di Luigi Paraboschi
Intervenendo sull’articolo di Abate in merito alla presentazione della raccolta delle poesie di Fortini a Milano l’ ho definito più un “ intellettuale che un poeta “ ma avrei dovuto aggiungere “ di sinistra “ usando questo aggettivo nel senso che la nostra generazione ha sempre rivendicato per i pensatori che sentiva appartenere ad una matrice ideologica un tempo alquanto diffusa nella cultura che contasse qualcosa, non avendo mai avuto, la destra,- a quanto sia dato ricordare,- una corrente di scrittori altrettanto valida ed influente nel pensiero di quegli anni .
Però, leggendo per intero la raccolta “ Poesie “ di Fortini appena uscita, devo modificare il mio giudizio su di lui, e considerarlo molto seriamente anche come un ottimo poeta del suo tempo.
La richiesta rivolatami da Abate di esprimere un giudizio su questi testi, mi ha costretto a riprendere in esame il volume intero nel quale avevo lasciato, leggendolo, molte annotazioni con giudizi da banalissimo lettore quale io mi ritengo, e rivedendole oggi, a poca distanza di tempo, scopro di aver lasciato invece tra le pagine alcune annotazioni assai lusinghiere sul conto dell’autore.
Dalla prima raccolta “ Gli anni “ risulta evidente e intensa la sofferenza del periodo bellico, la presa di coscienza di un giovane che attraversa il dramma di quella stagione, e lo si vede in testi come “ Per un compagno ucciso “, “ Basilea 1945, “ di porto civitanova “ “ e guarderemo “, mentre dalla raccolta dello stesso periodo “ Altri versi “ emergono testi di una dolcezza struggente come “ La buona voglia ( questo ultimo inserito da Crocetti nella recente raccolta Poesie d’amore ) “ “ e Saggezza “, che ci mostrano un Fortini pieno di quella sofferenza-desiderio amorosi tipici della gioventù, e che contribuiscono a rendere la sua figura negli anni meno ideologica e politicamente schierata, come si è abituati ad immaginare questo autore.
Sono anni di trasformazione culturale, che Fortini stesso nel commento a “ Foglio di via “ definisce così, parlando di sé stesso : “ gli uomini gli apparivano divisi in vittime e carnefici, oppressori e oppressi, ricchi e poveri : non in classi “ ……….…..che cosa gli serviva aver letto Proust, Joice, Rilke, Gide ? Credeva che fossero i libri degli altri, dei complici della violenza e dell’oppressione, che nei mesi di Varsavia e Stalingrado scrivevano in frotta sulle riviste di Mussolini “.
Dalla raccolta Al poco Lume 1946-1950 ho segnato la poesia “ e quando ci sarà restituita “ che mi ha rimandato a un testo di Calamandrei di quel periodo ( lo avrai camerata Kedsserling..., per quella invocazione alla speranza che di certo doveva riempire cuore e mente di coloro che si erano battuti contro il Male, ed anche in “ che storia “ riappare quel bisogno di fisicità, di incontro con l’altro sesso che, di certo, gli anni della guerra avevano mortificato.
Invece nella raccolta In una strada di Firenze 1947-1954, poesie scritte attorno ai trent’anni, cioè nel pieno della maturità di uomo cosciente di vivere storie sentimentali importanti, merita menzione al di sopra di ogni altra quel “ Camposanto degli Inglesi “ e “ Piazza Tasso “ che posseggono entrambe la dolcezza e la delicatezza del miglior Bertolucci, mentre in Borgo Pinti affiora una nostalgia per chi un compagno che è scomparso, la cui presenza è sempre viva nei rimasti, che raramente si riscontra in testi successivi.
Indugio un istante su “ il comunismo “ dalla raccolta Traducendo Brecht “ non perché la poesia io la giudichi bella di per sé, ma semplicemente perché è del 1956, quindi post invasione dell’Ungheria, post XX congresso del PCUS, insomma è lo stigma dell’autore, quella che lo caratterizza più come intellettuale che come poeta.
Egli dice:
Ero comunista
troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi ,
giustamente non m’ hanno riconosciuto.
la mia disciplina non potevano vederla.
Il mio centralismo pareva anarchia
La mia autocritica negava la loro.
Non si può essere comunista speciale.
Pensarlo vuol dire non esserlo.
Appare evidente ai lettori di poesia “ generalista “ che un testo come questo non possa essere considerato di vera poesia, questo è un testamento morale più che un dichiarazione d’intenti, è la voce di uno scrittore in disaccordo con la direzione centrale del suo partito, di un tale che in altro paese ed in tempi differenti sarebbe di certo finito in un gulag, alla maniera di Vasilji Grossman, ed io credo che da questa data la scrittura di Fortini si trasforma sempre di più da poesia influenzata dal post ermetismo,- da lui mai adottato a dire il vero-, e si orienta verso una scrittura che a quei tempi si definiva “ impegnata “.
