Due poesie di Ennio Abate lette da Rita Simonitto
1.
Quanne a guerre fernette
– tu virisse quanta gente purtave o lutte:
e femmene tutte vestite e nire,
l’uommene cu na striscette nera
vicin’o bavere ra giacca o ro cappotte –
a famiglia noste e chelle e zi Vicienze
se ne venettere a Salierne.
Addie Casebbarone!
Che dispiacere pe nuie piccirille!
2.
A MIO PADRE
Dove i cavalli bai fantasticando
l’avevano lungo,
un uomo antico
con frustino di nocciolo
fra le dita di caldarroste
sibilò un’ultima serpe
e le sparò;
s’arrampicò sul fico
e nascose pistola e serpe.
E tornando
carezzò i cavalli bai,
raccolse una spiga e la macinò fra le mani
e con voce di stivali militari
parlava ai suoi vecchi di che cosa
avrebbero fatto al tramonto
il cielo, i mandarini, i garofani senz’acqua.
Se toccava
una quaglia ferita o i limoni
agonizzanti sugli alberi
o il mio ginocchio magro e insanguinato
era soldato
che palpava una ferita
quasi rimarginata.
Ci amava tutti
come una ferita nota:
e quando un fulmine distrusse il fico,
partì al buio – come una volta – mio padre
svegliando solo il cane
e tornò, con la bocca più zitta
come da un cimitero.
(scritta a Milano l’8 settembre 1963)
*
Epico e dolente è il clima in cui si collocano questi due componimenti, e al ‘dolente’ rinvia la matrice, la lingua-madre della poesia posta in ‘exergo’: c’è il grembo di una terra che è stata violato dalle esperienze belliche e di cui i bambini portano le cicatrici.
Quel mondo contadino ‘listato a lutto’ e costretto ad emigrare verso la città, ci viene qui presentato come un coro greco che fa cerchio protettivo attorno ai piccoli: “che dispiacere pe nuie piccirille!”
E l’utilizzo della lingua materna non sta solo a significare il richiamo alla prima lingua, quella che è più in contatto con i sentimenti, con le emozioni, ma al fatto che è quella lingua che, in quanto fa parte intrinseca della cultura acquisita, darà corpo alla lingua ‘seconda’, quella che viene studiata. Infatti, come sostiene la linguista M. C. Luise: “Il buon apprendimento della lingua seconda non è legato alla perdita della prima lingua, ma, al contrario, è dipendente dal suo sviluppo”.
Ma, in questo ‘pendant poetico’ dove al ricorso alla madrelingua fa seguito l’uso della lingua seconda, è come se ci fosse un intendimento di dialogo tra possibili figure ‘materne’ e figure ‘paterne’, un tentativo di confronto tra questi personaggi che si muovono nell’interiorità del poeta.
E poi, non si può non richiamare quel bellissimo passo del Convivio di Dante: “Questo mio volgare fu congiugnitore de li miei generanti, che con esso parlavano, sì come ’l fuoco è disponitore del ferro al fabbro che fa lo coltello; per che manifesto è lui essere concorso a la mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere” [Convivio, libro I, cap. 13, par. 4], in cui l’Alighieri esplicita che la lingua materna predispose l’unione dei suoi genitori che in essa parlavano, come “il fuoco prepara il ferro per il fabbro che ne fabbrica poi il coltello”.
La struttura di ambedue questi testi segnala una tecnica che opera per ‘sottrazione’ e condensazione, come a ricalcare la procedura onirica.
Poesie-sogno che al pari dei sogni devono essere dipanate e dove ogni singolo elemento diventa un nucleo di significati i quali, a loro volta, fanno da significanti per altri nuclei.
E’ il lettore che viene reclutato a colmare i vuoti di senso e di sentimento a cui dette poesie espongono.
Ma veniamo alla poesia principale: “A mio padre”. Viene qui rappresentata la relazione conflittuale tra il poeta e la figura paterna e il vissuto di un tradimento che rende l’animo esacerbato. E’ intuibile che alcuni riferimenti sottendano eventi (“come una volta”) sofferti, ma di cui, in questi versi, nulla viene esplicitato.
