con una nota di Ennio Abate
New York
assomigliava al mio cuore alternativamente separato
e unito come le labbra tra cui si mischia l’immagine
del vuoto, mia letizia, mia rosa d’inverno, destato
anno che verrà –
trafittura e ragione che perfora la testa ma non lascia
mai al buio. Con i capelli scogliera mobile che non si
possono dividere in due masse divergenti correre, attaccare
il pane con il coltello diritto o di scancio ma senza mangiarlo
e fendere con il frutto nord e sud
tassi nell’alba arancione piangendo
i palazzi uniche dighe alle nubi – e tutti –
tutti voltavano visi da apache perché era il parco
centrale, per cinque minuti attraversa la notte
come cento giorni di viaggio –
o una mano che puntava
una sicurezza e un dubbio insieme appoggiati a un sorriso
tocca la penombra pendio dove sono
e non sono, si china
per cogliere semplicemente per cogliere semplicemente
delle cose e quando si rialza non a nulla in mano.
Dolce bianco e scuro vino buono come i corvi –
il tempo.
è il mio agonizzare quando mi allontano e vado
a raggiungere la siepe di tutti i giorni
dove resta impigliata la maglia si strappa e non
è che brandelli. Si è fermato. Mormorava tra sé alcune
parole che non saprò mai completamente.
Non è amaro, è di ossa e di carne, avorio, corno,
acqua, intelligenza, amore, cuscino.
(p. 9)
[Essendomi impossibile in Word Press riprodurre i versi di questa poesia non allineati a sinistra ma variamente spostati verso destra, mi limito a segnalarli. Sono:
– e fendere con il frutto nord e sud;
– i palazzi uniche dighe alle nubi – e tutti -;
– o una mano che puntava;
– e non sono, si china;
– il tempo. ]
*
Noi, la lunga pianura immaginaria
ci inghiotte come sacramenti della notte
Sei stato una quantità esatta
nella pioggia che afferra i visi
Ma adesso in ogni angolo della stanza
aspetteremo fuori dall’esplosione
un legno che io, qui,
ho costruito (lasciami fare)
prodigi scelti dal caso, pioppeti da percorrere!
Il tenero è nel mezzo e nell’interno
umiltà di una porta
ascoltando treni, a un passo, come
una febbre nel ricordo esattamente
Guarda il campo
è così calmo, smisurato, stamattina.
(p.10)
*
Le gioie del declassato
Che mi lasci guidare prematura
farmi portare impadronita
non reggono al confronto delle braccia
valigie piene di esempi
folate indicano il cappello soltanto
mutandosi in fili spazzati
e semi non custoditi in direzione
barca abbandonata lungo il fiume
guardo il ponte, un vero confine,
strappo le tasche e dal biglietto la sua fede:
si scioglie sulla guancia
la gioia del declassato.
Avendo già avuto a che fare
con la resa, scelgo
le processioni del riposo.
Io e la luna sorgente
in un punto remoto assonnate come cani
compressa da fatiche piagata
spostando di qualche strada i passi, spiccano
una dopo l’altra tenaci uguaglianze di tempo.
(p. 11)
*
Lèggere l’ estate
Ore nuove e riposate del primo giugno
che una di quelle che aperte come
chicco di ribes rende una forchetta
produce intorno cose – senza riflettere –
intento meticoloso compongo
il mosaico con stacchi solidali:
alle ombre nulla perdendo
nel piccolo gesto implico
cosi concluso e proprio un palpito
saltare fa da una mano all’altra
chicchi e pampini a capriccio
nomi biondi sulla rugiada
si ammucchiano già
con gli acini sani dentro la polpa acre
dà al sole la pergola al di fuori chiarissima.
(p. 13)
*
I gelsomini dell’azzurro
fioriscono per vendetta
sfigurando l’ombra spettrale
che risucchia gridando il giorno, le sue qualità in forme
spaurite e pure sotto il rombo dell’aereo
sotto il meridiano
chissadove in un’ampolla
moltitudine di elitre
si calcolano:
mi pensa la rosa che è chiusa
stretta mi attende tranquilla la tana
che scava rintocchi intorno
alla bocca del pozzo premendo le sponde
nel fosso chissà cosa ritrovo.
(p. 18)
*
Il buio come bene
Tutte le dolcezze sono alle dita
di rosa l’abito tinge
lungo l’azzurro pieno, come ti chiamavo
a cancellarmi, quaggiù, ti prego.
Per te, io ti, io te sono
che mi contiene nel tremante ricorso
del tuo silenzio vienimi incontro
orizzonte e allarga esso.
Come rami contro il cielo entrai in lui
una specie eletta dal suo cuore
come mondi sognati da miriadi di sogni
sradicati al centro quasi affondando
diciamo.
(p. 20)
*
Ho fatto un grande sogno ma non ne ricordo
niente babbo amiamo le teste bruciate
dell’amore ma non la misericordia e
i chiodi come coltelli di gelosia
tra poco cadrà la strada su di te
spergiuro sulla mia infanzia scrivo
lettere, se non mi dai da mangiare
i capelli mi diventeranno come crine
e come un fucile. Notte di lupi
sprangare l’angelo del vento
qui è la piega
dove non sarà nuovo morire
(p. 23)
*
lo sguardo sull’alto, estivo
di sguardo in quando
tessere spalancate
mani tra i capelli grigio di pipistrelli
coda lunga di cavallo in guardia
levigando le vesti con i boschi
festa della libera, signore,
sostanza della tua bocca
sostanza della tua fronte
se malgrado ogni cosa
mai così mettesti infide braccia
distacco maiuscoli rifiuti, questi
(p. 25)
*
punta tenera di un dardo
ora io esisto ancora
sfinita dal correre è vero,
mi porti sulle ossa
finché la notte non mi contrari più
madre ogni minima cosa
(p. 27)
*
ogni mille piani un motivo
che getta lettere tra gli alberi
nuotare nell’aria
questa tenere in mano
ragazze si accucciano sulla riva del canale
spose con i capelli lunghi e timidi
tocchiamoci le ginocchia
balliamo, arrivano i soldati,
e alla festa anche per i diavoli
c’è posto!
