convetrizzata (neologismo usato nell’ultima guerra) dai Tedeschi; Montecassino rasa al suolo dagli Angloamericani e noi, chi più chi meno bene, vive su quelle rovine (sulla memoria di quelle rovine ).
Ti pare marginale la questione sull’innocenza della guerra?
CONCLUSIONE.
Spero che tu possa essermi tanto amico da tollerare una mia osservazione sulle modalità con cui hai intrattenuto con me la conversazione. Io l’ho vista come una seduta psicanalitica (Analisi terminabile e interminabile) o come un interrogatorio davanti al giudice istruttore. L’ho dunque classificata non come dialogante ma come investigativa. Due esempi: io parlo di specificità del conflitto tra I e P e lo psicanalista dice: vuoi vedere che vuol rimuovere l’impulso alla distruzione del popolo palestinese?
E il G.I. vuoi vedere che mi trovo di fronte ad un killer seriale? Nessuno dei due crede a quello che ho scritto.
Io parlo di diversità. E lo psicanalista: costui vuol rimuovere l’idea che una delle due civiltà sia superiore all’altra. E Il G.I: vuoi vedere che questi è un fanatico menbro di una setta filoccidentale? Nessuno vuole credere a quello che ho scritto.
Leggi un libro che tra l’altro è interessante (“La camera azzurra” di Simenon, ed. Adelphi 2011). Come si suol dire,tanto ti dovevo.
Giorgio
*
(A proposito come si fa praticamente a segnalare alla rivista la lettura di qualche libro che mi è capitato di leggere ?) Ma i saluti sono davvero cordiali. Giorgio.
Nota di E.A.
Gli errori di battitura in questo commento erano davvero tanti e ho provveduto a rimediare. Prego tutti (e non solo Giorgio) di rivedere il testo prima di spedirlo. Spero di non beccarmi per questo avvertimento anche il titolo di “Inquisitore ortografico”!
A Mannacio
Mi prendo tempo. Ho da replicare a te, a Rita e a Ezio. E non posso farlo a tamburo battente o con una battuta.
Mi limito per ora a una veloce puntualizzazione sulla forma della mia ultima interlocuzione con te.
Mi ero proposto di «essere lungo, noioso e un po’ scolastico» e mi pare di esserci riuscito. Era necessario.
Chiedere spiegazioni, dichiarando di non aver capito certi punti, non è segno d’arroganza o provocazione. (Tra l’altro può essere utile a te per spiegare meglio e anche a quanti fingono di capire ma non entrano nel merito delle cose ).
Precisare poi puntualmente il mio dissenso (del resto a te noto) su vari punti lo considero atto di onestà intellettuale non di prevaricazione.
E, dunque, se mi rileggo, dico che la mia è restata anche stavolta nella cornice di una critica dialogante. Nulla a che fare con un rapporto psicanalitico (che – guarda caso – ha per regola la segretezza). Nulla nelle mie domande ha il tono degli interrogatori da giudice istruttore.
a E.A
Caro Ennio, posto che so ancora utilizzare i termini corretti ti nomino ” correttore emerito”. Mi debbo scusare per i numerosi errori, davvero tanti. Me ne sono accorto e te lo spiego.Per una serie di non riusciti ” copia e incolla ” ( con eliminazione di un testo già pensato e scritto ) ho deciso di riprodurlo rapidamente e quasi a memoria direttamente sulla finestra ” commento “. Il testo per queste ed altre ragioni ha comportato molta fatica da parte mia. Mi scuso ancora. Come faccio a segnalare su Poliscritture un paio di libri interessanti ? Rimani un benemerito. Ciao. Giorgio.
Caro Giorgio,
vorrei che diventassimo tutti “correttori emeriti”, se no per me la gestione di questo blog si complica eccessivamente. Basta un esercizio in più di pazienza: la rilettura del commento prima di spedirlo.
Per la segnalazione dei libri interessanti: mandami i dati alla mail che sai.
@ Giorgio
Quanto senno fra i tuoi innocui errori.
Verrà un giorno che la smetteremo, tutti, con ‘sta storia di Adolfo.
Sarà un bel giorno, peccato che io non ci sarò.
Roberto, nell’attesa del bel giorno sarebbe meglio che ci dessi una mano a sbrogliare le matasse su cui ci affanniamo!
Caro Ennio,
si fa quel che si può. A me Adolfo interessa, e sono favorevole agliapprofondimenti storici d’ogni sorta; però non ne posso più di sentirlo tirare fuori come benchmark simbolico. Mi danno fastidio gli americani & servitù che hitlerizzano a mitraglia, ma almeno loro si capisce perchè lo fanno. Perchè copiarli anche noi? Ci serve? Secondo me, no. Ciao.
a Emy.
Sei sempre gentile con me. Hai anche addolcito la pillola ,ma non ce n’era bisogno.
Non sono saggio e che commetta errori di vario tipo, anche politici ,è altamente probaile. Ma che vuoi ? Mi conforta quanto disse un ” vecchio ebreo dei Carpazi “. Lo troverai scritto come epigrafe di un libro eccezionale che ti raccomando di leggere .Si tratta de La mente prigioniera di C.Milosz ( Ed Adelphi, 1981 ). Lo raccomandai ad altri ma senza un buon esito. Ciao. Giorgio.
@ Giorgio
sicuramente lo leggerò. Grazie .Ciao .emy
SEGNALAZIONE: Rebus Gaza per Federica Mogherini
Un’analisi politica “equilibrata” (e filo Abu Mazen) della situazione creatasi dopo gli ultimi bombardamenti a Gaza del direttore del CIPMO: http://www.cipmo.org/editoriale/2014/gaza-next.html
Quanto è “equilibrata”! Cosi “equilibrata” che più di così è impossibile.
Come ha sottolineato lo stesso Ennio Abate, le matasse della questione Israele-Palestina sembrano imbrogliarsi sempre di più. Ma è quella reale questione che si complica o il dibattito su Poliscritture che, nonostante gli sforzi eroici di Ennio, s’avvita inesorabilmente su se stesso? Confesso che ho rischiato di perdermi. Ed è questo un rischio che corro sempre volentieri. Ma per un po’ ho preferito astenermi dall’intervenire, dal replicare. E ho fatto un sogno. Ve lo narro attraverso questa poesia scritta in terza rima, mutuando la tecnica dantesca.
LA CAPRETTA PERDUTA
Ho sognato un pastore e una capretta
perduta. Ero con altri in una scuola
di professori e studenti in vedetta.
Un curioso insegnante, la parola
spezzata, il naso all’ingiù, mi spiegava
che non basta studiare se una fola
t’inganna mentre un lupo azzannava
lo studente più bravo che al mio fianco
scriveva. Fuori la capra belava
e il pastore era ai dadi, solo e stanco…
… il sogno raccontato in rima da Paolo Ottaviani mi sembra piuttosto sconcertante, come spesso lo sono i sogni, ma non privo di significato. Sembra che tutti i personaggi presenti abbiano un’attenzione dislocata rispetto a quello che avviene realmente. Una incomunicabilità derivata, più che dalle parole, dall’assenza di sguardi.
Gentile Ezio Partesana, impegnato con un interlcutore della forza di Ennio A. e travolto dalla corrisondenza in rete ,spesso ingestibile o/e indigeribile ,ho ritardato di dare riscontro alla sua interprtazione dello slogan Israele peggio dei nazisti,che attribuirò ad un Mister X.
Condivido la sua analisi che ho trovato subito lucidissima e convincente. Mi stupisce che altri siano di diversa opinione.Ci conduce alle sue conclusioni il rilievo,ineccepibile, che Mister X dichiarando la propria avversione verso Israele e Nazisti ( lasciamo perdere l’approssimazione di un confronto tra elementi non omogenei ) si dichiari ” anche ” antinazista così mettendosi l’anima in pace,assolvendosi. Consideriamo infatti che lo Sterminio fu considerato il Male Assoluto, fino alla scoperta di Mister X.
Ma tale tema contiene anche altre implicazioni ancor più interessanti.
Posto che lo slogan lega insieme Palestinesi,Ebrei, Israele e il conflitto attuale ,è chiaro che Mister X mette a confronto il progetto di Soluzione finale con i massacri di Palestinesi operati dagli Israeliani IN GUERRA ( le maiuscole sono adoperate pour cause )
Così posta la questione ,il nostro Mister X si dimostra molto abile nel confezionare il proprio slogan che soddisfa in parte le aspettative di tre categoria di soggetti.
Soddisfa parzialmente la Destra nazionale e internazionale ( specie di Francia dove i discendenti degli accusatori di Dreyfuss godono ottima salute anche
parlamentare ). Ben venga per la Destra chi ha trovato qualcuno peggiore di Hitler
( no,caro Buffagni,bisogna ricordarlo ).
Soddisfa parzialmente settori ( non so dire quanto ampi ) della Sinistra che attraverso la ribellione palestinese (n legittima ) si riattribuisce un ruole contestatore della società occidentale plutocratica e capitalista ,oltre che la difesa dei più deboli.
