Mercoledì 14 gennaio 2015 ore 18.00
A VENT’ANNI DALLA SCOMPARSA DI FRANCO FORTINI, PROTAGONISTA DELLA VITA CULTURALE E CIVILE MILANESE E ITALIANA
Intervengono: Maurizio Cucchi, Giancarlo Majorino, Fulvio Papi e il curatore del volume Luca Lenzini
Verrà presentato il libro appena edito
FRANCO FORTINI
TUTTE LE POESIE
a cura di Luca Lenzini (Oscar Mondadori)
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DIARIO SBRATTO: TUTTO QUA PER UN PROTAGONISTA DELLA VITA CULTURALE E CIVILE MILANESE E ITALIANA?
Che tristezza partecipare ieri sera alla Casa della Cultura – poca gente, abbastanza anziana – alla presentazione di “Tutte le poesie” di Fortini, mentre ai suoi tempi in quello stesso salone della Casa della Cultura di Via Borgogna c’era un pienone e si doveva stare persino in piedi.
In particolare che delusione per quanto ho ascoltato da poeti come Giancarlo Majorino e Maurizio Cucchi, che pure l’hanno conosciuto e bene e da vicino e per anni.
Cucchi ha accolto – bontà sua e senza approfondirne il senso – la definizione di Fortini come «classico», ha fatto ammissione (retorica) di umiltà dichiarando di essersi sentito sempre «in soggezione» rispetto a quell’intellettuale che la sapeva così lunga su tutto; e ha finito per confessare candidamente che di quella «tensione ideologica» di Fortini non gli era mai interessato quasi niente. Come a dire: quello che ascoltava da Fortini da un orecchio entrava e dall’altra usciva. Per Cucchi «il poeta si riconosce dalla propria voce», e quella tonante di Fortini sicuramente lo raggiungeva, ma le cose che affermava o sosteneva proprio no.
Majorino ha ammesso che per lui non è facile parlare di Fortini. E lo capisco. Fortini era per la lotta di classe. Giancarlo è stato sempre un «cetomedista». Ha ricordato alcuni aneddoti del suo rapporto (non credo felice ma di reciproca diffidenza) con Fortini, gli ha riconosciuto «grande passione», ma ha insistito soprattutto su un punto parrticolarmente estraneo alla sua visione della vita e della poesia: quel fortiniano «sentimento dei contrari» (che poi solo sentimento non era perché consolidato filosoficamente sulla scia di Hegel, Marx, Adorno, Mao). Per Majorino – lo so, me l’ha detto tante volte – Fortini si lasciava troppo “assorbire” dai drammi della storia (vizio che ho preso io pure e, credo, altri), era «tormentato da questo problema lacerante», «divorato dai contenuti», e, dunque, spesso «rampognante» verso gli altri letterati e poeti. Insomma, non si abbandonava del tutto alla poesia. Era come se «la poesia lo deludesse». Anche se «non rinunciava ad un’alta stilistica». Però – altro punto di distanza – «usava una forma aristocratica», che complicava il rapporto coi lettori e i più giovani.
Tutto qua? – mi veniva da pensare, sentendo maliziosamente l’ostilità sotterranea rimasta in questi loro giudizi/ricordi. E soprattutto, malgrado l’omaggio d’occasione per il ventennale, la distanza crescente di Fortini da questo mondo “cambiato”; e però non più problematizzato. (Perché è cambiato? A vantaggio di chi? E con quali responsabilità di intellettuali e di poeti?).
Siccome ero deluso e sentivo l’attrito tra quel che io rumino e le dichiarazioni di Cucchi e Majorino, sono intervenuto solo per dire poche cose: che quella “doppiezza” di Fortini tra poesia e storia è stata produttiva sul piano poetico (e lo dimostra l’intera raccolta mondadoriana ora disponibile); che sarebbe un bene se la sentissero un po’ di più i poeti d’oggi, che sugli orrori della storia sorvolano e non si capisce perché; che diffido della canonizzazione a classico di Fortini, sia perché molti continuano a ignorarlo (altro che classico!) e poi uno scrittore classico finisce spesso per diventare soprattutto oggetto di tesi di laurea. ( E non era l’aspirazione di Fortini).
Meno male che, nella serata “mondadoriana”, a far da contrappeso c’erano Fulvio Papi e Luca Lenzini, il curatore dell’Oscar.
Il primo ha ricordato di averlo sempre riconosciuto come poeta fin da quando lo conobbe come politico socialista negli anni ’50 e di essere stato impressionato da quel suo concetto di «aristocrazia del comunismo» («i comunisti come i migliori rispetto al costume comune»). Si è poi vantato di essere stato dalla parte di Fortini contro Alicata, uno dei massimi dirigenti del PCI, in una memorabile serata del 1956, ai tempi dell’invasione dell’Ungheria da parte dei sovietici.
