di Giorgio Mannacio
A volte gli alberi, ignari, protendono i loro rami oltre il confine entro il quale sono stati piantati dal loro proprietario. Capita, dunque, che i loro frutti vadano a cadere sul terreno di un altro. I frutti, infatti, seguono la legge di gravità e si affidano al suolo. Anche loro, ignari come le piante che li hanno generati, non sanno a quante complicazioni si vada incontro per questo evento naturale. Non facevano eccezione ad esso, prima che venissero eliminati, i severi ulivi intorno alle mura bianche del cimitero campestre. Al tempo cui si riferisce questa semplice storia – anni di guerra, quella nota come Seconda guerra mondiale – molti di questi alberi si chinavano oltre il muro bianco verso silenziosi e immobili abitatori. A proposito del problema a chi appartenessero i frutti caduti su di loro – se del proprietario dell’ albero ovvero a quello del suolo – esistevano due usi opposti. Nel paese di cui sto parlando e che tra poco scomparirà esisteva quello espresso in una formula breve ed incisiva : “dove pende brucia “. Essa significava che i frutti caduti appartenevano al proprietario del terreno sul quale erano andati a finire. Il Podestà del piccolo paese destinato a scomparire era molto orgoglioso di applicare tale principio. Nel paese vicino ( appena cinque chilometri di distanza ) ed anch’esso destinato a scomparire, vigeva la regola opposta : “ dove pende, rende “ . Essa comportava la conseguenza che il proprietario degli alberi potesse andare a raccogliere i frutti di essi anche sul terreno del vicino. In quest’ultimo paese, ovviamente, si creavano situazioni di contrasto insanabili ( come distinguere le tue olive dalle mie ? ), situazioni sfociate spesso in liti che diventavano violente a fine giornata e a fine bicchiere. Occasioni di piccoli guadagni per due avvocati in fama di comunisti e guardati solo a vista. Il nostro era, dunque, un paese pacifico con regole davvero ragionevoli.
Sotto questo aspetto i nostri morti potevano stare doppiamente tranquilli.
Gli ulivi intorno al piccolo cimitero campestre furono abbattuti per fare spazio ad una scuola elementare. I piccoli scolari, dunque, ogni mattina potevano vedere le mura bianche del cimitero e non occorreva che il prete di religione insegnasse loro: memento mori.
Ma anche questa scuola è destinata a scomparire.
All’abbattimento degli alberi seguì la ristrutturazione del cimitero. Geometri e capomastrI locali si avventurarono su linee classiche: colonne spezzate, capitelli dorici, jonici e corinzi sparsi sul prato, tempietti … I vecchi morti furono trasferiti in un ossario comune con la semplice data dell’operazione. Sorte comune subì, ovviamente, il “ germanese “.
Così l’aveva definito un personaggio locale , il primo che lo vide arrivare sulla strada bianca cioè non asfaltata, fonte di indomabile polvere. Personaggio guardato con un certo
rispetto: era stato in Germania a lavorare. Pensava che se gli abitanti dell’Inghilterra si chiamavano inglesi quelli della Germania meritassero un analogo trattamento linguistico.
Germanese rimase scritto sulla lapide di Hans, fino al suo trasferimento. L’idea era stata del solito Podestà, per un misto di leggerezza e di pietà, e l’iscrizione non fece più sorridere gli istruiti del luogo ma li portò solo a sussurrare: povero figlio.
Era stato, prima, una – una non poi tanto baldanzosa – creatura del Terzo Reich, in fuga dalla Sicilia lungo lo stivale d’Italia. Arrivava, nel paese destinato a scomparire, a bordo di una motocarrozzetta Zundapp, mimetizzata. Guai chiamarla sidecar, guai a chiamare abatjour il paralume. Mussolini lo aveva proibito, assieme ad altre cose e il nostro maestro si atteneva.
Le difficoltà maggiori le ebbe il personaggio locale la cui conoscenza dell’italiano e del tedesco si equivalevano, ma Hans parlava un italiano corretto col quale insisteva perché il personaggio del paese o altri indicassero a lui e al suo compagno di esplorazione (la loro colonna seguiva ) un passaggio interno – una strada secondaria – che evitasse la costa.
Non c’era alcuna strada ma Hans cortese e fermo insisteva. L’inesistenza di essa fu confermata anche da altri subito accorsi. Tra questi il nostro maestro. Sciamammo grati alla guerra che ci offriva un’ora di libertà. Cosa sapevamo di essa?
