di Leopoldo Attolico
Dalla seconda metà degli anni ’90 mi sono convinto che il disimpegno impegnato- nella sua valenza antimelodrammatica/antielegiaca- può costituire una delle possibili modalità per rappresentare, commestibilmente e senza ulteriori traumi, anche lo strutturatissimo male di vivere contemporaneo. Disimpegno nutrito, all’occorrenza, di ironia, autoironia, giocosità e senso del paradosso.[L.A.]
Ah patereccio, patereccio dell’anima
chi ti si fila più? Che fine hai fatto?
Dove patereccia il libeccio della tua gioventù
mo’ c”o sentimento se nn’è ghiuto?
Presto verrà l’inverno sinistroso
e Biancaneve sarà in difficoltà;
ma tu non hai nozze, non hai fichi secchi
non hai formula che il mondo possa aprirle.
Infatti non sei il Papa
La pietà è un bene di lusso
gira in Mercedes coi cardinali;
tu paterecci ancora sul 101
ma non ti senti più realizzato
Totemico, ingrifato
irresoluto tra inevento ed evento
ormai vivi marginale e stranito
come una morte in eterna vacanza
intransitivo
piovorno
inzanzottito
dalla Beltà che ti ha tolto il saluto
Ah patereccio, chi l’avrebbe mai detto
che la crepa nella tazza di un poeta
ti avrebbe messo in crisi
più di un sisma avellinese-demitiano?
Chi avrebbe mai pensato che da quel preciso istante
un ablativo assoluto e renitente
sarebbe deflagrato sul tuo dettato propositivo
e inquietante
ancorché disastrato?
“Oh patereccio” non è più vocativo al calor bianco
ma rifiuto di lavello sontuosamente funereo
tra cinismo di superficie e realtà di un sentimento
Alto di gamma il tuo decoro si infiamma
quando la remora smemora e ti dà carta bianca
e tu fumantino paterecci impoetito
ma che diavolo sarà mai quest’acqua santa
diavolo di un poeta che scrive cuore e fa ammenda
che si innamora e si pente
che ha sbolognato la mamma
e imbavagliato la penna
la pronuncia del sole
del verde della terra
le stelle
le stalle
le palle
le
Si potrebbe tentare uno sparo nel cuore
farti secco, essenziale
reinventarti patereccio di fine millennio
che staffila remake delicati e violenti
come un nuovo Céline picaresco fabbricante di aromi
di pietà per i poveri cristi
di umanesimo nero
di petite music
di gelati al veleno
di
Si potrebbe tentare con il Terzo Canale
ma alle 11 e mezza chi mai ti vedrebbe?
Gioco biondo in un cielo di pece
faresti cultura soltanto omeopatica
affatto iniziatica
non più contundente :
“Non ti scottar di me
ma guarda e passa”
da Scapricciatielle, Il Bagatto, Bergamo, 1995
Introduzione di Vito Riviello, con due chine di Giacomo Porzano
* Leopoldo Attolico, (Roma, 5 Marzo 1946), ha pubblicato – a partire dal 1987- sei titoli di poesia e quattro plaquettes in edizioni d’arte. Ha esordito con Piccolo spacciatore, Il Ventaglio, raccolta antologica di versi giovanili, 1964-1967, premiata l’anno successivo con il Mecenate da una giuria presieduta da Giorgio Bassani. Sono seguiti Il parolaio, Campanotto 1994, prefato da Luigi Fontanella con una gouache originale di Ernesto Treccani; Scapricciatielle, Il Bagatto 1995, compendio di poesia performativa, con una nota di Vito Riviello e due chine di Giacomo Porzano, premio Franco Matacotta; Calli amari, Edizioni di Negativo, Bologna/Roma 2000; Mix, Signum Edizioni d’Arte 2001, con sette disegni di Ermes Meloni; Siamo alle solite, Fermenti, 2001, con prefazione di Giorgio Patrizi e due chine originali di Giuseppe Pedota; I colori dell’oro, Caramanica 2004, con una nota di Giuliano Manacorda; La cicoria, Ogopogo Edizioni d’Arte 2004, con due chine di Cosimo Budetta; Mi (s)consenta, Signum Edizioni d’Arte 2009, con sette opere di Ester Ciammetti; La realtà sofferta del comico, Aìsara 2009, con prefazione di Giorgio Patrizi e postfazione di Gio Ferri.