Ma non sono necessari i fatti bensì le simbologie che li sottendono e dal cui svelamento si può accedere ai vissuti.
E’ la memoria del poeta che coinvolge mito e storia, e che fra amore, violenza e sfide tesse il mantello attorno alla immagine significativa del genitore.
In questa poesia, fin dalle prime immagini, siamo introdotti in un mondo ‘epico’ (da ‘epos’, dove si canta il mito. Qui il mito eroico della potenza maschile). L’uso ‘forte’ dei verbi al passato remoto ne sottolinea la pregnanza sonora (sibilò, sparò, s’arrampicò. Carezzò e macinò).
Poi il tempo verbale cambia passando all’imperfetto (parlava, toccava, palpava, amava); è il tempo delle cose che nascono, possono essere ferite e possono morire.
E’ il tempo del rimpianto, un tempo ‘andato’ che non è già più ‘mitico’ ma appartiene al vissuto, e dove le ferite toccano la propria carne (fuor di metafora, é mio il ginocchio magro e insanguinato). Ma è anche il tempo della nostalgia che strugge.
Poi entriamo nel tempo ‘storico’: il fulmine distrugge il fico fra le foglie del quale si nascondeva l’epica grandiosa, la potenza della pistola e la seduzione della serpe. Questo è il tempo in cui l’individuo si fa carico, in solitudine (“svegliando solo il cane”) del lutto, della perdita degli ideali di grandiosità sia di ordine personale che pubblico.
La storia poetica della caduta dell’ideale si interseca, proprio a partire dalla ricchezza degli indizi simbolici, con la rappresentazione del conflitto edipico.
Ci sono incursioni che rinviano a letture psicoanalitiche circa la natura sessuale del conflitto con la figura genitoriale, prima oggetto di ammirazione per la potenza fallica e poi delusione amara per l’esclusione dall’accoppiamento (“nascose pistola e serpe”) e dal segreto implicito nell’accoppiamento stesso (“parlava ai suoi vecchi”).
Le fantasie legate alla potenza (la spiga che “macinò tra le mani”) si afflosciano con la rabbiosa tristezza dei “garofani senz’acqua”, indice della caducità e dell’aspetto effimero del piacere.
Mi ha fatto venire in mente Pirandello, ne “L’uomo dal fiore in bocca” quando dice : «…il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso in cui la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati.»
Questa caduta dell’ideale potente trascina con sé, come al seguito di un sipario strappato, tutto il mondo attorno, che da ogni sfera, animale, vegetale e personale grida e lamenta la propria sofferenza.
“una quaglia ferita o i limoni/
agonizzanti sugli alberi/
o il mio ginocchio magro e insanguinato”.
Con la mestizia nel riconoscere che l’intervento paterno non solo avrebbe mantenuto la distanza affettiva del militare che non può cedere ai sentimenti (“era soldato”) ma che sarebbe stato anche tardivo su una ferita “quasi rimarginata”.
E l’esperienza della perdita degli investimenti onnipotenti si unisce alla crudele scoperta che la sollecitudine paterna è ‘diversa’ (nei suoi modi e nei suoi tempi) da quella materna.
Così che a tradimento si somma altro tradimento!
La disillusione porta di conseguenza ad assumere atteggiamenti distanzianti e critici anche verso chi può lenire le ferite.
Vissuti attraversati da una sottile vena svalutativa che fa dire:
“Ci amava tutti
come una ferita nota”.
Ma alla fine del componimento, quasi metabolizzati la delusione e il rancore, ecco riprendere la tematica dolente e maturativa del figlio che riconosce il padre nelle sue ferite e attraverso le sue ferite.
Ed è il poeta adesso che, ricucendosi con il messaggio contenitivo e protettivo implicito nella prima poesia – il portato culturale di una tradizione legata al mondo contadino – gli fa da coro che lo accoglie anche nella sua debolezza.
“con la bocca più zitta
come da un cimitero.”