Hans si mostrava non tanto certo della natura falsa e menzognera degli Italiani quale razza quanto dell’infallibilità della carta topografica che estrasse dal suo giubbotto e distese sul muretto basso del Parco delle Rimembranze. Era questo un minuscolo giardino piantato a tigli (primo afrodisiaco il profumo dei loro fiori ) .Ma sui tronchi targhette zincate recavano i nomi dei figli di quel paesino destinato a scomparire morti in quella guerra nota come la Prima Guerra mondiale. Cosa sapevamo di essa? In pool position – come oggi si dice – c’era, ma solo per ragioni d’ordine alfabetico, quello di un giovane di 19 anni.
Dalla carta topografica tedesca risultava che la strada continuava oltre la fine del paese addentrandosi, con un colore diverso da quello della principale, tra un susseguirsi di piccole alture verso paesi dell’interno e che conoscevamo solo di nome. Occorreva dunque la verifica .
Un notabile riuscì ad assicurarsi una scassata vettura di piazza e via dietro la Zundapp. Noi ragazzi avevamo anticipato tale decisione che significava tornare per qualche ora in un luogo riservato ai nostri giochi pomeridiani e serali.
Contro tutte le carte la realtà mostrò il suo volto.
Niente strada verso l’interno. Quella principale si interrompeva per precipitare in un susseguirsi di piccole colline, vallette , tratturi , un saliscendi tutto sabbioso, impraticabile per una colonna motorizzata. Un picciolo deserto domestico.
Hans disse al compagno un paio di parole incomprensibili a tutti.
Finalmente qualcuno ricordò che qualche anno prima un Federale ( “ quello con l’occhio sinistro bendato “ ) era entrato in paese e si era diretto verso la fine di esso; si era fermato dove la strada finiva ed era ripartito per ritornare dopo qualche settimana o mesi ( forse ) con altri personaggi, alcuni quasi sicuramente tedeschi. Sì, aveva mostrato con mani enfatiche e parole roboanti che di lì a poco avremmo avuto una strada interna diretta alle montagne senza volgere ad ovest in direzione del mare. Una delle tante promesse – ma questa davvero insignificante – non mantenute.
Dopo questa spiegazione il gruppetto si sciolse, i due tedeschi ripartirono contrariati, noi restammo a giocare nel piccolo deserto domestico e i due sospetti comunisti ( che erano rimasti sui sedili di pietra dell’ l’Ufficio postale ) commentarono: “ Sono finiti; tra poco saremo liberi “.
Due giorni dopo ci fu un intenso bombardamento notturno sul mare e al mattino verso occidente stagnavano ancora nubi di fumo. Un contadino riportò in paese Hans con una coscia maciullata e il viso bruciato. In poco tempo la setticemia lo divorò. Era forse passato attraverso le putride acque stagnanti del fiume dove qualcuno moriva ancora per la terzana maligna. O, semplicemente, era stata la sua stella a guardarlo dall’alto. Morì in casa di una vedova e anche noi ragazzi – come avevamo fatto per qualche vecchio – lo accompagnammo sotto gli austeri ulivi, concedendoci durante il cammino tradimenti mentali, evasioni, che come tutte velavano il passato e nascondevano in futuro. La morte con la sua spietata evidenza circoscrive lo sguardo, lo strega, costringe il pensiero ad evasioni continue che ci portano – dove ? – davanti alla morte stessa. Seguendo il corteo pensavamo, in realtà, a quanto sarebbe durata la cerimonia. Il deserto domestico aspetta, oltre il paese. Sapevamo che qualche pipistrello sarebbe volato da sotto l’altare maggiore in quell’ora insolita a spaventare le giovani donne del seguito, con nostro divertimento.
Dei giorni successivi non ho alcun ricordo. Potrei dire così: ieri era domenica 21, oggi è lunedì 22, domani sarà martedì 23. Fino a quando esplose la notizia – la guerra è finita – diffusa dalla radio e, poco dopo, riportata nei vicoli tortuosi dal tamburo del banditore. Finita. Davvero ? Le manifestazioni di sollievo, più che di contentezza, che seguirono non mi coinvolsero più di tanto. Cominciavo a pensare a modo mio: come si può dire che sia finita una cosa di cui non si conoscono l’aspetto, le cause, le conseguenze? La luce elettrica ora veniva erogata in continuazione e permetteva di leggere fino a notte fonda, comodamente sdraiati sul letto. Ma tornavano anche i prigionieri portando loro notizie e spesso malattie inguaribili che permettevano lunghe giornate di rimpianto.
