Del fine vita e dintorni

buona morte

di Luca Chiarei
Non tutti i libri sono “belli” da leggere, non tutti i libri sono piacevoli ma non per questo valgono meno la pena di compiere lo sforzo per arrivare all’ultima pagina. Uno di questi è il libro di Andrea Tarabbia “La Buona morte” Manni editore. Il titolo provoca subito un primo disorientamento per quello che potremmo considerare un ossimoro: come è possibile che la morte sia “buona”? La contraddizione leggendo il libro si rivelerà subito apparente. Tarabbia in questo testo ha un duplice merito: da una parte quello di affrontare il tema della morte, generalmente esorcizzato nella quotidianità dalla nostra vita e dal mainstream culturale contemporaneo: cita lo storico Philippe Aries, il quale sostiene che la morte ha sostituito nella società contemporanea il sesso dal posto di primo tabù sociale e direi che ci possiamo credere senza sforzo; dall’altra la riaffermazione del diritto, laicamente inteso, che la morte sia un momento nel quale la propria dignità e integrità personale non venga meno, un passaggio coerente con la propria vita fino a quel momento trascorsa. In poche parole una scelta nella quale determinare il quando e il come.

Tarabbia ci dice subito esplicitamente che il compito della letteratura è “… quello di affrontare il grande buco nero che è l’ignoto, la morte”, quell’esperienza che nessuno di noi può narrare ma “…esperire soltanto attraverso gli altri”. La letteratura e la poesia dunque come strumento e antidoto alla rimozione del limite esistenziale della propria presenza in vita. Nel libro si ripercorrono alcuni passaggi nei quali la letteratura ha affrontato senza pudore il tema: particolarmente significativi la “morte di Ivan Ilic” di Tolstoj e la narrazione del Lazzaro di Leonid Andreev, un autore russo dei primi del 900, di particolare intensità. A fronte di questi esempi stride il racconto di quanto fu l’imbarazzo, soprattutto in ambito letterario, per l’iniziativa proposta (e ben documentata nel libro) a sostegno della vicenda Englaro, che ciascuno scrivesse e rendesse pubblico il proprio testamento biologico. Pochi aderirono e ancora meno tra scrittori, artisti e personalità della cultura.

Ampio spazio hanno poi appunto le vicende emblematiche legate ai casi Englaro e Welby, descritti nei loro aspetti tecnico-giuridici ma anche esistenziali, grazie al racconto di coloro che a quelle persone sono state vicino fino all’ultimo momento. In quegli anni quei casi furono al centro dell’attenzione mediatica e di un dibattito che, per la divaricazione laici/cattolici presente nel nostro paese, non ha in alcun modo segnato un progresso nella coscienza collettiva del problema. Fa ancora riflettere in questo senso la motivazione del rifiuto della Chiesa cattolica, espressa tramite il vicariato di Roma che Tarabbia riporta, di concedere le esequie religiose a Welby: il suo desiderio consapevole ed espresso “rivoglio la mia morte, niente di più e niente di meno”, contrastava con la condizione che la Chiesa presume comune ai suicidi di “mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso”. Solo il suicidio realizzato in questo stato di inconsapevolezza, secondo la morale cattolica, “fa salvo” chi lo pratica. Condizione antitetica a quella di Welby.
A distanza di anni da quella discussione la questione del fine vita nel nostro paese è ancora, dal punto di vista politico e legislativo, ferma e definibile negli stessi termini: la legge di iniziativa popolare per il diritto all’eutanasia, per quanto approdata alle aule parlamentari, continua ad essere rinviata a data da destinarsi.

Venendo al presente il libro dedica poi ampio spazio alla realtà Svizzera dove la legge prevede che si possa ricorrere all’eutanasia a determinate condizioni. In particolare non lasciano indifferenti le testimonianze di quanti si recano, tramite l’associazione Exit, presso centri dove praticano la morte volontaria assistita.
L’ossimoro del titolo iniziale diventa dunque la riaffermazione del diritto alla buona morte, lo snodo fondamentale di cui riappropriarci lucidamente e non un evento da consegnare ai protocolli medici fondati sulla semplice esistenza biologica del soggetto. Rinchiuderci o meno in un corpo nel quale non sia più possibile riconoscersi, a causa di malattia o eventi traumatici, oppure uscirne attraverso l’eutanasia, non può non fare parte della disponibilità delle scelte possibili dell’individuo.