Conegliano, 11.01.2015
Rita Simonitto
* I due disegni (Studio per Mìneche, 1976 e 1987) sono di Tabea Nineo
crude crude nude nude
drammatiche azioni
e il ricordo adesso non c’è più
La mia solita emozione emerge già dal disegno. Le poesie continuano poi a colpire il mio animo e a pensare alla figura così prorompente ed affascinante di questo padre che al figlio sembra così grande. Un impeto di giovinezza si sprigiona da queste righe anche se Abate cerca di celare il suo sentimento e il non disvelamento le rende magiche, come al solito il poeta col dialetto rende il tutto così vicino al capolavoro e Rita ne fa una bellissima interpretazione. Ancora una volta mi tocca ripetere che Abate è un grande poeta. Il rapporto con questo padre resta come una pietra nel fiume.
“A mio padre” è stata scritta nel 1963. A quel tempo, quelli di poco più grandi di me, leggevano Marcuse che trattava temi di emancipazione umana, non strettamente collegati ai rapporti di produzione, e collaborò non poco al formarsi di una nuova coscienza rivoluzionaria, diciamo anti-repressiva (vedi regime sovietico), che segnò le istanze libertarie pre sessantottine.
Fino ad allora i figli davano del Voi ai propri genitori. Furono i figli che rimediarono a questa distanza. Gli stessi figli che, più tardi, dal “tu” passarono al “noi” (e la storia ri-cominciò). Rita lo spiega molto bene:
“E l’esperienza della perdita degli investimenti onnipotenti si unisce alla crudele scoperta che la sollecitudine paterna è ‘diversa’ (nei suoi modi e nei suoi tempi) da quella materna. Così che a tradimento si somma altro tradimento!
La disillusione porta di conseguenza ad assumere atteggiamenti distanzianti e critici anche verso chi può lenire le ferite. Vissuti attraversati da una sottile vena svalutativa che fa dire: “Ci amava tutti / come una ferita nota”.
… “Ed è il poeta adesso che, ricucendosi con il messaggio contenitivo e protettivo implicito nella prima poesia – il portato culturale di una tradizione legata al mondo contadino – gli fa da coro che lo accoglie anche nella sua debolezza.
“con la bocca più zitta / come da un cimitero.”
Versi bellissimi ancora oggi, che mi hanno fatto pensare a quelli che scrissi due anni fa (cinquant’anni dopo ” A mio padre” di Ennio!) e che mi permetto di trascrivere qui:
… ” Ci Sono Morti da entrambe le parti. I lasciti sono impareggiabili: Cose per la toilette, Saponi, un Rasoio Elettrico Che non verrà usato, Petali Nei vasi, QUALCHE oro e tante Inutili Fotografie. Dettagli, figure di nonni Che indossano abiti mai avuti, carezze Che non Hanno mai Dato. C’E’ Bisogno di baci.” ( Da La casa nuova – 2013).
Acuta l’osservazione di Mayoor sull’anno di composizione di questa poesia.
Se ci aggiungiamo anche la data (8 Settembre) non ci può non richiamare il tragico 8 Settembre del 1943, giusto vent’anni prima.
Tradimento infame che la generazione nata in quegli anni patì attraverso i propri padri, quale che fosse il loro orientamento politico, per lo sbandamento che ne seguì. E, di tradimento in tradimento, di Re in Re, di svendita in svendita siamo giunti al giorno d’oggi!
Forse, rispetto alla poesia, che trovo bellissima – le due poesie fanno un tutt’uno – anche quel “soldato”… “mio padre”— “partì al buio – come una volta”. E si trovò solo.
E noi figli, tutti presi dal nostro processo di liberazione, abbandonammo ‘i padri’ e scegliemmo i cosiddetti ‘liberatori’!
R.S.
