“Come ci siamo allontanati – Ragionamenti su Fortini” alla Libreria di Via Tadino, Milano
Il secondo incontro verterà sul tema “Fortini e Adorno”
con l’intervento di Ezio Partesana
Domani sera 23 ottobre 2014 alle 21.00
alla Libreria di Via Tadino 18 – Milano
Spero possa esserci di nuovo – sul sito di “Poliscritture” -, un resoconto circa l’incontro di questa sera, annunciato nella segnalazione, su un tema di interesse forte e ampio quale “Fortini e Adorno”, a cura di Partesana.
I miei saluti più cordiali, con partecipazione e attesa, e un ricordo delle “perigliose”, e splendide, poesie delle rose, di Fortini.
A.C.L.
DIALOGO-LAMPO TRA SAMIZDAT CHE SI RECA ALLA LIBRERIA DI VIA TADINO E UN POSTMODERNO
Un “Fortini e Adorno”
in un sol giorno?
No, in una sera.
E ‘sta dialettica?
È scossa elettrica.
Allora non vengo.
Famiglia tengo.
A nome dei molti che non hanno famiglia ma egualmente non possono recarsi in via Tadino, a nome dei molti che hanno famiglia e vorrebbero recarsi in via Tadino ma non possono, o solo a mio contemporaneo nome, che tentò di esser moderno – in tradizione – né mai entrò nel postmoderno cosicché non deve uscirne ora che pare che il postmoderno – epoca – sia finito:
“scema come una rosa”
dice un poeta e un altro
“odora eterna la rosa
sepolta” – rosa rosae
a cui dare ogni colpa
d’umori tristi o allegri
e a mia discolpa!
a Giorgio Caproni e a Franco Fortini
da “Esculapio (1989 – 2001)”, in “Tutte le poesie (1973 – 2009)”, 2011
e improvvisamente in dedica a Fortini e ad Adorno,
c’è una coppia di passeri
insubordinati che tirano
la coda dell’inverno –
particolarmente piovoso
quest’anno (i ghiacciai
dolenti a causa di noi
umani hanno pianto in molte
piogge – nubifragi – monsoni
– tropicali qui in Europa) –
ma i due – oggi – 9 marzo
del 2009 – musici arditi
avvertono un’aria non umida
più dolce – strimpellando
di listello in listello
delle persiane – un terzo
li raggiunge – minuscolo
moschettiere al valor
di piume – presentando le sue
armi cantanti alla stagione –
(edita in “Tutte le poesie…”)
A.C.L.
DIARIO/SBRATTO
In questo secondo incontro dei «Ragionamenti su Fortini» Ezio Partesana – brillante, provocatorio, attentissimo, da regista di teatro qual è, a dosare i toni del discorso e a tener desta l’attenzione del pubblico – ha parlato del rapporto tra Fortini e Adorno.
Due le premesse: – Fortini non era un filosofo; – i due erano entrambi «marxisti atipici» (e quindi osteggiati dai presuntuosissimi cerberi dell’ortodossia marxista che ai loro tempi bacchettavano a tutto spiano dai piani alti dei partiti comunisti europei).
Del pensiero complesso e potente di Adorno Partesana ha ricordato il clichè, divulgato in Italia da Gaber, il quale nelle sue canzonette “intellettuali” a quel filosofo aveva attinto a piene mani: “tutto va male, non ce la caviamo, non c’è scampo. E – ben più importante – l’analisi (fondamentale) dell’industria culturale. Che però aveva appena sfiorato (negli anni Cinquanta-Sessanta) le menti e i cuori degli intellettuali umanisti, rimasti in Italia, anche quando riciclatisi in comunisti (all’italiana), devoti a don Benedetto Croce.
Fulcro di quest’analisi adorniana era la constatazione che, nella nostra epoca (capitalistica), anche la cultura era scesa giù dai cieli luminosi delle Idee per diventare prosaicissima merce. La quale si compra e si vende. Ed ha soprattutto un «valore di scambio» e molto meno un «valore d’uso». Perciò ha ricordato Partesana, sventolando un libro che aveva a portata di mano (pare fosse «Im tempo», una sua raccolta di poesie pubblicata dalle edizioni CFR), «questo libro non differisce da un maglione di Benetton». (Quando – aggiungo io – arriva, se arriva, sul mercato).