(p. 32)
*
Si siede apre la sua pelle svela il suo cuore si cosparge di
profumo e riempie la stanza. Casi imbevuta di psiche
femminile non aspetta niente nessuno lentamente il
sonno vivo isterico e tenero preciso e leale si impossessa di
lei sottile e tenace. Immaginare è il suo lusso è
uno strumento ora una cassa di risonanza in cui tutti de-
stano i loro echi e trovano i loro accordi. È tenuta assai
per matta perché si chiude troppo in casa parla male di se
stessa ma non devi crederle. questi saluti quell’unico sor-
riso dà il benvenuto va e viene dal panico teme spesso di
precipitare nelle insidie del coraggio tirata ai quattro an-
goli pronta un cavallo senza briglie soddisfatto ai quattro
venti una vela dei minimi soffi di vento. Appena si sveglia
ride, vede le gemme rumorose sostituisce la forza ai con-
tagi tra il lago e il nulla cede passivamente nel silenzio fe-
dele marina imposizione gioca ritrova improvvisamente il
meccanico l’albergo che fabbrica giocondamente l’amore
chissà quale mondo puro nascerà fuori
(p. 35)
*
il ruscello ha
molta fretta e trascina
la sua famiglia senza fine
la metà del tempo pensavo a me
quando ero bambino pensavo da bambino
ero nella nave inondata
ho visto fare l’acrobata
ero un re
molto triste e buono nella mia stanza
arriva un nano i morti non si contavano
ero in un campo verde
dove passeggiava una donna bella
un uccello arrivò e le rapi la collana
mi trovavo in un posto
c’era una ruota e si saliva
ognuna di noi teneva un’amica sospesa
in aria poi in molti appesi e stanchi
ci si lasciava cadere piangevo
perché mi era scivolata direttore
chiudete ma lui non ascoltava
il ruscello ha
molta fretta e trascina
la sua famiglia senza fine
(p. 59)
*
Bunker
Non è una caduta priva di luce
non è dei capelli tirati
da mani che vogliono ordine:
dal bordo della finestra spio
la tua maschera e il gas
che ora sentiamo per gioco
siamo in alto in cima alle mie trecce
laggiù c’è il mare laggiù
ci sono uomini ma noi alle fascine
facciamo battesimo: sei Gabriele.
(p. 65)
*
odore di
erbe
io vengo a farmi in te
vuoto fedele
a un tratto nel regno
le cose sono brezza
leggere senza pensiero
(p. 74)
Nota di Ennio Abate
1.
«Verso la mente» è una raccolta di poesie che suscita sentimenti ambivalenti: attrae tant’è enigmatica, allusiva e sfuggente; e un po’ irrita per molti suoi passaggi quasi impenetrabili e accensioni liriche tendenti all’assoluto. Si tratta del monologo lirico di un io femminile giovane, inquieto, ombroso, talvolta euforico e allegro. I titoli delle due sezioni – «Verso la mente» e «Orario» – tendono allo sfumato. I componimenti sono tutti brevi: quasi sempre in una sola pagina. Alcuni hanno i titoli, altri no. La punteggiatura è ridotta al minimo; e spesso il titolo o il primo verso partono in minuscolo. (In qualche caso troviamo il minuscolo anche dopo il punto). Altri versi sono interrotti da spazi irregolari, forse sostitutivi della punteggiatura o che stanno per pause lunghe o interruzioni. Qua e là qualche trattino (alla Dickinson?). In un solo componimento, New York (p. 9) ci sono vistosi rientri (sempre irregolari).
2.
La raccolta è un insieme di frammenti. Evita o trascura il “discorso” o il “racconto” (poetico). Non si coglie una sequenza mirata nella successione dei testi né tonalità differenti nelle due sezioni. E colpisce che ciascuno dei componimenti, e spesso ciascun verso, mostri al suo interno vuoti, sconnessioni e interruzioni. Il collante sintattico è corroso o indebolito. Il ritmo appare sempre nervoso e sincopato, sebbene l’assenza di punteggiatura dovrebbe renderlo fluido. Forse – è però un’ipotesi da controllare meglio – un tale procedimento è venuto dai modelli letterari cari a Nadia Campana. Molto s’accosta, infatti, a quello che lei, parlando di Marina Cvetaeva, definisce «un gioco tragico [il quale non lascia] che le immagini vengano strutturate dal pensiero o dal credo politico».[1]
3.
Un lettore abituato a cercare anche in poesia la frase o un insieme strutturato di parole, versi e strofe che lo guidino verso un senso, diciamo pure parafrasabile, davanti a «Verso la mente» deve arrendersi. E sottoporsi a ripetute docce fredde: può inseguire il probabile senso per tre-quattro-cinque versi al massimo. Poi gli sfugge, tanti sono gli scarti, i salti continui, le irregolarità dei versi, dei pensieri, delle immagini. Come se Nadia Campana perseguisse con tenacia esclusivamente le accensioni liriche; e queste bruciassero il loro potenziale in attimi. È, dunque, a poche parole “smozzicate” e quasi criptate che affida il suo riepilogo poetico di vicende, sentimenti e sensazioni. Se ne ha un esempio in New York (p. 9). Se, come da titolo, la metropoli statunitense, dove Nadia Campana era stata in visita nel 1979 [2], affiora in alcuni dettagli («i palazzi uniche dighe alle nubi»; i passanti che «voltavano visi da apache»; il «parco centrale»), i dati oggettivi (o quasi) restano marginali e secondari. Perché immersi e dispersi sin dall’inizio del componimento («assomigliava al mio cuore alternativamente separato/ e unito come le labbra…») nel monologo lirico di cui ho detto. Per questo modo di presentare i particolari e l’insieme non è facile possiamo collocare almeno l’aspetto linguistico della raccolta nel clima sperimentale, in senso lato neoavanguardista, assorbito da Nadia Campana a Milano, pare attraverso il legame discepolare intessuto con Antonio Porta. Ma sembra notevole, almeno nei primi sei componimenti della sezione «Orario», la presenza di Amelia Rosselli: non solo per l’adozione della «forma quadrato» dei testi (studiata di recente da Antonio Loreto qui), ma anche per il consimile flusso di coscienza allentata o “spontanea”. Si veda, ad esempio, la poesia di pag. 35.