Ha collaborato e collabora con le principali riviste letterarie. Numerose le letture nei licei e nelle università italiane e le presenze in readings e festival nazionali ed internazionali.Una scelta dei suoi testi è stata pubblicata negli USA, presso Chelsea, New York, 2004, nella traduzione di Emanuel di Pasquale. E’stato tra i redattori di Poiesis e lo è attualmente di Capoverso.
Nota
Questo testo poetico è ripreso con l’autorizzazione del suo autore dal blog larosainpiu di Salvatore Sblando
Spero che il brutto momento dell’uomo poeta sia passato, o almeno che si sia formato l’esoscheletro dentro cui possono vivacchiare i sentimenti. E mi viene da pensare che sia un po’ questo, la poesia: un addensato chitinoso, una corazza vulnerabile ma pur sempre una protezione, direi naturale, quasi animale. I versi del poeta, del lupo della scimmia… Per Kafka è metamorfosi senza scampo. Comunque sia, che venga detta con ironia o sarcasmo, siam qui per ascoltare la verità, ci piaccia o meno. A me Leopoldo Attolico mette la voglia di scrivere. Non so cosa sia, se lo stile o l’intelligenza. Mi dà una mano. Grazie.
Che cosa sia la poesia lo rappresenta ( credo ) molto bene Mayoor . Per quanto riguarda il suo accenno alla verità , forse pecca di ottimismo empatico circa la mia “verità”, che in ogni caso andrebbe ampiamente virgolettata ferma restando la mia buonafede .
Lo ringrazio per il commento così partecipato , che so spontaneo/sincero come suo costume .
E la mia gratitudine ad Ennio Abate , per i motivi che sa .
leopoldo –
…é solo un commento, anche perchè non conosco bene l’autore a cui il poeta fa riferimento. Penso che questa sia una bella poesia d’amore: scanzonata, ironica rivolta a una tal Biancaneve. Anche se il poeta Leopoldo Attolico non fa che fare un elenco dei suoi “difetti”…del tipo, tu sei bianca come la neve ed io vedo l’acqua come il diavolo l’acqua santa, rivolto ad autodenigrarsi, delinea il suo essere con un certo orgoglio, ha scelto con chi stare…non ama la pietà scontata di chi circola in mercedes, piuttosto sente di appartenere al mondo dei “poveri cristi”, povero e fantasioso…Ora mi aspetto che risponda la ragazza…
Di fronte a un testo come questo, primaditutto mi rallegro che sia stato scritto.
La poesia è anche l’impietoso procedere del tempo sul sé imperformativo, liquescente.
Immedesimarsi con estrema ironia, autodissacrante, e diventare il tutto a cominciare da una parte, malandata (ma proprio per questo riducibile a terminologia neo- realistica) è quanto mi aspetto da un poeta che sappia collocarsi dentro e fuori se stesso e proprio nello straniamento riconoscersi vivo, dolente, tuttavia impossibilitato a pervenire alla guarigione, se non con stratagemmi creativi che conducano oltre.
cb
La poesia di Leopoldo Attolico giunge come divertito sprone, sfida all’ultimo sberleffo – destinatario dello sberleffo è il sussiego sparso e sparpagliato – e, insieme, come sguardo attentissimo a passato, presente e prospettive (ovvero profezie di cascami, riflussi, ricadute, mentre il guizzo dell’ironia riesce a sfuggire, determinato e impertinente, alla compiaciuta autoreferenzialità). Sguardo che abbraccia e che coglie legami, gioco serissimo, serietà giocosa del disimpegno impegnato. Nell’abbraccio dell’insieme, mi piace perdermi nei dettagli di questa “petite music”, ché più d’uno è per me vero e proprio invito al viaggio nella storia di passioni, cronache, miti, mode e meteore. Grazie.