19 pensieri su “Del fine vita e dintorni

  1. Se capisco bene, il libro di Andrea Tarabbia o almeno certamente la presentazione di Luca Chiarei , sostengono il diritto di riappropriarsi della propria morte, per non doverla consegnare “ai protocolli medici fondati sulla semplice esistenza biologica del soggetto”.
    In realtà è proprio “la semplice esistenza biologica” che si trova di fronte alla propria morte, che non è un’esperienza possibile né da vivere nè da conoscere!
    Riappropriarsi della propria morte diventa in realtà riappropriarsi del “morire”, del giungere fino alla morte, diventa portare la morte dentro la vita, padroneggiarla in pensiero, non la morte stessa solo la morte pensata.
    E io sono d’accordo su questo padroneggiare, anche se l'”anticipare” (sia pure minuscolo e per buone ragioni) l’esito ha quasi il colore nevrotico di chi anticipa da prima un evento terribile per troncare un’insostenibile ansia e terrore.
    Ma sono d’accordo, come dicevo: per ragioni di “decoro” riguardo sé e gli altri. Un decoro che coinvolge anche lo strazio e la degradazione che normalmente provocano sulla persona il dolore e la malattia.
    Ma dico anche che, paradossalmente, “riappropriarsi della propria morte” sta dentro quel tabù che la esorcizza, per farla diventare “un atto”, per farla entrare in un’idea di dominio, di possesso.
    Si perdono in questo modo due profondi atteggiamenti: l’arrendersi, la passività, il cedere; e si cancella la meditazione (paradossale) sull’impossibile: è “impossibile” che io, viva, possa essere morta… quindi la morte non è morte, quindi la fede, le religioni, ecc.
    Io ho sottoscritto per l’eutanasia (una firma che non ha ancora nessun rilievo legale, purtroppo) ma mi rendo conto che che questo padroneggiare la morte ha ampie ripercussioni filosofiche…

  2. …penso anch’io che padroneggiare la morte sia impossibile, diciamo che, come esseri consapevoli, ad un certo punto di un percorso di sofferenza e di malattia irreversibile, desidereremmo (noi o chi per noi) consegnarci amichevolmente alla morte…insomma non vorremmo pentirci di essere nati, proprio in quell’ultimo tratto di esistenza (sa di espiazione) perciò scongiuriamo in tutti i modi l’applicazione di un accanimento terapeutico. La povera E. Englaro tenuta in uno stato di vita vegetativa per tanti anni è un caso di scienza medica al servizio della disumanità; siamo più pietosi nei confronti degli animali…Oltre alle terapie contro il dolore, da applicarsi sicuramente per alleviare le sofferenze, sono favorevole, come scelta personale, anche all’eutanasia per abbreviarle. In questo modo si rinuncia a vivere il mistero della morte? Penso, senza alcuna certezza, che durante la vita si muore a poco a poco e il mistero della morte ci accompagna in ogni istante…

    1. Hai gran ragione Annamaria. Per questo ho molto rispetto nei confronti dei suicidi.
      Ma la vita se l’hai vissuta combattendo per renderla dignitosa quando arriverà la morte sicuramente essa avrà molta meno forza rispetto al coraggio che hai conosciuto durante la tua esistenza. Liberarsi dagli ostacoli che ti impediscono di essere una persona libera e di amare , restano ancora , per me, la migliore strada da percorrere per arrivare alla morte con rassegnazione. Certo, sempre per onorare la libertà, il male del corpo non deve essere anch’esso un ostacolo che offenda la nostra dignità, perciò ognuno deve poter scegliere di morire come meglio crede.