…è una poesia del tempo di guerra che, profeticamente, per Ennio (come per tutti noi) non finirà mai. Un tempo sospeso dove si incontrano a metà strada il mito della forza e quello della compassione e la forza dolorosa di non aver compassione, accettando le ferite, gli abbandoni come un tragico destino umano…non respinge e non abbraccia…né…né in una tensione assoluta. Un padre che vuol essere anche madre dai “seni petrosi”, del tempo di guerra. Che i figli si preparino alla vita, che non risparmia la vita- i limoni, il fico, i garofani il ginocchio sanguinante “agonizzanti”- del tempo di guerra…Di generazione in generazione presi nei lacci dell’inganno…quale rivoluzione?
e quando un fulmine distrusse il fico,
partì al buio – come una volta – mio padre
svegliando solo il cane
e tornò, con la bocca più zitta
come da un cimitero.
mi hanno colpito maggiormente questi versi che ho stralciato perchè evidenziano così in modo scultoreo la figura così solitaria e forte di un padre che doveva possedere una forza interiore da personaggio di tragedia greca.
ottimo l’uso del dialetto, sintetico e molto leggibile anche per chi non lo conosce
…anche me hanno colpito i versi della poesia segnalati da Luigi Paraboschi, per come è descritta una natura spietata verso un suo essere, l’albero del fico caro all’uomo e annientato dal fulmine, presagio di come l’uomo a sua volta e ben presto avrebbe abbandonato la natura senza cure, tradendo quella terra che in tempo di pace era stata abbondante di frutti. Di tradimento in tradimento. Forse è da quello snodo che si dovrebbe ripartire.
Devo dire che sulla seconda poesia, scritta appunto nel 1963, a ventidue anni e a Milano (quindi dopo aver lasciato Salerno, la città della mia formazione) mi sono arrovellato successivamente in varie occasioni. Il senso abbastanza crudo e anche allusivamente tragico (come hanno colto Fischer e Paraboschi in particolare) mi è stato sempre abbastanza chiaro. Meno evidenti erano per me i significati mitici e psicanalitici di certe immagini che pur avevo usato e che successivamente ho sospettato essere assai complessi.
Nello scambio avuto con Rita Simonitto sono venuto a sapere che:
1. l’albero del fico era sacro a Dioniso, divinità ctonia, ovvero legata alla terra, al suo ciclo, ai misteri di nascita e di morte e di rinascita, alla fecondità e alla abbondanza;
2. la quaglia ha numerosi rimandi sessuali, che ora qui non sto ad esplicitare;
3. gli agrumi erano sacri alle ninfe; e il limone, in particolare, alla ninfa Aretusa. E che, assieme alle arance e ai cedri facevano parte dei “pomi d’oro”, che erano custoditi nel giardino delle Esperidi e che Ercole violò.
Seguendo questi spunti, la figura di mio padre e il contesto contadino che le fa da sfondo si caricano di un alone mitico, che forse non sospettavo. (O assaggiai: “selvaticamente” nel rapporto che ebbi da bambino con la campagna e troppo scolasticamente negli anni del liceo). Ammetto che successivamente non ho potuto o saputo più indagare.
La rottura “culturale”, “emotiva” e “generazionale” con mio padre ( e il mito?), come forse accenna anche Mayoor nel suo commento, ha portato molti di noi a una perdita irrecuperabile.
Altrettanto complesse e contraddittorie sono le implicazioni storiche addensatesi nel tempo sulla figura di mio padre. Non avevo mai pensato al collegamento suggerito da Rita, tra la data di stesura della poesia (8 settembre) e il «tragico 8 Settembre del 1943, giusto vent’anni prima». Ma con insistenza quasi ossessiva ho continuato a cercare di colmare in qualche modo i vuoti della sua storia. Nato nel 1899, era stato soldato nella Prima Mondiale, ferito e poi richiamato durante la Seconda Mondiale. Ma quasi nulla aveva raccontato della sua esperienza di militare a me e a mio fratello. Chiudendosi, credo, per delusione in un caparbio silenzio di sconfitto. Ho perciò cercato a volte di immaginarmelo giovane: «altro/ forse fu mio padre/ diciannovenne soldato contadino/ in giro per l’Italia e il mondo/ carabiniere e spia/ in Grecia e in Albania».