e che dire di quel inzazzottito? e beh, è una poesia del novantacinque. Comunque geniale. Céline ci sta tutto ma: “reinventarti patereccio di fine millennio”, e “faresti cultura soltanto omeopatica / affatto iniziatica”, sono versi che dicono molto. Quasi un responso, un saluto.
Ho sempre amato la poesia di Leopoldo Attolico. Comica e ironica fino allo sberleffo. Leopoldo con intelligente acume ironico affonda il verso nella realtà regalando a noi lettori la visione più suggestiva della decadenza del nostro quotidiano. Con disimpegno impegnato ci racconta la fine di questi tempi miseri con il sorriso sulle labbra.
Ad Annamaria Locatelli posso dire che Biancaneve l’ho assunta come paradigma tra bellezza / innocenza e negatività ( l’inverno sinistroso ) contro cui il patereccio – sola voce autentica dell’anima – non può far nulla . Successivo sarcasmo nei riguardi del Papa imbelle di allora ; sarcasmo che coinvolge la Mercedes dei cardinali , segnale di un’etica del lusso che nulla ha a che vedere col messaggio di cui dovrebbero essere portatori.
Quanto alla mia appartenenza al mondo dei poveri cristi , lo sottoscrivo in toto . Mi basta il sorriso di uno di loro per farmi dimenticare le miserie umane di chi se ne strafrega altamente .
leopoldo attolico-
Mi aggiungo agli altri solo per dire a Leopoldo Attolico , grazie… è un grazie che vorrei poter scrivere all’infinito come una stella che non muore mai. Però questa stella dovrebbe poterlo scrivere come una stella scomoda a tutte le altre, tanto da ritrovarsi per terra; sarebbe con la capacità di ironia, di contrasti, insomma di ciò che più manca nella vita di relazione e poi sociale/politica di tutti noi e che Attolico sa esprimere… un noi che cresce, in cui non ci sarà più come ora un povero cristo solo, o in magrissima compagnia, che si dà allo sberleffo dell’assurdo nella realtà , dei potenti e dei loro servi. Un noi dimenticato, o tuttalpiù ricordato dai giullari di corte(mediatica) così comodi comodi nel loro circo barnum e i loro cachè e nelle loro ferrari (o mercedes, come i cardinali e altri boss simili). Un noi con cui conviene “scottarsi”, in poesia e non solo.
rò
Credo che, al di là dell’apparente giocosità, il tema affrontato ed il tono scelto siano molto, molto seri: la rappresentabilità del reale nei nostri anni, le modalità e il ruolo della poesia, le matrici culturali del dire. Essendo la nostra epoca dis-incantata, Leopoldo Attolico propone un testo che, manipolando il linguaggio, mostrandone le sue valenze da sberleffo, facendo appello alla figura di Céline, vuole entrare in rotta di collisione frontale con una struttura politica, sociale e linguistica sedicente democratica, ma che, in realtà, risulta essere liberticida e volgare. La scrittura non può non tenerne conto.
Dico grazie di cuore a quanti sono “transitati” sul mio lavoro ; grato ad ognuno di loro e alla poesia che mi hanno portato , stretta parente delle riflessioni che l’hanno suscitata .
