l’Associazione Culturale
Casa della Poesia al Trotter di Milano
vi invita a
LA POESIA E’ INTERVENTO
Gianmario Lucini, ne continuiamo
Amici e poeti
si trovano in un incontro
di ricognizione sulla poesia
come testimonianza e come impegno
Domenica 15 Marzo 2015 ore 16.30
Chiesetta del parco Trotter di Milano
[Il video è di Alessandro Dall’Olio]
La morte di Gianmario ci ha privati di un amico della poesia, di un validissimo editore, di una persona costantemente impegnata nella divulgazione dei motivi etici e morali che ognuno di noi deve riconoscere e concorrere a mantenere in ogni attività privata e pubblica (politica, civile, religiosa, culturale, sociale) per essere integralmente uomo.
Ricorderanno l’attività e il pensiero di Gianmario: Ennio Abate, Fabrizio Bianchi, Giusi Busceti, Donato Di Poce Ivan Fedeli e Adam Vaccaro. Porterà la sua testimonianza Marina Marchiori Lucini. Leggeranno testi di Gianmario dalle sue raccolte Hybris, Il disgusto, Sapienziali e Vilipendio: Giusi Busceti e Roberto Carusi. Verranno presentate, con letture di tutti i partecipanti presenti, l’ultima antologia edita da Gianmario pochi giorni prima della sua scomparsa: Keffiyeh – Intelligenze per la Pace, il volume L’impoetico mafioso, l’antologia che più ha rappresentato l’impegno del poeta ed editore Lucini contro le mafie in ogni campo sociale, e l’antologia Cuore di Preda, a cura di Loredana Magazzeni, dedicata al comune e quotidiano olocausto, oggi finalmente non più coperto e nascosto, del femminicidio e della violenza sulle donne.
Milano,10/03/2015
Ingresso libero
L’accesso al parco è in Via Giacosa, 46 – Milano – M1 Rovereto. Con una passeggiata di
due minuti tra gli alberi sul viale di sinistra, si avvista il campanile della Ex-Chiesetta.
Ingresso diretto da via Mosso 7 angolo via Padova.
info: cell. 333/6368840 – versincanto@gmail.com
info: cell. 366/9885256 – uff.stampa.casa.poesia@gmail.com
SEGNALAZIONE ( SAREBBE PIACIUTA A GIANMARIO!):
Versi contro l’orrore della guerra
Poesia. “SignorNò”, una raccolta di testimonianze di veterani e refusnik, a cura di Marco Cinque. Per combattere la guerra con le parole e il ricordo
Manlio Dinucci
La tragica scia che lascia dietro di sé la guerra è segnata non solo dai cumuli di cadaveri e macerie, ma dalle lacerazioni profonde e inguaribili che essa provoca nella mente di chi vi è coinvolto. Non potrà mai dimenticare, quella veterana Usa del Vietnam, gli elicotteri che volavano lungo il fiume Da Nang, lasciandosi alle spalle la grigia foschia della diossina, avvelenando tutto e tutti. Né quell’artigliere israeliano potrà cancellare dalla sua mente l’immagine della strage provocata a Gaza dai proiettili al fosforo bianco che, esplodendo in aria, lanciano oltre cento schegge infiammate. Sono le poesie e testimonianze di veterani Usa e refusnik israeliani contro la guerra, raccolte, con contributi in versi di autori nazionali e internazionali e prefazione di Margherita Hack, nel volume «SignorNò» a cura di Marco Cinque e Phil Rushton (Edizioni SEAM, 2015).
Mentre un veterano del Vietnam ha ancora davanti agli occhi la monaca buddista vestita di fuoco, che a Ninh Hoa si immolava sorridente tra la folla solenne e silenziosa, un altro scrive che la guerra lo segue ancora, che mai in nessun caso ha trovato un modo per liberarsi. Voci di uomini e donne che accusano chi li ha mandati in guerra di aver assassinato le loro anime, che una volta rientrati in famiglia si sono sentiti degli estranei perché nessuno gli ha chiesto di raccontare ciò che avevano fatto, visto e provato. Svanita la retorica della guerra, resta la cruda realtà dell’anziano reduce che, coperto di medaglie, muore di freddo in un parco, in preda all’alcool, di fronte alla Casa Bianca.
