di Maria Teresa Granati
Sono nata in un paese di collina davanti a una grande valle, tra altre colline e altre valli, ma di fronte alla mia casa c’era quella che ancora oggi mi sembra la più bella e armoniosa.
La guardavo dalla finestra o dalla porta di casa, o quando camminavo sulla strada che porta al paese o dal belvedere che chiamiamo Pincio. La vedevo sempre uguale e sempre diversa, col mutare delle stagioni, di giorno e di notte, con la pioggia e col sole; mi incantava soprattutto con la neve, quando magicamente si trasfigurava.
Mi sono abituata, crescendo, a considerarla una sorta di rappresentazione del reale, del mondo, dell’altro da me, di cui tuttavia sentivo di far parte. Per un certo periodo, credo verso la fine delle elementari, sono stata convinta che fosse più o meno al centro del mondo, ma allora sapevo, dell’Italia e dell’Europa, quello che c’era nel manuale delle elementari o poco più. I miei primi viaggi, a Urbino, Firenze, Napoli, li devo al Liceo “Leopardi”, che ho frequentato a Recanati.
La valle allora non era per me solo un piccolo pezzo di mondo, era il mondo, o almeno il mio occhio sul mondo; da lì nacque il mio modo di percepire lo spazio, la luce, l’orizzonte, il paesaggio, la montagna e il mare, le colline e paesi, il cielo e la terra, l’alba e il tramonto, le stelle e i pianeti. Perché tutte queste cose in quella valle c’erano e mi apparivano nella loro forma più limpida e quasi primordiale, silenziosa e intensa, come in un mondo appena creato. Da piccola guardavo con stupore e ammirazione un presepe grandissimo che c’era nella basilica di S.Nicola, a Tolentino, di quelli in cui viene rappresentato intorno alla grotta di Betlemme l’alternarsi del giorno e della notte, e via via la pioggia e la neve, il fiume e il mare, e tutto è sempre in movimento, la luna e il sole sorgono e tramontano veloci come in un planetario. Talvolta quel mio paesaggio mi trasmetteva la stessa magia, una grande distesa di campi coltivati e alberi, con i bianchi nastri delle stradine poderali, i prati e i vigneti, le grandi case coloniche, il fiume e una strada dritta come una freccia fino al mare, le alture dell’Appennino umbro marchigiano fino al Gran Sasso da una parte e la striscia azzurra del mare verso nord est: il paesaggio di tanti idilli leopardiani, valle e fiume compresi.
Alcuni elementi di quel vasto scenario erano entrati e restarono a lungo nel mio immaginario infantile; ad esempio il monte S. Vicino che spicca all’orizzonte verso ovest con la sua cima gobba era per me la montagna che la befana doveva valicare per portare i suoi doni; il fiume, il canale che convogliava acqua per alimentare la centrale elettrica, le pozze d’acqua sparse in tutta la valle venivano, specialmente dopo una pioggia, trasformate dal sole al tramonto in nastri luccicanti d’oro che mi incantavo a guardare, convinta quasi che fossero irreali; un po’ come guardavo una grandissima tenda di tela chiara, ricamata da mia zia monaca negli anni trenta, che raffigurava, a vivaci colori, pagode, donne con ventagli e chimoni, alberi fioriti o pieni di frutti d’oro come nel giardino delle Esperidi…
Verso i dieci anni, ero in quarta elementare, vidi per la prima volta, grazie ad una gita scolastica, Recanati, palazzo Leopardi e, soprattutto, il monte Tabor: non ho più dimenticato il sentiero spoglio, al termine del quale, sotto un albero scosso dal vento, il direttore didattico ci lesse “L’infinito”; sento ancora la sua voce recitare il verso che allora più mi colpì: ove per poco il cor non si spaura..