Altre volte ho voluto cancellarlo, sostituendolo con altri padri: «altri padri [” padri-fratelli, padri-compagni”] c’erano/ che forse/ mio padre ha ucciso e torturato».
Ma i padri elettivi o spirituali (anche il Fortini richiamato in un commento di ro) sono, nel mio caso, in esplicita rottura con l’immagine “arcaica” del padre naturale. Fanno parte di un’altra storia. E resta, dunque, una scissione, una lacerazione, tra due immagini e due tempi storici (Italia fascista, Italia democristiana). Che è impossibile da sanare.
Inoltre, alla fine dei conti, sia il mio padre naturale (Mìneche) sia quello elettivo (Fortini) sono stati degli sconfitti.
Ed è forse vero quello che dice ro: «dove siamo capitati? dove siamo in questa Storia? Chi da giovane e chi meno, non abbiamo perso solo il nostro padre quotidiano o per guerre lontano. Abbiamo perso più di un padre, li abbiamo persi tutti; abbiamo il dolore e al contempo la gioia che i nostri padri, tutti, biologici e biografici, familiari e di formazione “politica” (in senso lato, formazione letteraria, poetica, cinematografica, professionale) siano trapassati».
Ro si chiede anche: «se fossero ancora qui fra noi vivi, come si sentirebbero?».
Al suo fa dire «meno male che sono morto».
Io so soltanto che continuerò a scavare nel *silenzio* di Mìneche e nel *comunismo* di Fortini.
P.s.
Grazie per i commenti lasciati.
Fu per reagire al disagio psicologico in cui ci trovammo, al seguito delle istanze femministe degli anni’70, che molti di noi, uomini, iniziammo a indagare sui nostri condizionamenti. Fu giocoforza passare in esame la figura paterna, se non altro per riconoscere aspetti delle nostre personalità e del nostro essere maschi. L’indagine però andava fatta individualmente (anche questo ce lo insegnò il femminismo), con metodo, adottando le tecniche offerte dalla moderna psicanalisi.
Anch’io non sapevo dell’albero del fico, sacro a Dioniso, a quei tempi poi era tanto se sapevo d’esistere; ma mi aiutò il sogno di me che dipingevo, in un’altra epoca, un nudo maschile sdraiato su un divano a fiori, che aveva TRE testicoli, grandi come arance e dello stesso colore. Fu per me un sogno rivelatore, come si dice, che mi aiutò, da un lato a sbarazzarmi di ogni senso colpa e dall’altro a ritrovare un nuovo senso di appartenenza al genere umano al quale appartengo, nel bene o nel male. Seguirono decenni di terapia.
Dico questo perché mi riconosco nel percorso di Ennio Abate, nella sua indagine personale di fatto non secondaria al suo impegno sociale. Se si sa poco del padre sapremo ben poco anche di noi stessi e delle qualità che ruotano attorno al mito del potere maschile.
Trovo molto stimolante il commento di Mayoor, e il richiamo al femminismo mi trascina a rispondere.
Probabilmente nel collegarsi alla madre del femminismo e nella rottura con il padre per i maschi passa una grossa questione. Che riguarda anche la lettura della politica e del tempo storico. Il collegarsi alla madre se ne impippa delle rotture storiche, ma coglie soprattutto la continuità del sapere materno. Rivoluzione e necessità sono concetti diversi in contesto materno o paterno. Eccetera…
da Mayoor:
*… ” Ci Sono Morti da entrambe le parti. I lasciti sono impareggiabili: Cose per la toilette, Saponi, un Rasoio Elettrico Che non verrà usato, Petali Nei vasi, QUALCHE oro e tante Inutili Fotografie. Dettagli, figure di nonni Che indossano abiti mai avuti, carezze Che non Hanno mai Dato. C’E’ Bisogno di baci.” ( Da La casa nuova – 2013).*
da Ennio:
*Ed è forse vero quello che dice ro: «dove siamo capitati? dove siamo in questa Storia? Chi da giovane e chi meno, non abbiamo perso solo il nostro padre
quotidiano o per guerre lontano. Abbiamo perso più di un padre, li abbiamo persi tutti*
……..