Con stima
leopoldo –
Dibattersi nel fango, cercare di lasciarselo alle spalle il fango e quel che ci trattiene del fango insieme all’acqua; l’acqua, più che mai, vitale e necessaria, e poi rialzarsi, non certo come se si fosse il soggetto di un miracolo esterno ai propri miracoli personali, pecché i miracoli so’ state fatti p’abbabbià chi nun tene niente però tene tutti i santi ‘mparaviso; e, andare e spingere verso l’uscita nella vita che batte e pulsa e ancora affannarsi e faticare; e contare, più di prima nelle proprie forze come fanno tutti gli animali e forse, proteggersi con la vicinanza dei corpi e dei musi-facce altrui. E poi avanti ancora scalciando con la lingua in fuori e la rabbia del moto dei giorni tra la vita e la morte.E poi, tra furore, paura e affanno, attesi/atteso dalle fauci dei voraci coccodrilli che attendono a riva e in acqua il passaggio dello gnu.
(Un libro, un discorso, specie quello muto, anzi solamente muto, una persona di qualunque età e persino di tutte le età, un condominio, una villetta, un borgo, un paesone, una nazione; un animale, bue o pecora, bisonte o un singolo gnu, cosa di per sé contro natura, tutto e tutti che si dibattono nel fango, nella fatica di dibattersi e agitarsi, anche senza fare un passo, nel fango che diventa melma …)
Ma per quelli, la maggioranza, che riescono a superare il fiume d’acqua scura e torbida da una riva all’altra, nonostante che il cuore batte in gola per lo scapato pericolo, c’è ancora da lottare dopo la riva che si è raggiunti(la riva come lo scopo di un inizio, anche del solito normale inizio)per correre nella vasta prateria per poi rifocillarsi e bearsi di erba fresca e abbondante, i rischi di soffrire e morire, correndo, inciampando e strisciando e ancora correndo per sfuggire ai leoni in agguato. E così ci sono quelli, la carne gnu in abbondanza, proletariato nella riserva mondiale cortile di casa del Serenghety, vessato e in agonia, per di più brutto, sporco e cattivo(intestardendosi nel non voler morire o morire non come comanda il dio umano, col beneplacito … della ragionevolezza e della saggezza quando bisogna per forza di cose, calcolare il pericolo) in genere i più deboli o sprovveduti o i feriti e i malati, cioè i deboli e i sofferenti, che per quanto possano opporre una sbiadita e fioca resistenza, lasciandosi azzannare, maciullare e ingoiare dai carnivori di tutte le specie. Ora bisogna stare attenti al pennuto rapace che vola, scende a terra e veloce ghermisce la vittima o preda animale. O umana.
(Può un libro dirsi pericoloso non tanto per quello che vi è scritto ma per come un corpo di certo e un anima, chissà, stabilito che l’anima è solo l’insieme delle sensibilità che sommate divengono orrore di sé e del mondo sia circostante sia distante, si è arrivati a lui, al libro di carta e da qualche anno a quello digitale(una delle tante invenzioni dell’uomo)a chi lo ha scritto e la materia che il libro ha trattato servendosi di colui che dice di essere l’autore del libro e, di un libro scritto col e nel fango della vita?)
Calcolare il pericolo … quando si tratta di un libro, romanzo o racconto che sia e, addirittura, un libro di poesia, è cosa di poco conto, anzi, pericolo sotto zero. Ma un libro è fango, anche contro la propria prosopopea, ignoranza e sapienza, specie quando non si dichiara nato e vissuto nel fango e si distanzia dal fango anni luce. Di chicchesia (o di altri poeti che non conosco e non ho letto, ma anche di quelli ormai famosi:la lista è abbastanza lunga non certo quanto i morti, ma s’ sape ch’a morte è ‘na livella che rende polvere ogni corpo, frase e afflato, Accussì come ce stà ll’ommo cchiù nfame e ‘o sciore ‘e primmavera …), e di questo poeta di cui fino ad ora non ho letto nessuno dei suoi libri, ma percepisco l’odore dei miasmi, l’umidità e gli aloni del fango in cui ci dibattiamo come gnu nella piccola grande immensa palude dell’attraversamento. Ma stù poeta di cui i’ parlo è chillo, tene mille voce dint’o cannarone, nun ha completato mai ‘nu libbro pecché ‘e poesie le ha scritto dint’o viento, ncopp’e muntagne quanno ‘nfuria a tempesta ‘e neve, mmiezza ll’onna e nfunn’o mare e dint’e culure dell’alba e d’o tramonto quanno ‘o munno s’ sceta e s’addorme e nientemeno scummato ‘e sango dint’a roccia coperta d’o ghiaccio ‘e ll’anema. Mò però, statt’ zitto e sint’ si ce sta, a parte ‘e chiacchiere e ‘e parole scritte, quaccosa ca dint’a te se po’ dicere vivo e, tu sai che vivo è chello ca annascunnimmo.