In seguito, durante l’adolescenza, fu proprio la lettura degli idilli leopardiani che segnò un mutamento nella mia percezione di quel mondo; cominciai a identificare il fiume con quello che, dopo la tempesta, chiaro nella valle… appare; così il ciel sereno, le vie dorate e gli orti, e quinci il mar da lunge e quindi il monte, e poi i monti azzurri che di qua scopro e che varcare un giorno io mi pensava, arcani mondi, arcana felicità fingendo al viver mio… Imparai a memoria i piccoli e i grandi idilli. Al liceo, aveva un bel ripetere Luigi Russo, che aveva curato l’antologia su cui studiavamo, e il nostro professore con lui, che la poesia trasfigura il reale e che non ha importanza sapere a quale fiume, a quali monti si riferisse il poeta. Io insistevo che Giacomo, sia dal palazzo paterno, sia dal colle, non poteva che vedere quella valle, quel fiume, quei monti…così come io vedevo da casa mia la macchia scura degli alberi del monte Tabor. E mi sentivo fortunata e felice di vivere in quel luogo e di vedere ogni giorno le stesse cose che vedeva lui. Provai anche a più riprese a scrivere poesie “leopardiane”, ma, insoddisfatta, le cestinavo…
In quegli anni percorsi forse qualche migliaio di volte in pullman, per andare a scuola, i dodici chilometri che separano i due paesi, sapevo a memoria il percorso in tutti i particolari, prima la discesa nella vallata, poi la strada diritta, il ponte sul fiume, poi la salita verso l’altro colle; conoscevo ogni albero, le vecchie querce, i noci, i cipressi, gli olmi, i filari di viti…
Ma la valle intera vista dall’alto era molto di più di tutte le cose che essa conteneva, che solo così acquistavano un senso, una struggente bellezza, con l’infinita varietà di forme e di colori: un paesaggio agrario perfetto, ordinato e insieme ricco e molteplice, con i suoi verdi chiari e scuri e gli ulivi argentei che spiccavano sul giallo dorato e sull’ocra delle stoppie o dei terreni arati, i vigneti appoggiati agli alberi, le macchie scure delle querce : un raffinato ricamo, le cui forme si intravedevano anche di notte, quando c’era la luna. Allora l’illuminazione pubblica era molto più sobria.
Era bello guardare i campi dopo la mietitura, quando ancora il grano veniva falciato a mano e i mazzi di spighe tagliate erano con cura ammucchiati in modo da formare un perfetto covone.
Qualche volta, di sera, dopo una pioggia, era facile vedere muoversi molto lentamente nell’oscurità dei piccoli lumini tremuli; li si distingueva anche a notevole distanza, di solito seguivano le siepi che segnavano i confini dei poderi; pensavo ad anime del purgatorio che vagavano nel buio, ma sapevo che erano i cercatori di lumache con le loro lampade ad acetilene.
Quando era festa, invece, come ai primi di settembre, in onore della Madonna di Loreto, tutta la valle si accendeva di grandi fuochi, che duravano quasi l’intera notte.
Ricordo i bagliori improvvisi che accendevano, al sorgere del sole, i vetri delle case di Recanati, di Osimo, di Loreto e tutto era immerso in una tersa luce rosa.
Spesso, a metà giornata, nella buona stagione, grandi rettangoli bianchi spiccavano sul verde dell’erba, vicino al fiume: era la tela, di solito tessuta a casa, per fare lenzuola e biancheria del corredo nuziale, che veniva lavata al fiume e poi stesa al sole perché diventasse candida. A sera, si vedevano giovani donne salire verso il paese con grandi cesti in testa pieni di “panno” già sbiancato e pronto per la confezione e il ricamo.
Al crepuscolo, soprattutto a fine estate, fumi grigi leggeri e chiari di stoppie bruciate si muovevano al vento qua e là. Ne seguivo l’ultima traccia, mentre le luci cominciavano ad accendersi.
Mi piaceva molto guardare il tramonto del sole nell’ultimo tratto, quando veloce scompare dietro Recanati, e l’accendersi via via delle luci nei numerosi paesi adagiati come diademi turriti sulle colline davanti a noi, proprio sulla linea dell’orizzonte: Cingoli, Treia, Montecassiano, Montefano, Recanati, Osimo, Castelfidardo, Loreto, e infine Sirolo e Numana sui pendii del Conero, quasi a picco sul mare. Se l’orizzonte era chiaro, si distinguevano a est i monti della Iugoslavia.
