di Luciano Aguzzi
Ancora una volta sposto dallo spazio dei commenti e metto in primo piano un intervento di Luciano Aguzzi. Perché riassume e ripropone dal suo punto di vista ma con estrema chiarezza le questioni affrontate qui. Mantengo lo stesso titolo e la stessa immagine per segnalare ai lettori la continuità di questa discussione. [E.A.]
14 marzo 2015 alle 7:45
1. La discussione. I temi e gli spunti critici che si sono accumulati nel corso della discussione sui tre articoli (Ederle, Grandinetti, La doppia crisi) sono tanti che ci vorrebbe un trattato dal titolo «La poesia e la società nel secolo XXI». Ho pertanto l’imbarazzo del come dare inizio a una risposta necessariamente più frammentaria e breve. Poiché il mio intervento è stato oggetto di almeno due aspre critiche (Ennio Abate e Eugenio Grandinetti) proverò a cominciare da qui. La prima critica è – a mio parere – frutto di una malintesa lettura di ciò che ho scritto, attribuendomi pensieri che non ho espresso. Mi si accusa infatti di aver fatto l’apologia dell’esistente, del capitalismo, del mercato, di aver ridotto anche la poesia a merce e così via. Ebbene, rileggete ciò che ho scritto. Io analizzo l’esistente, non ne nascondo affatto i difetti, e tanto meno dico che si tratta del migliore dei mondi possibili. Però non mi dò alla fuga, né verso l’utopia ascetica, né verso quella militante.
Non escludo che la situazione possa cambiare, e me lo auguro. Ma oggi l’esistente è quello che ho cercato di descrivere e oggi (non in un altro e futuro tempo storico) è oggettivo e inevitabile, almeno per chi vuole operare nella realtà di oggi.
Cerco di spiegarmi con una specie di parabola. Un gruppo di persone vuole attraversare un fiume e l’unico mezzo disponibile è un ponte malridotto. Dopo un po’ di riflessione quelle persone si dividono in quattro gruppi. Il primo l’attraversa comunque, utilizzando il ponte, e una volta di là non se ne interessa più ma vive al meglio del possibile senza preoccuparsi d’altro. Un secondo gruppo attraversa il ponte e nel farlo cerca di studiarne le strutture, i pregi e i difetti per elaborare dei progetti concreti per modificarlo e migliorarlo, con atteggiamento pragmatico, il che vuol dire progetti eseguibili, con annesse istruzioni per l’uso. Un terzo gruppo si rifiuta di attraversare il fiume (o, variante, va avanti e indietro senza decidersi), accusando colpevoli reali o presunti di avere ridotto il ponte a malpartito e formula progetti alternativi e rivoluzionari di ponti ideali, privi però di quelle necessarie tecnicalità che rendono un progetto effettivamente eseguibile. Di conseguenza, nonostante lotte accanite e prolungate, non si arriva mai a costruire il ponte ideale abbattendo il vecchio, oppure, se ci si riesce, il nuovo risulta poi peggiore del vecchio e non dura molto. Un quarto gruppo, pur criticando aspramente l’esistenza del ponte malridotto, rinuncia sia ad attraversarlo sia a lottare per uno nuovo, accontentandosi di continuare a vivere al di qua del fiume.
È inutile dire che io sono fra quelli che, pragmaticamente, cercano di migliorare il ponte, con progetti che non mirano alla perfezione (concetto metafisico) ma alla perfettibilità (concetto operativo). Nell’ambito di una cultura di “sinistra” (metto il termine fra virgolette, sia perché non so bene che cosa voglia dire, sia perché chi evita le analisi crude della realtà non può essere davvero di sinistra) che privilegia l’olismo e l’organicismo, so bene che il pragmatismo è considerato una specie di peccato mortale (e, naturalmente, non parlo del pragmatismo come corrente filosofica, ma del pragmatismo come atteggiamento pragmatico e approccio gnoseologico empirico).
Tanto per fare solo un esempio della mia non aderenza alla realtà esistente, oltre a quanto ho già scritto, aggiungo, prendendo lo spunto da quanto dice Ennio Abate in risposta a Giorgio Mannacio: «La confusione e la babele delle molteplici forme di “libertà d’espressione”, più che segno di democrazia, rientrano meglio nel concetto marcusiano di “tolleranza repressiva”». D’accordo, rispondo. Talmente d’accordo che io sono fra coloro che teorizzano che la democrazia è una variante del totalitarismo. E non chiedo più democrazia, ma più libertà, che è tutt’alta cosa. So bene che per molti il termine “democrazia” è pressoché sinonimo di “libertà”, ma ciò non è assolutamente vero ed è solo un risultato di decenni e decenni di propaganda di regime. La sinonimia è solo ideologica, non concettuale, non storica, non giuridica e tanto meno reale.