Insomma, il passaggio dalla fase precedente – quella preindustriale, quella in cui la cultura prosperava grazie al mecenatismo o all’intervento “illuminato” di forze politico-sociali che si pretendevano “alternative” o “rivoluzionarie” (quelle risorgimentali del primo Ottocento, quelle dei partiti socialisti e comunisti più nel primo Novecento che nel secondo) – alla fase capitalistica dell’industria culturale ha fatto sì che il valore d’uso della merce-cultura discendesse a zero (o quasi) e salisse invece in alto, sempre più in alto, il valore di scambio. E che la selezione delle opere (dei prodotti culturali, della merce che si porta addosso quasi nostalgicamente, come etichetta, l’aggettivo ‘culturale’) viene fatta, appunto, dai manager. E, dunque, non mirando più alla qualità (culturale) ma alla vendibilità o commerciabilità. Ecco perché schizzano in alto le vendite dei libri di Fabio Volo o della Littizzetto o di Camilleri e i nostri libretti di poesia restano sconosciuti e da regalare agli amici.
Gli stessi manager, che programmano la visibilità di Umberto Eco condannando all’invisibilità altri scrittori, impongono ai tantissimi che, per tirare la pagnotta, fanno i “lavoratori della conoscenza” (si dice così oggi) e cioè i traduttori, gli sceneggiatori, gli editor – insomma gli intellettuali di massa mal pagati e trattati a pesce in faccia se appena pretendono di pensare – di tradurre, sceneggiare, correggere dattiloscritti o file sottomettendosi alle loro regole, quando non ai loro tic o capricci.
Tutto questo Partesana, che è stato studioso di Adorno, ce l’ha ricordato per dar ragione al grande filosofo tedesco che parlò di «vita offesa».
Siamo dunque tutti consumatori che proiettiamo, sotto la spinta delle «bugie seducenti» della pubblicità, i nostri desideri sulle merci che hanno un alto valore di scambio perché costretti ad una “vita umiliata”?
Pare di sì.
Si potrà mai uscire da questa sottomissione all’industria culturale?
Mica facile!
Perché in questa sottomissione c’è anche un’adesione *necessaria* a quelle «bugie seducenti». Perché – ha spiegato Partesana ricorrendo al concetto di ideologia di Marx – quella percezione della realtà distorta è una sorta di “autodeformazione” ma serve a mantenermi in vita. E’ – aggiungo io – come aria inquinata che debbo comunque respirare, non trovandone in giro di pulita.
Si potrebbe uscire da questa sottomissione e da questa ideologia solo cambiando i rapporti di produzione.
Era il classico uovo di Colombo proposto da Marx, nientemeno la rivoluzione socialista.
Ma oggi è diventata una bestemmia, un tabù.
E persino il buono e intelligentissimo Adorno già a i suoi tempi non la prendeva sul serio, convinto della irrimediabilità della situazione in cui era stata cacciata l’umanità. Al massimo, a conservare un qualche carattere eversivo, restavano per lui l’arte, la poesia, la musica (ovviamente solo d’avanguardia!).
E, in proposito, Partesana ha ricordato l’analisi che Adorno fece in «Dialettica dell’illuminismo» della figura di Odisseo (Ulisse) alle prese con le Sirene. Da una parte l’eroe-signore, che, forte della sua ragione, si fa legare al palo pur di ascoltare quel canto affascinante e mortale. Dall’altra i marinai-servi con le orecchie tappate dalla cera che remano e lavorano e nulla odono di quel canto.
Servi e padroni per sempre, dunque?
E Fortini?
Beh, forse proprio perché non filosofo, Fortini è stato, sì, adorniano, ma *cum grano salis*, mai accettando la conclusione di nobile impotenza di Adorno. Perché – si è accennato nella coda di dibattito finale – ha dato ascolto (troppo secondo alcuni) ad altre campane: Brecht, Lukács soprattutto, che di Adorno furono antagonisti, e – da non dimenticare – il “demoniaco” (!) Lenin.