4.
In tutta la raccolta si ha un’abbondanza di verbi, spesso all’infinito o all’imperativo. E sono per lo più verbi di movimento: «attaccare/ il pane con il coltello diritto o di scancio ma senza mangiarlo/ e fendere con il frutto il nord e il sud» (p. 9); «troppo doversi amare troppo/ doversi pensare amami tu/ prendimi corpo felice/ baffo placido zompa carezza/ scappa un’altra volta/ voce di animale parla per me» (p. 17); «eseguire la caduta/ usare le labbra» (p. 34). E ci sono poi ripetizioni ritmiche (ansiose, non recitate): «per cogliere semplicemente per cogliere semplicemente» (sempre a p. 9); «ardi sorella ardi sorella» (p.12); «il coltello segava segava»(p. 41). E vere convulsioni: «chiamo a me il tacco/ gli occhi la borsa strappo/ all’interno le ossa esauste» (p.15).
5.
Il tono dominante della lirica di Nadia Campana è quello della poetessa ispirata. Come se il suo andare verso la mente significasse farsi catturare da qualcosa che l’avrebbe dominata; e che, in poesia, potesse essere detto soltanto in un linguaggio “smozzicato” e pieno di vuoti. In certi versi (Le gioie del declassato, p. 11) indica la fine di qualcosa. Lo dice con l’immagine della «barca abbandonata lungo il fiume». Lo ribadisce con quel «compressa da fatiche piagata». E si tratta di condizione insuperabile. Senza vie di fuga o d’uscita. I passi si possono spostare «di qualche strada». I “vuoti”, forse per una oscura contrattura mentale ed emotiva, restano tutti. E così pure nella composizione Lèggere l’ estate a p. 13, dove parte da un titolo chiaro, quasi banale: una situazione quotidiana, di un giorno preciso («primo di giugno») ma di un anno indefinito. Ma subito si ha una contorsione del senso: «una di quelle» va riferita a «ore»? E quelle ore verrebbero «aperte» come chicco di ribes? E «rende una forchetta» che vuol dire? E «stacchi solidali»? Così in altri testi della raccolta.
6.
A fatica, a poco a poco, insistendo nella lettura, s’individuano i temi fondanti della poesia di Nadia Campana. Quello, già accennato, della stanchezza; e del desiderio di calma (p. 27). O di un’allegria ed euforia irriverenti (p. 32). O di un intenso e particolarissimo rapporto con la natura (p. 18 e p. 59). Questa, più che interiorizzata, pare – con un ribaltamento del tradizionale schema natura: oggetto o paesaggio/poeta: soggetto dominante o contemplante – vissuta come se la poetessa l’abitasse – piccola esistenza animale – completamente dal di dentro. Anzi, come se fosse pensata lei, la poetessa, dalla natura; e non fosse, viceversa, lei a pensare quella.
7.
Si potrebbe definire Nadia Campana una poetessa del nascondimento, del segreto, perfino dell’autocancellazione? Sembra di sì, a stare alla poesia di p. 20, al suo titolo, al bisogno profondo di appartarsi, anzi proprio di cancellarsi, espresso nel verso: «come ti chiamavo/ a cancellarmi». E poi a quella quasi litigiosa confusione/vicinanza di pronomi: «Per te, io ti, io te sono/ che mi…». Spia della delicatezza del suo atteggiamento amoroso è l’immagine per me bella e inaspettatamente chiara del verso che dice: «Come rami contro il cielo entrai in lui». E in un ltro componimento (p. 21), intitolato «uomo mattutino», che non riporto, all’amato sembra consegnarsi fiduciosa: «come il tuo bambino ti osservo». Si potrebbe anche pensarla poetessa di un amore vissuto in una solitudine estrema e man mano ascetica, che viene dissociato dallo stesso ‘tu’ provvisorio che quell’amore ha fatto spuntare[3].
8. Un altro problema da chiarire meglio riguarda quello che ho chiamato il “frammentismo smozzicato” di questa giovane poetessa. Quanto è stato coerente con il suo vissuto amoroso, passionale, appartato, convulso? E quanto, invece, influenzato da una scolastica neoromantica o neo-orfica di moda negli ambienti letterari da lei frequentati nella Milano degli anni ’70 –’80? E qui – da affrontare a parte e con rispetto e cautela – fa capolino la questione del rapporto tra poesia, vita e tragico suicidio di Nadia Campana. Il suo “nascondimento” era – a me pare – anche una forma di solitaria autoprotezione, alla quale forse s’aggrappò anche per assenza o per il venir meno di altri tipi di difese da parte del ‘noi’ metropolitano entro il quale si muoveva. Da qui quella sua spinta a scarnificarsi, come s’intravvede nella poesia a pag. 74? O quel perdere consistenza per lei delle cose (e degli altri, delle altre?): «le cose sono brezza»? S’affaccia un suo lato ascetico e mistico. E in qualche poesia (p. 25) Nadia Campana dà quasi l’impressione di rivolgersi a una innominata divinità, con la quale ci si può intendere anche parlando in modi “smozzicati”. L’ultima parte di Bunker (p. 65) fa pensare quasi a una visione: «siamo in alto in cima alle mie trecce». (Gabriele potrebbe essere persino l’angelo che trasporta in cielo gli amanti?).
9.