Annamaria, non dici niente? Dopo questa “cantata” -che sembra in due controsoggetti in fuga, e forse è invece una semplice voce in canone essenziale- ti sei del tutto ammutolita anche tu?
Io dopo tutto questo “scottarmi” con Leopoldo, e rinfrescarmi nel fuoco di Transit, rotolandomi nella sua argilla, posso solo dire che sanno(leggi hanno il sapore) di uno stato di disgraziata grazia da provare, io, il piacere di un infinito ascolto…tu?
…sì, Ro, sono davvero trascinanti queste parole di Transit. E me sembra voler dire che se oggi tutto é fango, non si salva più neppure l’infanzia, lì la scrittura poetica deve rimanere, immergendosi di fango e di carnalità, ben sapendo che quello che più è poesia resta comunque nascosto perchè indicibile, come la voce del vento, della montagna…e di tutti quei ricordi di molte vittime che non hanno lasciato traccia (mi ricordo, m’arricorduo) e , forse, il sentire degli animali, proprio perchè non parlano..
““scottarmi” con Leopoldo, e rinfrescarmi nel fuoco di Transit” (ro)
Ah, questi maschiacci che bruciano le sante donne!
Signor Abate, come si permette? S’è scurdato? E non intendo di certe corde. Io sono una santo donno, s’è già dimenticato del signor ro? E vediamo di capirci ancora, non intendo riferirmi a una mia identità sessuale…insomma, io ci tengo alla mia e altrui carnalità poetica.
(*_^)
‘A carnalità poetica, sarebbe a dicere
‘e ccose d’a terra, ‘e ll’aria e d’e stelle,
‘a cenere d’e muorte, ‘o core piccirillo
pecché a ott’anni già ci fai fessi
cu ‘na spina ‘e grano putrefatta
e pe’ vulè fa chello ca vuò:
‘a matina nun vaie a scola e ‘e ddoje
a’ notte stai a minaccià cu ‘nu curtiello
a mulletta e ll’uocchie sgranati ‘a guardia
giurata. E penzà ca tiene ancora i denti di latte.
Se fa poesia p’e purcarie d’o munno ca scorrono
dint’e canale ‘e scolo e dint’e vene: quale sangue
è cchiù spuorco e infetto nun se sape quantificà.
Se fa poesia pe’ se fottere ‘a femmena cchiù bella.
E continuà a recità ‘a scena d’o pappavallo. E se fa
poesia pecchè ‘a poesia è ‘a meglio lavannara,
pe’ nun dicere, ‘a meglio lavatrice: mò, guarda
ll’anema toja si tiene ‘o curaggio; lucea cchiù
d’o sole nterra e chillo, si esiste, d’o paraviso.
Ma pure ‘e crriature sanno ca ‘o paraviso
d’a poesia è ll’inferno; ‘o purgatorio ‘nvece è comme
‘na jurnata ‘e carcere dint’ Poggioreale, Rebibbia
e l’Ucciardone … pecchesto … te fa solo ridere.