Ho trascorso in questi decenni la vita in una città di pianura. Mi è mancato soprattutto l’orizzonte, ma anche quel grande spazio di aria e di luce davanti a me. Raggiungevo d’estate la mia casa natale e vedevo di anno in anno cambiare tutto: il paesaggio agrario sempre meno ricco e vario, gli alberi drasticamente diminuiti, tante nuove costruzioni, soprattutto parecchi capannoni industriali, qualche mostro di cemento proprio sul litorale, davanti al mare. E tuttavia, questa valle e tutto ciò che contiene, i suoi confini verso il monte e verso il mare, la corona di paesi che ne segnano l’orizzonte tra terra e cielo sono per me fonte di emozioni forse più intense rispetto al passato, di una percezione del reale che va molto al di là del rapporto col paesaggio e con la natura, di una conoscenza che mette insieme mente e cuore, che suggerisce idee, intuizioni, barlumi di verità sconosciute, il senso di una realtà nascosta, stratificata, da cercare in zone d’ombra, fuori mano. Ora mi sembra, questa valle, il mio “entroterra”.
È più che mai un universo di segni, di immagini in movimento, un disvelarsi di cose eterne, sempre uguali e sempre diverse, talvolta misteriose.
Basta un nulla, una nuova sfumatura di verde-giallo del grano che matura, un movimento di luci ed ombre causato dalle nuvole mosse dal vento, l’ombra lunga degli alberi al mattino e alla sera, una fila di cipressi sulla sommità di una collina, un azzurro più intenso del mare quando c’è tramontana… per avere la sensazione di un disvelarsi, prezioso perché lieve e fugace, del reale.
E dopo il tramonto, quando ancora l’orizzonte è infuocato di rosso e giallo e via via sfuma nel rosa e nell’indaco, può succedere che, in un punto delimitato, una fascia di luce più intensa si proietti improvvisamente verso il cielo già quasi scuro, per svanire in pochissimo tempo. È la fugacità il segno di questa bellezza, la sua sostanza inafferrabile e misteriosa..
Di notte non si distingue quasi più il ricamo verde dei campi e degli alberi. Ma i segni sembrano moltiplicarsi, mescolarsi, sotto forma di luci. Nel buio, gli aerei popolano il cielo, talvolta qualcuno si insinua in mezzo alle costellazioni, sembra stella o pianeta, la sua luce è quasi ferma, poi si muove lentamente, errando, trema e si affievolisce, scompare, poi torna e sparisce subito, dietro al piccolo Carro, a Cassiopea o Andromeda. Cerco di indovinarne la destinazione e immagino il mondo visto da lassù, il profilo delle coste, nelle due rive dell’Adriatico, il probabile arrivo in qualche isola greca, o in Turchia, nelle coste africane, lo splendore del Mediterraneo all’alba, le spiagge bianche.
Anche il mare è percorso da numerose luci: barche da pesca, lampare, imbarcazioni da crociera. Non è sempre facile distinguerle. Penso all’Adriatico di cinque secoli fa, quando era ancora il mare più importante del Mediterraneo, il più ricco di traffici, ponte tra est ed ovest dell’Europa e soprattutto via per l’Oriente.
Lungo la linea del mare passano la ferrovia, l’autostrada e la nazionale adriatica. A volte una folata di vento porta il fischio di un treno e un rumore di rotaie; sull’autostrada sfila il pellegrinaggio dei vacanzieri verso sud. Dai paesi del litorale, la fiera dell’estate, con i lungomare illuminati, i negozi, bar e discoteche, manda verso il cielo una luce indistinta, una specie di via lattea giallognola. Ma nella silenziosa campagna notturna c’è sempre qualcuno che vaga nell’intrico delle piccole strade, quelle invisibili anche di giorno, quelle che nessuno conosce. È un misterioso popolo che si muove nella notte, senza tregua, senza riposo.