2. L’ideologia. E passiamo al secondo rimprovero di Ennio Abate che rifiuta il mio riferimento a dibattiti letterari infarciti di «richiami ideologici». Innanzitutto, come credevo fosse chiaro, non mi riferivo a lui direttamente ma facevo un’osservazione di carattere più generale. Ad esempio dicevo: «Il difetto della “critica militante”, così come una volta era intesa», dove il riferimento al passato era chiaro. Del resto E.A. stesso scrive, in un altro punto della discussione: «Cosa innegabile – ammetto – se avessimo ancora i paraocchi di un certo marxismo, che in passato abbiamo conosciuto e praticato». Di questi paraocchi passati c’è rimasto qualcosa di ancora negativamente operante? In generale, direi di sì, e potrei fare tanti esempi (magari tratti dalla vita milanese e da come viene gestita la “poesia” [letture, presentazioni di libri e altro] in giornali e circoli letterari). Ma in particolare, riferito a E.A.? Se richiesto di scendere in dettagli, dirò che E.A., nonostante gli apprezzabili sforzi di equilibrio, sensibilità e controllo critico, che gli vanno ampiamente riconosciuti, non è esente da reminiscenze ideologiche, come, fra l’altro – a mio parere, magari errato, ma così però mi sembra – lo dimostrano anche i diversi richiami fatti, proprio nella discussione in corso, a Marx, Horkheimer, Adorno e Fortini, giganti della cultura che vanno studiati ma che non mi sembrano, come invece, se non ho capito male, sembrano a E.A., maestri ancora oggi attuali, e attuali non come lo sono in un certo senso tutti i grandi intellettuali, ma come lo sono i maestri che si privilegiano e si seguono. Insomma, non solo maestri in senso culturale e spirituale, ma soprattutto in senso formativo e operativo.
Ma a proposito di “ideologia”, che non è un insulto ma un termine ineliminabile dal dizionario, è necessario precisare che cosa intendo. Delle diverse accezioni uso quella più comune e generale, in cui è compresa anche quella marxiana (l’ideologia come falsa coscienza). L’ideologia è l’insieme delle idee, delle credenze, delle dottrine, delle opinioni, delle abitudini culturali e dei pregiudizi che orientano il comportamento dei gruppi sociali e dei singoli individui. È pertanto un apparato mentale di cui la nostra mente non può fare a meno e che usa anche per risparmiare tempo ed energie nell’esprimersi e nel prendere decisioni, evitando di ripetere ad ogni momento l’analisi delle situazioni già precedentemente vissute. Di conseguenza è inevitabile, salvo che non si eserciti un accanito e continuo autocontrollo critico a 360 gradi, cadere in reminiscenze ideologiche. Lo fa anche Marx critico dell’ideologia, quando, ad esempio, non evita che riaffiorino elementi dell’escatologia giudaica nella sua concezione dell’avvento del comunismo.
3. La desacralizzazione della poesia. Nella discussione in corso e anche negli interventi di E.A. mi pare di cogliere due elementi ideologici (quindi, non sufficientemente filtrati dallo spirito critico; in questo senso parlare di “richiami ideologici” è un giudizio limitativo, non però un insulto di cui offendersi). Il primo, di carattere più generale, lo vedo nella diffusa, sia pure mai esplicitamente definita, considerazione della poesia come un’attività particolare e irriducibile alle altre attività dell’uomo, come se avesse un’aurea sacra. In proposito condivido in gran parte le considerazioni pragmatiche di Giorgio Mannacio sulla desacralizzazione della poesia e sulla sua crisi epocale (del “disordine” come “il nuovo ordine della poesia”). Ai tempi di Omero anche la medicina, la metallurgia e altre arti erano considerate qualcosa di sacro, ma poi tutto è cambiato. Oggi la poesia non è più qualcosa di particolare, ma un’attività come tante altre, che di particolare, come tutte, ha solo ciò che la determina e la differenzia, non certo uno statuto di sacralità o quasi sacralità, sia pure intesa in senso laico. In che cosa poi consista il particolare proprio della poesia non si sa bene e i numerosi contributi in proposito (dal Fortini già citato ad Anceschi e tanti altri) non hanno concluso nulla, ma solo moltiplicato le diverse e possibili accezioni del termine. Tuttavia, si può dire che questo particolare suo proprio ha a che fare con la comunicazione, l’espressione dell’io, la lingua, il linguaggio, le forme e i contenuti e altre cose. Il tutto si coagula in un testo, orale o scritto (o, meglio ancora, orale e scritto). Quando il testo è “confezionato” e comunicato in un certo modo (come libro, come pagine di una rivista, come lettura in un evento, come testo per una canzone, come testo pubblicitario ecc.) la poesia diventa, o può diventare, merce, e in questo caso seguirà il percorso delle merci (domanda e offerta, mercato). Questo avevo scritto, e non, come mi è stato rimproverato, che la poesia è una merce, nei suoi contenuti intrinseci, e che sarei addirittura favorevole a subordinare la scrittura poetica alle esigenze del mercato. Sul “valore d’uso” della poesia, per dirla in termini marxiani, il discorso andrebbe approfondito, ma con realismo e sgombrando il campo dai tabù idealistici dei poeti che si offendono se si considera la poesia come uno dei tanti prodotti dell’attività umana.
4. La critica militante. Ennio Abate oscilla fra il concetto di critica militante come sinonimo di critica seria, onesta, militante per la verità (espressioni variamente usate nei diversi interventi in questo blog), su cui saremmo d’accordo, e la diversa accezione di critica militante in senso, almeno tendenziale, politico. E su questo non siamo d’accordo. La critica militante in senso politico (anche se non partitico o partigiano in senso stretto) è militanza politica. Nulla da eccepire in quanto tale, ma applicata alla lettura della poesia (o della prosa e di altre cose) è il termine “critica” che ne soffre fino a scomparire.
È dunque impossibile una critica militante nel senso di socialmente e/o politicamente impegnata? No, non è impossibile, purché si osservino alcune regole. Questo tipo di critica sarebbe obbligatoriamente: 1) una critica di settore o settoriale; 2) va dichiarato esplicitamente il suo carattere; 3) non si deve pretendere che ciò che resta fuori da questa critica non abbia valore o abbia per definizione un valore inferiore, altrimenti diventerebbe totalizzante e tendenzialmente totalitaria.
