di Arnaldo Éderle
Tre e mezzo, la discesa scende fino
a mezza costa, case nude senza uomini
né ragazzi, tutti sembrano intanati
dentro le stanze mute e senza porte.
Le finestre paiono dipinte sui muri
immobili marrone pesanti e prese
da ordini perentori e sicuri,
sembrano preesistiti inappuntabili quasi
disumane.
Chi le conosceva prima della peste
le aveva viste incrociate o aperte senza
i fermi gli omini flessibili e sicuri
rivolti in su come soldati invitti,
premiati e come fatti di rigida umanità.
Dentro l’automobile ferma suona
il pianoforte di Beethoven, le sue
trentatre variazioni scritte
a cinquantatre anni un limite maturo,
un valore riscosso a metà vita
(ma ancora in tempo).
Passeggiano due ragazze sul bordo
sinistro della strada della Sorte,
(“antica trattoria” che mi ospitava tanti
tanti anni fa vestito quasi da ragazzo
mentre vegliavo sulla mia povera
Sorte).
Una Sorte né fatta né prevista,
ancora da imbastire ancora da intruppare
nel manico della vita ancora da esporre
ai compagni e ai genitori ancora da …
appena abbozzata come una pagina a metà
assolutamente incompleta.
Eppure forse alla mia cara poesia ci pensavo
nel suo tenue embrione ancora
semi-viva palpitante, attesa forse come
una specie di ragione per vivere
la vita il suo senso
la sua probabile direzione il balzo
oh sì! il suo balzo in alto verso
l’azzurro.
Ma non mi convinse l’azzardo allora
non lo comprese forse il mio cervello
non soppesai la catapulta allora
e rimasi qui a terra con il naso in su
ma la testa penzoloni.
M’avrebbe aiutato la cubana?
ma già non c’era tra le nostre pagine
dissimulata in donna superiore dea
fragrante e fraterna, assolutamente
dalla nostra parte.
Così non mi rimase che aspettare
attendere e sperare che arrivasse l’attimo.
Così mi trincerai dietro me stesso
E aspettai aspettai.
Oh attesa! Quanto mi sei costata quanto!
Intanto gli uomini seguitavano
a calpestare la terra a fare i loro affari
sporchi e puliti gli uomini cantavano e
piangevano i boschi odoravano e il mare
brillava. I bimbi nascosti tra gli alberi
continuavano il loro bisbiglio tra le risa
mute. Ecco, tutto questo succedeva
sulla rotondità della terra ma nessuno
si occupava più di Negrura la bella cubana,
né del suo povero discepolo.
Altri seguitavano a vivere.
Chi impastava congetture per andare
avanti nelle strade delle città
coperte di sassi e bucce di banana,
chi riordinava la borsa per la spesa
con i cinque euro di riserva per
pensate impreviste e a basso costo
chi i soldi li spendeva senza pensarci.
Comunque ognuno posava i piedi sulle
pietre delle strade
senza pensare a quasi nulla e senza
riflettere.
Ecco, questo succedeva capitava alle
capitali alle metropoli alle città di provincia,
e continuava a sorprendere i pensatori, coloro
che nei loro cervelli congiuravano contro
la stupidità e il malaffare contro il tripudio
dell’indifferenza della veglia costante del male.
Ed io nel sonno formulavo i miei sogni
di vendetta di rivalsa e di riordinamento
della vita storta e smerdata, sempre in cerca
di casti rimedi e di rinascita.
Ma erano soltanto sogni sonni immobili
e risvegli senza compensi. Io seguitavo
a dormire ad occhi aperti senza rinverdire
alberi sciupati e prati sui pendii e uomini
e donne sublimi nella bontà e nella bellezza.
Ah, quanti passi lenti e indecisi
percorrevano le mie deboli gambe sulle vie
dell’improbabile e del disgusto!
Non sapevo che fare, non potevo non ero capace.