Soddisfa infine le anime belle che credono di essere le uniche a provare pietà per la stragi di palestinesi,soprattutto di bambini.Agli altri – che parlano con qualche granello in più di razionalità ( che solo gli sciocchi confondono col cinismo )- viene riservato al massimo l’epiteto di ingenui. Proprio queste anime sono le più ingannate da Mister X
che sottopone loro uno sloga basato sull’equivalenza tra Soluzione finale e stragi belliche. La fondamentale differenza tra prima e secondo – ignorata la quale ogni equivoco è possibile – è che la prima si rivolse non a nemici belligeranti ma a cittadini tedeschi eliminati solo perchè ebrei ( E’ noto a tutti l’iniziale stupore degli ebrei perseguitati: Ma perchè ci perseguitano se siamo anche noi Tedeschi ? ). Israele , a torto ragione, sta conducendo una guerra contro i Palestinesi e non vuole eliminarli dalla faccia delal terra ma solo vincere la guerra contro di loro . La differenza è fondamentale e implica che si affronti con mente onesta e chiara il problema se le guerre attuali consentano di selezionare ancora ” degli innocenti ” il cui sacrificio sarebbe, questo sì, un nuovo Male assoluto. Ho introdotto diverse volte tale questione con scarsi risultati. In questo senso ho posto a Ennio un quesito e sono certo che mi risponderà da par suo e in maniera dialogante. So che tale problema introduce anche quello della validità dei Tribunali istituiti a fine conflitto, tribunali verso i quali nutro molti sospetti. Sono, essi, Tribunali dei vincitori e questi ultimi sono sempre portati a introdurre surrettiziamente nel novero delle accuse fatti che ,se fossero perdenti, non vorrebbero vedersi addebitati perchè considerabili atti di guerra. Questo a mio giudizio salva Norimberga solo nella parte in cui ha preso in esame l’eliminazione di civili sicuramente estranei ad azioni di guerra ,come gli Ebrei mandati nelle camere a gas …solo perchè Ebrei. Le anime belle non trattegano le lacrime ma cerchino di non spegnere il lumino della ragione.
Ad esse in particolare raccomando la lettura di L.Poliakov: Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei ( P.B.E,1977, se si trova ancora in circolazione )
Grazie dell’attenzione e un cordiale saluto. Giorgio Mannacio.
Gentile Giorgio Mannacio,
io e il mio pessimo carattere non siamo d’accordo con nessuno oramai, pure fa piacere sapere che qualcuno ha trovato di un qualche interesse le mie paginette, e di questo la ringrazio.
Mi hanno interessato le sue considerazioni anche se già so che qualche termine – in “guerra”, per esempio – le attireranno le ire di più d’uno.
Nel frattempo, vorrebbe essere così gentile da indicarmi, magari con mail privata, che cosa dei suoi lavori e in circolazione e recuperabile?
Un caro saluto,
Ezio Partesana
Gaza e i suoi morti sono stati ormai archiviati, come era prevedibile, nella più naturale indifferenza, come è successo altre decine di volte nel caso della cosiddetta “questione palestinese”, in attesa di una futura e inesorabile ripresa del contenzioso in altra forma. Le anime belle sono appagate dal “compromesso” raggiunto fra le due parti. La cricca dirigente che governa Israele è solidamente al suo posto, come se nulla fosse, ben decisa a proseguire la sua strategia reazionaria e criminale. Hamas continua a rappresentare parte del mondo palestinese e probabilmente si radicalizzerà vieppiù.
Nulla di nuovo sotto il sole.
Ho letto e riletto infinite volte l’intervento di Ezio Partesana Israele è peggio del nazisti e devo dire che, nonostante tutta la buona volontà, mi è parso un esempio particolarmente azzeccato di cattiva retorica.
Ma sia chiaro può ben darsi che sia io che non capisco. Non sarebbe la prima volta e non me ne adonterei.
Cercherò, senza tediarvi eccessivamente, di spiegare i motivi del mio disagio.
Mi vien da dire, come incipit, che quel che dicono i miei amici, soprattutto quando lo dicono in funzione di shock o di provocazione lo prendo e ci faccio la tara, senza dargli un peso eccessivo. In questo senso forse l’attenzione di Ezio per coloro che usano la formula “Israele è peggio del nazisti” è stata forse eccessiva.
Gli slogan feroci poi li ascolto ma con crescente distanza e disagio, se mi comportassi diversamente dovrei avere ogni cinque minuti una crisi di bile leggendo, come sfortunatamente mi capita di fare di quando in quando, le incredibili sciocchezze che ci riversano addosso ogni giorno un Magdi Allam, un Giuliano Ferrara o un Ernesto Galli della Loggia e legioni di altri figuri che, con diverso accento, ma tutti accomunati da una invidiabile islamofobia, fanno pensare che un millennio sia passato per nulla e che sia davvero l’epoca dei nuovi Pietro l’Eremita, che invitano alla crociata contro l’infedele.
Per un attimo però accettiamo pure il gioco retorico di credere che quell’affermazione, “Israele è peggio del nazisti”, abbia un senso.
Quello che mi colpisce in prima battuta è la necessità che Ezio prova, per poter in qualche modo paragonare i due eventi, che essi debbano proprio essere l’uno la copia dell’altro, quasi realizzata con la carta carbone.
E’ evidente che ben diverso è il numero dei morti, ma questo assolve qualcuno?
E’ evidente che diverse sono le condizioni temporali, ma questo cosa vuol dire?
In un caso si era in una condizione di guerra mondiale e di resa dei conti finale fra quelle che si prefiguravano come due coalizioni impegnate a dividersi il potere imperiale del globo, oggi siamo in un quadro che non può essere, almeno per il momento e speriamo che questo momento si prolunghi a lungo, paragonabile.
Ciò non esclude che il caso di Gaza e il caso della Palestina siano due esempi del tutto paradigmatici di una nuova condizione di tragica e intollerabile esclusione, che può portare a cercare un qualche, pur indebito, parallelo con quello che successe settant’anni fa. Si può pensare a una inedita ripresa del modello dell’apartheid, si può parlare di un mega-lager, che raccoglie quasi due milioni di individui, o si può ragionare come diavolo si vuole, ma certo quella che vivono i palestinesi è una esperienza storicamente del tutto originale e che non può che costringere a interrogarci sulla loro tragedia.
Qui però credo si debba fare un breve inciso.
E. P. si propone di realizzare una critica dell’ideologia e mi sta bene, ma i dati storici non debbono essere stravolti. I campi di sterminio e la violenza su ebrei rom, ecc. ecc. è fenomeno che ha interessato un periodo ben preciso della storia nazista quello che va dal giugno 1941 all’inizio della primavera del 1945. Quella nazista è stata una ferocia su cui non è neppure il caso di produrre ulteriori predicazioni, è già stato detto tutto, ma era una situazione di guerra totale, ben diversa da quella di oggi.
Similmente che gli ebrei “vennero sterminati nel generale silenzio” è un’affermazione che la storiografia oggi, credo di poterlo dire con limpida coscienza, non può accettare. La condizione degli ebrei, sia prima del 1939 sia soprattutto dopo l’aggressione all’URSS, era ben nota. Materiali e informazioni in gran copia giunsero agli alleati, sia Usa che GB traverso il Vaticano e canali autonomi quali il governo polacco in esilio, che non fecero sostanzialmente nulla. Ogni volta che penso a questo tema mi sovviene il caso delle richieste che il Comitato ebraico americano fece più volte all’aviazione USA di bombardare il nodo ferroviario di Auschwitz che vennero sempre rifiutate perché l’obiettivo non risultava strategicamente significativo.
Similmente mi par molto avventato fare paralleli fra le dichiarazioni dei nazisti sulla pulizia etnica della razza ebraica (in tutto il mondo? Mi pare davvero una iperbole che invalida il ragionamento) e il dibattito politico all’interno del mondo israeliano sui palestinesi. Invece mi farebbe piacere sentire cosa pensa Ezio delle teorie della Grande Israele e della presenza determinante, da qualche decennio, di partiti “religiosi” nel governo israeliano con le loro idee di esclusione dei palestinesi dallo stato di Israele.
Poi mi domando: se ha avuto poco senso anche solo pensare di ripulire il mondo della “razza” ebrea [2] – che giustamente Ezio afferma non esistere come tale – cosa dire dei palestinesi? Siamo proprio convinti che esista una etnia palestinese? Eppure l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina è stata da sempre, almeno dalla Nakba in poi, una delle pietre miliari della politica israeliana.
Ezio aggiunge “che l’occupazione della Palestina dura dal 1948” e postilla “non sarei d’accordo” … mi farebbe proprio piacere capire in che senso. Nel senso che l’emigrazione ebraica è stata legalizzata da una decisione internazionale? Ma coloro che, “palestinesi”, nel 1948 abbandonarono le loro terre o/e furono espulsi con la forza cosa possono dire, hanno una voce in capitolo?
Altrettanto duro mi appare il ragionamento successivo: “ci si dimentica che i nazisti ereditarono una lunga, lunghissima tradizione di stragi, deportazioni e massacri …”.
Mi chiedo: è’ forse una cripto giustificazione dei nazisti? Ed in ogni caso si potrebbe ritorcere l’argomento contro Ezio affermando che coloro che fuggirono dall’Europa avevano ben appreso la lezione e ne hanno fatto “buon uso”.
Non mi pare davvero che in questo modo si esca dalle contraddizioni che una cattiva ideologia porta a produrre a mazzi. Ancora di più mi chiedo, seguendo il filo del discorso di Ezio, che vuole dire, rivolto evidentemente agli israeliani come eredi presunti della shoah “di solito se un individuo è stato vittima di violenza si tende semmai a scusare il suo comportamento successivo”. Mi pare davvero che Ezio corra il rischio di infilarsi in un gioco retorico che si fa sempre più pericoloso, né lo giustifica il tentativo di definire dei confini (“entro certi limiti s’intende”), dove la domanda che nasce spontanea è: chi stabilisca i limiti?