Facciamo un esempio: una rivista intitolata «Rinascita Operaia» dichiara di occuparsi, per sua vocazione, missione e statuto, solo della poesia che ha a che fare con le lotte operaie, sindacali e politiche, con la condizione operaia, con le problematiche degli operai e così via. Ciò è legittimo. Chi fonda, manda avanti e finanzia la rivista ha il diritto di farne lo strumento di una cultura settoriale. Se però la rivista sostenesse che solo la poesia operaia è vera poesia, mentre la poesia d’amore, sportiva o di qualunque altro tema è pura alienazione che non merita di esistere, ecco che quella critica militante diventerebbe uno strumento ideologico di parte e portavoce di una menzogna tendenzialmente totalitaria.
In quest’ultima accezione, pertanto, la “critica militante” deve essere respinta, perché ha già fatto troppi guai (nel precedente intervento citavo con esagerazione argomentativa, ma non fuori luogo, Hitler e Stalin, come esempi di critici militanti).
5. La critica seria. La critica che non vuole essere di settore, ma aperta a 360 gradi, non deve essere militante ma seria. Giorgio Mannacio si chiede se una critica “seria” è possibile, ma in un intervento successivo scrive: «La critica seria è prima di tutto “una critica onesta“ che dichiara il proprio metodo di valutazione e si espone così ad essere esaminata come “opinione“». Tito Truglia ritiene che «La definizione di “critica seria” è quasi una tautologia. La serietà è d’obbligo per il pensiero critico». Ennio Abate invece la carica di un sovrappiù nel senso dell’impegno: «Per me critica seria è, dunque, quella che richiama la poesia di fronte al mondo sconvolto e alla storia e spinge a ragionare sulla poesia sempre in relazione all’extra-poetico». Mayoor esprime diffidenza e accenna un’osservazione che meriterebbe d’essere sviluppata e che, in termini diversi, ho fatto anch’io nel mio intervento di qualche giorno fa. Scrive Mayoor: «La poesia in sé non avrebbe alcun bisogno di segnalarsi con altri mezzi o altre parole, forse nemmeno della critica mestierante; perché è auto-comunicante, è essa stessa un mezzo per le parole».
Poiché (Giorgio Mannacio) è stata richiamata anche la nozione di “critico militante” nel senso di critico di professione o che comunque esercita l’attività critica in modo continuativo (giornalista, pubblicista, collaboratore di siti appositi), si può completare la nomenclatura ricordando anche la critica accademica, che a volte coincide con quella militante/professionale, a volte invece è in polemica con essa.
Militante o accademica, la critica letteraria svolta in modo continuativo avrebbe bisogno, per verificarne la serietà o meno, di un proprio codice deontologico, che non dovrebbe fare a meno dei seguenti principi di fondo:
a) Il principio di libertà. Il critico deve essere libero, responsabile solo di fronte alla propria coscienza. Ogni condizionamento che gli provenisse dall’esterno ne limiterebbe la serietà.
b) Il principio di verità. Il critico è impegnato a dire la verità, come l’ha maturata con gli strumenti professionali d’uso e con la diligenza e l’impegno propri della professione, senza farsi condizionare da particolari convinzioni, da interessi personali, da rapporti di amicizia, dal desiderio di favorire o sfavorire qualcuno, da autocensure e timori e da ogni altro condizionamento particolare estraneo all’esercizio della critica.
c) Il principio di responsabilità. Il critico è responsabile delle opinioni e dei giudizi che esprime, non solo, com’è ovvio, di fronte alla legge, nei casi estremi in cui i giudizi espressi contengano calunnie, offese, diffamazioni o altri fatti illeciti, ma anche di fronte al codice deontologico della categoria.
d) Il principio di ricerca. Il critico deve, nel settore di sua competenza (narrativa, poesia, letteratura in genere, saggistica di settore o altro), evitare di limitarsi ai libri e agli autori segnalatigli o i cui libri siano di più facile accesso, ma deve, nei limiti del possibile, estendere le letture e la ricerca a 360 gradi in modo da non privilegiare autori o editori particolari a danno di altri, ma mettendosi in grado di segnalare e recensire la produzione migliore chiunque sia l’autore o l’editore.
e) Il conflitto di interessi. Il critico non deve recensire libri dei colleghi della stessa testata o di testate collegate dello stesso editore, libri di familiari e altri parenti, libri di amici stretti, né deve concordare con altri colleghi lo scambio di recensioni a favore di libri scritti dagli stessi critici.
Questa codificazione è un esercizio di pura costruzione utopica, perché oggi nessuno dei cinque principi elencati è rispettato dalla critica professionale, che è invece tutta condizionata dal principio di cooptazione e di scambio di favori. Con ciò non intendo dire che i critici, almeno i migliori, fanno false recensioni. O comunque questo non è il problema più grave. Più grave è invece che i critici peschino sempre i libri da recensire entro una cerchia ristretta, avendo da tempo abbandonato, quasi completamente, la ricerca di nuove voci.
6. «Quando la critica è sorda che si fa?». Ennio Abate insiste nel porre e riproporre la domanda. Io un abbozzo di risposta l’ho già dato nel mio intervento precedente, ma Ennio, Grandinetti e altri l’hanno considerato troppo appiattito sulla logica di mercato e, addirittura, subordinato al potere del Capitale. Li invito a rileggere quello che ho scritto, perché non è così.