Se Ennio e Lucio me lo permettono (eh, sì, perché entrare in contatto con la poesia di un altro è come entrare in un ‘tabernacolo’: è un affare ‘religioso’ perché ci si accosta all’intimità di qualcuno. E oggi il rispetto per l’intimità si sta del tutto perdendo), io formerei un ‘trittico’ tra le due poesie di Ennio e quella (altrettanto bella) di Mayoor titolando il tutto così: “Dalla terra tradita, al tradimento dei padri, al lutto dei figli”.
La presa di coscienza di Ennio quando scrive: * Meno evidenti erano per me i significati mitici e psicanalitici di certe immagini che pur avevo usato*, ci segnala che un aspetto della ricchezza della poesia sta anche in questo, e cioè la possibilità di svelare qualcosa che appartiene al profondo e che è accessibile in parte attraverso il ricorso al mito (per gli aspetti rappresentativi-emotivi), in parte attraverso la psicoanalisi (per gli aspetti emotivi, rappresentativi codificabili attraverso una teoria ‘scientifica’), in parte attraverso il dire poetico (per gli aspetti emotivi, rappresentativi che permettono una connessione culturale). Il poeta tutto questo non lo sa, altrimenti ne farebbe un saggio storico, appunto come quando Ennio dice *Non avevo mai pensato al collegamento suggerito da Rita, tra la data di stesura della poesia (8 settembre) e il «tragico 8 Settembre del 1943, giusto vent’anni prima». Lo ‘sa’ una parte profonda di lui che emerge in superficie e permette al lettore di cogliere questa parte ‘ricca’ come quando si fa la scrematura del latte che si trasforma in burro e formaggio (tanto per rimanere nella cultura contadina).
Per tutto ciò la Poesia (con la P maiuscola) gode (e fa godere) sia di una potenzialità eidetica (parlare per immagini), sia estetica (che ci fa dire che ci piace o non ci piace) e sia di contenuto (ovvero la cultura che trasmette).
Abbiamo visto che queste poesie rispettano questi requisiti proprio perché hanno sollecitato nei commentatori l’accesso alle loro storie personali in collegamento, a loro volta, con il mito (*Anch’io non sapevo dell’albero del fico, sacro a Dioniso* Mayoor) e con la storia (*Trovo molto stimolante il commento di Mayoor, e il richiamo al femminismo mi trascina a rispondere* Cristina Fischer).
Allora tutto ciò ci permette di rispondere alla angosciante riflessione di Ennio: *La rottura “culturale”, “emotiva” e “generazionale” con mio padre ( e il mito?), come forse accenna anche Mayoor nel suo commento, ha portato molti di noi a una perdita irrecuperabile.*
No. E’ irrecuperabile nel senso della storia, non possiamo tornare indietro, ma non in quello della memoria. E queste poesie e questo dibattito ce lo stanno a confermare.
Poca cosa rispetto ai disastri che oggi ci si presentano di fronte? Mah…
Ecco che ancora una volta il mito ci soccorre nel pensare alla società attuale improntata dionisiacamente (la liceità data agli aspetti primordiali, istintivi che non possono essere repressi altrimenti esplodono violentemente; il godimento fine a se stesso, la ricerca dell’estasi, ovvero del piacere estatico – senza limiti – di contro al piacere estetico – che i limiti li pone in quanto presuppone un rapporto relazionale), in contrapposizione a quella Apollinea, supportata dalla ragione.
E, rispetto alla interessante osservazione di Cristiana *Probabilmente nel collegarsi alla madre del femminismo e nella rottura con il padre per i maschi passa una grossa questione*, sarebbe da vedere di ‘quale madre’ e di ‘quale padre’ si tratta, ovvero di quali immaginari sono portatrici queste figure.
R.S.