Certo in giro si legge di tutto. Eppure non trovo per nulla uno slogan l’affermazione che esistano delle possenti lobby ebraiche operanti a sostegno della politica di Israele ad esempio negli USA. Mi appare una affermazione tristemente vera.
Si potrebbe ribattere che esistono possenti lobby arabe e non avrei nulla da obiettare. Indagare questo tema in modo disincantato sarebbe degno del massimo interesse e forse ci guiderebbe fuori dal labirinto delle ideologie.
Invece Ezio preferisce ritornare al topos dello “sterminio degli ebrei”.
Può darsi che gli interlocutori di Ezio siano strabici o forse siano stanchi della trasformazione di ogni dibattito politico in un gioco di slogan pubblicitari. Se si è riusciti a “vendere” le guerre degli ultimi venti anni trasformando di volta in volta un Milosevic o un Saddam Hussein o un Gheddafi o non so quanti altri in nuovi Hitler, sbattendo i volti in prima pagina con tanto di giochetti grafici, allora può anche darsi che qualcuno si senta stanco di sentir ripetere la “storia dello sterminio degli ebrei” e la consideri vecchia.
Certo fuggire dalle ombre del proprio passato è una pessima scelta ma può essere giustificabile se si pensa che da almeno vent’anni la storiografia e la pubblicistica qui da noi è stata letteralmente invasa da un diluvio di opere sull’Olocausto che fanno aggio su ogni altra tematica. Si vorrebbe dire, se non potesse essere considerato un paradosso, che non si pubblica altro. Dai lager sembrano essere uscite legioni di persone pronte a testimoniare, perfino coloro che erano destinati al più tragico dei destini, bruciare i corpi dei gasati e poi essere a loro volta eliminati, improvvisamente sembrano essersi salvati a legioni. Quando Simon Wiesenthal all’inizio degli anni sessanta pubblicò «Gli assassini sono fra noi » parlava in un deserto e questa sua voce fu, in chi aveva coscienza, strumento di una presa di responsabilità. Oggi non mancano coloro che hanno l’originalità di pubblicare libri che paiono caratterizzati da un compiacimento autoflagellatorio. Ne è esempio il volume dal titolo «Shoah. Le colpe degli italiani»[3], dove onestamente viene la voglia di dire: basta, il troppo stroppia. Ben altre e più gravi sono state le colpe degli italiani, che quella pur esecrabile compiuta da qualcuno di trasformarsi in delatore e spia, ove esistano gli italiani. Perché, guarda te, c’è qualcuno che continua a pensare che anche la categoria italiani sia ideologica, che si tratti di una astrazione concettuale prodotto del nazionalismo borghese, e che invero non si sia per nulla tutti “uguali” fra “italiani”. Da qualche lato ci sono i padroni, abilmente mascherati, ben armati, sempre aggressivi e con chiare idee su quando e come colpire, che ci usano come marionette nei loro giochini e noi ci cadiamo come poveri tapini.
Per concludere. A mio vedere, senza dare un peso fuori misura alle note stonate che escono dalla bocca di molti e che sfortunatamente nell’epoca della sciocchezza universalizzata da internet hanno diritto ai soliti tre minuti di celebrità, ho l’impressione che sarebbe il caso di tornare a ragionare in modo lucido ad esempio chiedendosi quali sono le dialettiche di classe che segnano il perverso sviluppo della realtà politica mediorientale. E’ molto probabile che non troveremo risposte facili. Forse scopriremo scenari poco confortanti, ma ci libereremo dalla miseria dell’ideologia.
Ritorniamo a parlare dei rapporti di produzione ma non come fanno lorsignori e i loro economisti prezzolati, che fra poco rimettono in vigore una nuova ma, sia chiaro, “giocosa” forma di schiavitù, ma assumendoci il compito, come diceva un nostro maestro , anche se in pochi ed anche se è un impegno gravoso, di “spazzolare la storia contropelo.”
Giulio Toffoli
Se Ezio Partesana non avesse scritto ciò che ha scritto questo lungo ed importante dibattito non ci sarebbe stato . Lo stimolo è stato davvero molto significativo ed intelligente. Complimenti.
Gentile Giulio Toffoli,
vediamo se rispondendo alle sue critiche riesco a rendere più chiaro il mio intervento, intervento che lei giudica “esempio particolarmente azzeccato di cattiva retorica”.
Innanzitutto suppongo che per “retorica” lei intenda l’arte della persuasione e della seduzione argomentativa, e che esistano una retorica buona e una cattiva, e che di questa seconda, appunto, il mio intervento farebbe parte. Perché, lei scrive, la mia attenzione
verso la formula “Israele è orami peggio dei nazisti” è forse eccessiva.
È questo un appunto che mi vien mosso da più interlocutori (non ultimo il buon Ennio che mi parla di “finestre da pulire” e mi invita a capire quale sia la prima e più importante) ma che comprendo solo in parte. Se leggo “il manifesto” o ascolto Radio 3 o frequento uno dei molteplici siti della variegata “sinistra” italiana, la posizione di sdegno e protesta contro l’attacco dell’Idf a Gaza e un pieno sostegno ai palestinesi sono ben espresse e documentate; non mi pare insomma che manchino le voci, nonostante un po’ di retorica contro la grande stampa che sarebbe tutta d’un pezzo schierata con Israele.
Non si tratta quindi di far sapere al mondo cose che tutti ignorano, e non mi sembra che manchino neanche dei testimonial importanti; aggiungendo la mia voce al coro non avrei cambiato nulla, io che per formazione e interesse mi occupo di critica dell’ideologia.
Nessuno invece (o quasi) si è interrogato in questi giorni su cosa accade alle nostre coscienze quando vediamo il tragico risultato dell’attacco israeliano, quando leggiamo le notizie e guardiamo le fotografie, ascoltiamo le testimonianze, firmiamo appelli o coniamo slogan. È questo, il processo che parte dall’esperienza e si traduce in pensieri, parole e opere, l’oggetto del mio lavoro da un ventennio a questa parte oramai, e di questo ragiono e scrivo. E nel farlo non tolgo – è evidente – un grammo di forza a chi protesta, che anzi, semmai, minore è il tasso ideologico più forti dovrebbero essere le ragioni. Invece, poiché parlo della nostra ideologia e delle nostre mancanze, e non di quelle israeliane che israeliano non sono, o di quelle palestinesi che neanche palestinese sono, mi si prende per una specie di “nemico interno” che non vuole schierarsi con i giusti e insiste a voler fare l’intellettuale critico (altra obiezione che ricevo spesso, quella di voler fare l’intellettuale a tutti i costi) anche di fronte a tragedie come questa che abbiamo di fronte.
Così se prendo uno slogan e lo analizzo, e cioè lo considero nel suo pieno significato e cerco di capire che cosa dica oltre l’evidente rimprovero (diciamo così) a Israele, e se mi par che qualcosa in questo slogan abbia a che fare con la nostra coscienza, si apre il cielo degli amici e dei compagni che mi dicono francamente che sì, le parole sono importanti, però io adesso esagero.
Anche lei, mi perdoni, fa la stessa cosa. Io prendo sul serio lo slogan “Israele ormai è peggio dei nazisti” e lei critica me perché voglio, per poter paragonare i due eventi, che essi siano “l’uno la copia dell’altro, quasi realizzata con la carta carbone”; ma io non voglio affatto paragonare i due eventi! È lo slogan in questione a farlo, e io mi limito a mostrare che i due eventi non sono paragonabili e che dunque quanto a contenuto quello slogan è falso, e pertanto la sua verità deve stare altrove. Lei concorda con me: “è evidente che ben diverso è il numero dei morti”, e subito dopo pone una domanda retorica (cioè, in questo caso, di risposta scontata) che non ha nulla a che fare con quanto da me scritto: dove mai avrei io detto che la falsità materiale dello slogan “Israele orami è peggio dei nazisti” assolverebbe qualcuno? Da nessuna parte ma me lo si rimprovera lo stesso, così, casomai avessi scritto qualcosa di corretto a proposito della nostra ideologia, lo si declassa velocemente a uno che vuol giustificare Gaza in base allo Sterminio degli ebrei.
Fatto questo lei passa a rimettere ordine nei “dati storici” che io avrei stravolto, ma nel farlo commette alcune indelicatezze storiche. Sempre attribuendo a me l’onere di giustificare il paragone tra nazisti e Israele, quando sono invece quello che lo critica, mi ricorda che lo Sterminio degli ebrei avvenne al tempo di una “resa dei conti finale fra… due coalizioni”, mentre “oggi siamo in un quadro che non può… essere paragonabile”. Ma la proclamazione dello stato di Israele avvenne nel 1948, e quindi in un periodo storico dove le due coalizioni era ben l’una contro l’altra (Nato 1949, Patto di Varsavia 1955) armate, e infatti i palestinesi indicano come data della Catastrofe proprio 1948, e (seconda indelicatezza) la storia dei pogrom è purtroppo ben più lunga del quadriennio da lei indicato, datando in Russia, per esempio, dall’inizio dell’ultimo ventennio del XIX° secolo.
Si potrebbe andare avanti notando che “silenzio” non è uguale a “conoscenza”, io ho scritto che gli ebrei vennero sterminati nel silenzio, non senza che nessuno ne fosse a conoscenza; i nazisti non volevano una “pulizia etnica della razza ebraica”, ma la pulizia etnica della razza ariana; di etnia palestinese non mi sogno di parlare ma di popolo sì; il topos dello Sterminio degli ebrei è contenuto nello slogan che analizzo, non nel mio percorso critico; si potrebbe andare avanti a lungo insomma, ma il ragionamento mi pare chiaro: quello slogan è falso, ma non bisogna prestarci attenzione perché altre sono le cose sulle quali riflettere. E se mi azzardo invece a farlo mi si attribuiscono proprio quelle falsità che lo slogan contiene, non la critica che opero.
