di Paul Robert Spadoni
Qui di seguito pubblico un’accurata presentazione del nuovo libro di Gianfranco La Grassa, “Navigazione a vista”, a cura di Paul Robert Spadoni. Le tesi dello studioso di una vita dell’opera di Marx sono arrivate a conclusioni drastiche per quanti nel marxismo si sono formati o ne sono stati influenzati. E anche tra chi gli riconosce onesta e rigore intellettuale non mancano perplessità e sconcerto. Sullo stesso sito CONFLITTI E STRATEGIE, ispirato alle idee di La Grassa, si leggono ad esempio queste parole sintomatiche di un assiduo commentatore: “Alla fine mi domando sempre: ma “dove va a parare” il discorso di La Grassa? Cosa ci offre di nuovo per il futuro? Non si è realizzata la previsione marxiana della formazione del rivoluzionario “operaio collettivo”? va bene! La classe borghese è scomparsa sostituita da una più anonima classe di “funzionari del capitale”? va bene anche questo! Dobbiamo abbandonare anche l’idea della classe operaia come “soggetto rivoluzionario”? Va bene! Dobbiamo abbandonare l’idea del comunismo? …mbè qui la cosa si complica e riesce meno facile da accettare specie in un periodo (come quello attuale) in cui il capitalismo (dei funzionari del capitale) mostra con sempre maggiore evidenza la sua incapacità di risolvere i problemi … intendo per la GENERALITA’ delle persone, non certo per i ristretti gruppi dominanti.” (gm:dicembre 29, 2014 at 1:44 am). A me pare giusto non fare orecchie da mercanti a un discorso scientifico e impegnarsi a conoscerlo e a discuterlo a fondo ( il che richiede studio e fatica!). Per accettarne o rifiutarne l’amaro realismo. Sulla base però di “altre ragioni” più valide (se siamo in grado di trovarne). Non per un attaccamento fideistico e passivo a un passato glorioso ma inerte. [E. A.]
A breve uscirà per Mimesis il nuovo saggio di Gianfranco la Grassa, “Navigazione a vista”. E’ un testo teorico molto denso e pregno di novità concettuali, indispensabile a superare i ” vecchi tempi” ed approcciarsi ai “nuovi”. Non ve ne parlerà nessuno, non lo reclamizzeranno i giornali, né le tv, perchè non c’è nulla in esso che sia spendibile per la caciara pseudointellettuale dominante, quella che solitamente affolla le librerie e le trasmissioni del piccolo schermo. Noi non usiamo frasi ad effetto per impressionare il pubblico belante, non ci ergiamo a paladini del sistema o dell’antisistema, che poi è la stessa cosa da sponde apparentemente opposte. Noi vi invitiamo alla fatica di pensare e alla possibilità di interpretare il mondo, fuori dagli schemi ideologici consunti di ieri che non spiegano più nulla ma pretendono di sapere tutto a priori del presente. Fate un regalo al vostro cervello ed al vostro orgoglio, compratelo e leggetelo per il vostro benessere mentale e corporale. Qui vi propongo la mia introduzione.
NAVIGAZIONE A VISTA
UN PORTO IN DISUSO E NUOVI MOLI
INTRODUZIONE
1. Il porto di partenza
In questo lavoro, sbocco di anni di studi e di approfondimenti sul pensiero di Marx e sul marxismo, Gianfranco La Grassa “parte” alla ricerca di un nuovo continente teorico in grado di rinnovare e aggiornare la nostra conoscenza del capitalismo, sistema profondamente modificatosi dai tempi del Moro, tanto che oggi sarebbe meglio declinare quest’ultimo al plurale, ovvero discutere di capitalismi, simili tra loro in alcune determinazioni fondanti ma diversi per altre caratteristiche storiche e geografiche.
La nostra comprensione dei fatti e delle trasformazioni epocali è rimasta a lungo imbrigliata in categorizzazioni non esaustive o persino errate, anche se valutate tali col “senno di poi”, all’interno di apparati teorici ben presto ossidatisi e mutati in ideologie interpretativamente mute. Lo sappiamo e ne stiamo pagando, da troppi anni, lo scotto gnoseologico, ancora alla rincorsa di spettri del comunismo che non si sono mai manifestati, et pour cause.
Per questo La Grassa decide di prendere il mare aperto, intuendo l’esistenza di un territorio scientifico inesplorato dove tante questioni insolute e mal poste potrebbero dipanarsi o almeno sceverarsi con migliore comprensibilità. Tuttavia, l’economista veneto, non intraprende il suo cammino in modo casuale, senza punti di riferimento, piuttosto salpa dal pensiero stesso di Marx, il porto tradizionale per un marxista, seppur non dogmatico, che concorre a determinare la rotta iniziale verso – così ci si augura – un altro luogo della conoscenza sicuramente denso di rischi, poiché non segnato sulle cartine sociali, ma anche ricco di opportunità, come sanno tutti i pionieri che anelano a raggiungere terre vergini e non ancora battute.
Il saggio che qui stiamo introducendo rappresenta in ogni caso uno spartiacque per chiunque vorrà, da adesso in avanti, fare i conti con i risultati scientifici dell’elaborazione marxiana per spingersi più avanti, levando finalmente le ancore da un’ortodossia immobilizzante e distorcente la realtà, oramai degenerata in conformismo economicistico e mistica propagandistica dello statu quo.
L’approccio di La Grassa in questo saggio è decisamente weberiano, almeno nel senso in cui il maestro tedesco, ne La scienza come professione, definisce lo spirito che deve animare la scienza e il lavoro dello scienziato:
“…ognuno di noi sa che, nella scienza, ciò che egli ha fatto sarà invecchiato dopo dieci, venti, cinquant’anni. Questo è il destino, anzi, questo è il senso del lavoro della scienza […] A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza.[…]Essere superati scientificamente – è bene ripeterlo – è non soltanto il destino di noi tutti, ma anche il nostro scopo.”
Ciò vale, a maggior ragione, per Marx e per i suoi seguaci, molti dei quali hanno frainteso il nocciolo della sua teoria e si sono prodotti in cedimenti che ne hanno snaturato la struttura e gli obiettivi. Dopo 150 anni non si può pretendere che il modello sia ancora integro, irrimediabilmente fissato per i secoli dei secoli, al cospetto dell’interminabile incedere degli eventi, delle innumerevoli metamorfosi e tappe evolutive del capitalismo. Questo modo di ragionare non attiene alla scienza ma alla religione. I marxisti, se intellettualmente onesti, devono invece ispirarsi alla ricerca di nuove conoscenze e all’ammissione delle imprecisioni della propria disciplina, per il superamento degli errori commessi e delle sviste a lungo riprodotte. Ed è questo il compito che qui La Grassa si prefigge.
Si tratta di schiudere nuovi spazi di apprendimento, finora trascurati o abbandonati alla mercé di forze estranee al marxismo, anche se apparentemente simpatizzanti con esso. Chi non si produce in questi tentativi non appartiene alla schiera dei giganti come Marx e nemmeno a quella della comunità scientifica, il cui compito è di elaborare teorie della realtà e dei fenomeni collettivi in grado di cogliere le evoluzioni delle fasi sociali, nella consapevolezza che il tempo scombina sempre i piani e le convinzioni più solide di qualsiasi studioso, per quanto il suo lavoro possa ritenersi preciso e rigoroso.
2. Il capitale è un rapporto sociale
Karl Marx ha insistito in abbondanza su questo concetto, nonostante molti continuatori del suo pensiero abbiano analizzato il capitale come mera cosa, cercando vanamente di scoprire nella produzione strettamente intesa, quella fatta di macchine e di uomini connessi agli strumenti, i segreti della “metafisica estorsiva” capitalistica.
Questa grave incomprensione li ha portati in un vicolo cieco economicistico, o ancor peggio contabilistico, dal quale non sono mai usciti. Molti tra questi, essendo andati fuori bersaglio, hanno finito per capitolare agli avversari, prima di farsi pienamente assimilare con scarsa autocritica.
Per La Grassa, invece, considerando il Capitale quale rapporto sociale, secondo la lettura puntuale di Marx, l’oggetto stesso dell’indagine non può essere il semplice fabbrichismo con le sue contraddizioni ma il processo di formazione del rapporto capitalistico (quindi la riproduzione delle relazioni a dominanza nelle varie sfere collettive che realizzano le sussunzioni, prima formali e poi reali, della forza-lavoro nelle unità produttive) nei suoi risvolti storici e, appunto, sociali.
La peculiarità del capitalismo, scrive La Grassa, è la costituzione storica di un rapporto che ri-producendosi crea costantemente, in ogni ambito umano, quelle dominanze relazionali e gerarchiche che sono funzionali ad un dato ordine societario. In una situazione di questo tipo nessuno costringerà nessun altro a svolgere compiti con la spada in pugno perché mansioni e ruoli degli individui discendono dal modo stesso in cui si riproducono i rapporti inter-interindividuali in società, secondo automatismi storicamente affermatisi.
Per questo, dice La Grassa, lo sfruttamento in Marx non è l’estorsione violenta di pluslavoro (nella forma astratta di plusvalore) dei capitalisti agli operai coi fucili puntati alla schiena, ma è la creazione di quelle condizioni sociali e produttive per le quali, nel momento medesimo in cui i lavoratori scelgono liberamente di vendere la propria forza-lavoro sul mercato, accettano poi di entrare in un processo in cui, non detenendo il controllo dei mezzi di produzione, sarà precluso ad essi di regolare l’erogazione della loro fatica e l’eccedenza esitata grazie a questo sforzo, ben oltre i propri bisogni di sussistenza. Questa parte, peraltro variabile nel tempo e nello spazio, costituisce il lavoro non pagato dal capitalista, il plusvalore del quale egli si appropria senza sborsare l’equivalente in denaro alla manodopera. Ciò, sostiene La Grassa, non vuol dire affatto che sfruttamento sia sinonimo di incessante impoverimento delle classi subalterne le quali, anzi, hanno avuto accesso a livelli di vita progressivamente migliori, più elevati che in qualsiasi epoca storica precedente. Sfruttamento, per Marx, non significa immiserimento e decrescita. Costui, forse con un termine un po’ improprio, ha voluto indicare un aspetto oggettivo derivante dalla configurazione dei rapporti sociali capitalistici che genera costantemente una divaricazione tra una classe privilegiata, che ha nella sua disponibilità i mezzi di produzione e può appropriarsi di una fetta superiore del prodotto sociale complessivo, ed una spossessata dei “saperi” e degli strumenti di lavoro, la quale non può far altro che accettare determinate condizioni per sopravvivere. Scrive, a tal proposito, La Grassa: “In definitiva, esso [lo sfruttamento] è il risultato di un’operazione matematica, di sottrazione. Si parte dal valore del prodotto/merce (tempo del lavoro erogato per produrlo) e gli si sottrae intanto il valore della forza lavoro che è stata impiegata in tale produzione per quel dato tempo”. Questo non autorizza chicchessia a pensare che i lavoratori debbano diventare necessariamente sempre più indigenti ed accattoni. Cresce il plusvalore sottratto, in virtù di nuove scoperte scientifiche e della loro applicazione tecnica ai processi industriali che razionalizzano il lavoro e l’uso delle apparecchiature, ma non ineluttabilmente la miseria sociale. Chi afferma l’opposto è in malafede o è un cialtrone che vuole approfittare dei creduloni, moltiplicantisi nei momenti di crisi o di difficoltà contingenti, per speculare sui disagi altrui.