Il treno rallenta in prossimità della stazione. Poco prima ha passato in rassegna possenti archeologie come se fossero soldati in attesa di un attacco.
Hans non è stato un viaggiatore curioso e romantico alla ricerca di un cammino suggestivo e solitario ma il provvisorio ed unico superstite di una colonna militare portatrice di distruzione, morte e sopraffazione. I fuochi pirotecnici sul mare erano stati torce umane che, consumate, lasciano fumo e cenere, la sorte dell’anima che dicono immortale. L’ ultima pietra di queste mirabili colonne fu eretta con l’ultimo respiro di uno schiavo battuto a morte, non simile a noi. Quanti altri templi, quanti archi costruiremo nella pace?
L’ autunno arriva: allontana le cose, ne incide chiaramente i contorni e l’innocenza si mostra disponibile quando è perduta.
Milano, inverno 2014.
“anni di guerra, quella nota come Seconda guerra mondiale”
ritrovo in questa frase la sottile ironia che accompagna i piacevolissimi racconti di Giorgio Mannacio, almeno quelli che ho potuto leggere su questo blog.
Il tempo, che è sovrano della memoria, la fa da padrone come gli ulivi che, indifferenti ai confini delle proprietà, lasciano al terreno i loro frutti; e agli umani ogni altra questione, compresa la responsabilità di vederci chiaro in quel che è stato, che si tratti di una strada misteriosamente scomparsa, o di un’intera guerra con tutto quel che ha comportato in termini di morte e distruzione. Tutto per finire all’ultimo verso, perché di poesia qui si tratta, dove”l’innocenza si mostra disponibile quando è perduta”. Non inganni la sobrietà del racconto: si tratta di un verso che dà da pensare, un verso tremendo. Se vivessimo davvero nell’innocenza, perché allora non possiamo dirci felici?
Ottimo racconto. In fin dei conti, dire germanese rispetto a inglese, non era del tutto scorretto o distante dalla grammatica geopolitica intervenuta prima e dopo certi sbarchi, truffa della liberazione annessa e recite dell’antifascismo connesse.Poveri ulivi. Per non parlare di quelli noti messi a centro della resa e della caduta, il cosiddetto centro sinistra, ovviamente sinistra più che libera, più che liberale, insomma praticamente destra, imbalsamata o tombale o cimiteriale: ulivi pseudopolitici di prodiano, rutelliano e tanto dalemiano e napolitano inciucio, pardon innesto, con regolare appoggio diniano, tutti insieme uniti e (de e deh) benedetti, in nome del bene (della menzogna) di questa povera colonia, chiamata italia. Come allora, anche ora, parole vietatissime, giornalisti e intellettuali che ne manovrano i termini (del racconto), unica differenza è che davanti al nazismo 1.0 , si può proprio dire che in confronto alle sue successive release, questi fossero da corrida dilettanti allo sbaraglio. Un Severgnini o un Travaglio,un Saviano o un Benigni gli fanno un baffo a un Ciano, a un Gentile, a D’Annunzio o un Barilli . E’ la propaganda, bellezza! Poveri ulivi, dei nodi di sicilia o della terrazze di liguria, secolari pugliesi, o fiesolani.
cercare di decodificare tempi e luoghi mi ha dato piacere, ma naturalmente non ci sono corrispondenze biunivoche
però non credo si possa ignorare la palestina, mentre si legge
Lo stile narrativo di Giorgio Mannacio è così.
Ce ne aveva dato un’altra prova con il racconto “Oltre cortina” del 17 novembre scorso, sempre su Poliscritture. Ma questo qui, pur accompagnato da una venatura di humor, è ben più complesso e più tragico.
G. Mannacio con il suo racconto ti seduce, ti porta in giro nei suoi percorsi di pensiero e, nel mentre ti guardi attorno, tutto compreso nella storia del viaggio, e ti fai un sorrisino alle contrastanti filosofie sul destino delle olive, ti mette in tasca, ora prendendo di qua e ora prendendo di là, frammenti di esperienze dure e difficili, di un periodo storico duro e difficile. E’ come quando ricevi in prestito un libro da qualcuno e ci trovi dei segnalibri e ti chiedi: “Toh, guarda! Chissà che cosa di interessante avrà trovato qui!”