  3. @ Fischer

    «Riappropriarsi della propria morte diventa in realtà riappropriarsi del “morire”, del giungere fino alla morte, diventa portare la morte dentro la vita, padroneggiarla in pensiero, non la morte stessa solo la morte pensata. E io sono d’accordo su questo padroneggiare, anche se l’”anticipare” (sia pure minuscolo e per buone ragioni) l’esito ha quasi il colore nevrotico di chi anticipa da prima un evento terribile per troncare un’insostenibile ansia e terrore.» (Fischer)

    Riflessioni e riserve simili a queste tue credo di aver fatto anch’io nel 2012 in un vecchio articolo pubblicato sul blog IL RAMO DI CORALLO di Francesca Diano al margine di un convegno di studiosi a Padova (https://emiliashop.wordpress.com/2012/10/22/ennio-abate-riflessioni-su-dinanzi-al-morire-di-francesca-diano/).
    Discuterei però più a fondo sulle «ragioni di “decoro” riguardo sé e gli altri”. Che mi sembra occultino i limiti del modo laico “progressivo” e un po’ “perbenista” con cui la questione viene affrontata nel libro di Tarabbia ( che non ho letto) e nella recensione di Luca Chiarei.
    Il limite mi pare stia nel trattare la questione del fine vita rinchiudendola nel contesto, secondo me falsante e limitante, dello scontro avvenuto sui due casi di Eluana Englaro e e Piergiorgio Welby con le gerarchie cattoliche.

    Una cosa è evitare o ridurre la sofferenza. E qui sono d’accordo nel polemizzare con la Chiesa cattolica che ne difende il “valore spirituale”. Altra cosa è rivendicare il «diritto alla buona morte». Diritto? A me appare quasi un altro obbligo che finisce per essere imposto/suggerito ai morituri (quindi anche a noi). E se non riuscissimo a mantenere quel “decoro” nel momento del morire?
    E se l’obiettivo di mantenere quel decoro ( di fare una buona morte) fosse ancora un non fare i conti, in tutti i modi reali possibili e senza stabilire delle gerarchie tra essi, con la cosa scandalosa e inaccettabile della morte?

    Queste mie obiezioni sono state rafforzate dalle numerose riletture che ho fatto di «Due interlocutori» ( in « Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori 2003, pagg. 1387- 1397), dove viene affrontata la questione della reticenza del marxista Cesare Cases in un dialogo «in extremis» con Ernesto De Martino a dire all’amico «la verità sul suo stato» di malato “terminale” per la preoccupazione che «l’annuncio della morte prossima e certa avrebbe […] potuto scatenare reazioni incontrollabili, ricorsi alla divinità, illuminazioni», poiché gli «infami» (i nemici del PCI) «sarebbero stati pronti a trarne vantaggio».
    Il testo è sicuramente datato, visto che il PCI è defunto e quel clima culturale è oggi lontanissimo. Eppure, anche se non si condividesse il fondo cristiano delle obiezioni di Fortini a Cases, troppo impegnato a suo parere ad «accrescere il Monte della Ragione», a lottare contro «l’irrazionale», a «opporre al disvalore assoluto della morte […] l’orgoglio del”grande individuo”», la difesa da parte di Fortini della possibilità che «l’uomo vada alla morte senza “dignità”, piangendo e defecando, nel tremore, nell’angoscia e nella ricerca di un qualsiasi oggetto che lo trattenga (o pensiero che lo illuda) al di qua» mi pare condivisibile.

    P.s.
    Ecco uno stralcio scannerizzato del testo, che purtroppo non riesco a trovare nel Web:

