di Antonio Sagredo
In questa sezione, intitolata “Il poeta e la sua città”, appariranno poesie e prose collegabili al rapporto quasi sempre oscuro e inestricabilmente d’amore/odio tra un autore e la “sua” città (natale, d’adozione, elettiva, dell’anima). Inaugura la serie questo testo di Antonio Sagredo, che – è giusto dirlo – è stato anche il suggeritore della rubrica. Invito anche altri/e a farmi pervenire altre proposte sull’argomento. [E.A.]
La città
Verde nella parola e nell’inganno!
Terra del Salento,
squarciata da un freddo cerchio di ciclista!
Moresco,
notturno barocco di Chopin!
Io t’ascolto e t’amo, io,
esiziale uomo del seicento.
Hai le acque chiuse, Madre!
Nostra Signora dei Lamenti,
per finzione!
Questa terra: rogo di papaveri
è un ricordo di Vanini!
Brillano le giravolte di astri-giullari!
Torta barocca con pizzi e merletti!
Dolce
come un bacio di una frusciante cameriera!
I nostri corpi estivi,
come i raggi assillanti di Ravel!
Sempre con dolcezza odio la città.
Farò un giro, una passeggiata di tenerezza per i campi,
ricorderò la pietra rosa che m’incantava,
l’odore degli angeli di cartapesta,
dirò una messa al mio dio: io stesso stravolto dai misteri!
Io
portatore di reliquie!
Lecce, hai le movenze di una verde puttana!
I chiostri annusano la testa mozzata di un Oronzo!
Antonio Sagredo
Roma, aprile/agosto 1976
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Passeggiavo, era una notte estiva del 1976, per il quartiere di san Giovanni in Roma, col poeta Tommaso Riccardo, parlando, come al solito, di poesia e di poeti. Gli rivolsi una domanda: A quale colore ti fa pensare la parola: Lecce? Mi rispose subito: “al colore verde!”. Non poteva essere diversamente, anche io avevo pensato allo stesso colore! Così convinto che ancora nel 2007 ho scritto una poesia dal titolo Lecce, la verde maliarda. Pensare a Lecce è per me come avere davanti uno smeraldo con tutta quella cultura millenaria orientale che si porta dietro, e dentro, e che sia indotta o tradita o soltanto una
rievocazione ha poca importanza.
Questa città si esprime nella finzione di una parola barocca che vive d’inganni, come appunto le meravigliose forme che esprime non esprimendo che un vuoto d’archi e di volute tra cieli celesti-turchini-rosa e quel nero che domina il pensiero del divoto, come specchio oscurato da una luce altrettanto vuota!
Una terra salentina da vendere e distruggere per essere squarciata da una sedicente industria progressista che man mano la violenta e la rosica con dolciastre asfissie purulenti… eppure il seicento ancora sopravvive artigliando chi la abita con la fissità di uno sguardo che ha smarrito la visione!
E tale è lo stravolgimento della forma che t’avviticchia da sentirsi mancante di ragionamenti e di lucidità!
Che perfino un notturno di Chopin si veste di architetture moresche! E le acque generatrici delle antiche Madri – arse fontane dei chiostri e dei cortili – sono soltanto delle finzioni, come i loro cartapestati lamenti!
Definirò la poetessa Claudia Ruggeri come una Nostra Signora dei Lamenti in una poesia del 2010. Terra di roghi e di papaveri: il rosso e il sangue confessionale, vaniniani, la perseguitano… si difende dialetticamente con le truccate quinte delle giravolte, dei crocicchi, con trine e merletti di pietra: questi svolazzi di pensiero assente!
Ti accarezzano dolcemente questi veli tufacei di cui si veste questa cameriera sensuale che ti si offre coi suoi seni emergenti, come le cipolle rigonfie dei suoi balconi…. e ci si ritira in una alcova che sa di acqua santa, di oratori, di pulpiti, di desideri inconfessabili nei confessionali!