I versi di Nadia Campana colpiscono per questo concentrare, accavallare e bruciare immagini e pensieri, che, come ho detto, indeboliscono o fanno sparire le connessioni possibili (costruibili) tra le cose e tra le cose e le parole. E c’è – bisogna pur dirlo per non farsi catturare nella dimensione pura e totalizzante dell’io – anche qualcosa di irritante in questo “nascondimento” (della passione; e della passione nella forma poetica). Andrebbero cercate le ragioni profonde e storiche e non solo personali per cui esso è sorto e s’è consolidato nella vita e nella scrittura di Nadia Campana. Ciò comporterebbe scavi ripetuti di queste poesie. Di molte note esse avrebbero bisogno. Perché di molto si distaccano dalla lingua comune. E si sbaglierebbe a pensare che “parlano da sole”, come con eccessiva disinvoltura si suole dire. Tanto è qui violento lo sganciamento (subìto o abbracciato con convinzione, non so) di ogni riconosciuto vincolo e dialogicità con il ‘noi’ reale (non quello immaginario) da parte dell’io lirico. In Nadia Campana troviamo, infatti, un ‘tu’ e un ‘noi’ indefiniti e distanziati. Non il ‘tu’ e il ‘noi’ reali che si costruiscono dentro una storia complicata e a volte orrida, una società conflittuale e amara, una realtà sempre in mutamento.
Note
* Il numero delle pagine posto sotto le poesie è riferito all’edizione Crocetti (1990) di “Verso la mente”.
[1] Cfr. «Visione postuma», p.24, Raffaelli editore, Rimini 2014.
[2]Lo testimonia la cartolina spedita all’amico poeta V.S. Gaudio:
14/VI/79:
oggi è stupenda. Oggi è
il sole, oggi è New York!
oggi i piccioni volano, oggi
si riverbera in [?] cento specchi
tutto
Nadiella
(da http://it.paperblog.com/nadia-campana-to-vsgaudio-oggi-e-new-york-2210199/)
[3] Vedere in «Visione postuma» il saggio intitolato Circonferenza di Marina Cvetaeva a pag. 23
* Un prossimo articolo sarà dedicato a «Visione postuma»
Mi è impossibile parlare criticamente delle poesie di Nadia Campana. L’ho conosciuta personalmente e ci siamio visti qualche volta prima che decidesse di darsi alla morte. Ho tentato anche di scrivere una poesia su di lei senza riuscirvi ( conservo frammenti di quello che spero di realizzare un giorno ).I suoi versi – forse per l’effimera conoscenza che ci ha avvicinati un attimo ? – mi commuovono e li ritengo veramentre intensi. Ed anche l’emblema struggente della condizione della poesia e dei poeti degni di questi abusati e deteriorati sostantivi. Per moltissimi anni dimenticata e sommersa da tanta orribile versificazione commercializzata,ritorna oggi come bottiglia portata dal mare con il suo messaggio estremo. Anche se non mi può sentire,la chiamo per nome. Giorgio Mannacio.
…mi hanno molto colpito questi bellissimi ed enigmatici versi di Nadia Campana come la nota critica di Ennio Abate, scritta con molta sensibilità (da poeta) e competenza…riesce infatti a mettere in luce le pieghe possibili di una personalità tormentata e un vero serbatoio lirico, dove la poetessa convoglia ed esaurisce le sue forti passioni…La poesia a pag. 35 é come la descrizione di un sè come esplosivo mondo a parte: si piange, si ride, si teme, ma poco ci si ama: “…é tenuta assai/ per matta perché si chiude troppo in casa parla male di se/ stessa ma non devi crederle…”. Mi piace molto quello che Ennio dice sul rapporto di Nadia Campana con la natura “…(la natura) vissuta come se la poetessa l’abitasse -piccola esistenza animale- completamente dal di dentro. Anzi, come se fosse pensata lei, la poetessa, dalla natura; e non fosse, viceversa, lei a pensare quella” Mi piace sia perchè trova un riscontro nei versi sia perchè attenua ed addolcisce l’idea di quella morte tanto prematura…
COMMEMORAZIONE ( IMPROPRIA ) DI NADIA CAMPANA.
1.
Correvano gli anni ottanta…..Nel 1984, su suggerimento del poeta G.C Majorino ( se la memoria non mi tradisce ), partecipai al Premio nazionale di poesia Valle Lambro ( tale la sua pomposa insegna ). Miei compagni di avventura furono poeti poi diventati molto noti come Franco Buffoni e, più tardi, Guido Oldani. Degli altri non posso, ovviamente, dire se si sentano, come io mi sento, alla “ periferia dell’impero “ ( titolo del mio ultimo libro di poesie ) oppure no. Nadia Campana era tra i partecipanti con una silloge di otto poesie intitolata Verso la mente. Conservo ancora, nella mia piccola biblioteca, il volume collettaneo contenente le poesie in concorso, volume dal titolo “ Poesia: 1980 e pocopoi “ con breve prefazione/presentazione di Tiziano Rossi e stampato dalla Tipografia Viganò di Melegnano nell’aprile del 1984.
Vinsi il premio consistente in un quadro del pittore locale Giuseppe Motti e me lo portai a casa a Milano con qualche difficoltà date le dimensioni. L’attore Bessegato lesse alcune delle mie poesie Fu la mia prima e penultima partecipazione ad un “ certame poetico”.
2.
Ricordo Nadia Campana. Era bella davvero o così mi apparve. Detti un’occhiata ai suoi versi , come a quelli degli altri, in modo distratto e sostanzialmente indifferente. Non so, né voglio sapere, l’atteggiamento che gli altri, lei compresa, ebbero nei confronti dei miei versi.
L’ incontrai un paio di volte, durante qualche manifestazione poetica; parlammo d’altro,mi pare di gatti.Non le dissi nulla delle sue poesie né lei parlò delle mie.