Il capitalismo è l’impero della merce perché si presenta come un grande accumulo di beni. Un mondo di anarchie e fantasmagorie apparenti, eppure così reali, dove tutto è regolato dalle libere scelte degli individui sul mercato, i quali non condizionati da terzi, si scambiano prodotti in cambio di denaro, quale equivalente generale del valore di ogni cosa. Effettivamente, nel capitalismo esiste la libertà ma come libertà senza scelta e senza scampo, fuori dalla quale non c’è possibilità di sopravvivenza. Nessuno coarta la volontà dei singoli eppure non si può fare altrimenti per non finire “ai margini”, dove persino la conservazione non è garantita.
Ciò è possibile perché sotto questo guscio fatto di sovranità singolari e montagne di merci si cela un fulcro di rapporti storicamente imperativi che è la vera sostanza del sistema. Abbiamo la grande scoperta di Marx che La Grassa definisce il suo grande disvelamento scientifico.
In realtà, per La Grassa, questa libertà degli scambiatori di beni (valori), equivalenti in media sul mercato, contiene già in sé, in potenza, lo “sfruttamento” quale “legge” discendente da rapporti sociali storicamente affermatisi durante un lungo percorso epocale, che, attraverso sconvolgimenti collettivi e rivoluzioni tecniche, si è, infine, attuato concretamente nel processo di produzione ed in quello lavorativo inteso in senso stretto.
La diseguaglianza effettiva consiste nel possesso di merci diverse (i mezzi produttivi in capo ai capitalisti e la nuda forza-lavoro dei proletari, scambiata contro il denaro dei primi) che si manifesta nel processo produttivo, nella separazione irricomponibile tra strumenti di lavoro, appartenenti al capitalista, ed energia fisica dei prestatori d’opera, già privati dei “saperi” lavorativi inglobati nelle macchine, attuatasi nel passaggio dalla sussunzione formale a quella reale del lavoro nella fabbrica.
Dunque, finché vigerà lo scambio mercantile generalizzato (ed il lavoro salariato, il lavoro come merce) la legge dello sfruttamento, così come l’abbiamo specificata sopra, resterà operante. Tuttavia, questa legge non annuncia la miseria crescente dei molti sfortunati esecutori produttivi (il lavoro produttivo è una jattura, asseriva Marx!) a vantaggio di pochi privilegiati possidenti, come credono i pauperisti di ogni risma, sempre in attesa del crollo finale del mondo. Anzi, il tenore di vita degli strati inferiori della popolazione può anche crescere, come, del resto, è avvenuto da qualche secolo a questa parte. Quella che non muterà mai è la natura del plusvalore, la quale, ineluttabilmente, nel modo di produzione in questione, si “nutre” della differenza tra lavoro pagato e lavoro estorto, senza corrispettivo equivalente ai subordinati, variabile e diversamente parcellizzabile tra i protagonisti del processo, in base a contingenti rapporti di forza.
Ciò dimostra l’errore commesso dai marxisti, resi ciechi dallo “sfavillio” fenomenico del Capitale, i quali erano e sono convinti che lo sfruttamento, invece, sbocci soprattutto, se non esclusivamente, nel processo produttivo, dove, pertanto, si svolgerebbe la lotta risolutiva tra Capitale/Lavoro, tra operai e imprenditori. Niente di più scorretto perché in questo spazio angusto (fisicamente e logicamente) le rivendicazioni della classe assorbita nel processo di produzione, come parte di esso insieme agli strumenti, alle materie prime ecc. ecc., vengono neutralizzate da concessioni salariali e sindacali, per sempio quelle legate alle condizioni ambientali di espletamento delle mansioni. Come diceva anche Lenin, la classe lavoratrice risolve le sue petizioni in forma tradunionistica, perché, nell’orizzonte parziale della fabbrica in cui si muove, non può spingersi oltre la mera contesa redistributiva del valore dei prodotti che ha contribuito ad esitare.
La Classe Operaia, pertanto, è la meno rivoluzionaria delle classi esistenti, in quanto le sue legittime istanze non mettono mai in discussione le leggi fondamentali dello sfruttamento capitalistico che si collocano sul piano della ri-produzione sociale generale di detto rapporto sociale a dominanza. Infatti, Marx riteneva che il superamento del modo di produzione capitalistico dovesse avvenire per una contraddizione intrinseca ed oggettiva allo stesso Capitale, dalla quale sarebbero scaturite le condizioni soggettive di un suo rivoluzionamento.
Per Marx la progressiva disgiunzione nel processo manifatturiero tra funzioni direttive e proprietà capitalistica, destinata a distanzarsi dalla produzione, in conseguenza dei fenomeni di concentrazione e centralizzazione dei capitali, avrebbe portato da un lato alla nascita del lavoratore collettivo cooperativo (unione di strati manageriali e maestranze) autonomo per l’esecuzione dei suoi compiti dai proprietari che, d’altro canto, sarebbero divenuti una combriccola di “staccatori di cedole”, dedita alle speculazioni di borsa e al consumo del surplus sociale sub specie di rendite parassitarie.
Questa era la previsione dei Marx che, per quanto meno limitata della visione operaistica, poiché metteva al centro dell’indagine non il processo di lavoro, ma la produzione e ri-produzione del rapporto sociale capitalistico nella sfera economica, “determinante in ultima istanza”, è stata comunque smentita dalla evoluzione degli eventi.
Il capitalismo non è andato in stallo e non si è formato il cosiddetto General Intellect, l’alleanza di ingegneri e giornalieri che avrebbe dovuto, grazie al controllo sulla produzione e sulla ricchezza sociale, divenire la base di supporto di un’avanguardia rivoluzionaria della classe, capace di trasferire la sua battaglia nei gangli “sovrastrutturali” della sfera politica-statale, per dare la spallata decisiva alle caste finanziarie e speculatrici lì asserragliate.
3. Lo spirito scientifico di Marx e i necessari aggiornamenti
Chiunque abbia capito fino in fondo l’approccio scientifico di Marx non potrà che negare il suo economicismo. Il Nostro non è un “classico”, e per giunta minore, alla stregua degli economisti a lui precedenti o coevi. Marx non è un continuatore critico dell’economia politica classica ma uno scienziato interessato all’analisi delle strutture sociali, con speciale attenzione alla produzione. Nonostante la base del suo oggetto di studio poggi sulla sfera produttiva la sua problematica non si risolve in questa. Come scrive Althusser, Marx ha avuto il merito principale di aver aperto l’orizzonte storia all’analisi scientifica sociale. Il pensatore di Treviri non studia le leggi economiche paragonandole a dati naturali e immutabili secondo l’impostazione generale. Come afferma La Grassa la grandezza di Marx sta anche nell’aver distinto tra elementi generali di ogni produzione umana, validi in qualsiasi epoca storica e quelli specifici che conformano determinati periodi. Per comprendere la peculiarità del capitalismo, dice Marx, bisogna fissare questi elementi generali, validi in ogni era, per separarli da quelli particolari che sono la sua caratteristica storica. In tal senso, scrive La Grassa, “Il capitale (il modo di produzione detto capitalistico) è una particolare forma di proprietà (potere di disporre) dei mezzi produttivi (e della terra), che vede comunque sciolti gli individui da “aperta-mente dichiarati” rapporti di servaggio. Ci possono essere state forme di transizione, ma il capitale è un rapporto sociale storicamente specifico, in cui il potere della classe dominante si basa essenzialmente, per Marx, sulla proprietà ed uso dei mezzi produttivi in processi lavorativi diretti dai proprietari (in una prima fase di tale formazione sociale storicamente specifica). Il capitale non è l’insieme dei mezzi in quanto uno dei “fattori della produzione”, bensì il rapporto sociale che assegna il potere di disporne ad una classe specifica (e minoritaria). Solo se s’indaga e si conosce la dinamica della forma proprietaria dei mezzi di produzione, in quanto legata alle trasformazioni della relazione tra classe che ha il potere di disporne e quella che è priva del potere in questione, si è in grado per Marx di afferrare le stesse modificazioni interne alla società capitalistica, quelle cioè del capitale in quanto rapporto sociale. Non parlo evidentemente della presunta e prevista trasformazione del capitalismo in altra formazione sociale, processo inerente a questa dinamica, che avrebbe dovuto condurre alla fine di quel rapporto sociale che è il capitale e alla sua trasmutazione in altro rapporto (socialista e poi comunista”).
Poiché l’economicismo non è altro che il collegamento tra gli elementi generali della produzione slegati dalle loro manifestazioni storiche e poiché Marx, invece, si concentra sugli attributi e le strutture dei rapporti sociali fondamentali, in una data epoca umana, caratterizzata dalla predominanza del rapporto sociale e produttivo capitalistico, unicamente chi non ha capito la sua teoria può dargli dell’economicista. Marx, infatti, prende di mira gli economisti del suo tempo proprio colpendoli su questo punto: “Gli economisti hanno uno strano modo di procedere. Per essi ci sono soltanto due specie di istituzioni, quelle artificiali e quelle naturali. Le istituzioni feudali sono artificiali, quelle borghesi sono naturali. In questo assomigliano ai teologi, che anch’essi pongono due specie di religione. Tutte le religioni che non sono la loro, sono invenzioni degli uomini, mentre la propria religione emana da Dio. Così di storia ce n’è stata, ma non ce n’è più”.
Insomma, tutto l’opposto, come nota efficacemente La Grassa, delle robinsonate della vulgata ufficiale, il fondamento di tutto è, dunque, nella produzione-riproduzione della società, del rapporto sociale capitalistico nell’epoca presa a riferimento.