Qualsiasi luogo anche un chiostro, un angolo nascosto basiliano, una cella fratesca o dietro agli androni dei palazzi, sui tufi in rovina nascosti dai garofani… dove i corpi accettano le percosse dei raggi in amplessi di note in fuga.
Dolcezza è verde maniera che mi conduce all’ odio, ad un uscirne fuori per non ammalarsi di piscio ospiziale, di movenze gattesche, e che il tutto resti nel ricordo esiliato è una destinazione che muta la mia carne in cartapesta, fissa il gesto ancora non compiuto, la parola non finita, la visione interrotta… il suo mistero mi opprime… non mi
restano che avanzi di volo nelle teche!
Città flessuosa, di odalische contorte e confuse, di passioni notturne spente nel meriggio… soffocate di madonne ai crocicchi, e le ricordo quelle puttane ai bivi, trivi e quadrivi, le ricordo quegli occhi di madonne pinte dal celeste cielo! E ricordo la testa decollata del santo rotolante fin sotto i gradini sbrecciati e gli altari alteri a negare il suo martirio, a elemosinare un perdono!
Davanti a Sagredo, che è poi un davanti per modo di dire, almeno per una non addetta ai lavori come me, è difficilissimo dire , non solo perché si rischia la fine che di recente Lucio ha paventato ad Annamaria ( versandole il bicchiere mezzo pieno, rispetto a quello vuoto in cui poteva ruzzolare molto più malamente se, sempre davanti, avesse avuto Sagredo). Ma la soggezione che lui sicuramente incute, non è per me dovuta alla potenza/ricchezza con cui sa esprimere il suo canto, e forse posso dire così, proprio perché non ho trippa poetica per temerlo…la soggezione c’è maè più una commozione, è come quella che ti prende davanti alle tracce classiche o barocche, antiche o semiantiche, di un paradiso perduto o anche solo di un inferno migliore che si appalesa in una via o una storia della tua città….ed è una commozione “teatrale”, perché anche se stai di corsa, o stai leggendo un vetro ben poco classico o neoclassico o barocco, d’improvviso senti che qualcuno ha messo una musica , una danza, li senti sulla pelle certi veli che si muovono, sipari che si riaprono , d’istante sei seduta nella tua poltroncina, che tu sia da sola o ci siano altri che come te non hanno dovuto prendere il biglietto, ben poco conta, sei così presa da quel canto, che è proprio come se avessi davanti tutte le città delle pietre , ti fa scoppiare dentro la memoria di ogni respiro e se il canto smette fa sparire di botto i vaghi ciotoli del tuo ultimo ossigeno smeraldo, ognuno ha la sua Lecce , credo
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ps
l’accatastarsi da Campana a Ruggeri, ha sicuramente accelerato il moto di cui sopra anche se l’accostamento ai notturni di Chopin non è stato proprio il massimo, almeno per me…lo dico come capacità ad corrispondere alla potenza musicale di Sagredo stesso. Non dico che il barocco e il seicento avrebbero richiesto monteverdi o Purcell o altri analoghi, e capisco anche la necessaria “finzione” musicale poetica adottata da Sagredo che visto il tipo che è (lo dico con sorriso) , più che strappalacrime direi strappaterra, ma ho immaginato altre onde per poter potenziare i suoi( di Sagredo) notturni..
Oh dov’è la mia pace!?!?! Se ne è andata in questi meravigliosi e stravolgenti versi! che dire di più di ciò che ha detto Rò. Un vero teatro di potenti luci, parole, sguardi ed io che conoscerò Lecce fra non molto (devo recarmi lì) avrò già dentro l’impressione e le musiche di Sagredo. Grazie.
si, ma se io avessi menzionato un musicista barocco, qualunque europeo specie del barocco boemo – eccelsi alcuni! – in cui mi ritrovo quasi pienamente… nulla avrei detto di nuovo o di diverso! – Con Chopin invece o altro della sua epoca ( ma Chopin innanzitutto e per il suo pianoforte defenestrato dai russi invasori in una notte varsaviana) ho realizzato l’ostraniene (lo straniamento “formalista” o effetto Kulesov nel cinematografo!)…
non solo il Tempo ma il luogo! E poi le è sfuggito quel mio “perfino”…
a. s.