Infatti lei passa alle domande. Cito: “Mi farebbe piacere sentire cosa pensa Ezio delle teorie della Grande Israele” e ancora “Mi farebbe capire in che senso… (non sarei d’accordo sulla occupazione delle terre palestinesi)”. Non avrei nulla in contrario a raccontare cosa io sappia e pensi della nascita dello stato di Israele, ma che senso ha porre queste domande in quel contesto? Sembra quasi io debba dimostrare qualcosa, ottenere una patente di “antisionista”, prima di poter criticare uno slogan falso e pernicioso. E anche questo mi sembra un indice (abbia pazienza se persevero nel peccato) ideologico abbastanza esplicito: se vuole conoscere il mio parere potrebbe sempre chiedermelo (o leggere qualche altra cosa che vado scrivendo), ma scritto in quel modo mi pare più una stoccata polemica che non una richiesta di dialogo; siccome non ho dichiarato prima esplicitamente di essere questo o quello, allora come mi permetto di criticare chi invece lo è? La logica lascia a desiderare.
Mi rendo conto che in un pamphlet così breve l’uso della retorica è necessario e non mi scandalizzo se qualcuno me lo fa notare. Sono al lavoro su un saggio un poco più lungo su “Propaganda e Personalità autoritaria”, e lì, per chi vorrà, ci saranno argomentazioni più complesse che in questo contesto sarebbero state decisamente pretenziose e fuori luogo. Le sue critiche però, come vede, mi paiono affette da qualche errore di interpretazione e di prospettiva e non posso accoglierle. Se non forse l’unica, che è quasi una nota personale, e cioè che lei passa sopra a certe frasi dette evidentemente per stupire e scandalizzare. Su questo probabilmente ha ragione, ma io non riesco a distaccarmi dall’idea che le “sciocchezze” a volte siano rappresentazioni della realtà più chiare e veritiere di poderosi volumi. Non me ne voglia.
@Rita [Simonitto]
Riportare, secondo la proposta di Ezio, i discorsi riguardanti la politica dello Stato d’Israele, i bombardamenti a Gaza «su di noi, su come pensiamo e ragioniamo, su come facciamo o consumiamo informazione, su cosa ci smuova, quale coscienza portiamo»?
Facciamolo. Guardiamo “dentro” oltre che “fuori”. Ma possibilmente senza esagerare nella lettura “antiemotiva” e “antideologica» o ironizzare fin troppo sui “poveretti” in preda alle “emozioni”, che si affannano a indignarsi, a maledire chi bombarda, a commuoversi per i ragazzini maciullati.
Tuttavia, cos’è quest’«altro che fatica ad emergere» e che sfuggirebbe a quanti (come me) insistono a denunciare lo Stato di Israele e il suo ruolo centrale nella strategia statunitense in M.O.?
Io ci sto a cercare di individuarlo. Ma mi pare che il tuo discorso sprofondi « nel sotto-sotto-fondo» – inconscio politico (alla Jameson tanto per avere un riferimento) inconscio tout court ( quello delle varie definizioni della psicanalisi) – e alluda polemicamente a un ‘noi’ davvero generico e retorico, nel quale non mi ritrovo; e non per “rimozione”.
Cosa , infatti, c’entro io col «noi, popolo di navigatori nel nulla, santi dell’ebetismo, e poeti che hanno ormai appesa al chiodo la loro capacità di poetare»?
Scrivi: «quando diciamo ‘nazisti’». Ma chi di noi, qui, lo dice?
Io ho sostenuto che lo slogan “Israele peggio dei nazisti» è “antiquato” e non arriva al sodo (dell’oggi); e che Ezio fa bene a smontarlo, ma spreca troppa intelligenza nell’operazione.
E ancora: Chi di noi ha messo «le mani nel sangue»? Chi di noi, come lady Macbeth ha inviato sicari? O « si fida solo degli ambigui vaticini delle streghe fino alla tragedia finale»?
Senza offesa, restiamo in zone nebbiose.
Di questo «altro» mi pare d’intravvedere un tratto più preciso storicamente in questo passaggio del tuo commento:
«quando diciamo ‘nazisti’: isoliamo soltanto un aspetto – una operazione metonimica di ‘pars pro toto’ che impoverisce una conoscenza più allargata – che viene messo in relazione diretta, direttissima, esclusiva ed escludente, solo con l’Olocausto. Del tentativo (onnipotente e ‘folle’, sostenuto dall’ereditata parola d’ordine “Gott mit uns”) di far risollevare la Germania dalle vessazioni umilianti e devastanti imposte dal trattato di Versailles, nulla».
Insomma – interpreto e chiedo conferma o correzione, se sbagliassi – sembri dire: basta associare solo il nazismo alla Shoah (il termine ‘Olocausto’ si sa quanto è impregnato di ambigua religiosità…), vediamo il nazismo (che sarebbe identificabile con il “noi” occidentale o europeo?) come un tentativo di «risollevare la Germania dalle vessazioni umilianti e devastanti imposte dal trattato di Versailles». Risaliamo – il centenario fa da sfondo – alla Prima Mondiale e al suo sconquasso.
Non mi metto a gridare: Orrore, ora si finisce per rivalutare anche i nazisti! Ragioniamo, ripensiamo la storia al di fuori dai miti. Ma è doverosa un po’ di attenzione. Per non fare del nazismo un quasi “risorgimento nazionale tedesco”. O per nobilitarlo per certi suoi legami ( da chiarire…) con «l’ideologia romantica» a cui si abbeverò «per mobilitare le masse in un’impresa di guerra prima e di abbrutimento poi».
Quanto alla psicanalisi, che tu sembri invocare perché «va nella direzione dell’allargare il campo del pensiero», essendo la cura soprattutto «l’effetto di questo allargamento» preciso alcune cose.
Memore delle posizioni di Michele Ranchetti, che anche lui tendeva a mettere in secondo piano l’aspetto terapeutico della psicanalisi rispetto a quello conoscitivo ( giudicato più “rivoluzionario” almeno ai suoi inizi), avevo messo il termine ‘cura’ tra virgolette e usato il condizionale («Lo psicanalista che dovesse “curare” Israele e i palestinesi..»). Perché la psicanalisi mi pare una pratica di ricerca legata fin troppo al singolo individuo e – almeno credo – non sia così facilmente collegabile a saperi storico-politici basati sull’analisi delle società. (I tentativi di “coniugazione” marxismo-psicanalisi non sono stati soddisfacenti, credo). Troppe mediazioni mancano. E resto dubbioso sullla possibilità che essa – lo si diceva anche ler la Storia “magistra vitae” – «ci può servire per evitare di ripetere gli stessi errori: ad esempio rimuovere i ricordi dolorosi sostituendoli, tout court, con ideali di amore e solidarietà. O di potenza». E proprio perché, come tu scrivi, la psicanalisi «non si può occupare né della prepotenza né della ribellione a questa: fare ciò significherebbe entrare in una logica morale che non le pertiene», il suo «sondare le dinamiche che si articolano attorno a questo particolare tipo di relazione (solitamente ‘perversa’)» fa di essa a mio parere un “sapere zoppo”. A volte mi pare un sapere fin troppo enigmatico. Come la famosa Sfinge. Ti pone dubbi, tarli, non dà risposte. E anche quando quel «ben altro che si ‘nasconde’ alla nostra consapevolezza» arrivasse ad accertare ciò che già sospettiamo («che c’è un bel po’ di Caino in noi»), essa – forse come ogni teoria – ci lascia sempre alquanto a bocca asciutta, se si tratta di ragionare sull’indispensabile «che fare» politico. Il problema della scelta resta tutto aperto.
Non so se derivino dal sapere psicanalitico le cose che scrivi sugli intellettuali, sul rapporto vittima carnefice. Però non mi convincono. La critica ai primi la trovo inadeguata. Ancora una volta è rivolta agli intellettuali intesi come categoria generica e idealizzata. Non morde. Non tiene conto delle cose come stanno adesso anche ler questa “categoria”, una volta nobile. Tanti anni fa «si impegnavano nella ricerca del ‘vero’ in una dinamica ‘trasformativa’ dell’esistente» ed ora «sono ristagnati in un certo conservatorismo […]diventando prigionieri di due padroni: le cosiddette masse che li investono del ruolo di ‘sapienti’ (e su questa posizione moltissimi ci marciano), e il regime politico-padronale che li costringe a suonare il piffero in un certo modo »?
Ma è davvero così? O sono ammutoliti perché macinati pur essi dal rullo compressore della mondializzazione? E poi, comunque, cosa hanno a che fare costoro con noi che, pur se ci definissimo intellettuali, siamo alquanto lontani dalle loro collocazioni professionali e siamo bellamente ignorati sia dalle masse sia dal «regime politico-padronale»? Quale piffero staremmo suonando o, per essere precisi, sto suonando?
Scrivi «Gaza non è più là ma in noi», che «nel rapporto perverso ‘carnefice-vittima’ che, non a caso, è di difficile elaborazione analitica proprio per l’ambiguità di cui è portatore, per poter fare qualche cosa bisogna ‘starne fuori’». Leggo, rifletto e comincio a temere che rischiamo una “interiorizzazione della storia”, una sottovalutazione della necessità di scelta (individuale) che gli eventi a volte ci impongono. Perché siamo esseri appunto storici. Stiamo in quegli eventi. Più o meno a distanza da quelli più crudi e sanguinosi: israeliani e palestinesi dentro quasi fino al collo; noi apparentemente e per ora ancora un po’ fuori. E da essi possiamo “astrarsi” solo in parte e temporaneamente.