Tuttavia bisogna porre il problema sulle sue proprie gambe, altrimenti non si cammina di un passo. Il poeta che pubblica un libro deve prendere una serie di decisioni, con spirito realistico e autocritico. Evitando di fare come il protagonista di una celebre storiella, il quale si lamentava di non avere mai vinto all’Enalotto, confessando però poi di non avere mai giocato perché tanto non ci crede.
Innanzitutto l’autore deve decidere a quale pubblico vuole rivolgersi. Se il suo senso autocritico funziona, deciderà di rivolgersi, potenzialmente, a tutto il mondo, solo se è convinto di essere fra i sommi. Se invece è convinto di avere rilievo locale, si rivolgerà ai lettori locali. E così via, fino ad arrivare alle edizioni private fuori commercio da distribuire ad amici e parenti. Per ogni tipo di edizione e di pubblico a cui ci si rivolge, la strategia di diffusione è diversa, anche molto diversa. E diverso è l’investimento di tempo, di energie e in parte anche di denaro (ma soprattutto, insisto, di tempo e di energie, proprie e/o di amici e familiari).
Faccio tre esempi: Io ho pubblicato da Manni un volume di racconti, scritti un po’ per gioco, senza pretesa di considerarli un capolavoro. Le copie che ho dovuto acquistare in prevendita (formula usata ormai da tantissimi editori che non chiedono agli autori una somma a fondo perduto, ma un acquisto garantito di copie, in genere oscillante fra le 100 e le 150, al prezzo scontato praticato ai librai) le ho regalate, non avendo assolutamente l’intenzione di importunare gli amici perché l’acquistassero, né ho fatto nulla per diffonderlo, nessuna presentazione o altro. L’editore ha spedito una cinquantina di copie a giornali e critici. C’è stata una sola recensione di qualche importanza, su «L’Avvenire», dovuta a Giuseppe Bonura che, pur non essendo mio amico, era però della mia stessa città di origine, quindi forse influenzato da questo. In totale, fra il regalato e il venduto in libreria, ne sono state diffuse circa trecento copie. Io non mi lamento e non avevo intenzioni e ambizioni superiori.
Un mio amico ha, più di recente, pubblicato tre romanzi. Scritti dignitosamente, pur non essendo dei capolavori. Trattano argomenti di qualche impegno e interesse. L’autore, tecnico in pensione, variamente militante e impegnato nel sociale, si è dato da fare per diffondere i suoi libri, battendo a tappeto circoli culturali, sezioni Arci ecc. di Milano città e metropoli, presente in decine di presentazioni, in Facebook e in altri siti. Ha avuto diverse recensioni, tutte online o di piccole testate locali, ma nell’insieme ha fatto camminare il libro fino a raggiungere, per uno dei tre, la seconda edizione e una vendita di oltre duemila copie, recuperando le spese iniziali, per cui, alla fine, il bilancio, in termini di denaro, è stato positivo. Probabilmente questo autore, per i prossimi libri, riuscirà a pubblicare da un editore più visibile e a migliorare ulteriormente il relativo successo. Non credo molto di più, perché, il tipo e la qualità dei libri che scrive non è da Mondadori o da Feltrinelli o da Rizzoli. Cioè non è da almeno cinque mila copie di vendita prevista dalle ricerche di mercato.
Una mia amica ha pubblicato un libro di poesie giovanili fuori commercio nel 1970, poi, pur continuando a scrivere, non si è più preoccupata di pubblicare. Appena collocata in pensione ha ripreso a pubblicare, con collaborazioni a una rivista e tre raccolte (tutte e tre con mie prefazioni, due edite da La Vita Felice di Milano e una da Leonida editore di Reggio Calabria). Si è data da fare con varie presentazioni, sia a Milano sia a Reggio Calabria, città di origine, e a Bova Marina, città natìa, coinvolgendo amici e ex allievi, di cui alcuni col tempo diventati persone di qualche potere. Poiché scrive belle poesie di raffinata fattura e gode di ampia stima fra tutti i suoi ex allievi di liceo e di due corsi per adulti, uno di scrittura creativa e uno di teatro, è riuscita in poco tempo ad avere una qualche notorietà, inferiore – a mio parere – al merito, comunque tale da riuscire a vendere fra le 200 e le 400 copie di ognuna delle tre raccolte e avere avuto l’invito a pubblicarne una quarta presso un’associazione di Bova Marina, che la pubblica gratuitamente come omaggio alla concittadina che si sta acquistando un certo nome. Anche in questo caso c’è stato investimento di tempo e di energie, mentre il denaro investito inizialmente per il preacquisto delle copie è stato completamente recuperato. Di rilevante, però, resta il fatto che di lei, con recensioni e interviste, si è occupata la stampa di Reggio Calabria, ma non quella di Milano, nonostante che il suo ultimo libro sia stato presentato anche al Grechetto, con la collaborazione della Biblioteca Sormani, e alla Casa Museo Alda Merini, e nonostante che sia milanese di adozione da quasi cinquant’anni. L’invio di copie in saggio ai critici dei quotidiani milanesi non ha ottenuto nessun riscontro, confermando che Milano, per la poesia, non è una “piazza” facile.
