Può valere la pena che chi si occupa di poesia ogni tanto dia un’occhiata anche a quello che dicono gli specialisti accademici (di metrica nel nostro caso) evitando lo “snobismo dal basso”? Credo di sì, anche se dal resoconto del convegno sulla metrica di Filippo Grendene, un giovane studioso padovano che ha seguito quei lavori, emerge soprattutto la sottolineatura del punto di crisi in cui si dibattono anche gli studi metrici: “La possibilità che gli strumenti della metrica non siano in grado, appellandosi alla lunga tradizione di studi, di rendere conto di alcuni fenomeni della più stretta contemporaneità, è rimasta sostanzialmente inconfessata, e fa tutt’uno con il dubbio rispetto a una mutazione della poesia nelle strutture più profonde”. Forza poeti, che ve la dovete sbrigare da soli…[E. A.]
di Filippo Grendene
1. Fra il 27 e il 28 novembre si è tenuto a Padova il convegno di studi La metrica dopo la metrica. L’obbiettivo dell’incontro, un pomeriggio e la mattina successiva, è sintetizzato nelle richieste rivolte ai relatori ed esplicitate da Raffaella Scarpa nel proprio intervento: si trattava di «affrontare da punti di vista diversi la metrica della poesia del secondo Novecento, evitando le monografie metriche su un solo autore»; di fare il punto, più in generale, sulla presa degli strumenti della stilistica e in particolare della metrica sulla poesia post-montaliana, sugli autori della cosiddetta terza generazione.
2. Vanno tenuti presente alcuni aspetti che hanno caratterizzato intenzioni e organizzazione di questa iniziativa: i promotori sono stati critici e lettori giovani; la cornice padovana rimanda a una scuola di studi metrici fra le maggiori in Italia, cresciuta attorno alla figura di Pier Vincenzo Mengaldo. La provenienza eterogenea dei relatori, per quanto riguarda correnti critiche e università, e la sostanziale assenza – fatta eccezione per il giovane Morbiato – di interventi provenienti dalla scuola padovana si spiega con il tentativo di creare un momento di apertura e confronto in una disciplina connotata da una tendenza alla chiusura nello specialismo, nonché dall’incerto statuto nelle logiche dei dipartimenti universitari; in prospettiva, imbastendo un dialogo che, nei prossimi anni, dovrebbe condurre la discussione alle soglie di una più stretta contemporaneità.
La scelta della terza generazione (per capirsi, e in ordine sparso: Caproni, Sereni, Pasolini, Bertolucci, Fortini, Zanzotto) come centro della riflessione è determinante nell’intento di una verifica degli strumenti della critica stilistica, e al contempo ottiene l’effetto di un rilancio in avanti. Si tratta di una generazione di testi nei quali, pur in modi estremamente differenziati, è possibile rintracciare l’influsso determinante della tradizione letteraria nazionale, individuare genealogie talvolta illuminanti, osservare nell’uso del verso libero una (debole) portata contrastiva, di rottura, o comunque un dialogo vivo coi metri chiusi, non percepiti come alterità assolute, impraticabili. La stilistica oggi in Italia affronta i poeti della terza generazione con una certa sicurezza, dovuta per un verso alla lunga intimità non solo con i maggiori, d’altra parte suffragata dall’oggettiva capacità di lettura che strumenti d’analisi tarati su metriche tradizionali tendono a conservare rispetto a poesie che, con le medesime tradizioni, mantengono un rapporto.
3. Tuttavia, oltre a questo confine lo spazio è poco conosciuto, gli appigli traditori. Il verso libero dei poeti successivi a tale limite generazionale tende a perdere ogni riferimento al campo tradizionale, ad esempio alle misure dell’endecasillabo e del settenario. Bisogna ricordare che due fatti che appaiono identici e sovrapponibili non per forza lo sono. Un verso libero che si costruisce in relazione anche contrastiva rispetto alla tradizione non è la stessa cosa rispetto a un verso uguale (si intenda: dal punto di vista dell’isosillabismo e della prosodia) privato di questa referenzialità. Un dodecasillabo di Sereni potrà essere messo in relazione a Montale; la stessa cosa varrà molto meno, o quantomeno comporterà significati differenti, poniamo per Magrelli. Gli studi metrici concentrati sul verso e sull’accentazione, vero cuore del dialogo, tendono a esitare oltre la linea della terza generazione, azzardano ipotesi coscientemente parziali che trovano riscontri non esaustivi. Affrontare in questo convegno la terza generazione, nella quale i semi degli ulteriori sviluppi del verso libero sono già contraddittoriamente presenti, ha significato ipotizzare ulteriori momenti futuri nei quali mettere a fuoco la contemporaneità più diretta; scommettendo sulla validità di una critica stilistica e metrica – anche al di fuori delle categorie ‘classiche’ della disciplina – rispetto al passato immediato e al presente.