..no, non mi è sfuggito 🙂 , il persino, però l’effetto Kuleshov solo uno studioso super talentuoso, anche di madre russia, come lei poteva spianarmelo e rimontarmelo con tale disinvoltura…ricordiamo comunque perchè il volgo a cui appartengo che Kuleshov è stato anche uno dei maestri del piu noto Ejzenštejn , ergo per la musica Šostakovičm che se vogliamo dare altri “piani”, sempre a rimontato contrasto , non sarebbe andato male come accostamento ai suoi notturni…comunque, per quel che può interessare la mia colonna, o il mio montaggio musicale mentre la leggevo non era barocco, ma jazz , con piani visivi del tutto opposti alle pietre di lecce e non solo per questioni geografiche…
Tutto sommato sono versi della metà anni ’70, e mi meraviglio come possono ancora “meravigliare”. Erano fuori tono allora, e ora lo sono ancor di più. Ma deve sapere che 20 o 30 dopo, proprio a causa di questi versi che ho giudicato “preparatori” sono giunto a una forma completamente diversa. Sono un “far versi” tardivo, ma devo dirLE consapevole, almeno oggi, di aver fatto qualcosa.
Si, di Sostakovic o addirittura Schonberg m’hanno detto (Sylvano Agosti), specie dopo la lettura della mie “Legioni” (1989); ma c’è del jazz “velato” specie in alcuni versi teatrali! – Comunque legga (se non ha letto già) di Viktor Sklovskij lo stupendo “Sua Maestà Ejzenstejn” ed.De Donato, 1974. (difficilissimo a trovare, ma non si sa mai)
(mi scusi gli accenti che non so come metterli, qui).
Carissimo figlio di grande madre Japigia, più precisamente sua Messapia ma anche Russia, Lei è davvero come una luna dentro un pozzo così scavato , ma così scavato e riscavato sotto ma soprattutto a lato, largo largo che il secchio volteggia ballando sulle punte della luna dentro le acque di un anfiteatro …così i suoi prepararativi preparatori che Lei sarà pure da temere, e sarà pure un po’ burlone e un po’ narciso, ma fa cose magiche perché con un solo alfabeto fa parlare tutti gli altri, da un linguaggio all’altro della poesia, oltre la dodecafonia, nei versi o nelle note, nei fotogrammi o nei dipinti o sculture fin dalle semplici pietre. E quindi trovo “giusto” perdersi, nel sorriso che ha prodotto in me – ergo un nulla rispetto al suo grande spirito- quando ha confessato che non sa, che le non saprebbe come mettere la bellezza di quelle insenature, al mare di quelle “lettere” che sa e sa così tanto e come, da esserne un faro. Le svelo un segreto che non richiede alcuna durezza e fatica dei suoi scavi profondi profondi e larghi larghi …a parte certe tastiere che possono essere impostate e spostate r irspostate su questa o quella lingua, per inserire in un testo realizzato in italiano o con tastiera impostata in tal senso, basta andare sul mitico gugol, che purtroppo non è come il nostro amico Nikolaj Vasil’evič Gogol’ ….dopodiché, “digitando” ( che suono orrendo, nevvero, il pronunciare o scrivere “Digitare”) l’autore o la parola neanche direttamente in russo, o bulgaro o serbo o insomma cirillico , ma quasi come semplicemnte scrivendo “Gogol”, le vengono fuori tutte le pagine da wiki a siti un po’ piu letterati ( ma a questo scopo basta il primo) evvia! si trascina il topo evidenziando la parola da copiare per trasferirla, incollandola, nel testo che sta realizzando…sa quanto è stato più prezioso lei dicendomi “Sua Maestà Ejzenstejn”? Oggi passo da Sormani per le ricerche…
un saluto a Lei , Emy, Annamaria e Giuseppina
rò
… a debita distanza, propongo qualche pensiero sulla poesia di A. Sagredo. il poeta ci regala una dorata fantasia di chiaro-scuri sulla sua città, un sogno rimasto inalterato attraverso lo smeraldo dei suoi occhi, ma quando la trasfigurazione svanisce diventa un teatro di cartapesta, ma sempre teatro. I personaggi vivi di una volta, attori e attrici magistrali, lui stesso maschera dei misteri, l’illusionista, si muovono a creare e a disfare, angoli preziosi e inferni, giravolte a cui anche gli astri giullari sono chiamati e i cieli rosa celesti, quali fondali di perlacei merletti barocchi…
A. Sagredo, gran maestro di teatro, lascia forse indietro i poveri diavoli di oggi, ma la sua poesia giganteggia di suggestioni, ricattura il potere dell’artista demiurgo. La sua poesia tratteggia, disegna, scolpisce una città davanti ai nostri occhi, qui ora
La colonna sonora di Ro esalta il ritmo di questa Città e la rende, se possibile, ancor più fresca e viva.