Alle due del pomeriggio ero lì in trattoria
che mangiavo la noia e mi abbeveravo nella
ciotola dell’angoscia senza una briciola
di letizia, quasi nudo e assorbito
nel mio cervello grigio grigio senza
voglia con un respiro affranto e pigro
che farfugliava grovigli di promesse
senza senso: tentativi di rassegne sul
cosa fare sul dove andare e come accomodare
il mio stare nelle vertigini senza cadere.
Altri uomini masticavano quieti le loro
carni sforchettavano le loro verdure
con gli occhi dentro i piatti le mani attorno
alle posate. Un’assemblea di docili schiene
una veglia di tiepidi sonni senza vita.
Una promessa nei piatti navigava, la promessa
di un’intrepida pace.
Un paesaggio desolato e un’attesa mal pagata, la storia che si ripete sempre uguale. Nessuna epifania, mi sembra, né la poesia può dare risposte, più probabile una vena di nostalgia.
…in questa poesia si descrive sì un paesaggio desolato di persone, tra cui si colloca anche il poeta, che faticano a dare un senso alla loro vita e al loro mondo ormai bidimensionale, piatto e incolore, distrutto nell’anima dagli eventi. Anche l’amore esotico, le speranze che vengono da lontano, ha perso il suo fascino…Ma é pur palpabile un filo di attesa, come una buona sorte che aspetta da lontano e guida, attraverso dubbi e difficoltà, i passi del poeta inconsapevolmente . Nella trattoria, in “un’assemblea di docili schiene…” dove “altri uomini masticavano quieti le loro/ carni…e tutti sembravano fare un bilancio delle proprie vite, silenziosi, accumunati a caso dalla sorte… mi sembra maturare nel poeta quella speranza di pace, che gli può giungere solo dalla poesia…
Cara Giuseppina, ha proprio ragione. E’ un poemetto desolante. Anche gli ultimo due
versi non riescono a dare un barlume di speranza,nonostante quell’aggettivo “intrepida” davanti a pace. Grazie. A.E.
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Cara Annamaria, grazie del commento. Purtroppo non sono riuscito a scovare nessuna “epifania”. Davvero è tutto negativo, ma è così. Un saluto. A.E.
@ Ederle
Desolante non è il poemetto, semmai la realtà che mostra . E a me non pare neppure che chi scrive debba per forza metterci l'”epifania” o la morale o quel pizzico di consolazione che certi lettori cercano.
Anche tu, caro Ennio, hai ragione. Le poesie o i poemetti o i poemi non hanno nelle loro prerogative quella di “risollevare” gli assunti dei testi. La poesia ha un altro scopo, quello cioè di esporre la bellezza di qualunque cosa si scriva, il fulcro di ogni cosa, la sua anima, il suo vero aspetto, la sua verità. Un carissimo saluto. A.E.
Una poesia per vivere o una vita per la poesia. In questo andare lento quasi fermo immagine. sento la rassegnazione vissuta come colpa, senza perdono nei confronti di se stesso né nei confronti del mondo. Una monito,quasi. Un invito al carpe diem .
Resta lo stile freddo, quasi un pianto che alla fine sembra di rabbia ben celata. Tutto non fa una piega , dà al lettore la sensazione di abbandono ma anche il desiderio di reagire alla triste desolazione che riveste ormai gran parte della gente. La poesia riesce anche in questo. Grazie.
Grazie anche ad Emilia! A.E.
ieri avevo letto Le magnifiche donne di Glencourt e qui ritrovo lo stesso fluido narrare e le parole di tutti uomini donne sorte vita terra città alberi e i suoni sillabici di tutti i giorni
belle, bellissime poesie quiete dure e lontane in fantasie, questa e quelle del libro!
Grazie Cristiana, un bel complimento il suo. Ancora grazie. A.E. Mi fa molto piacere che abbia letto Le magnifiche donne di Glencourt.