    « Come mai allora ci si preoccupa tanto che il comportamento di fronte alla morte non
    contraddica la vita precedente? Personalmente credo
    «giusto», «umano» e «positivo» che l’uomo vada alla
    morte senza «dignità», piangendo e defecando, nel tre-
    more, nell’ angoscia e nella ricerca di un qualsiasi oggetto
    che lo trattenga (o pensiero che lo illuda) al di qua. Le
    mandrie imploranti che scendevano nelle fosse naziste te-
    stimoniano a favore dell’uomo più di tutti coloro che ri-
    fiutano la benda. Il cristianesimo – che è anche una storia
    di tremito e lacrime – umilia i filosofi che si svenano senza
    batter ciglio. Di fronte al rischio che la «perdita della pre-
    senza» comporti la caduta nella «tentazione» religiosa l’a-
    mico nostro [Cases] sembra stranamente accettare la nozione individualistico-borghese (e giuridica) della unità fra i vari momenti della vita d’una persona. La frase «Mi ricordai …di una discussione che avevo avuta di recente con un comune amico che sosteneva l’opportunità di dire a de Martino che era condannato, poiché un uomo della sua statura intellettuale dovrebbe accettare la propria morte nella consapevolezza della sopravvivenza della specie. In questo mi sentivo più” demartiniano” del mio amico, la “crisi della presenza” mi sembrava qualcosa che non si può superare in modo duramente razionale … ero quindi dell’ avviso che fosse giusto nascondergli la verità», con cui Cases nega si debba a de Martino la verità sul suo stato contiene probabilmente uno storicismo meno astratto di quello che invece credeva dovergliela: ma implica l’ipotesi di una élite legiferante e illuminata, latrice e procuratrice (anche goethiana) di intelletti superiori e di personalità eminenti.L’annuncio della morte prossima e certa avrebbe infatti potuto scatenare reazioni incontrollabili, ricorsi alla divinità, illuminazioni. Gli «infami» sarebbero stati pronti a trarne vantaggio. Per di più, in ogni circostanza si deve accrescere il Monte della Ragione, si debbono favorire presenza e preservazione di atteggiamenti «razionali» e lotta contro I’irrazionale». Ancora una volta l’eredità marxista si confonde con quella giacobina e rivendica l’autorità di costringere – se necessario con una pia frode – altrui al bene. De Martino fa cominciare tutto da Cartesio ma mentre discorre con Cases ha già scritto quel saggio su «Mito, scienza religiosa e civiltà moderna» che si inizia con una
    storia della «crisi decisiva» delle scienze religiose e della
    fine delle tendenze «riduttive» nella interpretazione dei
    miti, dei riti, dei fatti religiosi e mistici. Nella frase di De
    Martino sulle possibili tentazioni religiose dell’ ammalato
    senza speranza non c’è soltanto quel coraggio della bana-
    lità, quella capacità di ripetere il luogo comune rinnovano
    dolo, che è il segno della vera intelligenza. C’è soprattutto
    la capacità di opporre al disvalore assoluto della morte
    non l’orgoglio del «grande individuo» ma tutta l’umanità
    con noi convivente. La miseria e la perdita (così credo di
    poter interpretare) possono non essere mero disvalore e
    negatività nella misura in cui altri – cioè il coro umano, la
    forma sociale dell’ animale umano -li assumono.
    2. Quanti e contraddittori i prolungamenti possibili del
    pensiero dei due interlocutori. Intanto: si doveva o no di-
    re a de Martino la verità sul suo stato? L’argomento a fa-
    vore, fondato sul rispetto dovuto alla «altezza intellettua-
    le» dell’uomo, è pagano ed eroicistico; quello contrario
    mi pare ispirato da preoccupazioni quasi settarie e insie-
    me dalla volontà di non accettare quella negazione dell’u-
    nità della persona che il terrore per la «perdita della pre-
    senza» può comportare, di non rispettare il diritto alla
    contraddizione, come non si rispetterebbe la libertà, in
    un soldato, di disertare. Anche perché annunciare vuol
    dire, in una certa misura, conferire. Ambasciatore porta
    pena. Dire la mortalità altrui è protendere la propria.(1)
    Cases ha capito benissimo che annunciare altrui la morte,
    quando non sia barbarie, è ufficio sacro. La possibile
    «perdita della presenza» riverbera sull’ annunciatore. Chi
    sta accanto al condannato non può non partecipare della
    ambigua funzione del sacerdote. Costui cammina talvol-
    ta all’indietro, con la propria persona impedendo al mo-
    rituro la vista del palo o del palco e perciò, a un tempo,
    designandoli e interponendo una presenza umana. Tutto
    questo è intollerabile per chi non voglia cesure fra la tra-
    dizione illuministica o umanistica borghese e il sociali-
    smo. Ma la dilatazione e l’inveramento del razionalismo
    borghese non può non comportare quel che ormai sap-
    piamo: le socialdemocrazie storiche e il «comunismo
    concorrenziale». De Martino invece sa che non si tratta
    di «sviluppare» i «sottosviluppati». Sa che le angosce del
    morente non sono soltanto regressione e che il bimbo
    non è soltanto l’adulto futuro.»