Sulla scia del metodo marxiano La Grassa allarga la visuale d’indagine operando un importante spostamento concettuale. Se per Marx la sfera produttiva resta quella determinante in ultima istanza, con quel che ne è conseguito teoricamente e storicamente, in termini di mancata risoluzione delle problematiche da noi già accennate e di errori previsionali sommariamente elencati, per l’economista veneto decisivo in estrema battuta è il conflitto strategico tra gruppi dominanti. La Grassa asserisce che le epoche storiche “…riguardano complessi raggruppamenti sociali (società, formazioni sociali), di cui isolare i gruppi che appaiono essere i decisori d’ultima istanza nel comportamento attivo di maggiore rilevanza, in quanto portatori del movimento dei raggruppamenti in questione, in genere di carattere evolutivo cioè trasformativo delle loro “strutture” relazionali interne (teoricamente fissate mediante i già ricordati “tagli della realtà” secondo particolari “fasci d’osservazione”). Diciamo che i gruppi decisori sono, in generale, i soggetti (agenti, ma appunto in quanto portatori). L’oggetto in generale è costituito dai raggruppamenti sociali complessivi (e “strutturati” come detto), cioè dalle formazioni sociali in generale (non questa o quella in particolare). Sugli strumenti o mezzi, il discorso è più complesso, meno sicuro e stabile”.
Tra gli strumenti considerati da La Grassa “più variabili” vi è la lotta per la supremazia che è tale, non tanto nella sua successione storico-specifica, ma proprio in senso logico derivando “dall’applicazione del cervello pensante alla lotta”, implicante diversi livelli di riflessione.
Ad ogni modo, l’elemento generale da fissare sembra essere lo squilibrio incessante del reale che, agendo sotterraneamente (o dietro i fenomeni visibili, si tratta solo di una metafora), provoca continui cambiamenti, spesso discernibili soltanto alla fine di una fase, a meno di improvvise rotture rivoluzionarie (comunque, risultato di lunghi processi), del mondo in superficie. Il passaggio ora si fa delicato ma dirimente per poter afferrare la novità scientifica introdotta dal Nostro.
I sensi ci spingono a pensare l’evidenza immediata dell’equilibrio sociale come il fatto più usuale, ma si tratta di apparenza. La capacità astrattiva ci segnala, invece, che l’equilibrio estemporaneamente rilevato in parvenza è il prodotto di tanti squilibri in compensazione reciproca nella sostanza. La Grassa utilizza una figurazione per spiegare meglio il punto: “Se stiamo fermi in piedi, anche sull’attenti e immobili in una garitta, il nostro corpo è sede di innumerevoli movimenti squilibranti, che si contrastano mantenendo il temporaneo e apparente equilibrio. Dopo un dato periodo di tempo ci si stanca e si cerca di mantenersi in piedi muovendosi, prima lentamente e poi sempre più velocemente, mettendo in moto squilibri sempre più ampi, finché sopraggiunge la cosiddetta stanchezza, che significa rottura dell’equilibrante contrapposizione di squilibri; e allora si casca o ci si deve sedere o ci si fa sorreggere da un altro (che così afferma la sua supremazia)”.
Individuato, sempre teoricamente, questo avvio, preso cioè lo squilibrio come elemento di partenza, la nostra azione razionale non può che ricorrere alla fissazione di un campo strutturato per estrinsecarsi coerentemente. Se ci immergessimo senza siffatti accorgimenti nel flusso del reale saremmo trascinati dalla corrente verso il niente e sballottolati fino al disorientamento più completo. Il campo viene delimitato, tra gli altri mezzi, proprio dalla teoria. Questa è un “principio pratico” dell’intelletto, ovvero insieme di “prassi astrattive” che, attraverso concetti e categorie, permettono di cogliere la “legisimilità” del mondo esterno per renderlo intelligibile, selezionando configurazioni relazionali e partizioni essenziali (o così percepite) del reale; di un reale che, tuttavia, non ha in sé né suddivisioni né nessi, essendo piuttosto un continuum di scosse e di vibrazioni.
Un altro sistema per puntellare il campo è quello dell’istituzionalizzazione, con la formazione di apparati gerarchizzati e regolati da norme e consuetudini, utili al raggiungimento di scopi ed obiettivi. Questi sistemi di consolidazione del campo (teorie, istituzionalizzazioni, creazione di apparati), col passar del tempo, diventano inerziali e conservativi. I gruppi dominanti che li controllano e li difendono, attraverso il manovramento di corpi di coercizione, non solo polizieschi e militari ma anche ideologici (pensate alle schiere di facitori di frame che demarcano e condizionano il dibattito intellettuale), mirano a limitare lo squilibrio che fa emergere competitors diretti alla loro supremazia, quali attori portatori di altri rapporti sociali. Dunque, è l’impulso squilibrante che crea le condizioni di un possibile mutamento, o meno, all’interno di una data società, determinando trasformazioni, rivoluzionarie o graduali, che coinvolgono drappelli di agenti, i quali si sentono autonomi nelle decisioni pur essendo, in verità, agiti dalla suddetta forza squilibratrice. La triade soggetto-mezzo-oggetto (che nelle varie contingenze storiche va definita e ridefinita, tenendo presente l’irrimediabile dicotomia tra i due termini estremi della relazione, perché l’oggetto non è mai sovrapponibile al soggetto, qualunque idea questo si sia fatto di quello e nonostante la loro natura comune) rappresenta allora una sorta di sistema nervoso centrale del corpo sociale che viene attivato dagli impulsi elettrici del flusso squilibrante (sempre in funzione), il quale invia, costantemente, la sua scarica attraverso il complesso di “nodi”, scuotendoli e trasfigurandoli. Del resto, affermando ciò credo di non allontanarmi troppo dal pensiero dell’autore, il quale sostiene che oggetto, strumento (mezzo) e soggetto sono della stessa natura poiché “il soggetto è comunque, in generale, un gruppo di decisori, l’oggetto è l’equilibrio originario di una struttura sociale, lo strumento o mezzo è l’impulso promanante da un gruppo decisore innovatore o difensore rispetto all’originario”. Torneremo più in là su questa questione per “risolverla” con maggiore diligenza.
In ogni caso, deve essere messa in discussione la falsa acquisizione che in principio sia sempre l’equilibrio. Quest’ultimo è, forse, necessario, dal punto di vista dei soggetti, sia che si indirizzino al mutamento dell’oggetto che alla sua conservazione, per darsi una direzione meno ambigua ed un piano più preciso, il quale tuttavia, anche quando verrà realizzato non corrisponderà mai in pieno al progetto iniziale costruito così perfettamente nella propria testa. Dietro l’angolo di questa aspettativa si nasconde, inoltre, un altro inganno ideologico. I soggetti della ipotetica trasformazione tendono a presentare, teleologicamente, il loro obiettivo come definitivo, quale realizzazione del migliore dei mondi possibili. Questo può provocare, in seguito, pericolose ossificazioni del pensiero e dell’azione, con un grave allontanamento dalla realtà e dagli intendimenti iniziali. La Grassa ritiene che sia necessario assegnare la priorità allo squilibrio, nella valutazione dei fenomeni storici e sociali, al fine di evitare di andare incontro alla morte prematura o all’invecchiamento precoce di una certa visione del modo, pur nascente come legittima e innovativa ma potendo volgere, in breve lasso di tempo, in reazionaria e retriva.
La metamorfosi del potere sociale, causata dal confronto tra soggetti e gruppi che si contendono il comando, è inevitabile. Il conflitto, nascente dalla corrente delle spinte squilibranti che sottende alle edificazioni collettive, può accelerare o rallentare ma non può mai essere arrestato perché informato perennemente dal suddetto flusso.
Siamo giunti, partendo dal disvelamento marxiano, contenuto nella legge del plusvalore, caratterizzante il modo di produzione capitalistico, ad un altro livello analitico che, andando ben oltre la sfera economica e la sua razionalità strumentale, ci apre un varco verso un diverso panorama teorico, dove domina una razionalità di tipo strategico, tutto da investigare.
Gli elementi cardinali di questo panorama sono stati individuati dal Nostro: il flusso squilibrante che investe la società e che determina un doppio livello di realtà, quella superficiale apparentemente armonica (per periodi prolungati oppure rapidamente squassata da improvvisi cedimenti, preludenti alla nascita di altri bilanciamenti precari), e quella sotterranea perennemente in trazione; il conflitto strategico per la supremazia operante in ogni ambito umano; l’essenza del rapporto triadico soggetto-mezzo-oggetto nel movimento sociale complessivo; il concetto di campo di stabilizzazione dell’azione attraverso la pratica teorica e la precipitazione della condotta consolidativa degli agenti in apparati di coercizione. Ci siamo allontanati molto da Marx perché costui viveva in un’altra epoca storica ed aveva a che fare con tutt’altro tipo di società, quella del capitalismo borghese di matrice inglese ora soppiantata, secondo La Grassa, dalla formazione globale dei funzionari del capitale (di matrice americana), articolata differentemente da quella, sia nelle sue segmentazioni spaziali (aree geopolitiche) che nelle sue stratificazioni peculiari all’interno delle formazioni particolari di cui queste aree constano.
Da questi punti, dice La Grassa, avendone ben donde dopo decenni di sonno della ragione, si riparta per una diversa conoscenza sociale, nella teoria come nell’azione empirica.
4. Conoscenza e realtà
Ogni teoria scientifica, dopo un certo numero di anni, richiede di essere aggiornata oppure di venire superata (che non significa abbandonata o buttata nella spazzatura), in virtù dell’incedere degli eventi e delle nuove problematiche che seguono all’evolversi delle situazioni, soprattutto se tale conoscenza sistematizzata, non riesce a dare più le risposte necessarie alle domande fondamentali dell’epoca in cui si vive. Questo vale anche per il marxismo che, come osserva La Grassa, è un’acqua che ha lavorato tanto ma che ormai “non macina più”. Le previsioni marxiane, circa la formazione del General Intellect, quale alleanza tra ingegneri e giornalieri nel processo produttivo, ovvero quale classe intermodale di passaggio dalla società capitalistica a quella socialistica, sono state disattese. Il capitalismo, pur trasformandosi in qualcos’altro, da noi non ancora ben conosciuto, non è crollato per le sue intrinseche contraddizioni; l’affermazione di Marx per cui la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro avrebbero raggiunto un punto in cui diventavano incompatibili col loro involucro capitalistico, è stata falsificata e non è rabberciabile, a meno di imbrogli dogmatici. Il proletariato non è un ceto rivoluzionario e nonostante i tentativi di Lenin di distinguere tra classe in sé (le masse sfruttate) e classe per sé (l’avanguardia consapevolmente rivoluzionaria), come “analisi pratica” per venire a capo di una situazione “concreta” in un contesto rivoluzionario determinato, tuttavia l’espediente non poteva modificare (e non ha mutato) la natura di questo soggetto che resta tradunionistico, in quanto prodotto del sistema capitalistico e dei suoi rapporti sociali. Fine del comunismo e di tutte le altre trasmissioni a venire, a tema invariato, che pretendono di replicare i medesimi errori. Inoltre, Marx, che scrive nell’800, non aveva ancora il concetto d’impresa, perché questa era appena ai suoi albori. C’era la fabbrica, quale unità produttiva di tipo meccanico, sulla quale egli si concentra per cogliere, puntando sull’elemento per lui fondamentale dei rapporti di proprietà, le specificità delle relazioni che si sostanziano al suo interno. Con l’affermarsi dell’impresa, sostiene La Grassa, cambia la prospettiva perché quest’ultima non è una unità macchinica operante nella ristretta sfera produttiva, bensì una cellula dello stesso tessuto sociale afferente al più vasto ambito economico. Così l’unità dell’impresa consiste: “nella sintesi operata dalle strategie del gruppo di vertice; quest’ultimo ha spesso la proprietà del pacchetto azionario “di comando”, ma tale fatto in genere occulta la caratteristica imprenditoriale decisiva rappresentata dal controllo tramite l’azione strategica. La proprietà è al massimo un supporto strumentale non inessenziale né accidentale, ma pur sempre subordinato all’uso che ne fanno gli agenti di dette strategie”.