La notizia del suo suicidio, che mi arrivò quando ormai ci eravamo reciprocamente dimenticati, mi colpì profondamente. In questo sentimento confluì certamente la meditazione sull’atto estremo che aveva compiuto ma, analizzandomi, ebbi a scoprire in me anche una sorta di rimorso per non aver prestato attenzione alla sua avventura poetica, non averle parlato, in quegli effimeri incontri, delle sue poesie. Tale sentimento si attenuava un poco considerando ( non so quanto innocentemente ) che non ero né sono diventato un “ critico “ e dunque “ non obbligato” per mestiere o passione ad occuparmi delle scritture altrui. Se ebbe a sentire il mio identico rimorso non posso saperlo ed io non posso comunicarle il mio. Eravamo forse già estranei, allora, ed oggi lo siamo diventati senza redenzione alcuna.
3.
Giorno dopo giorno il ricordo di Nadia Campana ha scavato più profondamente di quanto pensassi. Ho tentato innumerevoli volte di scrivere qualcosa “ per lei e su di lei . Nel mio cassetto vi sono alcuni frammenti che la riguardano, ma nulla di quanto ho scritto rende il senso di quello che la sua immagine, la sua breve vita, la sua tragica fine e, poi, i suoi versi implacabilmente mi ripropongono.
Alla “ pietas “ per la sua vicenda umana, si accompagna un senso di sconfitta che sembra rendere ogni mio atto di partecipazione e memoria privo di senso.
4.
E’ una sconfitta, per me, in primo luogo. Non ho saputo o voluto accostarmi a lei, ascoltandone la testimonianza. Ma penso – anche se ciò non mi consola affatto, e magari è dettato solo dal desiderio di avere dei complici – è anche una sconfitta per quanti hanno coperto con eguale indifferenza la sua presenza poetica, tanto viva da portarla – nel paradosso che caratterizza il suicidio – al gesto estremo.
Beati, dunque, quei suoi amici che l’hanno,per così dire, seguita occupandosi,dopo la sua morte, di assicurarle quel briciolo di eternità che vorremmo contrassegnasse la nostra esperienza poetica. Quanti hanno saputo o voluto farlo?
Cosa posso dire, allora, dopo il silenzio entro il quale e con il quale mi sono, per così dire, difeso?
Non voglio essere uno dei tanti coccodrilli che, come si racconta, piangono sulle colombe che hanno sbranato con i loro denti famelici. Ognuno dia la fisionomia e il nome che vuole a tali rettili secondo la propria esperienza.
Capisco, perciò, chi, come Mari e Tagliafierro ( miei compagni di quel tempo lontano ), tendono conservare, per una sorta di pudicizia, il silenzio.
Alla fine- e ciò intendo sottolinearlo con forza – Nadia Campana, come tante altre voci smarrite e dimenticate ( e poi, magari, riscoperte secondo convenienza ) rappresenta,nel disfacimento del significato collettivo dell’esperienza poetica, una testimonianza che si potrebbe definire, in qualche modo, eroica.
Giorgio Mannacio, ottobre 2014.
Grazie Ennio e Grazie Giorgio.
Le vostre critiche e le vostre riflessioni oltre che ad essere molto utili nella comprensione di queste magnifiche poesie, mi hanno colpito per la loro chiarezza e profondità. Siete davvero Bravi!
Condivido pienamente il commento di Annamaria una poetessa ed una persona che ammiro molto. Grazie
Ricordo Nadia Campana. Era in Libreria (delle Donne, a Milano) a volte, anche spesso. Si sapeva che era poeta. Mi sentivo poeta anch’io, in incognito. Non partecipava alle riunioni. Muta e scura presenza, ma identificabile, nera di occhi e capelli. Restia. Silenziosa. Cosa cercava? Quello che cercavo anch’io. Si seppe che si era uccisa, era cosa possibile, del tempo. Quelle che restavano invece, costruttive. Di vita associata nuova e significativa. Pensai che avesse altri legami, strettoie, leganti da cui noi (quelle che arrivavano in libreria) ci si liberava, tagliando, costi quel che costi.
Semplice, certo. Ora leggo queste poesie complesse, volanti, scarti, in inutilità di fondo. Poco desiderio che eccede, poca voglia affermativa. Ma chi sa le ragioni di un suicidio? Le poesie sono belle: ricche di presenza, condensate, raccolgono e scelgono, al mondo c’è molto, è pieno, di bello e interessante, e io lo lascio. Chi può sapere le ragioni di un suicidio? Una possibilità che si contempla, a disposizione, ma si rimanda. Nadia Campana no. Perchè? La voglia, che c’è e che manca. E’ un segreto. Della libertà umana.
Peccato, peccato davvero che sia andata così. Forse un classico che si è perso anzitempo. Può non sembrare ma i poeti in vita servono moltissimo, nel senso che è bene che ci siano: è rassicurante, è come se la vita stessa continui malgrado tutto a germogliare. Andarsene così è come lasciare esplodere le proprie ferite, e così facendo ferire tutti. E poi bisogna guarire, mettere le cose a posto anche se non saranno mai come prima. Si rompe qualcosa nell’invisibile collettivo. Peccato, peccato davvero. Un gesto inutile.
Ringrazio tutti per la segnalazione; Ennio per aver postato la foto ritratto (davvero bella). A me non dispiacerebbe se le copertine dei libri di poesia fossero tutte così, con la foto ritratto del poeta mentre fa qualcosa, come le copertine dei 45 giri di una volta. Non sarebbe per ostentazione, al contrario, un gesto di generosità.
… e di umiltà.
Sì Mayoor, sì.
Ho l’impressione che l’amico Ennio Abate si sia preso una bella gatta da pelare tuffandosi nelle torbide, affascinanti acque dove scorre la figura sfuggente della mia cara amica Nadia Campana. Gli stessi curatori dei libri che son seguiti sembrano trascinati da una corrente troppo forte dove Nadia sembra far di tutto per non farsi raggiungere, per non dire “salvare”.
Nel lodevole intento di far emergere un ricordo lontano e far tornare Nadia fra noi, il cofanetto dell’editore Raffaelli con la “Visione postuma” che affianca “Oltre la mente” ci raggiunge, quanto mai opportuno, ma inaspettato come un colpo basso, un conto in sospeso, incompiuto.
