di Pierpaolo Riganti
Di Francesco Dezio da anni non si sentiva più parlare. Eppure lo scrittore pugliese (nato ad Altamura, classe 1970) è stato il pioniere della nuova narrativa post-fordista con il romanzo Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli 2004). Circa un anno fa ricompariva con un assai esile contributo in Il Pane Offeso – Parole per la crisi del lavoro (Edizioni Culturaglobale), un’antologia pubblicata con il patrocinio della regione Friuli in memoria dell’operaio poeta Luigi di Ruscio, in cui gli scrittori (tra i quali Stefano Valenti ed Emanuele Tonon) hanno rinunciato ai (magri) diritti d’autore per devolvere il ricavato ad una famiglia colpita da morte bianca.
Francesco Dezio sembrava, ormai, una di quelle promesse letterarie rimaste acerbe e quindi dimenticate, una tra le miriadi di meteore che trovano occasione per esordire con una storia autobiografica di normale assurdità e poi rinunciano ad affermarsi.
Sei mesi dopo, invece, è comparso in libreria Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta – Storie di provincia e di altri mali (Stilo editrice 2014, pagg. 125, euro 12). Il testo, curatissimo e corredato da disegni dell’autore, sembra rivolto ad un pubblico di nicchia (gli amanti delle controculture musicali degli anni Ottanta), ma è capace di arrivare ad un pubblico assai ampio e di ogni età. In esso sono riunite storie di tossicodipendenza, di emarginazione, di precarietà del lavoro e delle relazioni amorose, pagine di satira spietata dei miti e feticci dell’italiano medio (il sabato libero, la casa, l’automobile, la passeggiata in piazza, il cornetto e cappuccino al bar, il panzerotto, la vacanza, la moglie e l’amante), cronache dell’impossibilità di essere se stessi (peggio ancora: se stesse) in una società massificata ma sempre arcaica e sessista, quella dell’entroterra pugliese più periferico. Otto racconti che s’intersecano e si fanno eco l’uno con l’altro, nel tempo circolare degli ascolti musicali dei personaggi, lungo un arco temporale di più di vent’anni: dai Church ai Matmos, dai Kranio ai Delgados; e ancora: Lingomania, Wretched, AC/DC, Negative Disarcore, Boohoos, CCCP, Clash, Afterhours, Underage e una cinquantina di altre formazioni degli anni Ottanta e Novanta sono citate più volte e su di esse l’ex scrittore operaio esprime giudizi di critica musicale, oppure riporta notizie biografiche e citazioni di canzoni, apprezzabili sia dal pubblico che ha vissuto e amato quegli anni e quella musica, sia da chi voglia farsene un’idea.
Capita a tutti che una canzone ci ricordi un frammento della nostra vita, una persona, uno stato d’animo. Così in questa raccolta il senso della complessità di quel contesto storico e delle sue espressioni artistiche e musicali dipende dalla soggettività del personaggio ed è ben reso dalle situazioni narrative in cui di volta in volta compare il riferimento ad un gruppo: c’è il classico frikkettone che ascolta i Pink Floyd solo perché “all’epoca facevano tendenza” (p. 8); l’“alternativa fuori tempo massimo”, ”svezzata ascoltando i Sex Pistols e Joy Division”, alla ricerca della sistemazione professionale definitiva (pp. 59-60); il piccolo imprenditore, ormai imborghesito, che ascolta i vecchi pezzi di Phil Collins e non si aggiorna sulle novità; c’è il trentenne innamorato e infelice che ascolta Standards, “l’ultimo album dei Tortoise, tanto tedioso quanto cerebrale” e dedica alla sua ragazza canzoni dei Subsonica (pp. 93-94), mentre lei preferisce gli Slowdive “del pop rock zuccheroso” (p. 99)…
Dezio, allargando l’orizzonte narrativo dalla fabbrica ad un intero tessuto sociale e culturale sconquassato, quello tardo-berlusconiano e pre-renziano, ci ripropone la sua spietata e auto-sarcastica Weltanshauung. Ma per essere letteraria, una visione del mondo deve tradursi in forma, deve sondare un linguaggio adeguato a quanto di essenziale vuole dire. Esattamente in questo lungo e faticoso passaggio si colloca la scelta di Dezio che, tra i tanti registri linguistici sperimentati in Nicola Rubino è entrato in fabbrica (riflessioni significative sono in www.treccani.it/magazine/lingua italiana/percorsi/Silverio Novelli), seleziona il più umile, quello della lingua parlata da personaggi sbandati e variamente scolarizzati. Questa volta Dezio sperimenta il racconto, senza sentirlo subalterno al romanzo, come subalterna non è la musica citata, programmaticamente no pop. Il punk, il post-punk, il rock, il post-rock, la new wave con una profondità vertiginosa avevano fissato l’identità delle generazioni dei decenni passati che con queste canzoni prendevano la parola sulla scena pubblica. Facendo uno sforzo “ritmico” di sintesi e brevità, nell’ultimo racconto (Appuntamento al Pianeta) Dezio riesce a contenere un’intera storia di disamore (nevrosi, rancori, impossibilità di colmare le distanze e amarsi davvero) nei tempi dell’ascolto di un album (The Red Thread), e in particolare di una canzone (Turbulence) degli Arab Strap.
L’effetto di queste continue sinestesie tra musica e racconto è un procedimento narrativo che recupera a tutti i livelli il valore dell’ascolto e della (c)oralità, sia attraverso la musica come patrimonio collettivo di ben precisi movimenti, sia attraverso la parola apparentemente dimessa e popolare di queste storie, costruite come resoconti orali estemporanei, fatti in prima persona da otto diversi personaggi che spesso passano dall’io al tu e interpellano un ascoltatore/spettatore, in un gioco di sottili ammiccamenti: questo tu ideale è il lettore, che certamente è assillato ogni giorno da storie di precarietà, sfruttamento e ipocrisie dell’Italietta ed è come messo di fronte ad un angosciante déjà vu, tratto dalla sua stessa vita quotidiana o dal filo della sua memoria. Ma è ‘ascoltatore’ l’autore stesso. Egli trae dalla realtà queste storie non fiction, eppure diventate fiction a causa del continuo proliferare, nel panorama editoriale italiano, di autori che hanno toccato questi temi, sia pur a livelli espressivi molto alti.
Una contraddizione che probabilmente ha influito non poco sul lungo silenzio dell’autore, frastornato dalla responsabilità di aver fondato, suo malgrado, un genere, scoraggiato dal rischio di essere epigono di se stesso (rischio ormai schivato con questa prova di scrittura profondamente rinnovata). La “letteratura precaria” è sì un’etichetta che sa di marketing editoriale, ma cela una ben peggiore realtà: se, in tempi di Jobs Act, l’Italia non ha ancora toccato il fondo, se è ancora possibile scendere di qualche altro gradino, sarà ancora necessario raccontare (e leggere) queste storie. Purtroppo non è stato ancora narrato tutto il possibile.
Complimenti per le tue riflessioni, Pierpaolo. La tua analisi sul tempo presente è lucida e profonda, amara ma necessaria. Anche io ho letto questo bel libro e credo in questo tipo di narrativa sociale.