Con il conflitto strategico, introdotto da La Grassa, si amplia la nostra visuale dei fenomeni sistemici perché viene in primo piano la “Politica”, intesa come apprestamento di un campo di lotta dove si confrontano gli agenti del conflitto, che influenzando i vari gruppi collettivi e operando in modo da tale da creare blocchi sociali di cambiamento o conservazione del potere, si contendono la supremazia. Le mosse della Politica, pertengono ad ogni sfera umana: a quella economica, a quella ideologica, a quella politica, questa volta da interpretarsi non come insieme articolato di strategie, ma come vero e proprio ambito statal-istituzionale con le sue propaggini militari e poliziesche (per questo abbiamo distinto graficamente tra Politica con la maiuscola e politica con la minuscola).
Ora possiamo ritornare al ragionamento lasciato in sospeso in precedenza, riguardo al rapporto tra soggetto ed oggetto, nella formazione globale dei capitalismi, come l’abbiamo abbozzata seguendo il discorso di La Grassa. Il tema è cruciale per capire come funzionano le strategie e la maniera degli agenti di porle in essere nel movimento storico. Quest’ultimo è il risultato di azioni incrociate, scrive La Grassa, indotte dal conflitto strategico per la predominanza. I suoi risvolti spesso sono visibili molto alla lontana, nonostante le intenzioni dichiarate dei drappelli decisori che mettono in esecuzione i loro progetti. Pensiamo alla rivoluzione russa del ’17. Il suo compito era quello d’instaurare il comunismo, passando da un periodo di dittatura del proletariato, per arrivare al massimo sviluppo dell’industria e alla maturazione dei processi di socializzazione, quale fondamento di una successiva estinzione dello Stato e delle classi. Questo scopo disatteso e fissato a priori dalla classe dirigente sovietica ha portato a qualcosa di molto diverso, seppure ne siamo stati consci con molto ritardo. I risultati non sono stati quelli preventivati ma altri ugualmente dirompenti: la costruzione di una potenza geopolitica che per cinquant’anni ha fatto da argine ad un’altra superpotenza collocata al di là dell’Oceano Atlantico. Dopo il crollo dell’URSS e la destrutturazione della larga sfera d’influenza del socialismo realizzato, con in mezzo un decennio di unipolarismo americano, è rinata, ancora su quelle macerie, una potenza regionale con aspirazioni mondiali che si rifà alla sua tradizione “imperiale”. Questi sono stati i frutti del ’17 che, in una Russia arretrata e contadina, si sono presentati come una rivoluzione socialista. In realtà, gli eventi stavano guidando i protagonisti di quella stagione e delle altre a seguire verso esiti impensabili, forse solo oggi pienamente sotto i nostri occhi.
Questo dimostra, ammette La Grassa, che il soggetto non controlla l’oggetto, non può pescarlo, cuocerlo e mangiarlo come gradisce perché questo gli sfugge continuamente dalle mani, per ripresentarsi in nuove fogge e a diversa distanza dal posto iniziale dove era stato individuato, fatto che richiede, pertanto, un’altra tattica o strategia di avvicinamento. Innanzitutto, allora, “il soggetto non è un soggetto, ma un insieme plurimo di agenti in conflitto tra loro…detti agenti sono singoli individui o gruppi, più o meno numerosi, di individui uniti fra loro (con conflitti interni “minori”) per il conseguimento di determinati scopi, sempre tenendo conto che il fine ultimo è l’affermazione di una supremazia”.
Il movimento evenemenziale è qualcosa di esterno agli individui, sia come singoli che come gruppi, non intelligibile in sé perché puro scorrimento caotico. Tuttavia, in questo flusso si addensano grumi più compatti. Sono i cosiddetti fatti che, peraltro, non appaiono a tutti di uguale consistenza. Perciò divergono le opinioni e le interpretazioni su questi. In ogni caso, per sviluppare un’azione coerente con gli accadimenti bisogna costruire un campo delimitato di apparente strutturazione. Si tratta di un modus operandi non dissimile da qualsiasi altro processo scientifico, dice infatti Picard: “La scienza è possibile solo a condizione di poter ritagliare nell’insieme del reale sistemi relativamente chiusi e considerare trascurabili tutti i fenomeni che non fanno parte di questi sistemi”. La strutturazione, ricalca La Grassa, “esige una selezione degli elementi (di grumi/fatti) da stringere in relazione onde trarre da quest’ultima un significato, del tutto indispensabile per impostare poi un’azione, che può anche essere rappresentata dal suo procrastinarla in quanto non si ritiene possibile attuarla in quella data congiuntura”. E’ il conflitto che forma i vari gruppi e delimita il campo di svolgimento di quest’ultimo ed è nel campo, i diversi agenti soggettivi entrano in conflitto per la supremazia. Dunque, prosegue La Grassa, “I nuclei [che diventano tali quando hanno consapevolezza dei propri compiti] sono gli effettivi agenti (soggetti) del processo; e l’oggetto “reale”, in senso proprio, è il magma fluido e caotico, non conoscibile nel senso attribuito solitamente a questo termine” .
Alla fine della fiera possiamo concludere, con il Nostro, che il dualismo soggetto/oggetto – col presunto prevalere dell’uno sull’altro, e viceversa, oppure con il loro contaminarsi in una sedicente unità dialettica – è un paralogismo. La Grassa ci rammenta che i soggetti sono molteplici poiché si tratta degli agenti decisori che attuano le loro strategie nel conflitto, portatori di opinioni diverse, discendenti da altrettanto numerose angolazioni con le quali essi guardano la realtà. Ognuno “trasceglie elementi per costruire (strutturando) un campo di solidità su cui disporre le forze per lottare con gli altri”. Quel che vale per i soggetti vale per gli oggetti che non sono l’oggetto assoluto ma un ventaglio di circostanze sul campo, più o meno favorevole all’iniziativa collettiva dei decisori.
5. Crisi e conflitti
Le crisi sistemiche nel capitalismo si manifestano, prima facie, con difficoltà finanziarie e possibili default che scuotono i mercati mondiali e gli assetti economici e sociali dei Paesi. Questo fenomeno è “classico” nel suddetto modo di produzione in quanto tutta la società si presenta, epidermicamente, come un grande accumulo di merci che si scambiano tramite denaro. Quando questa relazione, sintetizzata da Marx nella formula MDM, viene a strozzarsi in qualche punto scaturiscono delle tensioni a livello monetario che successivamente possono scaricarsi (non è assiomatico, perlomeno non in ogni evenienza) sulla cosiddetta economia reale (beni e servizi). La crisi si aggrava e si diffondono malesseri e turbamenti in ogni strato sociale che subisce pesanti abbassamenti del proprio tenore di vita.
Sullo sfondo di queste situazioni fioriscono innumerevoli teorie risolutive della fase di débâcle in atto che sostengono di avere la formula per invertire la tendenza, in quattro e quattr’otto, nonostante spesso gli estensori delle stesse siano stati tra i primi a minimizzare il momento di difficoltà o a non vederlo nemmeno arrivare, perché presi nelle maglie dell’ideologia dominante che sa ricompensare i professori più ottimisti e fiduciosi, megafoni ben remunerati delle magnifiche sorti e progressive del potere costituito.
Secondo Gianfranco La Grassa la crisi economica è un terremoto di superficie che, peraltro, può avere sviluppi e conseguenze differenziate. Sarebbe bene distinguere tra contingenze di labilità finanziaria e accelerazione di fenomeni speculativi in dati momenti, che passano impropriamente per crisi, dai veri e propri crolli economici, tipo 1929, i quali preludono ad una riconfigurazione dei rapporti di forza (anche passando attraverso guerre sanguinose) tra grandi potenze, determinanti profonde modificazioni nelle sfere d’influenza di queste.
La Grassa, attraverso una più cogente interpretazione, capovolge il rapporto causa/effetto che viene normalmente utilizzato per analizzare i fenomeni di crisi. Innanzitutto, dice il Nostro, il terremoto finanziario, avvertito con più timore dal “volgo” nei momenti in cui si palesa con gravi ripercussioni sul suo benessere, è già il risultato di tensioni e frizioni accumulatesi da lungo tempo sotto la crosta dei fenomeni sociali. La scossa più forte, che fa tremare la terra sotto i nostri piedi, non è la causa dell’instabilità che si allarga a vasto raggio ma l’effetto di urti e spostamenti avvenuti in precedenza, invisibili alla vista. Probabilmente, il terreno in profondità è già in via di stabilizzazione (e riconfigurazione) mentre in superficie continua a scaricarsi l’energia accumulatasi negli anni. Le teorie economiche più grossolane sguazzano tra siffatte incomprensioni, alimentando la confusione, perché si nutrono della medesima ignoranza che vorrebbero dipanare, ma solo a parole altisonanti e calcoli astrusi. Queste non giungono mai a toccare le corde reali dei problemi perché vengono disorientate dalle fantasmagorie del mondo delle merci.
Per La Grassa, al fine di evitare le illusioni ottiche del sistema, gli abbagli delle sue teorie di supporto o di contorno, bisogna accedere ad un altro livello teorico, più astratto e per questo sconveniente agli spiriti facili e faciloni di cui abbonda l’economica dominante. Sono le strategie per la predominanza, afferma il pensatore veneto, ciò che agita gli apparati di stabilizzazione del mondo esterno, le strutture politiche ed economiche di governo delle formazioni particolari o di quella complessiva globale, suddivisa per aree di egemonia. Gli apparati sono più rigidi e meno mutevoli delle strategie perché permangono più a lungo nella loro materialità, almeno apparente, anche quando dal conflitto strategico sono emersi nuovi gruppi dominanti che hanno sostituiti i precedenti, ponendosi obiettivi ulteriori rispetto a quelli di chi occupava innanzi i vertici istituzionali, plasmandone i suddetti organismi.