C’è anche un suono indistinto che viene non si sa da dove, un suono che è un insieme di suoni, di voci: è il suono della valle, qualche camion che transita nella strada Regina, i motori che pompano dal fiume acqua per le campagne, qualche rana, uccelli notturni, un cane che abbaia in lontananza.
Mi lascio prendere da un sentimento di grande consonanza, di empatia, mi sento in armonia con uomini e cose. Mi manca ora la conoscenza dettagliata che avevo un tempo di tutto ciò che vedevo, natura, uomini e loro vite e fatiche, strati di realtà e vicende antiche conosciute o apprese da altri, fin da piccola. Ma si è allargato l’orizzonte e questa valle è diventata quasi grande come il mondo.
(2 agosto2006)
Maria Teresa Granati va controcorrente, la sua valle dell’adolescenza è oggi diventata più ricca di stimoli e di presenze, luminose, plurali, moderne e in parte sconosciute. Il racconto non è percorso dalla nostalgia di un passato “a misura umana”, ma dall’orgoglio di un’altra bellezza cresciuta sulla precedente, e dall’avvertimento di nuove realtà, ricche, misteriose e amichevoli: “un misterioso popolo che si muove nella notte, senza tregua, senza riposo. … un suono indistinto che viene non si sa da dove, un suono che è un insieme di suoni, di voci”: camion, pompe, rane, uccelli e cani coabitano e si rispondono. La sua nuova valle si allarga indietro nella storia e davanti all’altra riva del mare.
E’ finita la opposizione tra città e campagna.
…Maria Teresa Granati in questo bel racconto autobiografico narra che sino all’età di dieci anni non ha visto che la sua valle, una visione quotidiana contemplata ed amata in tutti i suoi particolari, consegnata a lei dalla tradizione familiare…Quando poi studiando si avvide che quel paesaggio era lo stesso cantato da G Leopardi, suo conterraneo, negli Idilli, penso che identificasse il suo punto di vista visivo con quello del poeta, pertanto, lei non dubitava, la sua realtà era poesia…La visione d’insieme di quella valle con la sua “struggente bellezza”, forma della vita ed armonia, resta un ancoraggio interiore al passaggio dall’infanzia all’età matura, e diventa una finestra aperta sul mondo, sull’universo…Si estende a comprendere mari ,spiagge, costellazioni, attività umane e città, per quanto dica di quest’ultima “Ho trascorso in questi decenni la vita in una città di pianura. Mi è mancato soprattutto l’orizzonte, anche quel grande spazio di aria e di luce davanti a me”. Anche se in conclusione, dopo una vita, dice” Mi si è allargato l’orizzonte e questa valle è diventata quasi grande come il mondo”, penso che il suo “entroterra” resti sempre la campagna, ma è solo una questione di una maggiore esperienza interiorizzata…Cristiana, mi sembra che nel tuo scritto “Milano incroci” la continuità territoriale e vitale tra città e campagna sia piu’ evidenziata, anche già nel titolo. In realtà, anche secondo me, non c’è alcuna “opposizione tra città e campagna” ma se mai una differente modalità di porvisi legata ad esperienze personali.
Questo racconto mi regala un quadro dai colori dei migliori impressionisti e le voci, la musica , i rumori mi giungono con armonia che rassicura e lascia una ottimistica gioia . Tutto resta impresso chiaramente nel suo importante esistere, soprattutto la passione con la quale l’autrice ha vissuto tutto questo. Il racconto si snoda inizialmente leggero come un volo, poi il tempo che passa, l’esperienza, lo studio della scrittrice riescono a coinvolgerci, fino a farci scoprire il grande amore e rispetto per la sua terra. Purtroppo il mio paese non mi ha donato questo magnifico stupore….ma a pochi chilometri , circa una mezz’oretta da qui, appare l’immensa bellezza del mio amato lago di Como…e mi basta , mi appaga al punto che dimentico tristezze, il grigio andare delle auto e i pettegolezzi del mio piccolo paese. Grazie e complimenti per l’emozione che mi ha donato.