Siamo in molti, ormai sparsi, a cercare di ritrovare la cara amica scomparsa, la sua mancanza spicca e ci lascia sgomenti e trent’anni trascorsi sono molti, forse troppi.
Io non posso dire molto di più. L’avevo quasi rimossa la mia amica. Conservo la sua amicizia come un bene che dopo tutto questo tempo forse si era troppo affievolito. Ricordo solo una sera a casa di amici che abbiamo riso insieme e lei mi disse che le sembrava di essere su un otto volante. Era contenta che fossimo “solo amici” e anch’io, a malincuore lo ero, senza quelle ombre e dissapori che c’erano con gli altri.
Nadia mi ha salutato una sera dicendo che se andava per un viaggio e nulla lasciava presagire quello che di lì a poco sarebbe successo.
Nadia era troppo sola e smarrita. Forse era banalmente delusa dall’amore. Sicuramente c’era dell’altro. Cosa, putroppo, non si sa.
S i sentiva estranea, allontanata nellla sua sensibilità, come lo era quando aveva portato al pronto soccorso il figlio di Lou Castel, da lei temporaneamente adottato.
Si sentiva di certo esclusa rispetto al nostro ambiente, già di per sè abbastanza frammentato.
Certe donne belle meritano di vincere sempre, oltre tutte le apparenze. In questo senso non so darmi pace. Non mi consola apprendere che anche chi le era intimamente vicino non avesse capito nulla della sua sofferenza.
Non so se un certo spirito di emulazione con la Cvetaeva e altri artisti l’abbia portata al suicidio, mi sembra una semplificazione un po’ azzardata. Nadia con le sue poesie, che col tempo risultano più forti e spiazzanti, con le sue traduzioni, che rimangono tra le migliori della Dickinson, era già, ai “suoi tempi”, oltre queste cose.
Forse era la vita di tutti giorni che le stava troppo stretta. Chissà…
Di certo la sua opera letteraria ha lasciato un senso di acuta mancanza e ritrovarla così frammentata è un vero peccato, ma ringraziamo comunque il Signore (e lo dice un miscredente) per quello che ci ha lasciato.
Non conoscevo Nadia Campana, ne avevo letto per la prima volta le poesie qualche giorno fa su LPLC, e mi era venuto questo passaggio:
Un’accoglienza che solo la morte può volere, anzi lei la corteggia, la morte, la invita come una giovane può fare con dei ragazzi, ne è innamorata.
In ogni poesia si colgono come due momenti differenti tra loro: uno di inquietudine, l’altro di serenità; non necessariamente in uguale successione.
Il commento di Ennio ricalca troppo la mano sul lato ‘mistico’ dell’autrice, che io non vedo, né mi pare un monologo.
La mia impressione è che Nadia s’interroghi interrogando il mondo, che non significa parlare da soli, bensì ascoltare e ascoltarsi (e con quale orecchio!).
Ma è chiaro che tutti i dubbi posti da Ennio restano e, come dice Mari nel suo commovente ricordo, è una bella gatta da pelare.
Tra le poesie qui postate mi sono provata a comprendere anch’io (a caldo) la sua scrittura:
Poesia pag. 35 – “lei sottile e tenace”, aspetta il sonno, la sola cosa “leale” che conosca (a quanto pare), e tanti altri aggettivi: vivo – isterico – tenero – preciso – leale, in successione.
Non sappiamo se davvero mancava qualcuno che la cercasse, è certo però che lei “non aspetta niente nessuno”, come anche la volontà cede volentieri il passo all’immaginazione (Immaginare è il suo lusso è / uno strumento ora una cassa di risonanza in cui tutti de-/ stano i loro echi e trovano i loro accordi).
(p. 59) Sembra una via di mezzo tra una canzone e una filastrocca, sebbene manchi il ritornello; i vari passaggi fanno pensare a resti di scene da incubo, immagini (il ruscello ha molta fretta) miste ad altrettanta immaginazione (trascina / la sua famiglia senza fine);
intuisco come un desiderio di fare ordine dentro la mente, in sé, un tentativo quasi impossibile da realizzare, un’impresa se vogliamo titanica, comunque mai abbandonata (“la metà del tempo pensavo a me”). Alla maniera di un “ruscello” dice – e perché non di un fiume o di un mare? – il pensiero scorre con “molta fretta”, sembra quasi impossibile da afferrare, e con esso vola (si dilegua) ogni “amica” sospesa. Si rimprovera di questo, e chiede scusa di se stessa verso un ‘superiore’(il “direttore”).
C’è molta angoscia qui, i tentativi quando falliscono lasciano il vuoto “senza fine”.
Cosa ci dice Nadia? Riusciamo a capirla? Speriamo che il “direttore”/tempo sia almeno una volta clemente con lei.
Nadia Campana possedeva (lo abbiamo capito tutti) gli strumenti per poter realizzare ogni cosa – ma occorre
restare fuori dalle categorie per capire
definire implica anche il concetto di definizione, che in lei manca – e se manca è perché lo rifiuta.
Difatti, per ‘definirsi’, cosa fa? ‘dice’ le cose che ‘pensano’ gli altri di lei. Ce lo racconta lei stessa:
“È tenuta assai
per matta perché si chiude troppo in casa parla male di se
stessa ma non devi crederle. questi saluti quell’unico sor-
riso dà il benvenuto va e viene dal panico teme spesso di
precipitare nelle insidie del coraggio tirata ai quattro an-
goli pronta un cavallo senza briglie soddisfatto ai quattro
venti una vela dei minimi soffi di vento. Appena si sveglia
ride, vede…
Aggiungo questo ricordo su Nadia Campana di Maria Pia Quintavalle. (Trovarci il riferimento al tempo, devo dire che bene non fa).
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2010/02/20/per-nadia-campana/
Ricordo di Nadia Campana.