Ma la mano del poeta non si smarrisce del tutto nelle divagazioni sociali e politiche, Fortini è poeta che sa guardare il mondo e la vita e dal suo sguardo è capace di trarre conclusioni che possono sembrare metafisiche a chi le volesse leggere in tal senso, ma, conoscendo un poco l’autore, si possono prestare anche ad interpretazioni più intense anche sul piano sociale, come in questa poesia intitolata
“ La gronda “
Scopro dalla finestra lo spigolo d’una gronda,
in un casa invecchiata, ch’è di legno corroso
e piegato da strati di tegoli. Rondini vi sostano
qualche volta. Qua e là, sul tetto, sui giunti
e lungo i tubi, gore di catrame, calcine
di misere riparazioni. Ma vento e neve,
se stancano il piombo delle docce, la trave marcita
non la spezzano ancora.
Penso con qualche gioia
che un giorno, e non importa
se non ci sarò io, basterà che una rondine
si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti
irreparabilmente, quella volando via.
Confesso che è questo il Fortini che preferisco, un poeta delicato, spesso ripiegato su se stesso, capace di osservare le piccole cose del mondo, e di trasmetterle al lettore assieme alla sue riflessioni, spesso intrise di una malinconia che rimanda alla dolcezza di Vittorio Sereni, come in questa IV parte della poesia 1944-1947 tratta dalla raccolta “ Una volta per sempre “:
Era come dicevamo,
un giorno avremmo avuto una vita alle spalle
e tu m’avresti detto : “ non sono più giovane “.
E io t’avrei risposto soltanto guardandoti
per difendere te, amore mio,
da chi senza rimedio
ci porta via insieme. Come ti guardo
ora, come ti chiedo,
ora che sei di tutto
non so se domanda o sentenza
o giudizio, mia sola
anima che mi tremi
a questo primo buio.
E vorrei concludere queste note soffermando un istante sopra un aspetto della sua poesia che potrebbe anche sfuggire, intrisa come essa è in molte sue parti, di contingente, di lotta di classe, e di testimonianza politica. In questa, invece, c’ è un aspetto che invita il lettore a porsi la domande se l’autore si possa considerare marxista fino in fondo, nel senso del trascurare ogni aspetto trascendente del vivere, oppure se qualcosa nella sua formazione morale abbia fondamenta religiose.
La poesia che mi ha fatto sorgere questa domanda è tratta da “ Paesaggio con serpente “ e si intitola “ Perchè alla fine … “
“ Perché alla fine che cos’è
tutto il genere umano a paragone
della natura e della universalità delle cose ? “
I ragazzi corrono senza fiato.
Le pinete scricchiolano nel sole.
Di qui la società è invisibile.
Ma se continuiamo a non volere la verità
sarà terribile la nostra via.
E’ bene che lo sappiamo una volta per sempre.
La battaglia ebbe luogo prima del bivio
dove la strada fa una larga svolta.
Il nome lo rammenta Livio, lo storico antico.
E non guardate dove le stelle si riproducono ? Non volete
nemmeno osservare le piccole persone
che stridono sotto le nostre scarpe ?
Come l’agonizzante diventa un sasso lo sapete.
Come si butta via
die Leiche il cadavere spezzato l’avete visto.
Una poesia piena di domande, le stesse che spesso angosciano molti di noi, quelle racchiuse nei tre versi iniziali, nella quale le cose sembrano svolgersi senza la nostra partecipazione diretta ( quei ragazzi che corrono, quelle pinete nel sole ), dentro la quale l’autore fa nascere una domanda angosciante, la stessa che sorge tra Pilato e Gesù attorno alla verità, che noi come Pilato sembriamo voler ignorare, ed i fatti recenti di cronaca sembrano volerci riportare alla ribalta la sua attualità.
Ma noi “ dobbiamo saperlo una volta per sempre “ : “sarà terribile la nostra via”, dice il poeta, se non sapremo porci le domande fondanti del nostro vivere, sia che riguardino le metafisica delle stelle, che la brutalità dell’agonizzante che si fa cadavere spezzato sotto le nostre scarpe.
l’unico Fortini che conoscevo era il traduttore delle poesie di Brecht, ora ho ordinato tutte le poesie, per quelle
acc, parte da solo!