Brevemente due osservazioni.
La prima, autocritica: mentre è verificato che il valore di scambio sta alla base del successo di certi libri (Volo, Littizzetto eccetera) non è assolutamente detto che un primato del valore d’uso premierebbe “i nostri libretti di poesia”; ci piace immaginarlo ma non è detto.
La seconda, su Adorno e Ulisse. Il giudizio che il filosofo dà, in Dialettica dell’illuminismo, dell’eroe omerico è ben più severe di quanto non traspaia dall’episodio delle sirene. Nel capitolo che s’intitola “Excursus I Odisseo, o mito e illuminismo” Horkheimer e Adorno sottolineano il lato borghese di certi comportamenti dell’eroe omerico: “…cantare l’ira di Achille e le peripezie di Odisseo è già una stilizzazione nostalgica di ciò che non si può più cantare, e il soggetto delle avventure si rivela il prototipo dello stesso individuo borghese il cui concetto ha origine in quella compatta affermazione-di-sé di cui l’eroe pellegrino fornisce il modello preistorico…”; carattere reso più esplicito in un brano successivo: “E’ così che i due coniugi (Ulisse e Penelope ndr) si capiscono. Il test a cui essa sottopone il reduce ha per oggetto la posizione inamovibile del letto matrimoniale, che lo sposo ha fabbricato, in gioventù, attorno a un tronco d’olivo, simbolo dell’unità di sesso e possesso. Essa parla, con commovente scaltrezza, come se il letto potesse essere rimosso, e il marito le risponde, “contrariato”, con la minuta descrizione del suo durevole lavoretto: prototipo, anche in questo, del borghese, ha, nella sua smartness, un hobby. Esso consiste nella ripetizione del lavoro artigiano, da cui – nel quadro di rapporti di proprietà differenziati – è, di necessità, esentato da tempo. Di questo lavoro egli si compiace, poiché la libertà di fare ciò che per lui è superfluo gli attesta la facoltà di disporre di quelli che devono eseguire questi lavori per vivere”.
(Io – chi sa da dove)
mi sono sempre chiesta –
un po’ confusa dall’esser
tanto sola – quanti anni
io avessi quando ci furono
i canti – gli imenei –
se dissero che egli
mancò poi per ventanni
dovevo essere giovane
molto – forse 14 anni –
se fu un amore stanco
quello che ritrovò io
non saprei – o forse
squisitamente purpureo
di velami – siamo
sepolti da qualche parte
insieme – il mito
ci trattiene dall’essere
divisi –
*** *** ***
obliata – intorpidita
dalla dimenticanza –
dicevo il mio nome
è il suo (subito
interveniva la nutrice
“cosa fai? non sei
più una ragazza
che va incidendo cuori
su alberi – su pietre –
sei una donna sola –
sei madre – hai un figlio
tessi solo l’assenza –
la mancanza” – “sei
gelosa, nutrice?” –
rispondevo – “che sia
pace a due cuori –
e a una capanna! – del resto
non è egli atteso
dentro grotte sulfuree –
su giovani arenili –
su isole di perdita –
e di desiderio? – dammi
i fili rosati – almeno
che a me resti – nell’attesa –
l’intreccio che racconto –
e che dispero”) –
*** *** ***
da: Ad insulas, M.me Webb Editore, Domodossola, 2014
A.C.L.
Errata corrige: la “e” all’inizio del quarto verso della seconda poesia, ovviamente, non accentata. Peccato non ci sia un mezzo virtuale che permetta, entrando – va da sé – solo nelle proprie risposte, o commenti, di correggere un errore, vuoi di digitazione, vuoi di parola normalizzata in altra, dal programma – o cervello – virtuale.
I “nostri libretti” di poesia, chi sa…, ma di certo gli errori nella trascrizione in virtuale “sempiterni”…, e a tutti noi, essi, postumi…
Tombe che non saranno mai più digitate da nessuno, del resto già dopo un giorno o due…, siano essi errori, o commenti, o risposte, o pubblicazioni…
A.C.L.