Prendendosela con i bugiardi che giustificano la guerra, con gli ipocriti che, mettendoti la mano sulla spalla, ti dicono di dimenticarla perché ormai è finita, un veterano Usa scrive che il poeta che è dentro di lui rifiuta di morire, che i suoi versi traversano i suoi giorni come traccianti, ricercando i bersagli del suo odio. E un refusnik israeliano accusa i suoi capi di aver mandato lui e altri in missioni che hanno corrotto per sempre le loro anime. Da questo fondo di amarezza e dolore emerge il Signornò, il rifiuto di partecipare alle guerre, oggi definite umanitarie. Una ribellione di coscienze, foriera di quella rivoluzione sociale e culturale che è l’unica alternativa alla catastrofe globale. Dopo la quale non ci sarebbero più poeti a cantare contro la guerra.
(il manifesto, 13 marzo 2015)
…in una situazione in cui la società, condizionata dalle leggi del mercato, spesso non offre riconoscimento ai poeti, così come quest’ultimi, a loro volta, non riconoscono le dinamiche selettive della società in cui vivono, a me sembra che il poeta ed editore Gianmario Lucini avesse adottato i criteri giusti, ideali e realistici nello stesso tempo. Sicuramente nei suoi scritti, come nelle opere edite era sensibile ad una poesia e critica militante, cioè seria, mirante a mettere in luce la verità, a far emergere con coraggio i grandi problemi e le contraddizioni del nostro tempo : mafie, guerre, potere, povertà, ambiente, diseguaglianze sociali…e nello stesso tempo a far parlare l’uomo (antropologico? religioso?) nei suoi aspetti trasversali ed eterni: il rapporto con la natura (il bosco, le stagioni…), il mondo degli affetti, la bellezza. Non vedeva una forma di nascondimento o di menzogna in questi ultimi, se mai dei valori da difendere, insieme al senso della giustizia, della pace, dell’essere fratelli…Sempre per testimoniare chi siamo…
Bacche Rosse di Gianmario Lucini
Ancora un guizzo, uno spasso,
un sorriso prima del gelo,
ancora un abito nuovo, un canto, una festa
poi la neve coprirà col suo sguardo
stupito
questa gioia spensierata
senza che alcuno la colga
Dice Ivan Fedeli che quelle bacche rosse sono quel sottobosco latente, lo specchio dell’uomo “della sua incompletezza dolce e tragica”. Tutti i 30 frammenti di “Per il bosco” che contiene “Bacche rosse” lasciano intravedere l’interdipendenza degli elementi della natura dove “ciascun elemento acquista senso solo in rapporto all’altro da sé”.
Come tutti i grandi poeti che hanno cantato la natura Lucini arriva alla sostanza del problema, quel sottobosco ci suggerisce l’idea che a volte sarebbe necessario, mettendo da parte il nostro orgoglio di ominidi, di andare anche a carponi , andare fuori dal sentiero, immergerci nella macchia per ritrovare traccia di quel “mondo poroso” (Gary Snyder) quel mondo delle forme che si compenetrano, si sognano, si sostengono , si distanziano, in un punto per poi riunirsi nell’altro, nell’incessante flusso della vita.
Il trucco è non aver la fissazione di stare eretti , riconsiderare il nostro rapporto a contatto con il terreno, possiamo gattonare e fors’anche diventare serpenti.
Qui di seguito una poesia di Snyder affine a quella di Lucini :
…ascolta./Questa terra viva che scorre /è tutto quel che c’è, per sempre./Noi siamo lei/Lei canta attraverso noi…(1)
….listen.This living flowing land/is all there is, forever/We are it/it sings through us/We could live on this Earth….
1)Alle cascate di Frazier Creek da “L’isola della tartaruga” a cura di Chiara D’Ottavi
Questo è l’intervento su Gianmario Lucini che ho letto all’iniziativa della Casa della poesia del Trotter
15 mar 2015
Nel gennaio del 2012 io, Roberto Bertoldo e Gianmario Lucini facemmo un interessante esperimento a tre durante un incontro del Laboratorio Moltinpoesia sul tema della “polis che non c’è”. Leggemmo ciascuno una raccolta di poesie degli altri due e ne scrivemmo e discutemmo poi anche sul blog.
Riassumerò in breve le mie note a “ Il disgusto”, una raccolta di Gianmario uscita l’anno precedente nel 2011. Cosa scrissi su quella raccolta?