4. La possibilità che gli strumenti della metrica non siano in grado, appellandosi alla lunga tradizione di studi, di rendere conto di alcuni fenomeni della più stretta contemporaneità, è rimasta sostanzialmente inconfessata, e fa tutt’uno con il dubbio rispetto a una mutazione della poesia nelle strutture più profonde. La necessità esplicitata da molti rispetto a una storicizzazione dei fenomeni, al tracciare linee di faglia rispetto alle quali collocare fratture e (meno spesso) continuità, sembra presupporre una rottura, sempre nella cornice metrico stilistica, in questa direzione. Gli interventi degni del maggior interesse hanno implicitamente riconosciuto la necessità di ricalibrare gli attrezzi del metricologo, verificandoli e integrandoli con discipline più o meno prossime: musica (Colangelo), traduzione (Giovannetti), sintassi e retorica (Morbiato). L’ipotesi di quest’ultimo si propone di rendere conto della permanenza del verso, di quel bianco tipografico a destra del testo che indica, con Fortini, «qui poesia». Esso rimane, anche in regime di verso libero, come segno distintivo del testo poetico, nel momento del crollo di una metrica riferita al verso di stampo tradizionale, e dell’invalidarsi dell’insieme di regole di versificazione prescrittive od orientative o ancora presupposte nella loro cosciente violazione. Tale forma, tale bianco che, come è stato scritto, rimarrebbe l’unico baluardo all’indistinzione di prosa e poesia, nella lettura proposta sarebbe da spiegare individuando ogni volta (per ciascuna poesia, ovvero per ogni autore) una dominante rispetto alla presenza della forma verso. Tale dominante potrà essere propriamente metrica e quindi da mettere in relazione a concetti quali sillaba, endecasillabo, accentuazione; tuttavia, la lunghezza del verso libero potrà essere influenzata, in una ‘metrica relazionale’ (cioè che entra in relazione con – ed è condizionata da – altri elementi del discorso, non propriamente metrici), meno dal riferimento alla tradizione che da un dialogo serrato con elementi quantomeno di sintassi della frase poetica, o di retorica.
Per quanto riguarda la metrica del verso, la relazione di Colangelo, pensando il legame storicamente forte fra poesia e musica, ribadisce la necessità per la metrica di confrontarsi con la teoria musicale, prendendo ad esempio i concetti fatti propri dai metricologi di ‘tonalità’ e ‘atonalità’. Se la tonalità è un costrutto musicale d’impronta cartesiana che mira al tentativo di una ricomposizione in un tutto organico, attraverso una progressiva soddisfazione delle attese, ed è un fenomeno che anche a livello metrico trova un preciso riscontro nelle forme della tradizione; allo stesso modo, la mancanza di soddisfazione fattasi sistematica si costruisce in un sistema atonale che ha riscontri anche a livello di verso libero. Ad esempio il critico porta i testi della Rosselli, che nella costruzione poetica sfiorano tutti i gradi della scala tonale, tutte le variazioni anche non canoniche, nell’idea di un fare poetico come orientato quale discorso ampiamente antropologico.