Perciò resto sconcertato quando dici: «Quando noi prendiamo parte per la ‘vittima’, diamo conferma al ‘carnefice’ che la sofferenza non sta in lui ma sta da un’altra parte ed è ciò che lui persegue strenuamente: “non sono io a soffrire, ma l’altro”». ( Paradossalmente e sarcasticamente mi verrebbe da chiedere: Allora, se non ci schieriamo con la vittima, vuoi vedere che, grazie al nostro atteggiamento di neutralità o al nostro “star fuori”, il carnefice soffre di più e si converte da solo?).
Se nella storia «si creano delle situazioni, perverse appunto, di “solidarietà antitetico polare” (per utilizzare una terminologia di Lukàcs), ragion per cui una posizione non può sussistere senza l’altra» (e potrebbe essere il caso del conflitto in Palestina), cosa vuol dire: «per poter fare qualche cosa bisogna ‘starne fuori’»?
Schierarsi è forse “star dentro”? Schierarsi significa pretendere di avere in mano «le redini della storia»? Oppure perdere « tutti quegli spunti dubitativi – anche fuori dal coro – che comunque il lavoro di E. Partesana ha portato alla nostra attenzione»?
Non lo credo: pretendo, da “schierato”, di avere dubbi quanto uno che non si schiera. E che la mia posizione abbia la stessa dignità di chi decide di non schierarsi. Non è che, nel caso di chi si schieri, i prepotenti o gli strateghi che mirano al predominio hanno a che fare «con livelli bassi di consapevolezza» e quindi « avranno più facile successo».
No, Gaza «sta là», non «dentro di noi». E perciò il rompicapo storico è tanto più arduo.
P.s.
1.
Richiesta di chiarimento. Avevo scritto: « altri che fanno convergere altre emozioni sempre simbolicamente attorno allo slogan che all’incirca suonerebbe così:” Israele fa bene a difendersi; è sempre Hamas». Ho sbagliato ad usare l’avverbio ‘simbolicamente’? Però non capisco cosa vuol dire:« il ‘simbolico’ che lui chiama in causa non c’è assolutamente, e non c’è perché non ci sono assolutamente le condizioni ‘mentali e storiche’ perchè si arrivi al simbolico né dalla parte dei contendenti né dalla parte dei cosiddetti ‘interpretanti’»? Perché «in questo tipo di conflitto (sottolineo ‘tipo’ di conflitto) sembra che il tempo non sia mai passato e la dinamica si svolge secondo cliché ormai noti»? Ma è così o appare così a noi che lo seguiamo da lontano e dall’esterno?
2.
Il mio “slogan macellaio” non pretende di “portare la verità”. Esprimeva – l’ho detto – la mia rabbia senza per questo staccarsi dalla *ricerca della verità*. In altre parole: metaforizza ma non mentisce. La “macelleria” (= violenza sui corpi) è prerogativa degli Stati, di tutti gli Stati. Noi ce ne siamo un po’ scordati, ma la cronaca ce lo ricorda ogni giorno. (Vedi il comportamento delle varie polizie: St Louis (Usa): «Il video amatoriale, filmato da un testimone, mostra il giovane Kajieme Powell avvicinarsi alla polizia armato di un coltello. Il ragazzo era appena uscito da un negozio dove aveva rubato una bibita e dei dolci. Gli agenti intervenuti sul posto gli ordinano ripetutamente di abbassare il coltello e di indietreggiare. “Sparatemi ora”, e’ la risposta del giovane, davanti ad alcuni testimoni. Quando si e’ avvicinato ancora di più, i poliziotti hanno aperto il fuoco, sparando almeno una dozzina di colpi. Il giovane e’ morto subito».). Si diffidi pure dal dire tutto ciò in slogan. Lo si dica in discorsi articolati, ma la violenza statale (quella fondamentale) resta. Resto fermo al Gramsci che parlava dello Stato come «monopolio della forza» anche quando la esercitava con il «guanto di velluto».
3.
Riletture ad hoc: (F. Fortini, Parola chiave:conflitto, in Disobbedienze II, pagg. 167-169, manifesto libri, Roma 1996)
Presso i cinesi, sorridere all’ avversario può manifestare
un’ostilità grandissima. Il cerimoniale del duello, fino a meno di
cent’anni fa, era una forma culturale di espressione di un conflit-
to tra individui. L’ironia può essere, come si dice, sanguinosa
come una stilettata. La violenza non è negli strumenti impiegati
per usarla. E certo le buone maniere sono preferibili, quasi sem-
pre, alle cattive. Quasi sempre: dare della canaglia, ad esempio,
è, in date circostanze, una forma di conflittualità «esemplare» ed
«educativa» come non lo sarebbero invece un ironico risolino o
un rispettoso dissenso.
La storia umana è anche storia di intolleranza e tolleranza, di
conflitti e di loro risoluzioni, di contese e di accordi da cui nasco-
no altre contese e altri accordi. Come nella musica o almeno in
gran parte di essa. Sono sempre esistiti i tentativi, di individui o di
gruppi, di uscire fuori della conflittualità verso la «pace» del nul-
la, della non-azione, dell’annullamento del desiderio e del con-
fronto; penso al buddismo e alla tradizione mistica occidentale.
E anche le procedure opposte, di chi porta e estreme con-
seguenze lo scontro, offrendosi vittima all’avversario: dagli asse-
diati (Numanzia o Masada) che scelgono il suicidio contro la resa,
fino ai singoli che rifiutano la vita se offerta in cambio della
ritrattazione o del pentimento («questa mia è una verità di cui non si
può dare testimonianza se non morto», dice, avviato al rogo, un
eretico fiorentino del Quattrocento; e «lei sa, padre, che cosa
significhi salvarsi l’anima?» risponde Gramsci prigioniero al prete
che gli propone di inoltrare una istanza di grazia a Mussolini).
Ma non ogni conflitto è «il» conflitto, come non ogni guer-
ra è «la» guerra e non ogni pace è «la» pace. Va respinto come
un volgare imbroglione tanto chi (e non sono pochi) interpreta i
moderni conflitti tra nazioni e potenze come proiezione di con-
flitti tra «mentalità» o «culture» o «religioni» o «civiltà» (e pre-
sto si arriva a parlare dì lotta del «bene contro il «male» e simili
rozze e purtroppo sempre efficaci menzogne).
Costoro, nella migliore delle ipotesi, dilatano a livello mon-
diale l’esistenza e la rilevanza certo realissima dei conflitti incon-
sci degli individui fingono di non vedere che ogni cozzo di inte-
ressi e passioni traspone, sì, anche quelli sedimentati o rimossi
negli individui e nei gruppi umani ma che nelle società moderne
tanto le strategie del piccolo negoziante quanto quelle delle gran-
di potenze assegnano un’importanza sempre minore ai motivi e
agli interessi non forrnulabili in forma razionale.
Quando il generale Schwarkopf ordina di sventrare dieci-
mila iracheni non lo fa perché da piccolo la mamma gli negava il
seno o il padre lo minacciava di busse; tanto più che egli è proba-
bilmente un uomo di buon cuore, pronto magari ad adottare un
orfano di quegli iracheni e amante della musica popolare,
dell’Arkansas o della lirica trovadorica o dell’allevamento dei eri-
ceti. Lo fa perché non sarebbe a quel posto ove non fosse stato
selezionato ai suoi compiti da un sistema complesso di cui fanno
parte industriali, economisti, storici, psicologi, sociologi,
uomini politici, insomma, tutta una cultura.
Che poi quel complesso sistema abbia bisogno anche di
truccare le proprie motivazioni ora evocando paure (e rassicura-
zioni) infantili («Il nemico è un orco sanguinario e pazzo e ognu-
no può contribuire a distruggerlo infilzando spilli in una sua effi-
gie per poi tornare a mangiare il tacchino e la torta di mele con
mamma, moglie e figli nel Giorno del Ringraziamento») ora for-
nendo argomenti solo apparentemente più realistici («vogliamo il
petrolio») ma altrettanto menzogneri o parziali – tutto questo ci
dimostra che «la pace» è una parola vuota e consolatoria se non
si definisce bene a quale conflitto, a quale lotta o guerra si
opponga. Si opponga, appunto. Negare un conflitto equivale a
istituirne un altro.