Non conoscevo questa godibilissima e urticante composizione di Leopoldo Attolico, anche se la sua poetica mi è tutt’altro che ignota, apprezzandola da tanto per la sua spiazzante e proverbiale ironia. Riguardo alla poesia in oggetto, mi corre comunque l’obbligo di porre l’accento sulla strofe a parer mio più felice di tutto il testo: “Alto di gamma il tuo decoro si infiamma…” (moderna sprezzatura della rima non affidata al verso successivo, si potrebbe intanto osservare). Ma sono le “maglie” strette, strettissime della strofe a risultare evidenti, fino a una musicalità non scontata e corrosiva dell’insieme; laddove spicca quell’ “impoetito” al posto di “impettito” a dirla lunga sull’impertinente (nel senso più incisivo del termine) labor limae di questo poeta, Leopoldo Attolico, mai banale e sempre acuto testimone dei nostri squinternati tempi.
Andrea Mariotti
Se fossi armata di tutti i libri o quasi del mondo (comunque di fango entrambi, cit Transit), e se questo stato avesse lasciato il mero stato intellettivo per passare a quello più aereo e comunque carnale nascosto nel vento, potrei dire quello che provo, e che sto per scrivere, sapendo come farlo. Ma, alla fin della fiera, forse appartengo solo al secondo, al vento oppure alle onde, quindi spero di essere perdonata sia da Transit, sia da Attolico, sia da tutte le altre e gli altri (critici, poeti e in primis esseri).
il dono che sento, tramite i vari testi di transit, mi colpisce perché rappresenta, perlomeno al mio contatto, quasi fisico,come il sale con la forza della sua parola ciò che nell’uomo e quindi nella sua arte (in ogni espressione, poesia inclusa) è stato più ucciso ( in tutti i periodi storici e/o maggiormente in questo ” di mercato”).
Il dono per me è generosità dentro ogni lotta nel fango. Molti uomini del tutto sconosciuti e invisibli alla Storia, tramite altri che dopo essere morti sono passati alla storia, hanno vissuto una beffa grottesca dal loro dono. Messi alla berlina da altri o, alla fine (ma certi anche fin dalll’inizio) da loro stessi.
Chi lo riceve, in ogni sua modalità, scrittura/dono compresa, ne è così combattuto che, non per consolazione né per felicità, ricopre gli altri del suo dono. Sta agli altri saperlo accogliere. Non li ricopre per narcisismo, per avere qualcosa in cambio, per essere riconosciuto, etc etc E’ solo carnalmente legato a questo suo graziato e disgraziato destino… Ed è , credo, per l’uomo contemporaneo, proprio il centro più tenero di questo fiore chiamato dono, che è quello più tramortito, ferito o ucciso o, forse, se vogliamo essere “ottimisti” costretto a resistere molto molto nascosto .
Se ” il mercato ” in cui hanno ridotto la vita (compresa per proprietà transitiva quella dei poeti) richiede pseudo-doni, pseudo-donatori e pseudo-beneficiari…lui, il signor dono, si nasconde fra le macerie. Pur di non essere catturato, anche facendo finta di essere morto.
Mi associo ben volentieri agli altri comenti su questa poesia ‘inarrestabile’ di Leopoldo Attolico (Transit permettendo), da leggere com’è tutta d’un fiato.
Un mix che coinvolge per come associa, in chiave autoironica, i temi della cultura con l’attualità.
I due versi finali li trovo unici:
“Non ti scottar di me
ma guarda e passa”
Giuseppina, di Attolico ho letto relativamente “più” testi rispetto a quelli di Transit che mi era nuovo fino a due settimane fa, ma per molti aspetti io li trovo collegati o comunque in stretta relazione fra le due p.arti , i due registri, abita identica ironia e medesimo nudismo politico….non ha importanza se Transit sia altro, simile quasi a un alter ego o, dunque, un vero e proprio pseudonimo sperimentale in cui Attolico, sotto mentite spoglie, sostiene identica “filosofia” di pensiero e di vita concreta di Transit. Entrambi sono al contempo in un magico equilibrio perfetto, nei tumulti o il fango della vita, fra una sorta di distacco e, al suo opposto, di partecipazione appassionata alle cose della vita del singolo e di tutte le altre storie.