Il secondo ha difeso la sua corposa introduzione a “Tutte le poesie”, un vero saggio «coi piedi piantati nel presente». Ha insistito sulla matrice hegelo-marxista e sulla etica religiosa di Fortini. (Saltando la questione del Fortini politico o “ideologo”, che secondo me in questa serata “mondadoriana” qualche polemica “attualizzante” poteva suscitare…). E ha detto di non trovare del tutto negativa la circolazione quasi clandestina dell’opera di Fortini in questi due decenni dalla sua morte, perché ciò avrebbe impedito che diventasse una icona (come accaduto a Pasolini). Meglio dunque che Fortini resti nella sua «alterità irriducibile», «straniero in patria», «non conciliato» e per una «tribù di lettori in via d’estinzione», mentre «i fragori del ‘900 si placano» ed altri se ne sentono in arrivo? Boh…
(15 GEN 2015)
“Mala tempora currunt sed peiora parantur” così Cicerone nella prima Catilinaria. (1)
E, facendo sfoggio di altro latino [chiedo venia], mi viene da dire “Promoveatur ut amoveatur” (2) rispetto al tentativo di ‘promozione’ di F. Fortini a ‘classico’. Il che significa tranciare via la sua parola dal tempo presente relegandola ad un passato ‘mummificato’!
Che tristezza!
Come ho detto in altri interventi in questo Blog, non ho avuto il piacere di conoscere ‘sistematicamente’ il pensiero di Fortini per cui ciò che affermo ha dei grandi limiti rispetto alla complessità sia del personaggio che della sua opera.
Però, pur nella mia conoscenza superficiale, ho trovato alcuni stimoli a pensare non certo privi di una sua profonda capacità a vedere ‘oltre’ al suo tempo. Illuminante, ad esempio, il *concetto di «aristocrazia del comunismo» («i comunisti come i migliori rispetto al costume comune»)*, come ricordato da F. Papi e ripreso qui da Ennio. Ideologia che ha portato all’asservimento del pensiero, da parte dei ‘compagni’ e ‘non’, senza alcuna possibilità di critica.
Oggi ho ordinato in libreria questa raccolta di poesie nell’intento di capire un po’ di più di questo ‘intellettuale’ che *si lasciava troppo “assorbire” dai drammi della storia* e che * non si abbandonava del tutto alla poesia. Era come se «la poesia lo deludesse»*.
Questo suona inquietante proprio oggi in cui viviamo in una situazione ‘rovesciata’: ci si abbandona ‘totalmente’ alla poesia (o definita tale), mentre i drammi della storia non vengono letti secondo i loro codici specifici (ovvero politico-economici) ma sotto i codici emotivi.
Certo che la poesia non può che deludere se viene assunta come strumento per ‘spiegare’ o ‘dispiegare’ ogni cosa.
Essa è uno strumento ‘parziale’, che illumina uno squarcio di realtà sia pure in modo più profondo di altre strumentazioni: è il poeta che, unitamente ad altri strumenti, non ultimo quello strutturato ‘secondo ragione’, deve essere in grado di farne qualche cosa. O, almeno, di tentare.
(1) (“attraversiamo brutti tempi e se ne preparano di peggiori”).
(2) (“sia promosso affinchè sia rimosso”)
R.S.
Ciao Ennio..cerca , se puoi, di unire,con i tuoi strumenti intellettuali ben meno grezzi e primitivi dei miei, quanto vorrei lasciarti combinando quanto hai raccontato in questa triste cronaca e quanto ho riletto nell’altro post (in particolare la poesia su tuo padre)con il preciso e ricco commentario a cura di Rita. Sono per te due padri, Lui e Fortini..in te, entrambi, distintamente, ognuno con il proprio cavallo di battaglie su battaglie e così nelle lotte della vita, il tuo. Corre, si ferma, riprende nella memoria le storie, la poesia, la critica dentro la Storia. Cantando e difendendo il loro in un tutt’uno al galoppo sul tuo. Dentro quella “casa”, il rombo appena presente del tuo. Pensa se neppure il tuo fosse stato lì? Non mi sembra, dalla tua cronaca, che tu abbia incrociato il tuono di altri zoccoli come i tuoi, nemmeno quello di un asino, si direbbe vista l’assenza totale di un tuo cenno, su uno sguardo d’intesa con un’altra, con un altro, con più d’uno a guardarvi dicendovi ammutoliti: dove siamo capitati? dove siamo in questa Storia? Chi da giovane e chi meno, non abbiamo perso solo il nostro padre quotidiano o per guerre lontano.Abbiamo perso più di un padre, li abbiamo persi tutti; abbiamo il dolore e al contempo la gioia che i nostri padri, tutti, biologici e biografici, familiari e di formazione “politica” (in senso lato, formazione letteraria, poetica, cinematografica, professionale) siano trapassati …se non riusciamo a contenere, noi, il nostro dolore su come è andata la Storia di guerre in guerre, di macerie in altre macerie,loro, se fossero ancora qui fra noi vivi, come si sentirebbero?