… per quelle riportate, in particolare la IV parte di ’44-47, perché uno che sa parlare così a sua moglie, be’, era un uomo intero e comune e per di più poeta
…ringrazio Luigi Paraboschi per la semplicità e la profondità del suo commento alle raccolte di poesie di Franco Fortini.Questo quanto ho raccolto…Un poeta, Fortini, che ha voluto guardare in faccia il suo tempo (collegandolo alla storia dell’intera umanità) nella sua drammaticità e perseguendo sempre la ricerca della verità, anche quando si trattasse di sacrificare il suo partito e gli amici. Un uomo, tuttavia, che ha saputo tenere aperto un varco alla speranza pur proiettandola nel futuro: nella poesia “La gronda”, dalla “casa invecchiata” piena di “calcine/ di misere riparazioni” quando crollerà per “vento e neve” una rondine volerà via…E’ come una rivincita della natura sull’uomo…”Perché alla fine che cos’è/ tutto il genere umano a paragone delle natura e della universalità delle cose?” Anche la poesia alla moglie è notevole, per quel primato accordato ai sentimenti…Lo leggerò
“Ma noi “ dobbiamo saperlo una volta per sempre “ : “sarà terribile la nostra via”, dice il poeta, se non sapremo porci le domande fondanti del nostro vivere, sia che riguardino le metafisica delle stelle, che la brutalità dell’agonizzante che si fa cadavere spezzato sotto le nostre scarpe.”
Solo per questo , se fosse possibile, direi al grande e amabilissimo Fortini : -resta qui a far due chiacchiere con noi…. abbiamo tanto bisogno di te.-
Grazie tante a Luigi Paraboschi
per la verità pare a volte difficile distinguere il Fortini poeta e il Fortini traduttore di Brecht, che è pur sempre un ottimo modello ma di fronte al quale si ha l’impressione talvolta della parafrasi. Persino in alcuni dei buoni esempi qui riportati, e che tra l’altro poi mostrano il miglior Fortini, che quando invece indulge a un larvato ermetismo (vedi il “lampi di magnolia”) diventa a mio avviso poeticamente poco credibile. La domanda è: quanto la convinzione della superiorità, anche intellettuale, di un certo modo di fare poesia ha ragione di prendere il sopravvento sull’espressione di personalità in poesia?
@ Giovanni Schiavo Campo
Io non inchioderei Fortini al modello brechtiano. Fortini onnivoro e sempre aggiornato è stato influenzato direttamente e indirettamente da tanti autori e movimenti. Solo per fare qualche esempio tra quelli che mi vengono a mente e senza andare a verificare: la Bibbia, il surrealismo ( che studiò e sul quale redasse un’antologia con Lanfranco Binni), Lu Xun (tramite Edoarda Masi), Goethe, i russi da Dostoewskij a Mandel’štam.
Un buon libretto per capire questo aspetto della sua personalità mi pare «Fortini. Leggere/scrivere» , un libro-intervista firmato da lui e Paolo Jachia (Marco Nardi editore 1993).
Di ermetismo in «I lampi della magnolia» (ricopio sotto) proprio non ne vedo e la poesia andrebbe considerata nel volume a cui appartiene, «Paesaggio con serpente».
Non capisco poi cosa intenda dire con «poeticamente poco credibile». Che (semplificando) Fortini è troppo intellettuale per essere poeta?
Se sì, è la “vecchia questione” che ho trattato rispondendo a Luigi Paraboschi qui: https://www.poliscritture.it/2015/01/13/segnalazione-3/#comment-13661
caro Ennio Abate, direi che non è proprio in questione una valutazione su Fortini come poeta, né tanto meno il fatto di considerarlo meno poeta perché intellettuale. Non sono certo io ad avere prospettato una simile interpretazione. Sull’identificazione con Brecht diciamo pure francamente che incide il fatto che è stato lo stesso Fortini, con le sue ottime traduzioni, ad avere offerto al pubblico italiano un modello di lettura imprescindibile (per chi peraltro non ha dimestichezza con il tedesco) per accostare la poetica brechtiana. Parliamo quindi di un merito, che però ha forse anche in parte offuscato (come è successo anche ad altri traduttori poeti o poeti-traduttori) ciò che ne ha rappresentato invece l’impegno più personale. Ammetto in questo di avere dato voce più a una sensazione che a un giudizio. Come anche non è un giudizio sull’opera complessiva il mio appunto ai “lampi della magnolia”. Per quanto possa sembrare strano sollevare un’eccezione in merito a un singolo verso, ritengo che sia facoltà di chi fa poesia farlo con piena legittimità. Tra l’altro, andandomi a rileggere la poesia si ritrova questa espressione alla chiusa come un brusco inserto di un piccolo quadro a sfondo naturalistico; quasi come se un pittore, fatto un perfetto paesaggio idillico, a un certo punto mettesse una violenta spatolata di luce alla Turner. L’ho tuttavia indicato come larvatamente ermetico non solo per questo effetto di apposizione, ma anche per ragioni intrinsecamente fonetiche con quel -gn- di magnolia che sembra deglutire il resto.