La questione definita in questi termini ci fa fare molti passi in avanti, a scorgere esiti ed opportunità che non sono percepibili da chi si colloca, per mancanza di coraggio intellettuale o fideismo ideologico, nell’orbita di una concezione interpretativa ormai ineffettuale e di superato panorama storico, imprendibile con arnesi categoriali arrugginiti e viepiù inadatti. La crisi può essere foriera, a livello geopolitico, di profonde trasformazioni mondiali. Ed è quello che sta accadendo nel nostro presente. Stiamo passando da un’epoca di unipolarismo occidentale, a primazia statunitense, ad una fase più incerta di multipolarismo, con scoordinamento del sistema globale centrato sulle capacità regolatorie della superpotenza americana, similmente a quanto avvenuto nell’epoca dell’imperialismo, a cavallo tra XIX e XX secolo, allorché a declinare fu l’impero inglese e la sua influenza politico-economica. Difficile prevedere da subito la durata di questa transizione anche se è quasi certa nei risvolti trasformativi. Questo passaggio, ormai conclamato, dovrebbe preludere ad un clima di ancor più esacerbata conflittualità, ora più nascosta ora più aperta, tra attori della formazione capitalistica complessiva, i quali disponendosi su posizioni condizionate dallo sbilanciamento dei rapporti di forza, dovrebbe infine sfociare nel policentrismo, il quale oltre ad annunciare un periodo di acutizzazione delle ostilità per primeggiare disarticolerà le basi dell’attuale scacchiera mondiale, restituendoci uno scenario sociale adesso inimmaginabile, se non a grandi tratti e intuizioni.
Ciò che ci attende sarà una nuova era caratterizzata dal crollo di ataviche certezze e dal ripensamento di sedimentati convincimenti, dati per acquisiti una volta per tutte. Poiché questa lotta sarà soprattutto politica, prima che (e non esclusivamente) economica, tornerà in auge il ruolo degli Stati (in alleanze oscillanti) nel conflitto, il loro protagonismo in ogni sfera sociale, con particolare dinamismo in quella bellico-militare e dei corpi speciali deputati alle operazioni d’intelligence, da tramutare in vantaggi tattici e strategici. La Storia, contrariamente a quanto annunciato qualche lustro fa dai vincitori della Guerra Fredda e dai loro sciamani travestiti da professori, non è mai finita, si è soltanto riposata dopo un lunghissimo evo, per effettuare un altro balzo inaspettato. Semmai è definitivamente tramontata una Storia con le sue evidenze, che tali poi non erano.
Se pensiamo anche ai conflitti del XX secolo, agli interpreti sociali di quella fase, siamo costretti a ricrederci su molti punti, a rivedere profondamente le nostre posizioni. Il ‘900 si era affacciato sul mondo portandosi dietro, dal secolo precedente, una visione dicotomica e finalistica della lotta tra due classi, il proletariato in espansione versus una borghesia in progressiva decadenza. Tale processo, almeno secondo la ben nota teoria, per dinamica interna, avrebbe inevitabilmente condotto alla vittoria degli sfruttati sugli sfruttatori e all’instaurazione di una società senza diseguaglianze. Di rimando in rimando, con aggiustamenti dottrinari sempre più imbarazzanti, ci siamo perduti nella fabbrica dei sogni irrealizzabili, estranea alla realtà. In verità, entrambi i soggetti collettivi della contesa otto-novecentesca si sono dissolti al sole dell’avvenire, negativo per gli uni e per gli altri, mentre emergevano altri protagonisti, nel contesto di un sistema di capitalismi che non solo reggeva bene alle sue contraddizioni ma, persino, si rivoluzionava conservando alcuni suoi capisaldi determinanti, come il mercato e l’impresa. Gli Stati Uniti sono assurti al rango di prima potenza, con chiarezza dopo il II Conflitto Mondiale, e questo cambiamento ha collimato con una mutazione genetica della classe predominante globale, quella che La Grassa ha definito la formazione (privata) dei funzionari del Capitale. Niente più borghesia e niente più proletariato ma qualcosa di nuovo, ancora adesso non ben compreso e spiegato.
Quando Marx inizia a sviluppare la sua indagine, era ormai già avvenuta la decantazione del Terzo Stato, attraverso rivoluzioni industriali e numerosi moti sociali, in quelle che egli intuì come le due classi fondamentali del processo capitalistico. La borghesia, proprietaria dei mezzi produttivi e i lavoratori salariati privati degli strumenti di lavoro. Gli strati sociali intermedi erano destinati ad essere assimilati dai due grandi blocchi. Ai suoi tempi mancava ancora quell’apparato manageriale direttivo, tipico delle grandi imprese moderne, che verrà in auge in un periodo successivo. In questa situazione, Marx decise di lasciar perdere la filosofia e di dedicarsi all’economia politica. Maturò questa scelta perché riteneva che nello studio delle “leggi” oggettive dello sviluppo capitalistico, nella comprensione della sua dinamica intima, avrebbe scovato il nucleo concreto di quei rapporti di forza che sulla superficie del mercato apparivano caratterizzati da completa eguaglianza tra gli individui ma che, tuttavia, sancivano una diseguaglianza effettiva tra gli uni e gli altri nella sfera economica complessiva. Per il pensatore tedesco sono, dunque, i rapporti di proprietà a far crescere la divaricazione e polarizzazione tra padroni e salariati nella fabbrica e nella società. il capitale premeva sulla centralizzazione e sull’aumento dimensionale delle unità produttive per rendere il processo produttivo sempre più efficiente ed efficace. Qui andavano addensandosi masse crescenti di produttori avviati ad una cooperazione più spinta nel processo di lavoro, proprio mentre, sul versante opposto, i capitalisti, ridotti di numero e arricchiti oltremisura, si disinteressavano delle attività di fabbrica (continuando a pretendere la loro quota di profitti) per dedicarsi alle attività finanziarie e alle speculazioni borsistiche. Per Marx, in questo istante, suona l’ora fatale del capitalismo perché la socializzazione delle forze produttive, dalle quali nascerà il lavoratore collettivo cooperativo integrato nelle mansioni intellettuali e manuali, entra in contraddizione con l’involucro dei rapporti di appropriazione privata dei capitalisti e si scaglia contro le sovrastrutture politiche che tengono in piedi il sistema, nonostante questo manchi ormai della sua base economica. Sappiamo che le cose non sono andate così, per quanto Marx non abbia mai giocato coi soggetti della trasformazione sociale, avendoli innanzitutto dedotti da un’analisi scientifica, e non dalla sua immaginazione, come invece hanno fatto tanti marxisti posteriori, i quali, pur di non ammettere la sconfitta, ci hanno provato con qualsiasi espediente (dall’operaio sociale, alle moltitudini, ai malati di mente), soprattutto con la loro vanità ben remunerata da dominanti.
Conclusioni
Ed è oggi come stanno le cose? Assolutamente non come le abbiamo qui brevemente riassunte con Marx. Siamo, dal nostro punto di osservazione, molto più indietro di quanto lo scienziato teutonico non fosse ai suoi giorni. Il libro di la Grassa ci fornisce alcune spiegazioni circa i ritardi teorici accumulati, molte motivazioni interpretative sugli abbagli presi ed una iniziale segnaletica per imboccare percorsi alternativi di comprensione e di discernimento del nostro presente. La Grassa ci offre un primigenio ed innovativo impianto categoriale per aggiornare la nostra conoscenza scientifica del/i capitalismo/i di oggi, perché capire per teorizzare è già una forma dell’agire. Resta ancora molto da fare ma l’importante è salpare per queste rotte, verso destinazioni che non possono più attendere, anche se non sappiamo con esattezza dove approderemo. Del resto, anche Cristoforo Colombo tracciò una direzione, rappresentandosi una meta, però sbarcando altrove. Fu, in ogni caso, un viaggio che cambiò la storia.
“capire per teorizzare è già una forma dell’agire (…) Resta ancora molto da fare ma l’importante è salpare per queste rotte, verso destinazioni che non possono più attendere, anche se non sappiamo con esattezza dove approderemo. Del resto, anche Cristoforo Colombo tracciò una direzione, rappresentandosi una meta, però sbarcando altrove. Fu, in ogni caso, un viaggio che cambiò la storia”.
Se portiamo la conclusione a incipit di questo resoconto, abbiamo di che metterci le mani nei capelli per la disperazione: alla faccia del realismo!
Certo che la storia fa pensare: ai tempi di Paolo Uccello e alla fine della Cavalleria, ad esempio, ai commerci della nascente borghesia e al potere che si andava creando all’ombra della monarchia. E oggi, la stessa borghesia che sparisce letteralmente risucchiata dalla povertà, di cui resta soltanto la maniera, la forma del perbenismo che, a me sembra, il canto moderno della schiavitù, cioè come impegnarsi sempre di più a lasciarsi fottere. E La Grassa che parla ancora di crisi del capitalismo quando è evidente che la crisi è soltanto di coloro che devono svenarsi per rimediare, perché intanto cambiano mercati, le merci e le modalità del lavoro: questa è soltanto la crisi del “proletariato”. Come si fa a pensare che sarebbe bastato “la socializzazione delle forze produttive, dalle quali nascerà il lavoratore collettivo cooperativo integrato nelle mansioni intellettuali e manuali, entra in contraddizione con l’involucro dei rapporti di appropriazione privata dei capitalisti” ? Perché avrebbe dovuto entrare in contraddizione quand’è assai più conveniente entrarci mani e piedi da nuovi padroni? Anche questa è storia.
“la formazione (privata) dei funzionari del Capitale. Niente più borghesia e niente più proletariato ma qualcosa di nuovo, ancora adesso non ben compreso e spiegato.” Come non è compreso e spiegato? Fino a vent’anni fa le aziende avevano ancora padroni, oggi gli stessi hanno tempo per rilasciare interviste e andare allo stadio, fino a vent’anni fa decideva siurpadrun, oggi c’è un apparato di imbecilli perfettamente funzionanti ed efficientissimi dovunque, che fa spavento. Non esistono più avventure commerciali, si fa tutto con gran sicurezza, le merci si vendono ancora prima di averle fatte. E questo grazie ai funzionari del Capitale, che non sono nuova cavalleria perché mancano di qualsiasi nobiltà. Già li aveva ben raffigurati Francis Bacon, solo parecchio più brutti di come sembrano. E anche Matrix, il film. E’ citazionismo alla buona ma cerchiamo di capirci.