Pubblicato su febbraio 20, 2010 da nadiaagustoni
Per Nadia Campana.
di Maria Pia Quintavalla
Visto l’ultimo film di Marina Spada su Antonia Pozzi, ho – inevitabilmente – pensato a Nadia. Al frammento che si usa, come forma artistica, quando si deve ri-costruire o riparare alla pochezza, in un gesto d’amore, della memoria. Sono delle ricercate, delle scomparse.
Ho trovato grande l’analogia creata nel film, fra l’immagine di Antonia Pozzi, che sbocconcella e poi sputa, di nascosto, nel palmo della mano, l’arancia, subito dopo un’immagine eco cardiaca, diastole e sistole: la timidezza di lei rivelata. Così bella, altrettanto, sempre nel film, la sacralità di rivisitarne lentamente i luoghi vissuti. Se questo rito è vero, dà salvezza, e noi dovremmo terminare quelle tappe di avvicinamento al luogo natale (e mortale), per lei, di Cesena.
Un anno fa, in visita alla rassegna ”Porto dei poeti”, sede nel porto di Cesenatico, scopro, con senso macabro, che nessuno, leggi Nessuno, nella sua città natale possedeva i suoi libri, né aveva mai indetto, in oltre venticinque anni, QUALCOSA DI LEI, o su di lei, né conosceva un suo verso. La Pozzi attende almeno cinquant’anni, per ottenere un’adeguata illuminazione, nonostante il meglio referenziato contesto di riferimento, (non appartenenza), da Montale a Sereni a Banfi, e settanta anni, invece, per una curatela critica adeguata, iniziata dagli “Archivi del ‘900″. Poco serve appoggiarla al palinsesto, nel film, dei giovani apprendisti poeti, che incollano sue immagini ai tram, in metafora di un visionario presente riscattato, per quello che la Dickinson prometteva, il paradiso dei poeti, la fama. La circonferenza, cui un ignoto cavaliere attaccherà il TUO nome, Antonia, o Nadia.
Pozzi come Nadia ascendeva e scalava le montagne.
Come lei pensava che solo la culla prosodica e lampeggiante dei significanti placava il dolore, il dettato interiore, anzi ne ricreasse un mondo nel mondo, di già noto. Anche là, un “culto della poesia”, come lo chiamerà Andrea Zanzotto, in un intervento a Radio Lugano Svizzera, del 1987 e 1989 scrivendo de “le confraternite ispirate dai più strenui ardori”, le ragazze cioè che aprirono il sentiero, divenuto un mare, mar rosso del movimento, e del pensiero femminile / femminista:
“ Valga per tutte, il nome di Nadia (scrive A.Z.), in cui tutte furono protagoniste”, di una “meglio crudeltà” queste giovani “impegnate in un’auto spendersi ritroso.“
Un’auto spendersi, fino al rischio di caduta della linea, sempre A.Z. ne spiega, nella prefazione al mio Estranea (canzone), il peccato per superbia o voglia di Dio, (che) finisce nell’auto annullamento, dopo la carestia, a causa di essa; di confraternite ispirate ai più cupi ardori, e a un sotterraneo culto, della poesia. Amazzoni, vittime.
Non abbiamo saputo trattenerti, Nadia, non abbiamo saputo farlo e prevenirlo. Mentre sapevamo di te della tua fame, dagli occhi, dagli spigoli consunti del volto “che non trova pace” ( “Ultima notte”, in Milo De Angelis), la mente- corpo travagliata che detterà i versi raccolti poi in “Verso la mente”.
Chi entrava nel mondo degli anni ottanta, senza avere tagliato diagonalmente le (strettoie) scorsoie dei settanta, la cupa ingloria, la sepoltura di parole nell’agit prop, e tazebao permanente dell’oralità vociante, dove l’attuale divorava tutto, e non trovava sbocchi; se non dopo lo sbocciare di riviste di ri fondamenta, come Niebo, ma pure in antologie femminili- femministe, la neo nata, la prima della serie di “Donne in poesia”, o ne “La Parola innamorata”, si trovò, quel soggetto entrato con breve, e bellica memoria di fratelli maggiori, assai difficili in compagnia di Porta, Spatola, Vicinelli, Pagliarani, ecc, ad un c erto punto s o l a, ma speranzosa. Fosse lì la nuova patria delle lettere in attesa. Cosa di meglio che Milano, certo.
Dopo la laurea con Luciano Anceschi su Antonio Porta, dopo gli studi e prove di traduzione della Dickinson. Maturati nella traduzione definitiva che ci riconsegna, bellissima de “Le stanze di alabastro”, Feltrinelli 1985.
Trovasti invece lo sfondamento lento della linea di giovinezza, che andava via via sfociando per chiudersi, alle spalle.
Società di poesia, e apertura della rivista “Poesia”, contaminazione nel letterario delle ultime fronde del fare politico (leggi Via Dogana), ma anche confraternite, delimitazioni del campo.
Prima dei cartelli e appartenenze; ( tradimenti, anche) defezioni.
Amiche che non lo capirono: io, per esempio. Amici che divinavano di te soltanto il volto, angelico di bellezza tagliente e seduttiva, ermafrodita la postura di un corpo che scolpiva viva la femminilità preclusa, bellissima inaccessa.
Nadia a Milano: andò alla conquista del mondo. Con audacia, impudente sguardo fiero dell’adolescente, come in “The dreamers”, e meglio. Ma, a mani nude.
Una foto di cui Cusatelli, amico di entrambe e parmigiano, commentava, ad ogni nostra straziante telefonata, nel dopo Nadia, la ritraeva sullo sfondo della “ lunga pianura immaginaria” del mare Adriatico, più volte ripercorsa col pensiero, come una linea di demarcazione e fuga.
TRA L’INFANZIA ABBANDONATA E GLORIOSA, dove ancora vivo era suo padre morto, e la morte desiderata, DOPO LA LUSSURIOSA CHIMERA nel volto degli anni ottanta di Milano. Quante diverse grandezze, e destini femminili, doveva poi conoscere, Nadia.