…
Oggi, a proposito della tua cronaca leteraria, ero per pausa pranzo in uno di quei posti che più che “vendere cultura”, è ormai luogo di pizze, panini, pappe e pappatorie varie. Però la gente si trova in mezzo ai libri e la cosa fa molto figo…per lo più, anzichè leggere, li vedi quasi tutti a masturbarsi con il tablet, pochi sono quelli che almeno fanno conversazione, molto rari. Poi pensi a queste cose e ti domandi se non è gente come te, che non vede l’ora di passare una pausa fuori dai lager uffici. La cosa che mi ha colpito è che c’era un gruppetto tutto davanti a uno scaffale enorme, sembrava riempito di agende tutte nere. Mi avvicino perché li sento ridere, mi piace sentirli così e mi avvicino come una guardona per ridere anch’io. Invece, amara sorpresa, stavano decidendo come fare una colletta, per comprarsi cosa? la raccolta completa delle poesie di Fortini? No! un libro edito il 7 gennaio 2015, forse Rizzoli-Corsera sapeva in anticipo del fatto criminale di Parigi? Comunque il libro, pieno zeppo di vignette del famoso giornaletto “satirico”, era nero, e al centro ben in grande in bianco “io sono Charlie”. Da lontano non vedo bene, ma da vicino mi sono presa un colpo. Cosa avrebbe detto mio padre se avesse potuto pranzare con me? Non lo so, ma ho sentito il suo fantasma che mi diceva: meno male che sono morto.
Un abbraccio grande grande a te, a Rita e ai nostri compagni di viaggio nella Storia.
rò
Caro Ennio,
ho esitato a lungo prima di lasciare un cenno di passaggio a questo tuo articolo, ma, come sai perchè ne abbiamo parlato in privato, mi ero affrettato ad acquistare ed a leggere tutto il volume delle poesie di Fortini, e l’ho fatto perchè mi sentivo in colpa verso te, che lo senti come maestro e dovevo capire le tue ragioni, e verso di lui che, nel bene e nel male, è stato un grandissimo intellettuale, più che poeta, a mio parere.
Però, devo ammettere che non ho i mezzi culturali per concretizzare le mie povere perplessità sul fatto se la poesia di Fortini sia tale, o se invece essa sia una voce importante nella poesia nel 900 che io non so gustare fino in fondo.
Voglio anche aggiungere che a mio avviso organizzare una presentazione dei versi di Fortini inserendo Cucchi nella presentazione, è forse stato una svista o un errore, perchè Cucchi è lontanissimo nella sua scrittura e nei sui temi da quelli di Fortini, e quindi non poteva che fare le considerazioni che tu ci hai riportato.
Attorno alla sala alquanto deserta, di cui ci parli, credo che ormai noi, che i pochi capelli li abbiamo bianchi, non ci si possa più fare illusioni sull’interesse che la poesia susciti in questa nostra società.
Scusa la banalità dell’intervento.
@ Paraboschi
Caro Luigi,
se hai acquistato e letto tutto il volume delle poesie di Fortini a me pare che tu abbia pieno diritto a dire pubblicamente la tua opinione. Lo senti «un grandissimo intellettuale, più che poeta»? Non solo io, ma anche i commentatori più assidui di Poliscritture sarebbero interessati a capire perché e magari a discuterne. Non si tratta di scrivere un saggio ma le proprie oneste impressioni di lettore e ragionarci su insieme.
P.s.
Cucchi è della “scuderia Mondadori” che aveva organizzato la serata alla Casa della Poesia. Ecco perché era lì.
Fortini poeta o solo grande intellettuale?
Stuzzicato dal commento di Luigi (Paraboschi) ho rovistato nel mio archivio di vecchi ritagli dai giornali su Fortini e ho trovato:
1. una recensione di Giancarlo Ferretti a una raccolta di Massimo Raffaeli, Appunti su Fortini, Edizioni L’Obliquo ( il manifesto 27 ottobre 2000). Riassumo i punti che mi paiono riguardare la questione posta da Luigi. Raffaelli s’interroga sulla «deminutio» o svalutazione del Fortini poeta. E la sua conclusione è questa: chi valorizza la «supremazia dell’intellettuale» («È un luogo comune ricordare che quella di Franco Fortini è la più alta intelligenza critica che la cultura italiana abbia espresso nella seconda metà del secolo») e ritiene che «la poesia di Fortini non sarebbe che un sublimato o precipitato chimico del suo genio saggistico: uno splendido ma gelido minerale» non coglie la specificità che lo distingue dagli altri poeti.