5. Spostando l’attenzione dalla metrica del verso alle forme metriche, un ragionamento comune a molti interventi ha investito la ripresa di costruzioni chiuse negli ultimi decenni del Novecento, quasi una reazione all’estrema apertura del terzo quarto del secolo. Piuttosto che considerare i neometrici e comunque discutere il rinnovato interesse da parte di poeti più giovani per metri e forme chiuse, gli interventi hanno preferito concentrarsi sulla produzione tarda di alcuni autori appartenenti al periodo in esame, osservando ritorni e riusi di forme tradizionali. In particolare, Giovannetti ha messo in relazione l’involuzione metrica dell’ultimo Raboni, iniziata già negli anni Settanta, con l’attività di traduttore e con tutti i rovelli metrici che il tradurre pone, obbligando a rendere una forma che si situi rispetto a una lingua e consideri i livelli linguistici di partenza e di arrivo. Lavezzi invece, dopo una ricognizione ad alta quota sulle riprese di forme chiuse nel secondo Novecento – e quindi Raboni Fortini Pasolini Caproni Penna fino a Balestrini – si è concentrato sull’ipersonetto di Zanzotto, ricostruito nella sua genesi attraverso lo studio delle carte e dei tentativi dell’autore, custoditi nel fondo manoscritti di Pavia. Il significato si gioca su una ripresa al quadrato, per cui ad esempio nelle intenzioni prime la composizione avrebbe dovuto contare quattordici poesie, quante i versi del sonetto.
Una problematica, solo apparentemente opposta, è la presenza in diverse misure di inserti in prosa nelle raccolte di alcuni degli stessi poeti, di cui altri interventi evidenziano una tendenza al ritorno su forme chiuse. Senza mettere in relazione le due tendenze, l’intervento di Zublena ha notato l’apparire di simili inserti nella poesia contemporanea a partire dalla Bufera (ma già nel secondo Finisterre, del ’45) in un crescendo fino agli ultimi decenni del Novecento, con presenze in raccolte di Pasolini, Betocchi, Fortini, Caproni e Raboni. Rimane interessante l’ipotesi di un addensarsi del significato in queste prose, spesso collocate in posizioni di rilievo nelle sillogi (Zublena fa l’esempio estremo de L’ordine e il disordine di Fortini), unito però a un’oscillazione ampia del tono stilistico e linguistico, e a una concentrazione dell’elemento autobiografico negli ultimi decenni, in testi successivi alla terza generazione poetica.
6. Per quanto riguarda le forme della poesia, in generale, le relazioni hanno faticato nell’oltrepassare il solo rilievo; vizio che si unisce alla richiesta, parzialmente disattesa, di evitare la singola monografia metrica – rischio sempre presente nella forma-convegno universitaria. È mancata in genere una tensione che unisca storicizzazione e sintesi, peraltro invocata più o meno esplicitamente da molti interventi – e qui si esce dal campo dei discorsi sulla sola problematica della forma della poesia. Tuttavia, una serie di questioni è stata posta chiaramente anche, in controluce, da alcune carenze, e considerando il convegno come l’inizio di un ripensamento orientato alla contemporaneità degli strumenti della metrica, assieme al dato del pubblico, composto soprattutto di studenti interessati senza coercizione, si possono trovare i presupposti per l’avvio di un percorso interessante.
Non vorrei che, sapendo ormai quasi tutto della matematica che sta alla sinistra del foglio, le future interpretazioni s’incentrassero sul bianco restante: il «qui poesia» indicato da Fortini come segno distintivo del testo poetico.
L’unico modo per dare una mano agli enigmisti è quello di riconoscere che l’endecasillabo è ancora ben presente in molta poesia italiana. Lo si può riconoscere facilmente anche quando è nascosto in versi brevissimi o lunghi, e talvolta anche tra un punto e l’altro della prosa poetica.
L’esercizio metrico-artigianale ha di buono che obbliga alla costruzione consapevole e voluta del periodo, nonché a all’accorta scelta dei vocaboli. Ha valore propedeutico. Se protratta fuori tempo, vuoi per amore della storia e della tradizione o per appassionata ricerca stilistica, comporta secondo me il rischio di imbellettare il classico. Bisogna starci attenti. La poesia non ha anima storica, e indipendentemente dai rapporti con la contemporaneità è comunque azione nell’immediato, nel qui e ora.
I poeti si complicano sempre la vita, creano e disfano schemi, non li fermano nemmeno le esigenze della narrazione e del significato. Disarticolare il linguaggio ( crearsi degli handicap, diceva Carmelo bene), può essere un modo per procedere verso l’ignoto ( di sé, del mondo).
Capisco che si possa provare amore o nostalgia per endecasillabo e settenario ma, che si sia d’accordo o meno, coi suoi tecnicismi informatici la cibernetica sta influenzando notevolmente i linguaggi e non basta fermarsi a dire che si tratta solo di perfido linguaggio massmediatico o di colonialismo culturale.