Ennio carissimo e di più e ancora tutti carissimi qui vivi e, là, diversamente..
diversamente trapassati, noi, da loro, i nostri Padri e le nostre Madri, tutti negli uliveti e frutteti di famiglia della nostra “memoria” (evviva, evviva, Rita!) e pertanto, chi più chi meno, interrogati, ognuno di noi, nel sogno, nel canto e/o addirittura direttamente da questo mondo, negli incubi degli Dei e della Storia. Noi di madre e padre in figli di nuovo padri e madri, a legami e dimenticanze, concatenazioni carnali, “geaqualcosa” di logico anziché crono-uranico, e nel mentre ferrosi, vulcanici, concatenazioni di forza e debolezza atomica. A tratti Ulisse, a tratti Enea, e così Penelope ed Elena. Ma ciò che ha fatto Ennio, in questi giorni con questi fogli sui padri, dopo tutti questi millenni dai primi Dei , dalle prime madri e i primi figli di nuovo padri, arricchito dalle voci dei suoi compagni di viaggio in questo iperspazio, è davvero un tornante di una bellezza incantabile e pertanto, ahinoi per i poeti, pure indicibile, nonostante i temi da cui ella nasce siano così densi e angoscianti.
Ritornare alla prima immagine di mio padre che è sia pianta di fico che gelsomino, con mia madre castagno e zafferano, provoca uno scatto di contrasto comune a questo nostro orfanotrofio, tuttavia esso racchiude in muri sacri ciò che non doveva essere mai violato, e così la memoria aiuta a non far caderedel tutto il crimine in oblio, nelle mani di chi, nel presente come nel passato, lo chiamerà e lo chiamò libertà, civiltà, progresso nonché liberazione .
….
GRAZIE ENNIO! non potevi prendere meglio al volo la mia piccola ala, laddove ti chiedevo, nell’altra pagina, se potevi “connettere” i due padri, i due temi , le due pagine , insomma il sistema analogico binario al cui interno altre sigizie e altre ancora…
GRAZIE A TUTTE/I
rò
ps
credo che per un io a tendersi in noi, sia molto molto decisivo cogliere i semi contenuti in questa pagina di questo inizio d’anno; credo vi sia un passo in più nel radicamento delle nostre relazioni e, lo dice una che ha avuto mille incasinamenti e conflitti, prima di cogliere il grande valore esistenziale di Ennio, nella ricerca apparentemente solo intellettuale, appassionatamente avvinghiato nelle sue indagini tanto sul senso e il non senso della Storia, quanto sulle ricostruzioni , gli arresti e le riprese, le trame, i confini, gli orli e i labirinti della Sua Storia.
In queste poesie ho trovato anche una importante e meravigliosa leggerezza,uno stupore una voglia di dare quasi un’impronta mitologica a quel padre, ma anche nella prima poesia, al paese. Le spiegazioni di Rita perciò mi sembrano così profonde così perforanti che alla fine hanno tolto alle due poesie ciò che per me era per loro di vitale importanza. Con questo non voglio assolutamente dire che una analisi seria come quella di Rita non sia di profondo ed utile studio. Il poeta poi ne trarrà le conclusioni.
Questi versi mi hanno colpita per la loro genuinità, sebbene penso vi siano state apportate modifiche anche importanti nel tempo (o magari poco prima di introdurle alla visione).
Di certo, la dicitura della data è notevole, Ennio non si ferma a riportarla ma, con quel “scritta a” ne indica il luogo, quasi a voler fissare con precisione il momento del gesto e dunque del ricordo.
Nella lettura fatta da Rita Simonitto, molto attenta e sagace come lei sa essere, si parla di conflitto e di mitizzazione della figura paterna.
Ma credo anche che insieme alla paura di dimenticare, in Ennio vi sia una identificazione con il padre, una figura a lui molto cara.
In un primo momento avevo letto, sbagliando, ‘ero soldato’, e in tal caso il padre diveniva un infermiere premuroso.
Quel tratto del carattere, a proposito dell’albero di fico, lo rivela come uomo schivo, come poi Ennio stesso dice nel bel commento, ma penso che proprio questo lo affascini (il gesto ancor più della parola). E probabilmente nasce da qui questa ricerca infinita, che è anche ricerca di sé.