La sua, infatti, è «una poesia che appare […] lontana dalla commozione e dal piacere, dalla musica e dalla metafora, dallo scarto e dall’oltranza». In essa sintassi, metrica, ironia, allegoria, forma classica, severità etica e politica fanno un blocco unico con un pensiero che mira alla «ricomposizione di quelle parti (interne ed esterne a chi dice ‘io’) frantumate e negate tanto dai condizionamenti biologici (la sofferenza, la malattia, la perdita) che da quelli storici (la condizione di dominio e servitù nella lotta delle classi)».
Raffaeli, dunque, sostiene la tesi di un’unità piena (ma specifica) tra poesia e pensiero in Fortini, una sorta -dico io – di “pensiero poetante” (definizione usata anche per Leopardi).
2. una recensione a «Una volta per sempre, poesie 1938-1973»( Einaudi 1978) di Fortini firmata da Roberto Roversi, un poeta amico-antagonista di Fortini (con lui, Pasolini, Leonetti ed altri redattore di «Officina») sul manifesto del 5 ottobre 1978.
Trascrivo alcuni dei passi ( a volte anche sottilmente polemici) che mi paiono interessanti:
– «scrittore tutto di testa (vale a dire di cose pensate più che inventate) a me sembra che, stravolgendosi, in ogni occasione si abbandoni anche alla più sfrenata malinconia. A me sembra che non riesca mai ad evitare questo impatto con se stesso allo specchio»;
– «sono convinto che Fortini più che vederle pensi le cose che vede o che dice di vedere e in questo modo tolga a loro tutta la corposità»;
– «in Fortini sotto l’ideologo […] c’è e persiste […] una personalità d’autore, che si propone di aggregare a una faticata indipendenza una tenerissima e inevitabile mania per il suono delle parole, per il loro brivido stralunato»;
– «Fortini non ha mai progettato nessun mutamento pratico delle cose; l’ha solo pensato e raccontato. Ha usato perciò, in riferimento alla realtà, lo stile non l’azione»;
– «[la sua] è poesia che non cerca e non vuole fornire elementi per il ristoro della coscienza e per appiglio a una rapida speranza. Non è poesia consolatoria. Niente consenso distribuito, né alcuna sia pur parziale soddisfazione. È poesia che sa cogliere, in una forma di continua tensione, il negativo che c’è nelle cose del mondo, l’errore che c’è nelle azioni di ciascuno di noi, la debolezza e l’indecisione che ci perseguitano come un malanno. Quindi è disposta in un atteggiamento di ammonizione e in questa via ha lucidità, insistenza nell’approfondire. Ma non ha pietà per gli altri e nemmeno amore per gli altri. Ha invece pietà, una pietà molto dolorosa e triste, per sé»;
– «questa poesia è composta di domande e interrogazioni implicite ed esplicite, le quali rimandano ad altre domande e si inseguono e sembrano perpetuarsi, quasi in un gioco al massacro […] l’accumulazione delle domande sovrapposte costituisce una massa che ci costringe ad osservarla da lontano ( forse al modo con cui gli antichi inseguivano i contorni paurosi dei monti su cui alloggiavano gli dei). C’è qualcosa di torbido e contemporaneamente qualcosa di religioso dentro al continuo mugugnare in profondità di questo discorso in versi. Una rabbia dei sentimenti appannata dall’attenzione della ragione; un bisogno d’amore – un bisogno di manifestare amore – che ha oscura ma prevalente vergogna sia di sé sia di dichiararsi e quindi si chiude e raggela; una sensazione di errore in atto, sempre ricomposto e sempre riproposto: errore nella scelta di comunicare *con* la poesia; errore nell’emergenza dentro a questa scelta, in quanto alla poesia si dovrebbe chiedere secondo la norma gratificazioni e non l’avvilente e angustiante continuità dei dubbi e dell’angoscia»;
– «Personaggio pubblico, la sua figura più vera è forse quella di un uomo che cercando con estrema tenerezza di raccogliere una rosa si è ferito le mani, fino a sanguinare e a soffrire. È quindi un clandestino e un solitario. Per me, io penso che occorra saper scegliere e quindi accettare che le ferite di un raccoglitore di rose non siano affatto diverse, nella sostanza delle cose, da quelle di un soldato. La spina ferisce e uccide come una lama. Solo che non vanno confuse».