1. Che l’io che lì parlava non era né quello romantico della raccolta di Bertoldo, «Pergamena dei ribelli», né quello signorile hegeliano, ma un io apparentemente minore accostabile ai tanti che praticano quella “morale dei servi” di matrice cristiana, di cui avevo letto tanti anni prima in un passo illuminante del Fortini di «Insistenze». Da una cultura cristiana, combattiva e non chiesastica, mi pareva che anche Gianmario, da poco conosciuto, provenisse. E mi pareva che ci fosse anche una coloritura di classe nella sua poesia per la distinzione che Gianmario vi faceva tra «poveri» – termine per me antico e problematico – e «gente», termine oggi abusato, che occulta ormai tutte le differenze sociali ed è, qui in Italia, diventato emblema di un’epoca politica vischiosa e insopportabile.
2. Che il linguaggio usato da Gianmario non rompeva il legame col parlato politicizzato e quotidiano. Gianmario, più che nella storia, di cui mi pareva diffidasse, scendeva volentieri nella cronaca; e da quella attingeva spunti per le sue riflessioni poetiche. Come se scrivesse un diario in versi; e sui dati raccolti dalla realtà esterna fondasse la sua meditazione: sentenziosa, umorale, reattiva, ma anche pacata e tendente sia all’elegia che al dialogo – due tratti che mi avevano immediatamente colpito perché difficili da far convivere.
3. Che in quel suo sforzo di dialogo si rivolgeva ai vivi e ai morti, ai singoli e alle categorie sociali. (Nella quinta sezione de «Il disgusto», intitolata «Dediche», ad esempio, i dedicatari di vari componimenti sono: i tiranni liberisti del ‘900; gli integralisti di ogni religione; i politici di sinistra; i politici di destra; i gerarchi della Chiesa; i poeti; la gente che passa per strada; i prepotenti convinti di vivere in eterno, gli artisti; coloro che vanno in guerra e non lo sanno; i filosofi; i terroristi e i mafiosi). E annotavo pure la sua capacità di mettersi senza cattiveria, ironicamente, nei panni di quelli che io giudico nemici. Come in un tentativo, che a me pareva e pare disperato ed enigmatico di non smarrire una comune umanità. (Non casualmente il sottotitolo de «Il disgusto» è «poesie in difesa dell’uomo»).
4. Che lo stesso tono – di denuncia alternata all’elegia, di allusione tenera e accondiscendente, di silenzio ovattato che «esilia dal mondo» – ritrovavo nei componimenti in cui entrava in polemica con le gerarchie ecclesiastiche e lo stesso pontefice (senza arrivare mai alla durezza di un Pasolini, che poi mi sono accorto essere un suo solido punto di riferimento).
In conclusione, leggendo attentamente per la prima volta un libro di poesia di Gianmario, mi accorgevo di avere qualcosa in comune con lui, ma anche di aver fatto altre strade. Io non avevo perso più di vista Marx e in particolare Fortini, che Gianmario allora cominciava a conoscere dedicando alla sua figura anche un Premio. Lui aveva forse sempre diffidato della lotta di classe, delle rivoluzioni e mantenuto una visione universalistica. Ma in quell’incontro mi limitai a notare che la visione polemica di Gianmario – uomo già «ammaestrato da molte sconfitte» e forse per questo indirizzatosi ad una poesia fortemente didascalico-politica – fosse costretta in un certo senso ad attenuarsi nell’elegia. Come a mordersi il labbro, a trattenere la collera e a sublimare in una visione utopica una sua carica anche distruttiva. Come pare dimostri in questo componimento che vi leggo:
Canzone del disgusto
Cade anche oggi il disgusto
senza motivo apparente
come foglia d’autunno che vola
dal suo ramo e muore lontano.
Lo raccolgo, a volte, lo rigiro fra le mani
narrazione senza capo e senza piede
rosario da sgranare senza fede
e senza carità
pregando Dio che la collera mi monti
un giorno prima dell’ultimo giorno,
mi renda pazzo come Francesco di Bondone
mi faccia crescere artigli di demenza,
denti di rinuncia e la risata insana
del folle che corre ignudo
a squartare leoni.