    (1) In un certo senso l’idea di prepararsi o di preparare altrui alla
    morte è implicitamente religiosa, ed estranea ad una concezione
    del mondo non-finalistica e naturalistica. (Nel momento del decol-
    lo dell’aereo, comunemente ritenuto pericoloso, c’è qualcuno che
    si prepara alla peggiore eventualità e c’è chi invece continua a con-
    versare o a leggere il giornale.) L’importanza che il cristianesimo
    attribuisce alla coscienza della fine e ad ogni ultimo attimo di vita
    cosciente (di qui la preghiera contro la morte improvvisa) nasce
    dalla certezza che – come Cristo fa col peccato di Adamo – è sem-
    pre possibile correggere il passato (individuale e collettivo).
    Scrivendo queste righe del 1965 non potevo sapere che nell’ autunno
    di quell’ anno Frank Kermode leggeva al Bryn Mawr College le rifles
    sioni su questo tema, poi raccolte in The sense 01 an ending, Oxford
    University Press, 1967 [trad, it. Il senso della fine, Milano 1972].

    1. Leggo le tue riflessioni al post di Francesca Diano sul convegno Dinanzi al morire. Ai punti 5,6,7 tu affermi l’autosufficienza della vita, dell’impegnarsi per valori (espressione sintetica che sta per politica, voglia di cambiare, uguaglianza…) e per piaceri, senza dover accettare “il discorso della morte che darebbe significato alla vita”.
      E’ una posizione che sembrerebbe in realtà quella di Cases! ha valore la vita e ciò che De Martino ha fatto e pensato, mai sia che la morte prossima gli faccia rimangiare la vita passata!
      Insomma: la vita basta a se stessa, e sono i valori che noi iscriviamo nel vivere che le danno il suo senso.
      E come no! Fino all’abiezione. Infatti Fortini ritiene “le mandrie imploranti che scendevano nelle fosse naziste” una “testimonianza a favore dell’uomo” più dell’aristocraticismo “di una élite legiferante e illuminata, latrice e procuratrice (anche goethiana) di intelletti superiori e di personalità eminenti”. Ed è su questo umanitarismo, mi pare, la differenza con Cases.

      Ma la riflessione sulla morte mette in questione in realtà proprio questa autosufficienza della vita. Se la vita basta a se stessa allora non si basta, perchè vince l’insensatezza: nella vita c’è tutto, anche l’orrore, e per non far prevalere l’orrore può essere necessaria la violenza che lo contenga, il dominio che lo impedisca: quindi il potere. Che, in qualche modo, può arrivare a riprodurre l’orrore.
      Oppure l’altra soluzione trovata, alla Simone Weil (ma, prima: Gesù) è lasciar passare il male attraverso di sè senza rispondere, per farlo esaurire.
      Perchè la contraddizione è interna alla vita: c’è chi dà senso costruendo per sè e gli altri, e chi dà senso per sè distruggendo gli altri (poi ci siamo noi occidentali ceto medio, relativisti-nichilisti, perchè privilegiati, cioè non direttamente coinvolti -credo per poco- in rischio della vita per mantenere uno stato ‘costruttivo’ di ‘pace’, giustizia e abbondanza). Quindi dare senso costruendo è un optional, che alcuni o molti, rifiutano. E che senso è mai un senso che vale per qualcuno e non per qualcun altro? E’ parteggiare, non dare senso. (Naturalmente tutti quelli che parteggiano possono essere convinti che loro, sì, danno senso, gli altri no.)
      L’ipotesi di autosufficienza della vita conduce in realtà in queste angustie logiche.
      Forse aveva ragione Voltaire ad accontentarsi della parzialità e di coltivare un giardino, il suo. E noi a orientarci più o meno dentro le nostre società per vivere il più civilmente e liberamente possibile la nostra vita.
      Ma se si vuole riflettere fino in fondo sulla morte allora bisogna anche mettere in questione l’autosufficienza della vita.
      Nel punto 8, infatti, mi sembra che arrivi anche tu al paradosso logico: posso solo fingermi la morte, non conoscerla davvero, e quindi…? Quindi la morte non esiste. Non esiste per me che non posso conoscerla. Cioè non esiste ‘in sè’.
      Ad maiora… :-))