E l’artificio delle piante degli ulivi non è che il fondale scenico in cui si recitano momenti di vita vissuta, colpi di teatro come l’idea dei pipistrelli che escono da sotto l’altar maggiore, e l’invenzione linguistica dei ‘paesi destinati a scomparire’, che è invenzione e realtà assieme. Oltrechè la storia di Hans, il germanese.
E fa sentire noi dentro in quel “che cosa sapevamo di essa?”, nè colpevoli nè innocenti, ma comunque trascinati dall’autunno che arriva – che non è legato solo agli anni anagrafici ma ad un modello di mondo che si sta ‘esaurendo’ (non mi vengono altre parole) – a fare i conti con *tradimenti mentali, evasioni, che come tutte velavano il passato e nascondevano il futuro*.
Dove andranno a finire i nostri semi? In quale campo? Seguiranno l’eredità delle fronde (il tronco comune) oppure matureranno in terreni altri?
Trovo splendida la notazione del personaggio Hans con quel germanese il cui suffisso (-ese) da noi ha anche un risvolto denigratorio. E invece, nella notazione di Mannacio (*Hans non è stato un viaggiatore curioso e romantico alla ricerca di un cammino suggestivo e solitario ma il provvisorio ed unico superstite di una colonna militare portatrice di distruzione, morte e sopraffazione*) c’è una nota di pietas: troppo facile esaltare solo i viaggiatori che marcano il cammino, dotati di tutte le ‘virtù’, la curiosità, il romanticismo, ecc. Ci sono anche quelli che sono stati travolti, oscuri portatori di destini non decisi da loro. Innocenti? E a chi spetta giudicare!
@ Mayoor
La “innocenza” non ci può far felici perché ci manca un pezzo, quello della conoscenza. La conoscenza, quella del Bene e del Male, per tornare alle origini edeniche della “innocenza”.
R.S.
Leggo tanta poesia nel racconto e mi ritrovo sempre a cercare un po’ di solitudine per meditare su ciò che Giorgio Mannacio sempre scrive con maestria. Il giudizio come interprete principale. L’innocenza finisce fin dal primo momento in cui apriamo gli occhi e siamo costretti a fare ciò che altri ci insegnano. Meditare è necessario , soprattutto dopo aver letto questo racconto…ma… sono Emilia l’Italiana.
Sì, ma non credi che la sola conoscenza storica possa essere condizionata dall’ambiente in cui viviamo, dalla cultura, le tradizioni, nonché dagli interessi commerciali e politici, presenti in ogni paese? Spesso, e contro ogni ragione, le nostre scelte possono essere tardive. Anche la vita insegna. L’una e l’altra cosa insieme, per capire dove viviamo e chi siamo. Un buon esempio è il libro che sto leggendo in questi giorni: La mia Europa, di Milosz Czeslaw.
… rispondevo a Rita
A Mayor,Rita, Ro, Cristina e Emy.
Grazie dell’attenzione e delle notazioni fatte al mio scritto. Mi aiutano tutte ,nel loro variegato arcobaleno, a prendere maggior consapevolezza nel mio sapèerimetare la prosa ( che avevo abbandonato da tempo ). E, di cuore, auguri per il 2015, secondo i desideri di ciascuno. Non possono che essere buoni. Giorgio.
…Sì è prosa, ma mi è sembrata anche poesia tragica, soprattutto la parte conclusiva del racconto…C’è, con qualche sprazzo di mesta ironia, un procedere verso la tragedia…al funerale del Germanese( come dire umanese, di molti che la guerra o la vita ha stretto in un ingranaggio mortale senza vie di uscita…)partecipano anche i ragazzi, con il loro spirito leggero, che tramuta in gioco o evasione qualsiasi occasione…ma ogni pensiero umano, edificio, albero, realtà é destinato a scomparire, si evolve inesorabilmente verso il deserto quotidiano come le tante strade tracciate dall’uomo sfociano nel nulla…
Grazie Giorgio per questo racconto che mi ha molto colpito e ricambio gli auguri, nello spirito che tu hai espresso…
Annamaria
BUON 2015 AMICI E AMICHE! PER UN ANNO BUONO , BEH NON SEMPRE BUONI…Perché QUANDO CE Vò …CE Vò!