Sono consapevole che la mia risposta al quesito di Ennio è molto parziale e, forse, non “militante” ma altri aspetti della questione, come molti altri temi (“valore d’uso” della poesia, la poesia come comunicazione sociale, il disordine come nuovo ordine, la stratificazione organizzativa e qualitativa del fare poesia e del suo consumo, la produzione di massa di libri di poesia che confondono lettori e critici, gli amici e i nemici, poesia e centri di potere, la poesia come gioco e divertimento, la sociabilità e la poesia, le scuole di scrittura creativa in poesia, la poesia è di tutti? tutti sono poeti? alcune teorie discutibili di Ernesto Cardenal, in che senso la poesia non è un’attività speciale? Poesia, bellezza, salvezza, riconoscimento dell’io, individualità e gruppo, organizzazione e auto-organizzazione, mestiere e spontaneità, henologia e ontologia, poesia parola essere ecc.) che elenco alla rinfusa, sono obbligato a rimandarli ad altre occasioni perché questo intervento è già diventato troppo lungo e, per questo, merito davvero un rimprovero.
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SEGNALAZIONE COLLATERALE PER APPROFONDIRE LA RIFLESSIONE: A PROPOSITO DEI DESTINATARI
In un’intervista rilasciata nell’84 a Renato Minore, commentando la sua leggendaria performance di quattro anni prima a Castelporziano, [Amelia] Rosselli si pone il problema di «come leggere per parecchia gente, come migliorare lo stile di lettura. Bisogna trovare lo spazio per parlare fino all’ultimo banco» (connotato, quest’ultimo «scolastico», dall’evidente valore di classe); come dice Gervasi, della performance a Rosselli non preme la dimensione spettacolare (nella stessa intervista afferma decisa: «si chiede più spettacolo alla poesia. Ma la poesia non è per la scena»), bensì quella inclusiva: la poesia «non si esibisce, chiama. Lo spazio sonoro è progettato per contenere chi ascolta», creando «un campo di gravitazione psichica esterno al soggetto, uno spazio condiviso di unità intermentale». Che ha anche, nelle intenzioni dell’autrice, un valore politico (nella stessa intervista aggiunge: «immaginavo i miei versi diretti ad una specie di massa, ad un auditorium senza poltrone. Subito dopo m’iscrissi al pci. Ma poi si matura. E in genere a volte s’immagina una folla, a volte non s’immagina nessuno; si scrive soltanto per se stessi»).
( da: http://www.alfabeta2.it/2015/03/14/variazioni-babelliche/) [refuso: babeliche]
ALTRA SEGNALAZIONE A PROPOSITO DI ALFABETIZZAZIONE DEDICATA IN PARTICOLARE A G. MANNACIO MA CON RIFERIMENTI POSSIBILI ANCHE A QUESTA NOSTRA DISCUSSIONE:
Uno può anche non leggere?
Scritto da Romano Luperini Venerdì, 13 Marzo 2015 08:57
[…]Partirò da un aneddoto (in realtà un ricordo) e da una polemica, che hanno entrambi lo stesso protagonista. Una volta Fortini ed io (ma mi pare che fossero presenti, o che dovrebbero essere stati presenti, anche Siti e Maggiani) fummo invitati a partecipare ai lavori di una scuola a La Spezia. Gli insegnanti orgogliosamente mostravano come avessero sviluppato lo spirito poetico degli adolescenti leggendo in classe i poeti contemporanei (Fortini stesso, Caproni, Giudici, persino Zanzotto….), insegnando loro a scrivere sonetti, a coltivare i propri stati d’animo, a osservare liricamente il paesaggio. Fortini s’infuriò. “Dovete insegnargli a leggere e a scrivere. Non diventeranno poeti, ma odontotecnici, geometri, ragionieri”, gridò. E alla loro domanda, “Ma allora quali autori dobbiamo leggere in classe?”, rispose “I Vangeli!”. Quanto alla polemica, fu fra Fortini e Spinazzola, il quale esaltava come una grande conquista la crescita della lettura in Italia (si era negli anni Settanta) e, come critico, coerentemente aveva una predilezione per il romanzo di facile consumo e stava perciò facendo una battaglia contro lo sperimentalismo letterario accusandolo di allontanare i lettori dai libri. Fortini vide in questa posizione l’ultima manifestazione di una linea illuministica volta a identificare il progresso con la diffusione della cultura e della letteratura; osservò che nell’URSS di Stalin e dei suoi immediati successori l’analfabetismo era stato sconfitto, la lettura aveva livelli di diffusione superiori a quelli di qualsiasi altro paese, ma non per questo l’URSS si collocava ai vertici del progresso; aggiunse che la misura della civiltà andava cercata non nella popolarità della letteratura, ma nelle condizioni della scuola, degli ospedali e delle carceri.
Credo che nella sostanza, e al netto delle esagerazioni polemiche, Fortini avesse ragione. E dunque anche Giunta ha ragione quando osserva che è meglio non leggere che leggere libri-spazzatura. Però…[…]
Da http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/335-uno-pu%C3%B2-anche-non-leggere.html
Maupassant, Balzac, Andric,Kadarè ,Saramago …e tiriamoli fuori fin dalle scuole medie! Accidenti! Leggiamoli a voce alta, drammatizziamoli , non perdiamo tempo è già tardi!
Collaboro saltuariamente e ascolto assiduamente Radio Popolare da una trentina d’anni e
per quello che ne so RP non si è mai occupata di poesia se non attraverso approcci tangenziali.
Se ricordo bene Fortini fu spesso intervistato da Bruna Miorelli nell’ambito della rubrica letteraria del sabato, assai raramente o mai in veste di poeta.
Dalla nascita di questa emittente la poesia ha fatto incursione nelle trasmissioni , ma
solo nell’ambito delle rubriche di segnalazione in occasione di letture, spettacoli teatrali, festival di poesia (Seneghe, per esempio, con intervista a Franco Loi).