Intensissima città questa tua, Sagredo. Il tuo sguardo, a 360 gradi, ne abbraccia e svela ogni aspetto tra fuori e dentro, tra un io e un non-io; tra passato e presente, ne riscopri il carattere mettendo in mostra la sua ‘insincerità’ al limite tra odio e amore.
ai lettori di questo blog, colpevole la mia generosità:
dal mio racconto picaresco “l’Arrabbìco” (1977-81) questa paginetta che dice dell’entrata di alcuni personaggi nella città di Lecce per Porta Napoli…. così entro in quella “pietra”… è solo un esempio o come volete un assaggio:
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Sulla stretta ed erta facciata dell’obelisco illune a stento potevano osservarsi i rilievi da quella distanza: il tufo s’era sgretolato per l’acido storico rendendo fuse le varie vicende d’un lontano tempo, scolpite. Il musco col verdastro potere che lo distingue e lo esalta s’era installato in quelle piccole fossette sostituendosi, arrogante, al materiale tufaceo inconsistente. L’impresa della pianta era pazzesca: lenta, cocciutamente paziente e tenace era nell’opera di restauro quale a lei forse aveva prefigurato la natura stessa, mentre in altri luoghi, sfacciata e indifferente, v’era cresciuta senz’ordine, imberbe e ribelle.
Sballóni, indossavano insolite fute merlettate di turchese, danzando torno all’obelisco striato di mercurio, e appena appena scorgevi ondulante il nero nicchio dell’acidulo foràneo in compagnia d’una rificolona che invece civettava strabuzzando gli occhi gialli a un anziano abbachista. Servile, come un Anguillesi, gli porgeva la mano insolita, cerulea nel rattrappimento, quando all’ombra dei rosari parlottavano di oscuri affari chiesastici o ecclesiastici.
E un falò luminava i volti di mirtillo d’un quarto e a strisce un campo gleboso e colmo di cocci di creta o di aretino dissotterrati, che un accademico guffaggio, frenetico furioso, goffamente cercava di impilaggiare. Costui per una commozione mal calcolata non riuscì più a numerare i pezzi antichi, e tanto s’adirò, collerico fremente, che si strafogò decine di bazzotti, e richino, e infenso, monologandosi, e spruzzando ad ogni passo il misero pasto serale di palmento, maledisse i suoi studi d’accademia ufficiali e no, le infinite pubblicazioni e i brillanti successi librari.
Si intestardì fisso allocco davanti a un glifo ionico e ci rimase secco per morte artistica, si disse.
un furtarello non è poi un delitto
se i professori hanno rubato ai morti
(pag. 88)
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(così io e i miei personaggi ce ne uscimmo dal libro abbastanza schifati!):
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Si stediò del tutto.
Raccolse i corti e lunghi chiavelli ovunque, si riempì le vaste tascacce di balistìte di masùrio di rubìdio di scandio, e pregò, il grottesco, fingendo una vana sofferenza, Eolo affinché mutasse il favònio in gherbino, poi, spossato, cadde: le tibie e le ulne volarono, e finalmente riposò.