Carissima Rò, ho notato anch’io una certa affinità tra i testi di Atticolico e quelli di Transit ma ho l’impressione che non siano la stessa persona. In ogni caso, la stretta relazione che c’è tra i due, come giustamente fai notare, la vedrei come un punto ulteriore a favore della poesia di Attolico che, come per una specie di proprietà ‘transitiva’ (argomento sul quale però ammetto la mia ignoranza), riesce a stimolare il dibattito e il confronto, un aspetto che Transit ha colto, e devo dire molto bene.
A me Transit ricorda molto invece un altro vecchio poeta ora scomparso… mi pare che il nome inziasse con P…
…tene mille voce dint’o cannarone…Che mi dici, Ro? Che siano la stessa persona? I tre moschettieri vent’anni dopo? Un’evoluzione dello stesso sentire poetico in una forma più radicale? O magari ci dialogano sotto al naso? Spero non si offendano i-il poeta perchè comunque credo in quella rete che crea tra noi infiniti collegamenti…Adesso, ad esempio, sono entrata in uno stato d’animo di sorpresa e di mistero simile a quello provato da bambina nell’osteria dei miei genitori quando, l’ultimo giorno di carnevale, si presentavano gli abituali avventori con i loro fantasiosi travestimenti…che sempre poveri li facevano
..Annamaria, con questo tuo (ri)entrare in quella locanda, hai profuso uno stato magico tale per cui addirittura la misteriosa compagnia degli scalognati, del nostro fantastico amico Luigi, è quasi nulla in confronto..ragion per cui, visto il tuo scritto, vista la nonna di Francesco e i suoi antichi sproloqui, vista Giuseppina e Pasolini, ma anche Petrolini, così come tutti gli altri consueti avventori di questa caverna, pardon taverna, visti in primis Attolico e anche Abate, trascrivo quanto segue:
Discussioni
Vecchi testi di acustica
ci consigliano strani esperimenti:
Cerca un giardino perfettamente simmetrico
circondato da ogni parte con un muro
(ad angoli retti)
mettiti nell’angolo più distante
e spara un colpo di pistola.
In qualche punto il suono non è udibile.
Allora avrai rovato il nodo acustico,
ed esso è invisibile all’occhio.
Fai in modo di raggruppare tre persone
secondo certe angolature
attorno alla superficie assolutamente liscia di un lago
e che gridino l’una all’altra “qui” vicendevolmente
e con un certo ritmo.
Poco dopo si udrà gridare “qui”
da ogni parte e ininterrottamente
e l’uno non riuscirà più a distinguere
la propria voce da quella degli altri.
Che dolce antifona!
E un campanello elettrico
posto sotto una ermetica campana di vetro
dove l’aria venga evacuata da una pompa pneumatica
alla fine conseguentemente non sarà più udibile.
In questo modo si ha conferma di tutti i sospetti
sulla imperfezione del mezzo conduttore,
la sua stravagante capacità di agire per virtù propria.
Per virtù propria, per virtù propria.
Il tempo che rimane è sempre molto breve.
Il suono viene emesso soltanto da chi è molto solo.
L’inverno è molto rigido. Tutte le barche giacciono quiete
nel ghiaccio.
E nelle limpide giornate i pattini, le slitte rosse,
con un suono come di campanello,
sotto “l’ermetica campana di vetro”.
Silenzio, qualcuno parla, sei tu oppure io?
Eco, dolce ninfa dalla mutila voce!
Lars Gustafsson
Poesie
traduzione Giacomo Oreglia
Passigli 1997
Carissima Rò, proseguo il dolce suono dell’antifona con questa mia, ispirata dall’aria vagamente locandesca gentilmente offerta da Annamaria:
La farsa
Al pari delle api
dopo un bacio
lei si gira e scappa via
e non sa che l’uomo la teme
mentre l’osserva nell’occhio chiuso
da padrone di un’osteria.