“Dunque, finché vigerà lo scambio mercantile generalizzato (ed il lavoro salariato, il lavoro come merce) la legge dello sfruttamento, così come l’abbiamo specificata sopra, resterà operante.” Ecco, questo a me sembra il punto centrale, e provo a spiegarmi. Al posto della fabbrica oggi si dovrebbe parlare del lavoro, del lavoro in quanto tale. Riporto le parole di un amico che così mi scriveva tempo fa: “Data la teoria del plusvalore, i profitti accumulati da pochi attraverso lo sfruttamento, pur calmierato dai partiti comunisti del pianeta che ha ritardato soltanto l’agonia degli sfruttati attraverso l’uso delle guerre, constatiamo ogni giorno che i poveri aumentano. Ladri a norma di legge sono coloro che usano chi lavora,fuori norma sono invece chi controlla la prostituzione e vende droga, quindi il capitale accumulato e non ridistribuito con nuovi investimenti e con tasse non pagate e’ un miscuglio di denaro sporco e pulito. Il disagio e la sofferenza di chi ha sempre meno o più nulla aumenta ogni giorno. I tempi sono maturi per passare dalla proprietà privata alla proprietà condivisa, abolendo gradualmente la falsa differenza fra risorse private e pubbliche. Gradualmente tutto sarà di tutti, forse potrà esserci un graduale olocausto psicologico per chi non condivide e non lavora gratuitamente. Gradualmente il processo delirante della mercificazione del lavoro, e delle risorse umane e naturali sarà trasformato in uno scambio gratuito.” Certo, il suo ottimismo supera anche la mia fantasia, ma la considerazione del lavoro condiviso mi sembra interessante, se non altro aggiorna e ridà senso a quel “collettivo cooperativo integrato” fantasiosamente interpretato dai discepoli comunisti con le cooperative! Per me non c’è alternativa al capitalismo se non nel capitalismo stesso. Se volete dico anche Purtroppo, ma non lo penso. Condivido invece la conclusione a cui arriva questo mio amico, quando dice: “la trasformazione non avverrà per morte violenta”. Condivido il fatto che la chiami trasformazione e non rivoluzione, anche se nei fatti si tratterebbe di questo.
metto qui commento già messo nel mio diario in in FB e nel blog Conflitti e Strategie
ringrazio Ennio, amico sempre attento e critico intelligente. Per quel che riguarda il “Che fare”, rinvio a quanto già detto più volte, in diversi ambiti. Chi, come me, appartiene alla vecchia epoca (non certo infame o priva di grandi eventi storici), deve soprattutto riflettere su tale epoca. E, se la porta al livello della coscienza teorica (e a tale livello non ci si deve rifiutare di accedere in nome di una presunta pratica che varrebbe più della grammatica; come se si potesse parlare senza grammatica), uno formatosi ai vecchi “ismi” deve soprattutto mostrarne i limiti, gli insuccessi, gli autentici svisamenti della “realtà” (pur tra virgolette). Deve anche proporre spostamenti teorici, ma sapendo che sono provvisori. In definitiva, io sono partito dal marxismo, ho cercato di vedere quanto Marx fosse stato già “alterato” dagli immediati successori (e in certi casi positivamente, come fatto da Lenin, in altri assai meno felicemente), ho quindi fatto il possibile per afferrare al meglio il suo reale contributo scientifico. Poi ho proposto la sostituzione della centralità della proprietà (potere di disporre, non una concezione meramente giuridico-formale)dei mezzi di produzione (questo è l’asse fondamentale del pensiero marxiano) con la centralità del conflitto tra strategie per la supremazia; che è qualcosa di non riducibile alla preminenza della sfera economica (sia pure dei rapporti sociali in tale sfera; non l’economia degli economisti, veri rozzi pensatori, tecnici più che scienziati), ma si allarga alle altre sfere sociali. Questo ha svariatissime conseguenze; tante che nemmeno le ho sondate tutte. Tuttavia, ci sono dei limiti sui quali sto ancora pensando, non a caso. Non basta però il mio pensiero, in ogni caso intriso di tutto il vecchio bagaglio teorico. E’ solo una preparazione, che spero venga raccolta da più giovani pensatori. Non però i fessi che vedo oggi in circolazione, tutti pregni solo di ambizioni accademiche, editoriali e mediatiche in genere. Questi sono buffoni; e non a loro mi rivolgo!
NOVE APPUNTI PER UNA AUSPICABILE DISCUSSIONE
@ Mayoor
Mi pare che il tuo commento tocchi punti interessanti della presentazione di Spadoni, altri se li fa sfuggire e solleva un po’ di polverone, Provo, per punti, a diradarlo:
1.
Non credo che il realismo (filosofico o scientifico) sia causa di disperazione. Non incolperei il termometro se mi segnala che ho la febbre a 40. Il realismo tende (o pretende di) dire come stanno le cose. E potrebbe essere una premessa (per alcuni indispensabile, da altri sottovalutata o respinta) per decidere sul “che fare”, su un progetto politico. (Con tutte le avvertenze che Gianfranco La Grassa fa, nel commento che precede il mio, quando dice di «proporre spostamenti teorici, ma sapendo che sono provvisori» o che «non basta però il mio pensiero, in ogni caso intriso di tutto il vecchio bagaglio teorico. E’ solo una preparazione, che spero venga raccolta da più giovani pensatori» ).
2.
Contrapporre come tu fai «crisi del capitalismo» a «crisi del proletariato» è muoversi nella logica della lotta di classe. Che – dev’essere chiaro per evitare che il confronto diventa tra sordi – è proprio quella che «Navigazione a vista» mette in discussione. La Grassa infatti sostiene – come si dice in questa presentazione – che non esistono più, come nella visione “bipolare” marxiana, soltanto due soggetti principali e fondamentali (borghesia/proletariato), ma che «i soggetti sono molteplici poiché si tratta degli agenti decisori che attuano le loro strategie nel conflitto, portatori di opinioni diverse, discendenti da altrettanto numerose angolazioni con le quali essi guardano la realtà».
E non parla neppure più di un unico capitalismo, ma di vari capitalismi. Da qui la necessità di «rinnovare e aggiornare la nostra conoscenza del capitalismo, sistema profondamente modificatosi dai tempi del Moro, tanto che oggi sarebbe meglio declinare quest’ultimo al plurale, ovvero discutere di capitalismi, simili tra loro in alcune determinazioni fondanti ma diversi per altre caratteristiche storiche e geografiche». Giusto, sbagliato? Su questo bisognerebbe dire come la pensiamo.
3.
Il bilancio storico che egli fa di un secolo e mezzo circa di lotte per noi “proletarie” o del “movimento operaio” tende proprio a dimostrare *scientificamente* che il progetto marxiano, che prevedeva «la socializzazione delle forze produttive, dalle quali nascerà il lavoratore collettivo cooperativo integrato nelle mansioni intellettuali e manuali, entra in contraddizione con l’involucro dei rapporti di appropriazione privata dei capitalisti”) non s’è realizzato.
In altri termini: «Il capitalismo non è andato in stallo e non si è formato il cosiddetto General Intellect, l’alleanza di ingegneri e giornalieri che avrebbe dovuto, grazie al controllo sulla produzione e sulla ricchezza sociale, divenire la base di supporto di un’avanguardia rivoluzionaria della classe, capace di trasferire la sua battaglia nei gangli “sovrastrutturali” della sfera politica-statale, per dare la spallata decisiva alle caste finanziarie e speculatrici lì asserragliate».
Quella previsione di Marx (per La Grassa scientifica e, dunque, non campata in aria ai suoi tempi) era – si dice sempre nella presentazione – «meno limitata della visione operaistica, poiché metteva al centro dell’indagine non il processo di lavoro, ma la produzione e ri-produzione del rapporto sociale capitalistico nella sfera economica, “determinante in ultima istanza”».
E qui c’è un altro punto si cui si dovrebbe aprire un confronto. Proprio con quell’«operaismo italiano» (oggi post-operaismo), che ha avuto un’influenza (deleteria per La Grassa) su quasi tutte le formazioni extraparlamentare in cui noi militammo negli anni Settanta del Novecento. (Chi volesse confrontare e capire meglio la portata del dissenso potrebbe leggere un recente bilancio storico dell’operaismo di Sergio Bologna : http://quaderni.sanprecario.info/2014/12/come-il-patrimonio-teorico-delloperaismo-italiano-e-servito-a-comprendere-la-realta-del-lavoro-postfordista-di-sergio-bologna/).
4.
Tu scrivi: «la formazione (privata) dei funzionari del Capitale. Niente più borghesia e niente più proletariato ma qualcosa di nuovo, ancora adesso non ben compreso e spiegato.” Come non è compreso e spiegato?»
La tua meraviglia, secondo me, svela quanto ci siamo allontanati nella discussione pubblica di questo Paese da una decente conoscenza del pensiero di Marx; e anche quanto poco ci preoccupiamo della perdita di quel “continente teorico”.
Detto in termini più schietti a me pare che tu ti fermi alla superficie, mentre il tentativo (importante per me) di La Grassa è quello di “sfondarla” questa superficie per esplorare, come faceva Marx, cosa avviene sotto «la crosta sociale».
Spadoni vi accenna in questi passi, che inviterei a rileggere:
– «Le crisi sistemiche nel capitalismo si manifestano, prima facie, con difficoltà finanziarie e possibili default che scuotono i mercati mondiali e gli assetti economici e sociali dei Paesi»;
– «Secondo Gianfranco La Grassa la crisi economica è un terremoto di superficie che, peraltro, può avere sviluppi e conseguenze differenziate. Sarebbe bene distinguere tra contingenze di labilità finanziaria e accelerazione di fenomeni speculativi in dati momenti, che passano impropriamente per crisi, dai veri e propri crolli economici, tipo 1929, i quali preludono ad una riconfigurazione dei rapporti di forza (anche passando attraverso guerre sanguinose) tra grandi potenze, determinanti profonde modificazioni nelle sfere d’influenza di queste»;
– «il terremoto finanziario, avvertito con più timore dal “volgo” nei momenti in cui si palesa con gravi ripercussioni sul suo benessere, è già il risultato di tensioni e frizioni accumulatesi da lungo tempo sotto la crosta dei fenomeni sociali. La scossa più forte, che fa tremare la terra sotto i nostri piedi, non è la causa dell’instabilità che si allarga a vasto raggio ma l’effetto di urti e spostamenti avvenuti in precedenza, invisibili alla vista»;
– «Le teorie economiche più grossolane sguazzano tra siffatte incomprensioni, alimentando la confusione, perché si nutrono della medesima ignoranza che vorrebbero dipanare, ma solo a parole altisonanti e calcoli astrusi. Queste non giungono mai a toccare le corde reali dei problemi perché vengono disorientate dalle fantasmagorie del mondo delle merci. Per La Grassa, al fine di evitare le illusioni ottiche del sistema, gli abbagli delle sue teorie di supporto o di contorno, bisogna accedere ad un altro livello teorico, più astratto»;
– «I sensi ci spingono a pensare l’evidenza immediata dell’equilibrio sociale come il fatto più usuale, ma si tratta di apparenza», mentre «l’elemento generale da fissare sembra essere lo squilibrio incessante del reale che, agendo sotterraneamente (o dietro i fenomeni visibili, si tratta solo di una metafora), provoca continui cambiamenti, spesso discernibili soltanto alla fine di una fase, a meno di improvvise rotture rivoluzionarie (comunque, risultato di lunghi processi), del mondo in superficie».