Parlava ammirata, di una lei così diversa, dell’astro nascente di Patrizia Valduga. Come di un come, e con chi, risalire la luce; di donne sole, risvegliate e spavalde ancora, immemori o da poco memori e coscienti, giovani amazzoni ( “i neri androgini” di cui scrivo in “Natalizia femminile” ), come di cavalieri moderni ecc. Divenute poi, chi libere papesse, chi dominae, imperatrici.
Le patrie lettere, gli amici. Le icone.
Quando la conobbi era il volto radioso della giovinezza stessa, ma nell’aprirsi più esposto più splendente, più feribile alla vita. Da tutto proveniva, a tutto era interessata, era sola: sotto il taglio (la scure) della poesia. Come E. D. insegna: “Se sento nella testa… qualcosa come una scure che mi colpisce secca, so che è poesia”. “Divento attenta solo quando ti allontani/ allora varo la registrazione fonografica/”. di competenza acceso/ ..e il fianco sarò infantile e leggero”.
Mi sta citando, si sta rammemorando di me, di noi, delle nostre conversazioni all’alba, febbrili, diuturne. Le sottolineature con cui mi consegnava suoi libri, in prestito, chiose che non furono inghiottite dalla sparizione successiva alla morte, nel trafugamento dei libri, tantissimi i “nostri”,“in comune”: erano graffi e strappi, lancinanti accuse come risposte alla provocazione della letteratura.
“Io se avessi potuto avrei dato a ciascuna un po’ di tempo…”, mi rispondeva da “Riflessioni su Christa T.”, restituitomi, o della Gunderrode, o nelle deliziose cartoline (“sono il fratello minore di Majakovskij!”): ne ridevamo insieme, Nadia!
Le foto dei (nostri) viaggi: in Scozia, a Edimburgo, a Londra, nell’isola di Sky, che non ti tolgono al silenzio delle ore serotine in cui, claustrale, ti recludevi in camera, per lunghe epistole -abbandono, agli amati.
Mi venisti a trovare drappeggiata, di uno scialle lungo e nero sul volto, come una Maddalena di dolore, occhi cerchiati e mani bianche (eri in lutto). Neppure allora lo capii, sorda e cieca. Ma nei tarli degli armadi, di un inquietato week end, a Varenna, all’alba dei primi di giugno del millenovecentottancinque, sì l’ ho udito, come un pigolare insistito lieve. Svegliai Rubino, che con me dormiva.
Un colpo, come una voce che chiedeva aiuto.
Eri tu.
Da “Radio Popolare” il giorno dopo appresi.
Cominciai col percuotere e gettare all’aria tutte le sedie, l’urlo nero.
Per settimane, l’amico e pittore Rubino scioglieva tavor nella mia minestra, che prendevo a sera. E nei rifugi alpini verso i tremila ti sentii tornare a me, nel volto, N.
Scrissi le “Lettere giovani” per contenere, quelle e troppe epistole. Da “Con un’amica”, in poi, a “Ecce fiume”.
Anni dopo Antonio Porta, che ti amava e che lavorò con te alla revisione della traduzione dickinsoniana, mi chiese come avevo potuto trattare della morte così, mentre accadeva.
Non lo avevo fatto.
Furono scritte nell’84, l’anno che precedeva, e dal presagio, “Con una nave niente più bianco e nero/ né morte, solo dio piccolo / piccolo e diffuso“. Un amen.
Nota: Questo articolo è apparso in precedenza sulla rete Dedalus.
Qui un post dove si possono leggere anche alcune poesie di Maria Pia Quintavalla dedicate a Nadia Campana.
http://rebstein.wordpress.com/2010/02/15/congiungere-i-lembi-del-passato/#more-21227
Su Internet segnalo altri due scritti su Nadia Campana:
– il primo è di Gabriella Sica: http://poesia.blog.rainews.it/2014/02/24/poeti-da-riscoprire-nadia-campana/;
– il secondo di V.S. Gaudio:http://gaudiaduepuntozero.blogspot.it/2011/11/un-testo-inedito-di-nadia-campana-per.html
Permettono di intendere qualcosa del contesto culturale in cui si muoveva la poetessa nella Milano degli anni ’80-’90. Ne parlerò nel prossimo post che sto preparando su “Visione postuma”, saggi e appunti pubblicati dall’editore Raffaelli nel 2014.
…di Te agli occhi è una accidia, quel nero sudario, mostruosa sessa come una veronica
mi snodava lo sguardo e spumosi ciottoli risonavano sulle doglie dei marosi … le quinte , ach! orfane partenze alla Stazione della Voce incarnata in quei supplizi, e a la rota degne di un
tarocco, e quadrata la mente di chi, ossesso, disturbava la visione di ignoti – arrivi!
E il trionfo dei miei versi senili non vorrei passaporto universale per una immortalità come dantesco imbuto o filtro immaginifico per una beatitudine di ombre rivelate, tornasole a le parole di una soglia e al sacrificio di una cornice e… a un ritmo nuovo che poco mi sorregge – ora! i musicali muscoli di una gola al più estremo grido e a la bocca un ovale tra disperate
mani nordiche! E le dita in ogive… posture di maddalene – misericordie nude! Ach,
Nadia e Claudia – nude sublimità! La vostra vita fu negata angoscia, nudo ectoplasma, gelatina votata invano – al sangue! – Trasparenze danzanti, incubi di baci, prede di melanconie che una croce, una corda o altro caos gettarono negli orridi di una luce – estrema!
antonio sagredo
Roma, 13 febbraio 2014
Nota
I lettori capiranno facilmente che nella poesia di Sagredo ‘Nadia’ si riferisce a Nadia Campana.
Aggiungo io che il nome ‘Claudia’ va riferito a Claudia Ruggeri, poetessa sulla cui vicenda e poesia si può sapere di più a questo link: http://www.claudiaruggeri.it/
…penso che, da remote distanze, Nadia e Claudia ringrazino il poeta Antonio Sagredo per il suo straordinario elogio…