Intanto
Camus, quondam madre,
piazza un no inedito sulle pagine del domenicale
Voltaire s’ingegna nell’ingenuo cercando
restando fedele a se stesso
Ginsberg urla altra vita, un tu non lo sai
tra sotterranei segugi del dharma
sugli altri, Sciascia prende in parodia il Candido
in un sogno triangolare, altrove Bodini
continua il giro sulla luna
assaporando la sera in un paese che sa di tappo.
E tutti nella calma con gli avanzi marciranno
nel sole insieme all’ultimo avventore.
L’amico rovinato dal suo vizio
informerà il gendarme armato, così, all’uscita
stretta tra l’intransigente e l’oppositore
lei urlerà, e sacrificando il proprio credo
nel nome di un affetto mai sopito
dapprima indicherà l’importo sul tavolo
infine, bisbetica quanto basta
come un’attrice dimenerà il suo dito
contro chi l’avrà tacciata di esser stata mal pagatrice.
– Naturalmente, non stavo penzolando sul credo di un affetto –
chiuderà l’ostico amico nella battuta del finale ad effetto.
Giuseppina
Godibilissima! Conoscevo Attolico per i suoi versi corrosivi e civili contemporanei. Questi, pur datati di un ventennio, confermano la mia impressione di trovarmi di fronte a un’anima ferita – come lo siamo un po’ tutti, ormai – che si ribella a un andazzo sempre più inumano; qui noto in più, la sapienza idiomatica di un poeta che, già in tempi meno sospetti di questi (ma già nella cancrena di una politica e di una società insulsa e traviata), cerca le parole per dire il suo disagio.
Complimenti vivissimi, caro Leopoldo. E non lo dico per piaggeria. Non è da me.
Con affetto e profonda stima. Fabio
Il patereccio e Biancaneve sono grati ai nuovi intervenuti dacché con il contributo di tutti
si spera sempre( non si dispera ) di avvicinare una possibile “verità” . Poesia è questo , soprattutto questo ( lo diceva anche Totò negli anni ’50 ) .
Grazie anche da parte mia .
leopoldo –
La conosciamo la storia dell’uccellino finito nella merda e che voleva ancora cantare… Leopoldo – mentre siamo lì/qui – trova ancora modi tutti dentro il mistero di inventare (anche come ritrovare) parole da issare su una corda che non si vede ma c’è, su cui fa il funanbolo sarcastico e autoironico per resistere, e continuare a far brillare libertà e mezze verità facendone scaturire l’altra metà per tutti noi che combattiamo pateticamente la forza oscena che sembra ormai irresistibilmente vittoriosa sulla capacità di dire – per fare e dare un senso altro, oltre le labbra insidiate dalla nausea.
Caro Leopoldo,
ti ringrazio per averci/mi dato delle chiavi di lettura della tua poesia perché io non ci avevo capito niente. Perdonami, sai che ho una profonda ammirazione per te e per i tuoi scritti, ma questa volta accidenti a me….!
a Leopoldo
non avevo capito tante metafore ,s’intende…
Sono cresciuto con l’ironia, il gioco e il sarcasmo della poesia brasiliana. Per questo motivo, non considero “ironica e giocosa” la poesia di Attolico. La considero per quello che è: Poesia. Con tutto il rispetto per Pasolini, quando questi girò “Uccellacci e uccellini”, riuscì a svilire la genialità di Totò, molto più incisivo e devastante nella propria naturalezza comica che non nella gabbia intellettuale e seriosa di Pasolini. Ne ferisce di più il comico che l’intellettuale “sinistrorso”. Viva Leopoldo!
…senza contare, poi, che a me sembrano Petrolini e Palazzeschi fra i più grandi poeti italiani di qualsiasi epoca.