«La vita dell’uomo sulla terra è un servizio militare», «lo
sono venuto a portare la spada»: Chi ha detto queste frasi è la
medesima bocca che ha detto: «Beati coloro che si adoperano
per la pace». Credo non ci sia nessuna contraddizione. La prima
frase riconosce che la conflittualità (tra «bene» e «male», tra
«giusto» e «ingiusto») e la sua sofferenza sono costitutive, come
la sua gioia, dell’ essere umano e del suo fondamentale bisogno di
conservazione e riproduzione, ossia di «lavoro». La seconda ci
avverte che il latore di consapevolezza è anche latore di conflitti,
La terza vuol dire che i facitori di pace sono coloro che, accre-
scendo la cerchia dei rapporti, dei temi o delle ragioni di
non-conflitto, spostano la frontiera degli inevitabili e fecondi
_conflitti, inducendo sempre più ampie alleanze e sempre più pre-
cisamente definendo e chiamando per nome i nemici, trasfor-
rnandoli prima in avversari, poi in collaboratori necessari e pre-
ziosi. Ogni individuo, ogni classe, ogni società è «pacifica»
all’interno della cerchia del proprio «fuoco di bivacco»,
ma non può non avere sentinelle poste a diifesa della fraternità e
della solidarietà sempre minacciate da «dentro» come da «fuori» […]
@ Ezio [Partesana]
PREMESSE DI METODO DI UN LETTORE CHE SI VUOLE ONESTO
Nella nostra discussione tutto questo «spostare il pallino» a mio piacere o capriccio non ce lo vedo. O, se ci fosse, non è dovuto a rimozione o imbarazzo o rifiuto di considerare gli argomenti altrui (i tuoi nel caso). Quanto al «concedere agli avversari […] quel minimo di credito necessario a comprendere i loro argomenti» per me – lo sai – è fuori discussione. Altrimenti neppure avrei pubblicato il tuo post su questo sito.
In effetti, invece, è faticoso pronunciarsi su tutti gli spunti che un commento (specie se articolato) propone. Del resto, quando lo faccio, proponendomi di essere pignolo e persino scolastico, le accuse di fraintendimento fioccano lo stesso. Altre volte, o per stanchezza o per non annoiare, scelgo uno o due punti che mi paiono centrali (o che mi dicono di più) e rispondo solo a quelli. Gli altri inconvenienti derivano per lo più dal fatto che siamo in disaccordo. (Il che non impedisce di confrontarci).
Non ho risposto perciò al punto «sui mandati inglese e francese» semplicemente perché non lo trovavo o trovo decisivo. Non ho motivo di dubitare della tua affermazione: che «dei territori del Mandato britannico solo una parte, e relativamente piccola, fu “attribuita” a Israele, mentre il resto andò a formare o ingrandire altri Stati». Tu sai, però, meglio di me che geopoliticamente la differenza non la fa la dimensione del territorio su cui sorge uno Stato: il “piccolo” Giappone agli inizi del Novecento era meno esteso della Cina ma più potente e la occupò.
Non vedo poi che danno deriverebbe a una discussione pubblica – qui condotta da vari interlocutori – se io sposto così spesso “il pallino” o richiamo problemi (quelli dello Stato o della cosiddetta mondializzazione) che ritengo più importanti o non più affrontati col rigore che richiederebbero. Non pretendo che la discussione debba ruotare attorno ai temi che preferisco o ritengo principali. Ciascuno espone i suoi, magari li argomenta e, se valgono o fanno presa, altri li riprendono. Questa mi pare la dialettica giusta. Sbagliato è sospettare continuamente una qualche malafede o superficialità o che a me piaccia particolarmente «giocare a nascondino».
Quanto al discutere «meno per entità interclassiste e più per diritti di classe», come tu suggerisci, o dei marxiani-brechtiani «rapporti di produzione», come auspica Giulio Toffoli, ho delle serie riserve. Non dovute a rifiuto o timore di trattare tali temi o a “cambio di casacca”. Il fatto è che le mie letture confermano sia l’idea che mi sono fatta: «che oramai la globalizzazione etc. etc. hanno “sfasciato e ridotto a termini irrisori” quei diritti», come tu dici con ironia; e sia la convinzione che gli sviluppi della storia del secondo Novecento abbiano demolito tutte le esperienze di costruzione del socialismo, mentre gli stessi concetti marxiani appaiono in buona parte inadatti o insufficienti ad affrontare il caos mondiale.
Vorrei certamente essere smentito, ascoltare discorsi convincenti, trovare qualcuno capace di dimostrarmi che le cose non stanno così, che abbiamo invece concetti sani e saldi o persino una teoria già abbastanza delineata, con la quale poter leggere i vari conflitti e intervenirci politicamente.
Sarei felice di disfarmi dei miei dubbi e di non morire avvolto nel mio mantello scettico. E volentieri concedo – a te, a Toffoli o ad altri – l’onere della prova. O, se vogliamo, delle indicazioni bibliografiche che mi facciano abbracciare un pensiero “all’altezza dei tempi” (come si dice) e mi permettano una giusta e non “emotiva” identificazione del nuovo “noi” (o “soggetto”) su cui scommettere.
Altrimenti io – modestamente e orgogliosamente – resto *soltanto* «dalla parte dei palestinesi» ( o di altri che ritengo meno prepotenti dei prepotenti. *Con tutti i miei dubbi* (e, quindi, niente affatto “senza se e senza ma”). Perché non sono affatto “palestinesocentrico”, né ho fatto della Palestina il mio “paese allegorico” (Fortini). Io poi non parlerei mai neppure per metafora di «amore degli Usa per Israele». So che le mosse strategiche possono cambiare in continuazione. A quei livelli di valutazione delle cose l’amore o le alleanze stabilite possono saltare da un giorno all’altro: hai visto la fine di Gheddafi e prima di Saddam? I nemici e gli amici di Israele e dei palestinesi sono perciò dei grandi “ballerini”. E la cosa più saggia mi pare la massima (apparentemente cinica) di Gianfranco la Grassa: i potenti sono fatti di una medesima pasta, noi possiamo distinguere in quelle cricche potenti e meno potenti (dominanti e subdominanti, come lui dice) e – con una leniniana *analisi concreta della situazione concreta* (quando e se ci riesce di farla sulla base delle informazioni che riusciamo a “rubargli”) – vedere come si evolve la rete dei loro rapporti di forza sempre provvisori e mutevoli. O cercare nelle guerre che si fanno, come povere Madre Courage, di cavarci la sopravvivenza e qualche minimo vantaggio. O – si creasse una situazione favorevole e straordinaria anche per un “noi” per ora non profetizzabile – tentare qualche “assalto al cielo”. Questa la mia filosofia per tempi così grami.
Caro Ennio,
Non hai risposto al punto sui mandati inglese e francese “semplicemente perché non lo trovavo o trovo decisivo”; sicuro che non lo sia? Sicuro che la narrazione della nascita dello stato di Israele che oggi è egemone nella “sinistra” italiana non ne possa venir modificata o messa in dubbio neppure un poco? Perché mai dovrebbero circolar cartine della Palestina che coprono solo il territorio attribuito ai tempi (1948) a uno stato arabo-palestinese e a uno stato ebraico-israeliano e non all’intero mandato internazionale, se non fosse perché questa è parte di una narrazione identitaria? È come per la storia della progressiva occupazione di territorio da parte di Israele: è un dato di fatto e si può criticare e cercare di opporvisi, ma nessuno ricorda che non fu Israele a scatenare le tre guerre che portarono alle prime occupazioni, né le risoluzioni Onu che i palestinesi e i loro “alleati” arabi rifiutarono, si citano solo quelle che è Israele a non rispettare.
Ma tutto questo è fatto in nome dei “macellati” a Gaza naturalmente, su di noi, sul nostro modo di ragionare, nessun dubbio che possa smentire la sensazione di essere degli uomini giusti, dalla parte giusta e con giusti sentimenti.
Con affetto e polemica ti dico che non mi pare sia così, purtroppo.
@ Ezio [Partesana]
Caro Ezio,
Solo su un punto, che a te pare decisivo tra quelli che ho trattato.
Ho scritto: “Non ho motivo di dubitare della tua affermazione: che «dei territori del Mandato britannico solo una parte, e relativamente piccola, fu “attribuita” a Israele, mentre il resto andò a formare o ingrandire altri Stati». Tu sai, però, meglio di me che geopoliticamente la differenza non la fa la dimensione del territorio su cui sorge uno Stato: il “piccolo” Giappone agli inizi del Novecento era meno esteso della Cina ma più potente e la occupò”.
Non ho, dunque, negato la veridicità di quanto dici. Non mi sono chiare, però, le deduzioni che tu trai da questo dato. Davvero modificano (di poco o di tanto?) la narrazione della nascita dello Stato di Israele?
Se puoi argomentarlo fino in fondo o rimandare a testi in cui la questione è trattata, m’impegno a valutarli. Al momento resto attaccato alla mia opinione: il divario ( militare, tecnologico, di sostegno strategico da parte delle potenze allora dominanti) tra i fondatori dello Stato d’Israele che arrivarono in Palestina e i “residenti” era a vantaggio dei primi ed è stato conservato e aumentato con metodi colonialisti.
Venezia, settembre 2014
Festival 71. Alla Settimana della Critica, il film di Suha Arraf «Villa Touma». Girato dalla sceneggiatrice del «Giardino dei limoni» e realizzato anche con fondi israeliani, ha suscitato molte polemiche: il ministero della cultura israeliano ha richiesto addirittura i soldi indietro
Uno dei film più attesi della Settimana della Critica è il film palestinese, Villa Touma, che segna l’esordio alla regia di Suha Arraf, ben conosciuta sceneggiatrice di La sposa siriana e Il Giardino di limoni, film diretti da Eran Riklis, nato a Gerusalemme e cittadino del mondo, appassionato difensore della pace tra israeliani e palestinesi, film che sono il miglior commento alla drammatica situazione di ciò che sta succedendo in quell’area del mondo.