  4. …penso anch’io che ogni morte sia dignitosa…Quelle che l’uomo infligge all’uomo nelle guerre, nei fondali marini…ma anche nell’accanirsi a prolungare una vita che non lo è più( ci sono tanti volti della crudeltà) toglie dignità ai vivi, piuttosto…In tutti i modi penso che il fine vita possa essere una scelta della persona. Ammettiamo che una persona pensi: nessuno alla nascita mi ha donato un dolcetto, la mia vita non è stata rose e fiori…per la morte me lo voglio regalare io un dolcetto. Forse quella persona, come dice Emy, non ha lottato abbastanza per il diritto alla vita, alla libertà e all’amore e poi non si ritrova il coraggio per affrontare l’ultimo atto…Forse ha ragione…E se penso a mio padre che, non avendo vissuto una vita felice, il suo ultimo respiro ha coinciso con un lieve sorriso -come se avesse visto una nuova alba, un nuovo giorno-, ho dei ripensamenti e credo che valga la pena arrivare sino all’ultimo istante…Insomma per me, a pensarci bene, è una questione ancora aperta…

  5. Andy Warhol, nella sua indagine sui miti della nostra epoca, scelse la morte per incidente stradale: una foto di cronaca presa dai giornali, il corpo ricoperto da un drappo e la gente intorno, polizia ecc. Una morte accidentale, come ne avvengono ogni giorno. Se c’è dignità ce la metta chi osserva. Da noi è da un pezzo che i funerali si sono ridotti, le comunità non offrono alcun tributo, gli automobilisti aspettano pazienti eccetera eccetera, anche se c’è rispetto per i famigliari, per il dolore. La morte si è fatta domestica, non ha alcun eroismo. Detto questo, che poi son segni dell’imbarbarimento culturale dovuto ai finti vitalisti che governano il nostro paese e il mondo, e a quel che ci tiene occupati che è d’altro genere, e senza stare a dire altro mi limiterei anch’io a valutare gli aspetti giuridici della questione. Ad esempio, a proposito dell’istituto svizzero di cui si parla, apprendo da Nota che il via alla propria esecuzione la deve fare il paziente-suicida… altrimenti sarebbe omicidio, non pare anche a voi? Quindi uno va in un centro dove si pratica la morte assistita, poi dovrà fare da sé. Mi viene in mente che i monaci tibetani, sì quelli che vivono lontani dal progresso, conoscono la morte assistita da almeno duemila anni. Sanno come aiutare il trapasso, anche fisicamente, ma non solo: si preoccupano di accompagnare con preghiere, che sono dialoghi come tra persone vive, il viaggio del defunto nei 40 giorni che seguono il decesso. Ho letto il Libro tibetano dei morti, la prima volta, quando avevo sedici anni. Poi a trenta, e poi l’ho praticato alla morte di persone che amavo e amo. Sono sempre dell’idea che i non credenti, e sono tra questi, abbiano lasciato nelle mani delle religioni troppi misteri. E gliene faccio una colpa.
    Quel che stimo nei suicidi è la loro intelligenza, perché solo una persona molto intelligente può avere il coraggio di giungere fino alle estreme conclusioni. In tutti i casi sono per la morte assistita in tutte le possibili circostanze.

    1. Cesare Pavese disse che per togliersi la vita non serve coraggio, non orgoglio ma umiltà, niente parole, basta un gesto.

  6. SEGNALAZIONE: MORESCO, GLI INCREATI

    Il tema della morte e della vita dei morti pare sia immaginato da Moresco con uno stile visionario.
    Ho leggiucchiato qua e là le prime cento pagine del suo libro pubblicate a questo link:
    http://www.librimondadori.it/content/download/59909/2583303/version/1/file/INT_libro_Moresco.pdf

    Nota
    Non mi ha fatto venire voglia di leggere di più e con più attenzione. Ma se ci fosse qualcuno/a meno prevenuto e volesse approfondire si faccia avanti.