(pag. 31)
Non so se esagerai anche nel sottolineare quello che a me pareva un suo grande distacco rispetto alle cose del mondo (e ripeto alla storia). Ma vedevo presente un pensiero della morte che penetrava in quasi tutti i suoi versi (ad esso aveva dedicato la «Parte II – Meditazione sula morte e sull’agonia»), lo distanziava dai vivi e lo spingeva a una sorta di mimesi con la condizione dei i morti. Come, ad esempio, quella mummia alpestre di soldato della prima guerra mondiale che egli fa parlare nei modi elementari e schietti e non in quelli dotti e filosofici delle mummie leopardiane:
[…]
Per novant’anni ho contemplato la Marmolada
nei lunghi inverni che dicono l’eterno
nella mia nicchia beata di neve e di abbandono
nel ricordo degli amici che mi videro partire
controvoglia alla grande guerra dei ricchi
lontano dall’ubbia e dalla collera
insana di un secolo ingiusto e di macelli;
[…]
(pag. 19)
In questo dar voce ai morti, che come ne «La mummia in casa» (pag. 17) rievocano in poche parole la loro vicenda umana, sentivo più che la lezione di Lee Master, autore comunque attirato dal brulichio produttivo e sociale dei villaggi, una voglia di Gianmario di mettersi volentieri dalla parte dei solitari e dei primitivi.
Conobbi, dunque, in quell’occasione del 2012 una poesia ancorata disperatamente all’umanesimo. E mi venne di paragonarla al suono di una campana in un paesaggio solo in apparenza ancora contadino. Perché quel mondo è stato irrimediabilmente sgretolato assieme ai suoi valori. E Gianmario stesso lo riconosceva. S’era ridotto a «scongiuro», diceva lui pure. Eppure ne inseguiva ancora l’immagine amorosa «nelle pieghe dell’eterno», dove non mi pareva di poterlo seguire ( o non sapevo seguirlo).
Della discussione che si ebbe poi sul blog vale la pena di riassumere il senso della sua replica alla mia lettura della sua raccolta. Per Gianmario la povertà – e in questo era davvero vicinissimo a Pasolini – era un concetto fondamentale. Su di essa intendeva costruire un «equo scambio col mondo» o «l’unica politica economica degna di questo nome». Contrapposta alla povertà era il potere moderno e la sua economia che per lui erano semplicemente «fuori dalla razionalità».
E da questi due assunti scaturiva la sua proposta utopica: «Io voglio che il potere sia a) razionale e b) innocente». Da realizzare non per via politica, ma attraverso un lavoro culturale che riaffermasse «la cultura della povertà o se vogliamo dell’equilibrio, della responsabilità». Gianmario metteva insomma « la sopravvivenza della specie al primo posto», abbandonava ogni idea di rivoluzione. (Per lui la rivoluzione «azzera sempre tutto ma non l’ingiustizia e le cause degli squilibri»). Diceva:«A me interessa la baracca, tutta la baracca, con dentro potenti, poveri, ribelli, conniventi, mafiosi». E riaffermando la propria laicità, con accenti che lo avvicinano ad Agamben che sulla scia di Benjamin ha parlato di recente di “religione del denaro”, criticava la tecnica che – diceva – «ci promette salvezza e ci chiede (lei sì) una “fede” di tipo religioso, nel senso che promette salvezza in un futuro non identificabile». Alla salvezza che molti si aspettano dalla tecnica egli voleva contrapporre la sua “salvezza”, che presentava come «realismo della ragione». Diceva: «Se i dati ci portano a dire che questo sviluppo, così com’è il suo “trend” ci porterà alla rovina, allora la ragione mi dice di fermarmi».
Io, tra le tante obiezioni che gli feci, gli ricordai che la realtà è conflittuale; e che anche la cultura, la scienza, la poesia sono investite dal conflitto. Dopo quell’occasione il confronto tra noi su questi temi spinosi e controversi era rimasto come in sospeso. Entrambi avevamo la fiducia che, tra le mille cose da fare e nelle quali spesso ci sperdiamo, ci sarebbero state altre occasioni per riprenderlo e approfondirlo. Non è andata così.
Grazie ad Ennio per l’appassionato intervento . Ieri è stato un incontro molto interessante,costruttivo ed emozionante. Entrare nella personalità di Gianmario Lucini significa trovare un uomo che non ha segreti per nessuno, una persona che si rivela in ogni suo istante generosa,infaticabile e vera . Il suo animo era così ,nulla è stato costruito per opportunità. Amiamolo ancora e teniamolo sempre come esempio per un mondo migliore, onorando così anche la sua grande fatica .