Ci sono stati poi alcuni redattori vicini alla poesia, credo più in qualità di “poeti” essi stessi che non di critici (penso a trasmissioni degli anni Novanta come Notturnover, con Ardemagni e Micheloni che facevano il verso all’Oulipo ) ma non è mai stato tentato nessun esperimento di approccio critico sull’argomento . Viene talvolta invitato Ivan (il poeta di strada), ma questo è il livello.
Penso che sarebbe davvero interessante sviluppare qualche iniziativa attraverso la
radio, mentre sono certo che la striminzita pattuglia di ascoltatori sensibili alla poesia festeggerebbe l’evento. Ci sto mettendo del mio. In ogni caso, da qui a riuscire a proporre interventi organizzati sulle questioni trattate in questo blog, la strada è ancora lunga.
In margine alla nota di Luperini che ricorda Fortini critico nei confronti di una scuola di La Spezia dove gli insegnanti “avevano sviluppato lo spirito poetico degli adolescenti leggendo in classe i poeti contemporanei (Fortini stesso, Caproni, Giudici, persino Zanzotto….), insegnando loro a scrivere sonetti, a coltivare i propri stati d’animo, a osservare liricamente il paesaggio”, penso con piacere a quanti studenti di Fortini sono – evidentemente suo malgrado – diventati critici e insegnanti e poi, alla fine, militanti
dell’esercito irregolare. dei “moltinpoesia”
Per concludere nelle ultime settimane ho assistito a qualche dibattito alla Casa della Poesia (Palazzina Liberty) e al Festival “Letteralmente” appena concluso.
Anche in queste occasioni i temo dominanti sono: riconoscimento dei poeti, ruolo della poesia, ruolo della critica più o meno militante, mondo editoriale e rapporto tra la produzione poetica e i suoi fruitori. Quindi tutto.
Possiamo sperare che a questo rinnovato interesse per una poesia realmente capace di esprimere ragione e bellezza facciano seguito le iniziative che alcuni hanno proposto nel blog?
l’aneddoto non insegna molto.certo se gli insegnati insegnavano a scriver sonetti,vuol dire che gli alunni sapevano già leggere e scriovere.e quanto alla lettura dei vangeli,credo che quella sia la più pericolosa,perchè non c’è niente più di un testo “sacro” che rtenga lontano da una lettura critica del mondo.ed è il senso critico quello che una scuola pubblica deve insegnare,o no?qualsiasi lettura va bene perchè comunque a un dato momento sorgerà qualche dubbio,e il dubbio è alla base di ogni conoscenza.la lettura della poesia è un altro discorso:significa abituare il lettore a riflettere su ste stesso,perchè la poesia è come un tuono che continua a risuonare per un certo tempo dopo che il fulmine si è già esaurito.
cerco sempre quella
che risorge rinasce
resuscita e non muore –
solo violette
africane – amore –
il luogo dicono
della prima donna
alzata su due piedi –
(una colonna antica?
poi navata?) chiamata
da scienziati Lucy,
la fortunata – così
morti i gatti
che ho avuto tanti
anni – figli non
fatti per ragioni
tante di cui non
dico né motivi né
istanze – colleziono
colori di violette
tenendo bene a mente
le perfette idee
di utopia speranza e
via umana – dicevano
altri un tempo ideologia –
(In “L’intelletto delle erbe” , in “Tutte le oscurità del verde (1996-2005)”, poi in “Tutte le poesie (1973-2009)”, Roma, Gaffi, 2011.
Dell’arrivo di un nuovo libro di poesia se ne dovrebbe dare notizia soltanto. Si estraggano perciò dei versi e si facciano, come per i film, dei trailer. I canali per la comunicazione sono innumerevoli, da YouTube alle scritte sui muretti e le clèr dei negozi. Nel mezzo ci sono blog e riviste specializzate, e per approfondire i canali della critica. Bisogna anche che l’autore vinca la reticenza a porsi davanti all’opera e si faccia carico della responsabilità di trattare con gli “idioti”, compito che normalmente viene lasciato alla critica mestierante. Si ritiene infatti che l’autore non sappia quel che scrive, e che se nessuno lo recensisce non abbia alcun valore: come se bastasse il buon nome del critico per dare garanzie sulla qualità di quel che viene scritto. Accade anche per la pittura: poco tempo fa parlavo con un gallerista che mi disse che i collezionisti, se posti di fronte a opere valutate due o tre mila euro, non le guardano nemmeno: se ne può parlare se costano dai diecimila in su. Questi secondo me sono gli idioti di cui parlavo, i filosofi del più spendi meno spendi. Lascio volentieri agli storici il compito di andare a cercare le ragioni per cui si sia arrivati a questo, e se la critica ne abbia delle responsabilità. E gli artisti, che fino a qualche secolo fa sapevano arrangiarsi, in epoca recente si sono spesso ridotti a mendicare l’attenzione degli Sgarbi e per di più pagando profumatamente. Ma tornando alla poesia: se anche valutassimo gli estratti, o i trailer eventuali di un libro di poesie, siamo sicuri che avrebbero sufficienti qualità comunicative? L’autore dovrebbe chiarire qual’è il suo referente, e la cosa si complica perché normalmente i poeti scrivono per l’intero universo, a partir da loro stessi. Inoltre hanno spesso il difetto, secondo me, di preferire un lessico ricercato a uno “semplicemente” corretto e appropriato, e questo aiuta a mantenere le furbe distanze dagli idioti. Si sa che la gestione della parola è gestione del potere, ma si sa anche che il potere, almeno in ambito introspettivo, non è esercizio del privilegio ma libertà di poter essere. Questo agli idioti non lo si può spiegare perché il loro cervelletto capisce all’istante che non gli conviene. Nell’epoca del sottosviluppo tecnologico, e del tramonto televisivo, bisogna che i versi si adattino agli smartphone? Sì, ma è meglio se accade quando sono spenti. Cioè mai. Perché qui si tratta di vendere il silenzio della lettura, che è fratello del silenzio della scrittura, dove si fa arte del pensiero e della parola, anche se poi, in piazza, ne arriveranno le briciole soltanto perché al mondo son pochi che sanno chiedere un caffè in modo tale che lo guardino tutti. Magari poi vado avanti…
Ringrazio Luciano Aguzzi per l’analisi molto intelligente; in alcuni passaggi ho notato che dedica molta attenzione all’oralità della parola, che antepone alla parola scritta, almeno così m’è sembrato, forse perché la voce… non il Lello Voce 🙂 è quel che si sente di più nella fossa dei leoni; certo, è più facile ascoltare che leggere, com’è più facile guardare che leggere, ma qui non m’addentro. Volendo procedere con l’azzeramento e arrivando ai minimi termini vorrei riconsiderare il principio di utilità (a che serve che tu, poeta, mi dica questo e quest’altro?) che poi è l’anticamera dell’umiltà e dell’intelligenza. E finalmente conterà anche quel che si dice.