Si rammentò, campione di puglia e di tobòga, le tormentose e applaudite fanfaronate nei vari teatri di provincia, bissate, volute per ostentare una vocazione da cantambanco, leviatano affetto da lacrimosi, il pericoloso artista acrobata cantava storiuzze sentimentali d’orfanelle di miserabili di vinti: una serietà nella comicità, credeva, un successo universale!, con bombetta e bastoncino, credeva: guitto! fellone! nemmeno un fenomeno da baraccone!
Scimiottava invano il Senzasorriso.
Ancora non volava e già era un santo.
Udì il lavorìo incessante acquoso dei margóni presso la villa, afferrò il robusto paradello e, canguro inaudito, strapieno d’esplosivi, a salti s’avviò, scaricando quei tre sgravidati della sua persona ingombrante, e stupefacendo i presenti, lì, casuali passanti indigeni per tanta maestria d’imitazione provata.
non lasciate, figli miei carissimi, che questo libro
vada per le mani della gente.
(pag. 139)
antonio sagredo
Roma, settembre 1977- ottobre 1981
Quant’è femminea e dolce questa Lecce, «torta barocca» ( che sembra una gonna: «con pizzi e merletti»), «frusciante cameriera» (del piacere maschile?) di Sagredo. E quanto alla dolcezza femminile ( della città) sta di fronte l’odio (giovanile) che tenta di esprimersi, sì, ma «con dolcezza». Dolcezza che però non riesce a prevalere se il «portatore di reliquie» ne mette in vista a inizio poesia («Verde nella parola e nell’inganno!») e in conclusione («Lecce, hai le movenze di una verde puttana!») una *verdità* ingannatrice [1] e se «i chiostri annusano la testa mozzata di un Oronzo!» ( Credo si riferisca a «Sant’Oronzo, patrono leccese, che unitamente ai suoi amici o famigli Giusto e Fortunato ebbe la testa mozzata sotto Nerone») e se il suo [di Lecce] «rogo di papaveri/ è un ricordo di Vanini!» ( per un veloce ripasso cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Giulio_Cesare_Vanini).
Il commento, che finalmente Sagredo si è concesso, dice molto anche del suo giovanile rapporto con la città ( io direi col femminile della città). Di una sensualità marchiata di una merdionalismo cattolico («di acqua santa, di oratori, di pulpiti, di desideri inconfessabili nei confessionali»). E qui sento una forte vicinanza alla mia «salernitudine». C’è anche in me – forse è un vissuto degli immigrati dal Sud?– sia il termine ‘cartapesta’: « Poi con violenta e non databile lacerazione, città e presepe si svilirono a mondo di cartapesta.» sia la fatica dello stacco.
Sagredo scrive: « Dolcezza è verde maniera che mi conduce all’ odio, ad un uscirne fuori per non ammalarsi di piscio ospiziale, di movenze gattesche».
Io ho scritto: « Là, nel sud della mia mente/nel seno sfatto dei vicoli/ riconosco apparenza e vigore del mio odio/non troppo lontano dall’ascolto d’amore». Oppure: « Fossi rimasto /quanta untuosa la mia cattiveria / immalinconita la solitudine /cadenzate d’invidia le lamentele». O ancora: « Antri umidi, buio, scalette /sporche e puzzolenti./ Rapacità senza respiro./ Merda, piscio, urla e lupanari:/ incollati ornamenti / addosso a palazzoni fraudolenti».
[1] Eppure leggo che il verde è « il colore della Natura, del mondo vegetale, è vita, crescita, fortuna, gioventù, primavera, fertilità e religione. E’ il colore delle forze equilibrate, il colore dell’evoluzione della mente e del corpo. E’ un colore neutro, rilassante, favorisce la riflessione e la calma, è il simbolo dell’ amore.»
Che fantasie, che effervescenze!
Il verde soccombe nelle tasche di un figlio che ha perso il lavoro.
Bello comunque il parallelismo, davvero bello e non dico interessante dico bello!