Suha Arraf — che nei film da lei scritti ha ritagliato uno spazio chiuso che nel suo breve perimetro sintetizzasse conflitti giganteschi e insolubili — qui sceglie l’inaccessibile villa di tre nobildonne dell’aristocrazia cristiano ortodossa di Ramallah (che per lo più è emigrata all’estero), rimaste sole con quello che resta del loro patrimonio impoverito, forti di un rango da difendere a qualunque costo. Guidate dalla sorella maggiore che ha rinunciato al matrimonio per dedicarsi alle minori dopo la morte dei genitori, non transigono dal «tono» da dare alla loro vita di recluse, dopo la morte del marito di una di loro e il mancato matrimonio dell’altra con un fidanzato non all’altezza, partito poi per l’America come la maggior parte dei cristiani di quella zona. Nulla dovrebbe cambiare neanche con l’arrivo della nipote Badia (Maria Zreik), fino ad allora ospite dell’orfanotrofio, dopo la morte del padre, loro fratello rinnegato perché sposò una donna musulmana.
A Badia verranno insegnate le buone maniere, le regole adatte a una figlia di famiglia, il pianoforte, il francese, gli abiti adatti da indossare nelle occasioni ufficiali. E poi non si deve mai stare con le mani in mano, inquadrate a cucire sul terrazzo, proprio come in un quadro di Gioacchino Toma, che ritraeva la stessa piccola aristocrazia. Tutto un codice che stride con il senso di rovina che potrebbe colpire prima o poi la famiglia e con la tremenda situazione che circonda la villa, dove si contano i morti dei conflitti a fuoco.
Lo scopo è quello di trovarle presto un marito, e i buoni partiti vanno cercati ai matrimoni, ai funerali, alle cerimonie religiose, o aprendo per la prima volta, dopo tanto tempo, la casa a piccoli ricevimenti. Ma anche Badia, come la madre, trasgredisce alle regole. L’oggetto del suo desiderio è Khaled, un giovane musulmano (Nicholas Jacob, era in Out of the dark di Michael Myer del 2012, storia d’amore tra uno studente palestinese e un avvocato israeliano).
L’universo femminile Suha Arraf ha cominciato a indagarlo nei documentari di cui è stata produttrice, tra questi Women of Hamas (2010), vincitore in numerosi festival internazionali. Non parlavano quasi per niente le due donne che si fronteggiavano in Lemon Trees, la palestinese padrona del giardino e la moglie del ministro israeliano, ma da quei silenzi emergeva tutto il conflitto e la solitudine che attanagliava la vita di una e dell’altra.
Anche a Villa Touma non si parla tanto — non sta bene — né tantomeno si può ridere o cantare, sono i gesti a parlare, il contegno mantenuto nel tempo senza cedimenti anche nella solitudine durata a lungo (di lutti, dall’Intifada), né le sorelle si occupano di quello che succede fuori, troppo volgare occuparsi di politica. La villa nel suo silenzio, nei suoi tempi scanditi diventa un luogo dove con più forza emergono temi come il conflitto, le divisioni, l’intolleranza.
Anche se realizzato con fondi pure israeliani, è registrato come film palestinese (e il ministero della cultura israeliana ha dichiarato di rivolere i soldi indietro): Suha Arraf, che vive in Israele, sostiene che nulla nel contratto indica che il film debba essere dichiarato come «israeliano», visto che di storia palestinese si tratta, che gli attori parlano la loro lingua e che la regista stessa è quella che in Israele viene definita non senza disprezzo arabo-israeliana, una polemica che facilmente assume toni infuocati in questi giorni.
Silvana Silvestri, Venezia – 2 settembre 2014
La claustrofobia di un conflitto
Il manifesto, 3 settembre2014
UNA QUESTIONE DI METODO
Caro Ennio, questo interessantissimo dibattito rischia, a mio parere, la dispersione e l’inconcludenza. Tu scrivi “Non pretendo che la discussione debba ruotare attorno ai temi che preferisco o ritengo principali”. Dovresti invece pretenderlo, o meglio, dovresti pretendere di stare al tema posto, o da te o da altri, senza che vi siano eccessive digressioni, senza reiterate “botte e risposte” tra i singoli interlocutori. Siamo ormai ben oltre i “70 pensieri su…”. Pensi che un comune lettore si possa giovare di questo mini-zibaldone? Io credo di no. Credo invece che con questo metodo “troppo aperto” si possano, anche contro la tua volontà, favorire polemiche troppo tese a difendere soltanto i propri punti di vista. Contribuire a un dibattito rinunciando a intervenire. Talvolta anche questo deve essere possibile. Ma perché ciò avvenga, se non c’è un’autodeterminazione, diventa necessario, secondo me, l’intervento di un “moderatore”. Tu hai l’autorevolezza per svolgere questa funzione. Ti beccheresti lo stesso, come già avviene, le accuse di censura, “di spostare il pallino”, magari anche di inquisizione o altro. Ma tutto il dibattito invece, divenuto più conciso e mirato, ne trarrebbe grande giovamento.
UNA QUESTIONE DI PRINCIPIO
Condivido il tuo scetticismo. Credo di averne dato una poetica conferma nel corso di questo dibattito. Ma chi, tranne la valentissima Annamaria Locatelli, se ne è accorto?
@ Ottaviani
Rispondo a te, Paolo, ma indirettamente anche ad altri/e che, pur apprezzando il lungo dibattito (vi ricordo che è dal 10 luglio che si susseguono gli interventi in vari post e non solo in quest’ultimo), un po’ forse sono stanchi e un po’ temono – appunto – «la dispersione e l’inconcludenza».
A parte il fatto che non vedo altrove sul Web o sui giornali ( a meno di non avere io un quadro d’informazione troppo limitato) commenti che affrontino questi temi con passione, sì, ma – come per lo più è accaduto qui – argomentando e tenendo abbastanza sotto controllo i propri umori per una sincera volontà di *ragionare* e non di aver a tutti costi ragione sull’altro/a ( esemplare mi pare l’ultimo intervento di Rita Simonitto: 3 settembre 2014 alle 12:48 ), l’insoddisfazione che si può provare, rivedendo i numerosi commenti, a cosa è davvero imputabile?
Non credo al metodo “troppo aperto”.
La materia di cui discutiamo è davvero sfaccettata e aggrovigliata. Dobbiamo saperlo. Non c’è un tema, ma un tema che ne contiene almeno dieci altri. Si parte dall’ultimo bombardamento di Israele su Gaza e si va per forza di cose a toccare: le questioni della politica di Netanyahu e di Hamas (e dei precedenti governi), la fondazione dello Stato d’Israele, il movimento sionista e gli appoggi internazionali ricevuti, l’ideologia attraverso la quale guardiamo anche da lontano questo conflitto, le strategie delle grandi potenze, la Shoah, i pogrom e l’antisemitismo. (Tra l’altro, su quest’ ultimo argomento “Le parole e le cose” in agosto, durante il periodo di “riposo”, ha ripresentato un articolo di Clotilde Bertoni, La sottomissione dei chierici (http://www.leparoleelecose.it/?p=10864) che ha ottenuto una infuocata ripresa di discussione con interventi dottissimi e purtroppo bruscamente interrotti sul momento più delicato).
È questa complessità che impedisce un pur desiderabile discorso «più conciso e mirato». Credo poi che il ruolo di “moderazione” o “auto moderazione” lo abbiamo svolto in diversi e in vari momenti. Ma la segreta speranza, se c’è, che si possa arrivare a una conclusione condivisa o “amichevole” mi pare per ora impossibile. E il «comune lettore» se ne deve rendere conto anche lui e non incolpare gli “intellettuali che se la menano”.
I punti di vista sono diversi e su alcuni aspetti (schierarsi, non schierarsi; giudizi sulla politica israeliana o su quella di Hamas, ad es.) contrapposti. A me non pare che si possa fare di più di quel che è stato fatto. Si potrebbe, come tu dici, «contribuire a un dibattito rinunciando a intervenire»? Può darsi. Io però preferisco sempre intervenire, replicare, controbattere rileggendo attentamente quanto dice l’altro interlocutore. E questo mi pare l’abbiano fatto anche altri/e.
Poi, anche dopo una polemica tesa, ciascuno per proprio conto vedrà quanto tener conto degli elementi di verità o di realtà presenti nella posizione dell’avversario.
Caro Ennio, mi hai convinto. Ma per non rischiare la “labirintite cronica” – forse la naturale condizione di questa nostra terribile contemporaneità – un piccolo suggerimento tecnico: che ci siano degli “abstract”, magari chiusi in riquadri o evidenziati con caratteri speciali, in cui i diversi o contrapposti punti di vista, su questa come su altre questioni, siano sinteticamente e “asetticamente” riassunti. (I tuoi tentativi di sintesi, pur lodevoli, possono però confondersi con lo stesso dibattito in corso). E in una sezione a parte, riunificata e non dispersa all’interno dei vari interventi, come talvolta accade ora, la bibliografia e i siti consigliati per gli approfondimenti.
Stammi bene.
Paolo
Sinceramente non saprei che cosa rispondere di preciso nel senso che ho l’impressione che le risposte, o i distinguo, avvitino ancora di più l’incomprensione anziché chiarirla.
Posso però dire questo.
— Essenzialmente potrei dire che mi stanno bene le considerazioni di Ennio che però esprimono punti di vista diversi dai miei e dove la diversità non implica un giudizio di valore (giusto/sbagliato; buono/cattivo) ma espressione di un’altra angolazione da cui si osservano gli eventi. Mi sta bene che Ennio ribadisca come ‘prioritaria’ l’attenzione nei confronti delle vittime e nemmeno mi permetterei mai di *ironizzare … sui “poveretti” in preda alle “emozioni”, che si affannano a indignarsi, a maledire chi bombarda, a commuoversi per i ragazzini maciullati*.