Riporto una citazione dal commento di Luciano Aguzzi: “Oggi la poesia non è più qualcosa di particolare, ma un’attività come tante altre, che di particolare, come tutte, ha solo ciò che la determina e la differenzia” ma “in che cosa poi consista il particolare proprio della poesia non si sa bene e i numerosi contributi in proposito (dal Fortini già citato ad Anceschi e tanti altri) non hanno concluso nulla, ma solo moltiplicato le diverse e possibili accezioni del termine.”
Riassumendo: 1) la poesia è un’attività; 2) con un particolare proprio che la differenzia da altre attività; 3) non si sa bene quale sia questo particolare e finora non si è concluso nulla.
Qualcosa si può dire a proposito del “particolare”, che vale per la poesia come per altre attività artistiche: non sono cumulabili, non c’è progresso, Orazio non precede Foscolo o Sanguineti al modo in cui Newton precede Einstein, e il movimento degli animali nelle grotte di Altamura è affascinante come in Guernica.
Mi interessa poi, nel commento di Aguzzi, il passaggio tra attività poetica e “testo” in cui si “coagula” (il verbo è vago e richiama precedenti discussioni sulla forma) dopo di che, e a quel punto, diventa o può diventare una merce: il testo può diventarlo, non la poesia!
La poesia non può ma deve diventare un testo, ma è il testo che circola poi nel mercato come una merce. La poesia ha un valore d’uso (tema che Aguzzi rimanda di trattare) ma non tutti i poeti intendono entrare a piedi uniti nel circuito del mercato. Un poeta può pensare di rivolgersi all’umanità intera e quindi non cercare un immediato riconoscimento, oppure può cercare il riconoscimento e la stima solo di alcuni, a me per esempio questo basta.
Senz’altro perchè ho fatto l’insegnante con uno stipendio appena, e neanche, sufficiente, e perchè ho fatto politica per convinzione non per prebende. Scrivo poesie per dire quello che penso ma mi fa piacere se qualcuno che stimo le apprezza. Insomma non è necessario che poesia e critica siano assorbite dal ciclo della merce, in mercati più o meno allargati, aspirano anche a essere anche più libere, più aeree, come le idee.
caro luciano,credo che tu mi abbia frainteso:io non intendevo rivolgerti una aspra critica,solo constatavo come rispetto al mio totale rifiuto di questa società,la tua posizione è di maggior accettazione.pangloss pensava che questo era il migliore dei mondi possibili,tu non lo vedi come il peggiore e cerchi di agire accettandone le caratteristiche e i limiti.così io intendo l’accettazione del ruolo degli editori in un mondo in cui la cultura (almeno per quelli che dovrebbero esserne i promotori) è ridotta a una qualsiasi merce:hai ragione tu o ho ragione io? credo che il tuo modo di pensare e di agire, accettando in qualche modo la situazione e agendo per modificarla in qualche modo,sia più efficace del mio:ciò nonostante a me quasto mondo continua a non piacere.
@ Aguzzi e Mannacio
I rimpalli a ping pong in una discussione (tu hai detto, ma io invece ho detto) stancano. Tanto più se – come nel nostro caso – riemergono in essa echi di temi (tipo: riforma/rivoluzione, ideologia, democrazia reale o formale) che confermano la provenienza degli interlocutori da una “casa comune” (la sinistra) oggi irriconoscibile e inabitabile.
Siano motivate o meno le accuse di appiattimento sull’esistente o di fuga nell’utopia che ci siamo fatte, è meglio riconoscere semplicemente che abbiamo punti di vista divergenti.
A dividerci è, credo, il giudizio su *questa* democrazia. In essa « milioni di uomini vivono una vita accettabile e spesso invidiata» ed essa è cosa reale e perfettibile?
Per me no.
Il secondo punto (il riconoscimento del poeta e della poesia) è un corollario di questo punto che ci divide. Pragmaticamente il riconoscimento può essere ottenuto sotto varie forme in *questa* democrazia. *Anche* dai poeti. Se sanno giostrarsi tra le regole o le scappatoie o le opportunità che essa offre.