@ Di Leo
I versi della poesia «A mio padre» sono rimasti quelli scritti l’8 sett. 1963. Non c’è stata alcuna modifica.
Semmai ho ripreso quel tema successivamente in «Salernitudine» (2003) rielaborando in dialetto anche alcune delle immagini di quella del 1963:
Pateme
Miezza a terra, a ‘Ntessane
cu nu frustine e nucelle mmane
A parlà cue viecchie cuntadine
re garofane, ro tiempe, re mandarine.
A stregne nu rinucchie nsanguinate
cumme si je fosse già nu surdate.
Na quaglje a vierne me purtaje na vote
mezza morte, ca cape accartucciate.
Pateme ere n’omme antiche.
Camminave mmiezze all’animale
e sapeve cummannà
cu na vvoce e stivale militare.
Pateme ere servatiche.
Verette na serpe divina
nge facett’ammore e l’accirette
l’accuvaje ncopp’o fiche
e nu lampe tutt’abbruciò
e isse scumparette dint’a notta nere.
Cheste ccose riche e pateme.
Sempe l’aggia fatte cchiù crure
pecché je, ra giovane, vulev’esse crure.
O ddoce e pateme e l’ammare songhe n’ata cosa:
stanne rint’a storia e na brutta guerre
ca facette luntane e mai me raccuntaje.
[Mio padre
In mezzo ai campi, ad Antessano| con un frustino di nocciolo in mano./ A parlare con vecchi contadini | di garofani, del clima, di piante di mandarino. / A stringere un ginocchio insanguinato| come se io fossi già un soldato./ Una volta d’inverno mi portò una quaglia | già moribonda, col capo ripiegato./ Mio padre era un uomo all’antica.| Si muoveva [senza timori] fra gli animali | e sapeva comandare | con una voce da stivali militari. / Mio padre era selvatico. | Vide una serpe divina | ci fece assieme l’amore e l’uccise| la nascose su un fico| e un fulmine bruciò tutto| e lui scomparve in una notte nera. / Queste sono le cose che racconto di mio padre. | L’ho sempre dipinto più crudo| perché io, da giovane, così volevo essere./ Il dolce e l’amaro di mio padre sono altra cosa:| stanno nella storia di una crudele guerra | che lui fece lontano e mai mi raccontò. ]
!!!!!!!!!!!!
Caro Ennio, ritrovare la mia ‘impressione’ scritta a chiare lettere nella poesia Pateme mi fa capire quanto la memoria a volte giochi per suo conto. Ho letto Salernitudine un paio d’anni fa ma non ricordavo questa poesia. Evidentemente però l’aggancio con A mio padre c’è stato, cosa che reputo un buon segno, perché significa che anche il lettore (io, in questo caso), ritrova la voce che l’autore cerca.
Trovo interessante quando definisci tuo padre un uomo d’altri tempi (“all’antica”), non saprei dire se questa era (devo usare il passato) una caratteristica dei nostri padri del sud. Di certo ritrovo molto anche di mio padre in tutto questo.
Non capisco i punti esclamativi di Emilia.
Cara Giuseppina,
mi è tanto piaciuta ecco il significato dei punti esclamativi.
Quel padre pur essendo all’antica ha un fascino enorme agli occhi del figlio, il quale riesce a trasmettercelo con una forza e una grazia bellissime insieme ad una natura che quasi si piega a questa forza. Per quanto riguarda il resto: la guerra, che rende gli uomini duri almeno all’apparenza, è un pensiero che mi ha sempre accompagnata perché anche mio padre fu fortemente colpito dalla guerra, ed a una certa età peggiorò parecchio nel più triste dei modi e non raccontò mai della guerra che aveva combattuto in Grecia ed Albania, ricordo che spegneva il televisore con una tremenda rabbia negli occhi ad ogni inizio di immagini di guerra.Ciao Giuseppina un abbraccione.
Sono storie condivise, e poco importa se, per motivi anagrafici, si aveva il privilegio di rimanere a casa. La guerra la si viveva anche lì, forse ai margini, ma era pur sempre guerra. Grazie per il tuo ricordo Emilia.