5.
Da tali considerazioni deriva anche l’importanza attribuita alla teoria (= alla ragione!): «preso cioè lo squilibrio come elemento di partenza, la nostra azione razionale non può che ricorrere alla fissazione di un campo strutturato per estrinsecarsi coerentemente. Se ci immergessimo senza siffatti accorgimenti nel flusso del reale saremmo trascinati dalla corrente verso il niente e sballottolati fino al disorientamento più completo. Il campo viene delimitato, tra gli altri mezzi, proprio dalla teoria».
Mi sembra, dunque, forte la differenza di “sguardo” tra te e La Grassa: egli intende esplorare i movimenti tettonici profondi della società e non ha nessuna intenzione di stabilire (come tu sembri voler fare) se i «funzionari del Capitale» abbiano comportamenti nobili o plebei, morali o immorali, belli o brutti. (Quindi – almeno in una sede che vuol essere scientifica – non c’entra l’estetica di un Francis Bacon o di Matrix: uno scienziato che descrive un terremoto non si mette a disquisire su aspetti che sono invece importanti per quanti il terremoto lo subiscono, ma indaga e cerca di spiegarne le cause….).
6.
Scrivi: «Dunque, finché vigerà lo scambio mercantile generalizzato (ed il lavoro salariato, il lavoro come merce) la legge dello sfruttamento, così come l’abbiamo specificata sopra, resterà operante.” Ecco, questo a me sembra il punto centrale».
Eppure subito lo riporti alla tua esigenza o al tuo schema (capitale/ lavoro) e ad una visione (quella del tuo amico) che per La Grassa è economicista. E qui c’è un altro nodo sul quale il confronto andrebbe portato a fondo: Marx era un economista o un critico dell’economia? Non è questione secondaria.
Per La Grassa – come precisa ancora Spadoni – non c’è dubbio che «chiunque abbia capito fino in fondo l’approccio scientifico di Marx non potrà che negare il suo economicismo. Perché « l’economicismo non è altro che il collegamento tra gli elementi generali della produzione slegati dalle loro manifestazioni storiche». Marx criticava gli economisti del suo tempo «proprio colpendoli su questo punto: “Gli economisti hanno uno strano modo di procedere. Per essi ci sono soltanto due specie di istituzioni, quelle artificiali e quelle naturali. Le istituzioni feudali sono artificiali, quelle borghesi sono naturali. In questo assomigliano ai teologi, che anch’essi pongono due specie di religione. Tutte le religioni che non sono la loro, sono invenzioni degli uomini, mentre la propria religione emana da Dio. Così di storia ce n’è stata, ma non ce n’è più”». E dunque andrebbe capito fino in fondo che Marx non era «un continuatore critico dell’economia politica classica ma uno scienziato interessato all’analisi delle strutture sociali, con speciale attenzione alla produzione. Nonostante la base del suo oggetto di studio poggi sulla sfera produttiva la sua problematica non si risolve in questa».
7.
Tu scrivi: «Ladri a norma di legge sono coloro che usano chi lavora, fuori norma sono invece chi controlla la prostituzione e vende droga, quindi il capitale accumulato e non ridistribuito con nuovi investimenti e con tasse non pagate e’ un miscuglio di denaro sporco e pulito».
Questa tua distinzione tra un capitalismo “ladro a norma di legge” e un capitalismo “fuori norma” non mi convince. Credo ancora una volta sia meglio considerare alcuni punti centrali presenti in questa presentazione di Spadoni che mi pare ti siano sfuggiti. Provo ad indicarli:
– «Il capitale è un rapporto sociale», cioè il capitale non è «mera cosa», ma è «un rapporto che ri-producendosi crea costantemente, in ogni ambito umano, quelle dominanze relazionali e gerarchiche che sono funzionali ad un dato ordine societario». Perciò «lo sfruttamento in Marx non è l’estorsione violenta di pluslavoro (nella forma astratta di plusvalore) dei capitalisti agli operai coi fucili puntati alla schiena, ma è la creazione di quelle condizioni sociali e produttive per le quali, nel momento medesimo in cui i lavoratori scelgono liberamente di vendere la propria forza-lavoro sul mercato, accettano poi di entrare in un processo in cui, non detenendo il controllo dei mezzi di produzione, sarà precluso ad essi di regolare l’erogazione della loro fatica e l’eccedenza esitata grazie a questo sforzo, ben oltre i propri bisogni di sussistenza».
Anche qui, comeè facile intuire, c’è un altro nodo da discutere a fondo specie se pensiamo alle tesi della decrescita. Si tratterebbe cioè di capire se lo «sfruttamento sia [stato] sinonimo di incessante impoverimento delle classi subalterne» o no. Se insomma [sia] corretto o no dedurre da Marx che lo sfruttamento significhi «immiserimento e decrescita».
Spadoni sottolinea che nei «rapporti sociali capitalistici» si «genera costantemente una divaricazione tra una classe privilegiata, che ha nella sua disponibilità i mezzi di produzione e può appropriarsi di una fetta superiore del prodotto sociale complessivo, ed una spossessata dei “saperi” e degli strumenti di lavoro, la quale non può far altro che accettare determinate condizioni per sopravvivere», ma che questo « non autorizza chicchessia a pensare che i lavoratori debbano diventare necessariamente sempre più indigenti ed accattoni». Perché «cresce il plusvalore sottratto, in virtù di nuove scoperte scientifiche e della loro applicazione tecnica ai processi industriali che razionalizzano il lavoro e l’uso delle apparecchiature, ma non ineluttabilmente la miseria sociale»;
– « Il capitalismo è l’impero della merce perché si presenta come un grande accumulo di beni. Un mondo di anarchie e fantasmagorie apparenti, eppure così reali, dove tutto è regolato dalle libere scelte degli individui sul mercato, i quali non condizionati da terzi, si scambiano prodotti in cambio di denaro, quale equivalente generale del valore di ogni cosa. Effettivamente, nel capitalismo esiste la libertà ma come libertà senza scelta e senza scampo, fuori dalla quale non c’è possibilità di sopravvivenza. Nessuno coarta la volontà dei singoli eppure non si può fare altrimenti per non finire “ai margini”, dove persino la conservazione non è garantita. Ciò è possibile perché sotto questo guscio fatto di sovranità singolari e montagne di merci si cela un fulcro di rapporti storicamente imperativi che è la vera sostanza del sistema», individuata da Marx ( quella che La Grassa definisce il «disvelamento scientifico») e cioè…;
– «La diseguaglianza effettiva consiste nel possesso di merci diverse (i mezzi produttivi in capo ai capitalisti e la nuda forza-lavoro dei proletari, scambiata contro il denaro dei primi) che si manifesta nel processo produttivo, nella separazione irricomponibile tra strumenti di lavoro, appartenenti al capitalista, ed energia fisica dei prestatori d’opera, già privati dei “saperi” lavorativi inglobati nelle macchine, attuatasi nel passaggio dalla sussunzione formale a quella reale del lavoro nella fabbrica».
8.
Tu, riportando opinioni di un tuo amico, scrivi ancora: «Il disagio e la sofferenza di chi ha sempre meno o più nulla aumenta ogni giorno. I tempi sono maturi per passare dalla proprietà privata alla proprietà condivisa, abolendo gradualmente la falsa differenza fra risorse private e pubbliche. Gradualmente tutto sarà di tutti, forse potrà esserci un graduale olocausto psicologico per chi non condivide e non lavora gratuitamente. Gradualmente il processo delirante della mercificazione del lavoro, e delle risorse umane e naturali sarà trasformato in uno scambio gratuito.” ». E concludi: « Per me non c’è alternativa al capitalismo se non nel capitalismo stesso. Condivido invece la conclusione a cui arriva questo mio amico, quando dice: “la trasformazione non avverrà per morte violenta”. Condivido il fatto che la chiami trasformazione e non rivoluzione». Qui, non so con quanta convinzione, riaffiora un utopismo generico (e meno male che dici « il suo ottimismo supera anche la mia fantasia».
In proposito andrebbe ricordato che, appunto, Marx ai suoi tempi «riteneva che il superamento del modo di produzione capitalistico dovesse avvenire per una contraddizione intrinseca ed oggettiva allo stesso Capitale, dalla quale sarebbero scaturite le condizioni soggettive di un suo rivoluzionamento». (E che comunque non parlava genericamente di “trasformazione”, come tu e il tuo amico sembrate fare).
Ma a questi utopismi vaghi di futura emancipazione La Grassa contrappone – ed è il punto di massima rottura con tutta la tradizione della sinistra socialista e comunista – il realismo del «conflitto strategico tra gruppi dominanti ». Hic Rodhus hic salta!
Al posto delle classi o delle masse in lotta per la loro emancipazione o liberazione, Spadoni mette in rilievo quanto per La Grassa il conflitto centrale e decisivo sia appunto quello che avviene tra i «gruppi dominanti», tra quei «gruppi che appaiono essere i decisori d’ultima istanza nel comportamento attivo di maggiore rilevanza». Essi sono – dice – i veri «soggetti». Che fanno questi «decisori»? Formano degli «apparati gerarchizzati e regolati da norme e consuetudini, utili al raggiungimento di scopi ed obiettivi» e manovrano « corpi di coercizione, non solo polizieschi e militari ma anche ideologici (pensate alle schiere di facitori di frame che demarcano e condizionano il dibattito intellettuale), mirano a limitare lo squilibrio che fa emergere competitors diretti alla loro supremazia, quali attori portatori di altri rapporti sociali».
Ne consegue qui un vero scombussolamento delle “nostre” attese o convinzioni “paramarxiste” o “rivoluzionarie” anni Settanta: «Con il conflitto strategico, introdotto da La Grassa, si amplia la nostra visuale dei fenomeni sistemici perché viene in primo piano la “Politica”, intesa come apprestamento di un campo di lotta dove si confrontano gli agenti del conflitto, che influenzando i vari gruppi collettivi e operando in modo da tale da creare blocchi sociali di cambiamento o conservazione del potere, si contendono la supremazia. Le mosse della Politica, pertengono ad ogni sfera umana: a quella economica, a quella ideologica, a quella politica, questa volta da interpretarsi non come insieme articolato di strategie, ma come vero e proprio ambito statal-istituzionale con le sue propaggini militari e poliziesche (per questo abbiamo distinto graficamente tra Politica con la maiuscola e politica con la minuscola)».
9.