    1. Leggerò più avanti, appena potrò. grazie. Capisco dalle prime righe di che si tratta perché sto scrivendo un poemetto che offre lo stesso punto di vista. Artisticamente è prendere distanze siderali dalla realtà, perché evidentemente quelle che già conosciamo non bastano per via dell’affollamento, o dell’affogamento esistenziale in cui ci troviamo a vivere. Si potrebbe dire molto sulla visionarietà ( dagli antichi a Dante, a Blake). Quel che mi sento di dire è che la visionarietà non è fantasia perché la V. si mostra da sè e non è pilotabile. Quel che accade dopo la morte, o prima della nascita, è nella memoria del nostro vivere: osservando i sogni (notturni e diurni) ma soprattutto chiedendoci chi è che osserva, come lo fa e perché. La soglia da non oltrepassare è quella della fantasia: sarebbe l’ennesima evasione.

  7. Emily Dickinson:

    I mesi hanno termini-gli anni-un nodo-
    che nessuna forza può disfare
    per estendere un poco oltre
    il tessuto del dolore-

    la terra ripone queste vite stanche
    nei suoi cassetti misteriosi-
    troppo teneramente, perchè qualcuno dubiti
    di un ultimo riposo-

    la maniera dei bambini-
    che si stancano della giornata-
    essi stessi- il giocattolo rumoroso
    che non possono mettere via

  8. SEGNALAZIONE: TRA VITA E MORTE (NELLA POESIA DI A. ANEDDA E NELL’ARTE DI ROTHKO E BILL VIOLA)

    La rappresentazione della perdita nella poesia aneddiana non è mai collocata nel tempo, ma ricomposta come spazio. Come si legge ne La vita dei dettagli a proposito di Rothko, la morte non si individua come un altro tempo ma come un altro spazio: «Rothko […] sa che l’enigma della morte non è il tempo ma lo spazio, non il quando ma il qui e il laggiù, ciò che si stende e stride fra la nostra sosta qui e il richiamo di quel laggiù. La tela è lo spazio che dalla sua chiusura intuisce un altro spazio» (VD, 115).
    La consonanza tra la poesia e la riflessione di Anedda e l’operato di alcuni artisti come Rothko e Bill Viola è a questo punto evidente. Anche la poesia aneddiana è, come lei stessa scrive a proposito di Rothko, «lo spazio che dalla sua chiusura intuisce un altro spazio» (VD, 115). All’installazione Ocean without a shore presentata da Bill Viola alla Biennale veneziana del 2007, Anedda dedica due testi, un capitolo de La vita dei dettagli e la poesia Video in Salva con nome, confermando peraltro l’intensa relazione intertestuale tra i due volumi del 2009 e del 2012. Scrive Anedda ne La vita dei dettagli:

    In un mondo che ripudia la morte Viola è uno dei pochi artisti in grado di interrogarla. […] Meditando sulla mancanza, Viola prova a dire la prossimità tra il qui e l’altrove, tra la vita e la morte. […] Usando il video crea fantasmi, nel senso esatto del termine: gente senza carne, folla senza sangue, schiere di corpi fatti e disfatti dalla luce e dall’acqua (VD, 126-129).
    Nella poesia che in Salva con nome è dedicata all’opera di Bill Viola, Video, si riproduce quella compresenza, ma insieme quell’irrevocabile separazione, degli spazi dei vivi e dei morti, e, come in Cucina 2005, lo sguardo compassionevole e straniato dei morti sui vivi:

    Chi se ne è andato non desidera tornare.
    Pensiamo che si strugga per il mondo
    prestandogli la nostra nostalgia.
    L’oleandro che trema, l’abete
    che si sfrangia più latteo nella luna
    e tutta la bellezza incomprensibile
    che ci ostiniamo a raccontare.

    Se i morti vedono ci guardano scrutare l’illusione di un muro
    bussare per entrare o chiamare
    come i pazzi che cullano le pietre
    bisbigliando loro: amore. (SCN, 114)

    L’«arte dello spazio», una sapiente composizione del testo che agisce per via associativa, recuperando interferenze, analogie, immagini, consiste allora nel richiamare memorie personali e archetipiche e nel tradurre la parola poetica in spazio dell’incontro con le ferite e i fantasmi che affollano la pagina.