…erano presenti la moglie Marina, gli amici, i collaboratori, i poeti…Tutti ad offrire testimonianze del loro incontro indimenticabile con Gianmario Lucini in vita ma che continua tuttora attraverso i suoi scritti e la sua opera. E ciascuno si arricchisce delle testimonianze degli altri. Ciò che più traspare, secondo me, da queste ultime è la generosità di un uomo che desiderava unire e far dialogare tra loro “i poveri”, compresi quelli che si ritengono ricchi, che sarebbero i nemici, ma sono anche quelli da raggiungere…E poi quello staccarsi dal paradiso della Valtellina dove viveva, lasciando affetti, boschi, montagne( luogo della salvezza) per immergersi in tutto quanto c’è di più aspro (l’Aspromonte, le guerre, gli odi razziali, la povertà, il ritorno a notte fonda da viaggi interminabili e stressanti…). Lui che sapeva dialogare con tutti, si metteva “volentieri dalla parte dei solitari e dei primitivi”, in una sorta di candore francescano ad affrontare serenamente il martirio del suo fine vita…
Non ho conosciuto personalmente Gianmario, abbiamo avuto pochi scambi per email, anche se ero sicura che ci saremmo conosciuti meglio. Posso però sottoscrivere le parole di Emilia Banfi: “uomo che non ha segreti per nessuno, una persona che si rivela in ogni suo istante generosa, infaticabile e vera”. Ha presentato poche mie poesie con una completezza e accuratezza che mi hanno turbata, ho avuto così in più una visione di sguincio, ma privilegiata, della sua officina mentale, oltre alla stima che gli dovevo per le capacità progettuali e la chiarezza delle posizioni espresse nelle poesie. Davvero per me resta un esempio, da indicare, del modo più degno in cui spendere la vita.
La giornata di ieri la immaginavo piena di persone, mi è dispiaciuto non vedere tutti i volti che avrei voluto. Sopraffatta dalla commozione, non sono riuscita ad intervenire. Avrei letto a Gianmario, come se fosse tra noi, la poesia che mi aveva detto di apprezzare, perchè mi pare che rispecchi anche un suo sentire, di Anna Maria Farabbi: “questa è una poesia soffiata dal mio fiato/dalla mia bocca uguale a una qualunque bocca primitiva/concentrata tra i legni per accendere il fuoco/io guardo il fiato della poesia come le sciamane/che leggono i nidi e la pancia delle uccelle in volo/e come loro zitta senza vocabolario studio la madre/degli elementi/tra le viscere dei morti/
io canto con lo stupore delle bambine/che suonano le conchiglie del mare il guscio/
delle lumache di terra e dell’uovo/mi schiero scalza in piazza con tutto il corpo/a fianco di mio fratello impastato/il suo squarcio di sangue nella neve/mi comanda la parola/l’onestà l’integrità la resistenza/la giustizia e il diritto per tutti alla bellezza/
le polveri di tritolo tra i binari sono diventate semi/nel vento”
E, forse perchè ancora ho in mente l’immagine dei disegni preparatori de “Il seminatore” di Van Gogh, avrei detto che mi piace quest’ultimo verso di Anna Maria farabbi perchè credo che Gianmario abbia seminato bene e la comunità, dispersa per l’Italia, che lui ha seminato, ora piano germoglia.
Da un laboratorio a Pavia nato dalla lettura de L’impoetico mafioso nelle scuole con Gianmario, è nato un progetto provinciale in collaborazione con Libera. Quest’anno abbiamo avuto con noi Marisa Fiorani, madre di Marcella Di Levrano, vittima di mafia. E andremo avanti.
*SENSO E DISSENSO
a Gianmario Lucini
Riempivi il mio cuore sempre
Di senso e dissenso
Le tue mani plasmavano il vuoto
E costruivano arabeschi di luce
Nel buio dei giorni
Mentre il tuo sguardo si perdeva oltre
Il paradiso degli umili
E costruivi oasi di leggerezza
Giardini di verità
Lontano dal clamore dei media
A inseguire le nuvole
Ora ci ritroviamo
Corpi d’anime abrase dall’assenza
A inseguire labirinti d’amore
Labirinti di luce e d’assenza.
Donato Di Poce
Milano 06/03/2015
*Tratta dal libro di POESIE prossima pubblicazione di Donato Di Poce LAMPI DI VERITA’.