Ci si potrebbe chiedere: ma questi «decisori» possono tutto, hanno tutto chiaro? E “noi” insomma più nulla, come il commentatore, che ho citato nell’introduzione, lamentava. Spadoni nella sua presentazione rispondere indirettamente richiamando la rivoluzione russa del ’17 e la complessità di quel risultato tutto da capire:
«Il suo compito era quello d’instaurare il comunismo, passando da un periodo di dittatura del proletariato, per arrivare al massimo sviluppo dell’industria e alla maturazione dei processi di socializzazione, quale fondamento di una successiva estinzione dello Stato e delle classi. Questo scopo disatteso e fissato a priori dalla classe dirigente sovietica ha portato a qualcosa di molto diverso, seppure ne siamo stati consci con molto ritardo. I risultati non sono stati quelli preventivati ma altri ugualmente dirompenti: la costruzione di una potenza geopolitica che per cinquant’anni ha fatto da argine ad un’altra superpotenza collocata al di là dell’Oceano Atlantico. Dopo il crollo dell’URSS e la destrutturazione della larga sfera d’influenza del socialismo realizzato, con in mezzo un decennio di unipolarismo americano, è rinata, ancora su quelle macerie, una potenza regionale con aspirazioni mondiali che si rifà alla sua tradizione “imperiale”. Questi sono stati i frutti del ’17 che, in una Russia arretrata e contadina, si sono presentati come una rivoluzione socialista. In realtà, gli eventi stavano guidando i protagonisti di quella stagione e delle altre a seguire verso esiti impensabili, forse solo oggi pienamente sotto i nostri occhi».
il tentativo di certificare il reale è fonte inevitabile di equivoci (non è mia). Tanto più che non ho letto il Capitale, e si sarà capito. Rileggerò con calma e appena mi sarà possibile tornerò con altre domande. E’ tutto molto interessante, grazie.
Il dibattito è interessante ma le tesi del commentatore non mi sembrano toccare il nucleo portante del pensiero di Gianfranco La Grassa, per questo è difficile far partire una discussione.
Discuto un solo punto. L’economicismo di Marx non starebbe tanto nella mancata considerazione della storia e della concretezza, basta vedere gli scritti storici di Marx e i suoi amplissimi studi delle materie più diverse. Starebbe nel vedere nella “base” (economica) il ventre, poco accogliente, di un parto che avrà bisogno di aiuti ( lotta contro lo Stato, lotte internazionali) ma che è deciso nella sostanza, non nella tempistica precisa, da ciò che avviene nella produzione e questo corrisponderebbe a dei movimenti reali del modo di produzione capitalistico.
Ma La Grassa, anche sulla scorta di 150 anni di esperimenti storici, nega proprio questo.
Nella presentazione che P. R. Spadoni fa di “Navigazione a vista” di G. La Grassa ho ravvisato l’esistenza di due piani di ragionamento: “La Grassa ci offre un primigenio ed innovativo impianto categoriale per aggiornare la nostra conoscenza scientifica del/i capitalismo/i di oggi”, impianto categoriale efficace per comprendere la particolarità della attuale crisi economica, i caratteri di transizione della nostra epoca, il probabile futuro ruolo degli stati.
Ma sull’altro piano, e cioè sulla possibilità di intervenire in modo politicamente efficace da parte di soggetti supposti anticapitalisti, mi nasce il dubbio che il ragionamento di La Grassa non sia sufficiente.
Nel ‘movimento evenemenziale … puro scorrimento caotico’, collegare i fatti in un campo strutturato è il livello scientifico necessario perchè l’azione razionale possa estrinsecarsi coerentemente. Il campo viene delimitato dalla teoria, ‘principio pratico’ dell’intelletto, ovvero insieme di ‘prassi astrattive’ che selezionano “configurazioni relazionali e partizioni essenziali (o così percepite) del reale”.
Primato quindi della teoria e successivamente passaggio alla Politica, campo di lotta dove si confrontano gli agenti del conflitto.
Ma che cosa garantisce che la strutturazione del campo operata da certi soggetti anticapitalisti sia più potente e efficace per intervenire negli squilibri del reale rispetto a altre teorie di altri soggetti, che in quegli squilibri intervengono per correggere e non rovesciare il capitalismo-rapporto sociale? Partire dalla teoria non garantisce che il proprio intervento squilibrante crei le condizioni per un mutamento radicale.
E alla fine non è questo movimento di confronti che intervengono nei conflitti il vero e proprio campo della lotta democratica?
@ Fischer
Forse fa parte della crisi che stiamo vivendo (o subendo) anche la difficoltà di riaccostare teoria e politica. (In tempi più speranzosi si diceva teoria e prassi. Oppure, in tempi “risorgimentali” pensiero e azione).
Ma possiamo chiedere questa “saldatura” a La Grassa? Tanto più che egli stesso mette le mani avanti e sottolinea che «ci sono dei limiti sui quali sto ancora pensando, non a caso» e precisa: «Non basta però il mio pensiero, in ogni caso intriso di tutto il vecchio bagaglio teorico. E’ solo una preparazione, che spero venga raccolta da più giovani pensatori».
Faccio quest’obiezione non rivolgendomi al tuo commento in particolare, ma perché, avendo seguito in questi anni le discussioni tra i commentatori di CONFLITTI E STRATEGIE, molto spesso mi sono accorto che l’insoddisfazione per lo stato d’impotenza in cui ci troviamo e la “voglia di muoversi” spinge proprio a chiedere a quei pochi che ancora analizzano scientificamente i fatti quello che forse non possono dare e che non è nel loro compito; e cioè una proposta politica ben definita o una risposta convincente al “che fare”.
E comunque, se «partire dalla teoria non garantisce che il proprio intervento squilibrante crei le condizioni per un mutamento radicale», non mi pare che i movimenti (antagonisti, alternativi, populisti) spuntati all’insegna del rifiuto non solo della teoria ma della politica tout court abbiano “rovesciato” qualcosa.
Infatti.
La presentazione del libro di La Grassa mostra sia il guadagno teorico del libro, sia quello che io ravviso come il limite (rivoluzionario) della Teoria, di poggiare sulla conoscenza, sul sapere, chiamalo come vuoi.
Il materialismo dialettico affidava alla contraddizione interna alla c.d. realtà la Necessità del cambiamento, il materialismo storico affidava a certi soggetti individuati di essere i portatori della Necessità di cui sopra.
Oggi l’unica necessità delle maggioranze occidentali è salvare il salvabile, forse rivolgendosi alla Teoria si spera di lanciare “avvertimenti” che facciano paura.
(Ottimismi di capodanno.)
Spero tanto che l’assenza di chi potrebbe dare il proprio contributo per migliorare i difetti dello spontaneismo, del populismo antagonista, col tempo (la storia) non si riveli colpevole di avversità (opportunità persa per troppa austerità nel giudizio, snobismo intellettuale, visioni ideologiche limitanti e irrigidite… per favore Ennio, non t’attaccare ai punti se no non ne usciamo – e finisce che le argomentazioni distorcono la sostanza). Lamentavo la mancanza di prospettiva e per contro mi vengono offerte delle scusanti; per carità, capisco, ma mi chiedo se ci sia differenza tra Marx a Marxismo ( come tra Cristo e Cristianesimo, tra Buddha e Buddhismo… tra Capitale e Capitalismo). A me sembra che la questione si pone per grandi obiettivi e piccoli passi, tra visione classicistica, di realismo positivista, capace di offrire orizzonti, e prassi metodologiche corrette ma prive di prospettiva. Non è un giudizio, non può esserlo dal momento che non ho letto il libro, è solo una domanda. Mi soffermo però su Capitale e Capitalismo: c’è differenza tra somma di ricchezza messa a frutto e semplice accumulo di denaro ( movimentazione finalizzata unicamente all’accumulo ecc ). Qui non si tratta di semplice sfruttamento delle risorse umane, nel qual caso ci sarebbe un colpevole evidente, no, qui siamo alla sottrazione della ricchezza, protratta con indifferenza, legale, giustificata e resa incolpevole. Te la puoi prendere solo con il denaro, quindi fare contrattazione sindacale (più o meno denaro in difesa dei lavoratori: zero prospettiva e conseguente accettazione dello stato di fatto).
Altro aspetto: è vero, arrivo a capirlo, che le ragioni dello stato di fatto non possono essere quelle evidenti nella quotidianità ma che hanno radici lontane, che vanno oltre la politica e risiedono nella storia sociale e geografica dei popoli; se la lettura di La Grassa va in questa direzione svolge un compito sicuramente importante, anche in funzione delle possibili prospettive.
Il denaro ci rende come topi affamati, ma assuefatti al caprice de dieu.
SEGNALAZIONE:
Avendo scritto nel terzo (E.A. 1 gennaio 2015 alle 19:51 )dei miei nove appunti:
“E qui c’è un altro punto si cui si dovrebbe aprire un confronto. Proprio con quell’«operaismo italiano» (oggi post-operaismo), che ha avuto un’influenza (deleteria per La Grassa) su quasi tutte le formazioni extraparlamentare in cui noi militammo negli anni Settanta del Novecento. (Chi volesse confrontare e capire meglio la portata del dissenso potrebbe leggere un recente bilancio storico dell’operaismo di Sergio Bologna : http://quaderni.sanprecario.info/2014/12/come-il-patrimonio-teorico-delloperaismo-italiano-e-servito-a-comprendere-la-realta-del-lavoro-postfordista-di-sergio-bologna/).”
segnalo ora anche questa intervista di Bologna che mi pare interessante per capire come si “naviga a vista” anche nell’area che fu operaista. Penso che almeno ai “vecchi” i distinguo di Bologna possano far riflettere:
Precisazioni sull’operaismo di ieri e di oggi:
http://www.commonware.org/index.php/neetwork/541-precisazioni-su-operaismo
Riporto poche di un critico dell’economia politica, uno dei pochi: Riccardo Bellofiore. Dice la stessa cosa di La Grassa sul punto che ho commentato prima.
“Parto da un esempio che riguarda appunto uno degli aspetti più interessanti e unici della sua riflessione. In Marx esiste un’idea in qualche modo semplicistica del come la dinamica ‘spontanea’ del capitalismo porta al di là di esso. Il capitale si sarebbe progressivamente concentrato in unità produttive sempre più grandi e avrebbe allargato sempre più l’occupazione, con una crescita discontinua ma nel lungo periodo sicura del proletariato, quale soggetto sempre più massificato e omogeneo, facendone il proprio becchino. In tal modo, il capitale avrebbe così incorporato nel sistema di macchine non solo le forze produttive, ma anche la forza sociale del lavoro, sino al general intellect, dentro rapporti sociali e di potere che sarebbe stato relativamente facile rompere e superare. Per il lavoratore collettivo non solo sarebbe possibile ma semplice la riappropriazione della ricchezza sociale e del sapere che il capitale gli ha espropriato”.
consiglio la lettura dei libri di Elena Dundovich