    (da http://www.arabeschi.it/larte-dello-spazio-di-antonella-anedda-/#sdendnote14anc)

    1. Ho letto solo questi versi e forse sbaglierò, ma a me appare una bella pretesa dire “Chi se ne è andato non desidera tornare.” (c’è qualche sms? fax? e diavolerie simili pervenute nell’aldiquà delle quali sono destinatari solo alcuni?), come pretenzioso trovo quel “Pensiamo che si strugga per il mondo / prestandogli la nostra nostalgia.” ecc. ecc.
      Partiamo da noi stessi, questo sì, ma, per favore, restiamo coerenti. Questo per dire che la morte è sempre altro da noi ‘viventi’.

  9. …Ringrazio Ennio per la segnalazione di un’autrice, Antonella Anedda, che si è addentrata molto in una sua meditazione sulla morte, accompagnandola con tutti i suoi sensi, e che sembra sfatare la riflessione filosofica : dove ci sono io non c’è lei e dove c’è lei non ci sono io…Nella poesia, nel sogno come nella casa (luogo simbolico) si concretizzerebbe una compresenza (pur nella separazione)di vita e di morte… luoghi di confine dove spazio e tempo si confondono perdendo misura e cronologia. La morte viene vista come “taglio, cesura, frattura”, pratica che in qualche modo proprio chi è in vita deve seguire, per elaborare il lutto di tutti i giorni, procedendo al dissolvimento dell’io che diventa la sua salvezza (Salva con nome)…Ma poi ci dà anche le istruzioni per ricomporre una perdita: dopo aver tagliato(ritagliato), “cuci un pezzo di stoffa, cuci un brano di lettera, cuci un’iniziale… ” Crea poi uno spazio di “tregua”per il tuo dolore, dagli un colore…Quasi l’arte della sartoria quella del vivere insieme alla morte…Anche Marina Pizzi aveva fatto riferimento alla mamma sarta, forse un arte d famiglia anche per lei il taglio e il cucito…

    1. Ricordavo di aver scritto un commento alle poesie di Baroni, ma non sapevo dove.
      Poesia e Moltinpoesia ha avuto il pregio di accomunare molte idee.
      – Peccato!

  10. Non capisco in che senso il diritto alla buona morte possa diventare un obbligo perbenista. Penso che si tratta semplicemente di lasciare aperta anche questa possibilità a chiunque, credente o meno, ritiene di stabilire dei confini al degrado della propria coscienza e dolore. E mi pare perlomeno ingeneroso assimilare questa scelta ad una sorta di antidepressivo definitivo per lenire l’ansia. Penso semplicemente che nessuno desideri mai trovarsi davanti a questo tipo di opzione e che non sia sindacabile e giudicabile moralmente e/o politicamente. Alla discussione che si è sviluppata aggiungo ora alcune note di ulteriore riflessione sul tema del libro di Tarabbia:
    – il fatto che la nostra esistenza individuale abbia un inizio e una fine carica comunque di senso tutto quello che scegliamo di essere e fare nel “frattempo”, che lo rende significativo. Mi chiedo se la rimozione anche in questo ambito di questa consapevolezza, degli estremi della “questione” non rappresenti un altro aspetto della perdita del concetto di limite che comporta, nello sviluppo economico capitalistico, il depauperamento inarrestabile delle risorse dell’unico pianeta a nostra disposizione. Un autore culto della letteratura fantascientifica come P.K.Dick ci fa vedere la rimozione di cui sopra immaginando in “Ubik” una società futura nella quale i defunti non lo sono mai fino in fondo e sono collocati in grotteschi “mortuari” nei quali i vivi continuano tecnologicamente ad interagire con loro.
    – Mentre leggevo il libro di Tarabbia ho studiato, per ragioni personali, il Purgatorio di Dante e mi sono chiesto se oggi, nel contesto culturale contemporaneo, sarebbe possibile da una parte una opera come la Commedia, incentrata sul rapporto osmotico tra la vita e la morte, e accettabile dall’altra la collocazione a guardia del Purgatorio, luogo di redenzione per eccellenza, di un suicida, per di più non cristiano come Catone. Questo proprio in virtù della sua scelta di rinunciare alla vita per coerenza non solo personale ma addirittura politica al proprio percorso esistenziale, che non era più accettabile. Differenziandolo così da tutti gli altri suicidi collocati invece nell’Inferno.

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