Mi va bene che intenda continuare a denunciare *lo Stato di Israele e il suo ruolo centrale nella strategia statunitense in M.O.*, pur pensando io che questo denunciare stia diventando più un mantra che l’esito di una analisi sul senso dei movimenti strategici attuali che ci fanno intuire che quella ‘centralità’ sta cambiando e che forse a Netanyahu (o a chi per lui) sta strizzando il posteriore sapendo quale fine è riservata agli alleati (più o meno ex) degli U.S.A. (e getta).
Il mio interrogarmi va in una direzione che dà altre priorità, ovvero cercare di capire che cosa sta succedendo, che cosa sta cambiando, e ciò senza nulla togliere a chi si impegna in altro modo: questo è il mio stile di lavoro e di pensiero che non è certo né l’unico né tantomeno il migliore.
Senza dubbio “io” non vado nella direzione del prendere immediatamente posizione perché, quanto al prendere posizione, so che sono all’opera dei ‘motori’ profondi individuali (e non sempre altruistici) che utilizzano il ‘tutto e subito’ come dinamica risolutiva di eccellenza.
Nello stesso tempo, pur non prendendo tanto alla lettera il detto sulla * Storia “magistra vitae”*, non posso non ricordare gli scontri, anche accesi, che ci sono stati a proposito delle ‘primavere arabe’ e dell’appoggio alla meravigliosa rivolta del popolo contro il ‘tiranno’ di turno. E queste ‘primavere’ non si sono immarcescite perché, si sa, le ‘rivoluzioni’ hanno vita breve, ma perché quei movimenti erano ‘utili’ ad un cambio della guardia in quei paesi e, a tutt’oggi, non ne capiamo ancora bene il disegno.
E penso a quanto scrive G. Toffoli nel suo post: *Gaza e i suoi morti sono stati ormai archiviati, come era prevedibile, nella più naturale indifferenza, come è successo altre decine di volte nel caso della cosiddetta “questione palestinese”, in attesa di una futura e inesorabile ripresa del contenzioso in altra forma*.
— Non è mia intenzione rivalutare il nazismo ma interrogarmi a fronte di quali bisogni rispondesse il movimento nazista.
Nota: tu, Ennio, vuoi rettificare ‘Olocausto’ in Shoah perché dici che il termine Olocausto è impregnato di ambigua religiosità? Ma non è a caso che viene utilizzato quel termine proprio perché, mobilitando la ””””religiosità””””” – le parti emotive più arcaiche -, si ha un impatto maggiore di ‘credibilità’ e di adesione.
— E poi, perché quando utilizzo un ‘noi’ – che si riferisce ad ‘aspetti’ contemplabili negli esseri umani, che lo si voglia oppure no – mi chiedi ‘fuori i nomi!’, o dici *non siamo certo noi quelli che*, come se facessi delle accuse, mentre se Fortini parla di ‘coloro che’, individui o gruppi che siano – e rimane nel generico e retorico – questa modalità può essere accettata, e sei più tranquillo nel pensare ‘non sono io uno di questi’, ‘non di me parla la favola’.
— Mi dispiace di aver tirato in ballo la psicoanalisi – una psicoanalisi che non è rimasta ferma all’analisi individuale, ma si è arricchita anche di teorie sul funzionamento dei gruppi – introducendola come ‘punto di vista’ che può aiutare a vedere quell’”altro” che è oscurato dalla ‘evidenza dei fatti’.
E mi spiace perché, alla stregua di un talk-show, la poverina è stata sollecitata da domande a cui non si può dare pronta-risposta; investita da esigenze salvifiche (la ‘conoscenza’ ci salverà: come scrive Emy *e allora la psicanalisi che ci aiuta a capire, come mai non arriva mai a questa gente? Forse è gente che si fa psicoanalizzare da individui come loro che pensano che i fatti devono andare proprio come stanno andando…*); esposta a critiche riguardo alla sua enigmaticità (ma l’enigma è proprio il suo oggetto d’indagine, paradigma Edipo e la Sfinge, dove Edipo, con la sua risposta baldanzosa ‘suicida’ la Sfinge, ovvero ulteriori possibilità di risposta); ad accuse di *sapere zoppo*, mentre è soltanto un sapere ‘parziale’, una delle tante strisce – anche se molto importante – sul manto della tigre; da ironizzazioni e travisamenti che forse celano la paura di quella “peste” che il pensiero psicoanalitico porta con sé: *Allora, se non ci schieriamo con la vittima, vuoi vedere che, grazie al nostro atteggiamento di neutralità o al nostro “star fuori”, il carnefice soffre di più e si converte da solo?* (Abate).
Fortini si oppone giustamente alle banalizzazioni: * Quando il generale Schwarkopf ordina di sventrare diecimila iracheni non lo fa perché da piccolo la mamma gli negava il seno o il padre lo minacciava di busse* e aggiunge: *Lo fa perché non sarebbe a quel posto ove non fosse stato selezionato ai suoi compiti da un sistema complesso di cui fanno parte industriali, economisti, storici, psicologi, sociologi, uomini politici, insomma, tutta una cultura*.
E’ che quando Fortini dice ‘cultura’ sembra fare riferimento a qualche cosa che deriva solo dall’alto e non anche ‘dal basso’, là dove si annida il con-senso (pilotabile proprio perché a base ‘inconscia’) e vige quindi un certo tipo di mentalità di cui non si può non tenere conto. Senza il supporto della ‘plebe’ (nell’accezione dei tempi di G. Cesare. Leggere nel “Giulio Cesare” di Shakespeare i discorsi alla plebe sia di Bruto e sia di Antonio) non si va da nessuna parte. Non serve che ci sia una adesione ‘oceanica’ ma che faccia leva su ideologie che è difficile cambiare.
Esempio? Elezione di D’Alema e la guerra del Kosovo che ‘sdoganò’ a sinistra il concetto di ‘guerra umanitaria’.
Così, tanto per rinfrescare la memoria:
Stralcio da un’intervista a D’Alema su Il Riformista, 24 marzo 2009.
* (D’Alema)…. nel Consiglio dei ministri. Dissi “questa è una cosa – l’intervento militare in Kossovo – che io ritengo che si debba fare. Me ne assumo la responsabilità. Se finirà male, mi dimetterò”. Punto e basta. Non si votò in Consiglio dei ministri, e nemmeno in Parlamento….
* Clinton mi disse: “L’Italia è talmente prossima allo scenario di guerra che non vi chiediamo di partecipare alle operazioni militari, è sufficiente che mettiate a disposizione le basi”. Gli risposi: “Presidente, l’Italia non è una portaerei. Se faremo insieme quest’azione militare, ci prenderemo le nostre responsabilità al pari degli altri paesi dell’alleanza”. Era moralmente giusto ed era anche il modo di esercitare pienamente il nostro ruolo. Dopo il Kosovo, infatti, l’Italia ebbe un ruolo primario.
* (Domanda dell’intervistatore): Intanto in Italia il popolo di sinistra soffriva, e molto.
Risposta di D’Alema: Stiamo attenti, il popolo di sinistra non è in massa pacifista come spesso si vuole far credere. Ha sostenuto molte guerre che ha ritenuto giuste, e che talvolta non lo erano nemmeno.
* (Conclusione di D’Alema): Quello è il periodo in cui l’Italia ha avuto le migliori performance in termini di crescita di pil e i migliori risultati di contenimento della spesa e del deficit pubblico. Viene considerata una stagione in cui le liberalizzazioni hanno proceduto in maniera più spedita e coraggiosa.
Conclusione mia: furono questi i 30 denari per il ‘primariato’ dell’Italia?
Truccare le proprie motivazioni, *evocando paure (e rassicurazioni) infantili*, come scrive Fortini, può appartenere benissimo allo slogan (“Peggio dei nazisti”) che E. Partesana ha tentato di sottoporre all’analisi ma con relativo successo.
R.S.
da G.Mannacio a tutti e ai Redattori in particolare.
Assente per qualche giorno per un black out su Alice.it , sono da ieri ancora nella rete. Pensavo di trovare – al mio ” ritorno ” – definitivamente conclusa la discussione lunghissima su Israele e i Palestinesi. Non è così. Vedo nuovi temi,nuove associazioni di pensiero e nuove linee di indagine,situazione che mi conferma nell’opinione già espressa che tale discussione assomigli più ad una indagine psicoanalitica/investigativa
( ” cerchiamo qualcosa ” ) che ad una linea dialogante ( ” discutiamo su un tema e fissiamo dei punti di arrivo definitivi ” ). Intendo sottrarmi alla prima ( della quale non vedo l’utilità : vd infra ) nell’unico modo praticabile: sottraendomi ad ulteriori interventi.Ho espresso a più riprese i miei ( ovviamente opinabili ) convincimenti ed ho posto anche domande, a mio avviso cruciali ,sulle quali ho ricevuto a volte risposte coerenti,ma parziali, e a volte risposte talmente extravaganti da farmi sospettare di non essere stato neppure letto ( poco male ).Non risponderò neppure ai chiarimenti e alle risposte tardive per una semplice ragione che non manifesta nè cattiva educazione nè presunzione ( non mi appartengono ). La ragione – semplice, come dicevo – è questa: ciò che ho scritto e detto rispecchia tutto ciò che ho elaborato durante tale discussione ed appartengono ad essa come ” dati oggettivi ” che non potrei se non confermare. Tali conferme ed i relativi ragionamenti accorcerebbero il mio tempo già così scarso e – come è noto – la psicanalisi ad una certa età è davvero inutile. Arrivederci per altri dialoghi. Se si guarda il mondo da più finestre gli argomenti non mancano. Un cordiale saluto. G.M