Io però vedo che l’uso pragmatico di queste regole, scappatoie e opportunità sta cancellando tutte le possibilità di pensare a regole di un livello più alto e civile.
Concludendo perciò (provvisoriamente) dal mio punto di vista tengo a dire che:
1. la poesia per me non ha nessun’«aurea» (o aura) sacra o sacralità (laica); e tuttavia non per questo automaticamente (e impunemente) «diventa, o può diventare, merce».
Ci sarà una parte di poeti e critici e lettori che, sì, accetteranno o applaudiranno questa sua metamorfosi. Io preferisco stare con la parte che la rifiuterà. Nel contesto storico attuale (di crisi per me) i due atteggiamenti, che chiamerei (sempre dal mio punto di vista) “poesia pragmatica” e “poesia esodante”, si distingueranno forse per pochi tratti o addirittura tic. Ma non è una differenza irrilevante. E lo si vedrà se l’acutizzarsi della crisi farà intravvedere altre prospettive definibili con più esattezza.
2. La critica militante, se non la confondiamo con la partigianeria fanatica, può essere allo stesso tempo seria, onesta e politica. (Sempre se accettiamo anche di non confondere la politica che si fa in sede critica con quella che comunemente passa oggi per politica).
Nella poesia esiste una dimensione politica per il semplice fatto che il linguaggio poetico non può prescindere da quelli che circolano nella società. Sia quando accoglie e consolida temi, grammatica, lessico e sintassi entrati nell’uso comune, sia quando li innova con variazioni appena percettibili o stravolgimenti scandalosi. Questo è l’elemento politico (o di “politicità”) che la poesia porta con sé nolente o volente; e di cui non può disfarsi. Ed esso non sta solo in quella che si dichiara «socialmente e/o politicamente impegnata». Sta nel lirico puro (e magari apolitico, impolitico) e in chi scrive poesia epica o civile. Non c’è bisogno di iscriversi a un partito o comporre poesie su Gaza o sugli immigrati che affogano.
3. L’esempio della «poesia operaia» fatta da Aguzzi non mi pare ben scelto. I fautori della «poesia operaia» caddero nello stesso equivoco in cui è caduta poi la poesia femminista o gay o migrante o antirazzista. Intendendo svolgere una funzione militante a favore di quel settore di società, mal sopportato o represso o tenuto ai margini, fecero propria quella causa ma anche la miopia (l’ideologia) o l’enfasi su quella condizione sbattendola in faccia all’*ipocrita lettore* “così com’era”. Come se ciò bastasse e fosse di certo poesia.
Credo invece che la poesia può partire da un particolare modo di essere di un gruppo ma lo deve rendere “affascinante” anche per quanti non pensano secondo gli schemi prevalenti in quel gruppo. E la critica seria onesta e militante fa capire proprio come quel poeta ha condotto in porto l’operazione senza bloccarsi nel particolare ma arrivando all’universale (da intendersi sempre in senso storico e relativo). Una poesia, se tale, è dunque già «aperta a 360 gradi», è già di per sé anche «critica onesta». Non è più solo “opinione”. Ha una sua verità, difficile da riconoscere ma che va riconosciuta. Questa è la funzione della critica che non viene svolta dal lettore qualsiasi o da un suo campione scelto più o meno a caso. La poesia va cioè oltre il già previsto e accettato, tipico delle opinioni circolanti e spesso professate dallo stesso autore.
Oggi non se ne vede tanta in giro. E perciò seria, onesta e militante mi pare proprio quella critica «che richiama la poesia di fronte al mondo sconvolto e alla storia e spinge a ragionare sulla poesia sempre in relazione all’extra-poetico». Una società che rimuove le tragedie che produce o dimentica la storia tremenda da cui viene può produrre solo una poesia che si mette le bende agli occhi. Volete che una «critica seria» lodi la sua cecità?
Aggiunta.
@ Aguzzi. Per controllare il valore della poesia e, credo, anche della critica letteraria seria (militante o acccademica che sia) non credo serva nessun «codice deontologico». Perché il loro valore può oltrepassare proprio il codice deontologico accettato in quel momento storico. E va riconosciuto che proprio oltreppasandolo o mettendolo da parte si ha un salto. La libertà, la verità, la responsabilità di un’opera valida (poetica o critica) possono, infatti, olptrepassare il gusto o la morale o le norme poetiche ritenute in quel momento deontologicamente le migliori. l
Non ha neppure senso, credo, «decidere a quale pubblico vuole rivolgersi» un poeta. Potrebbe rivolgersi a un pubblico che ancora non esiste. E a volte, anche se parla a dei «lettori locali», se poeta, va ben oltre la loro mentalità localista.
SEGNALAZIONE
LAPO BERTI A PROPOSITO DI CRISI
La globalizzazione sta portando alle estreme conseguenze, alla sua massima estensione, questo lungo processo di costruzione di un’unica umanità planetaria. Era inevitabile che questo processo avanzasse in mezzo a timori, incomprensioni, reazioni difensive, di ripulsa. Era ed è inevitabile che esso richieda l’elaborazione di strumenti culturali aggiuntivi, di nuove forme istituzionali per renderlo accettabile e condiviso. Ma lo scenario che oggi ci troviamo di fronte è diverso e più preoccupante. È come se, in prossimità del raggiungimento di questo approdo supremo della nostra civiltà, le tensioni che questa trasformazione provoca fossero sul punto di far saltare l’intero processo, precipitando l’umanità in una sorta di caos sociale primordiale. Il ritorno prepotente della violenza, del terrore, della sopraffazione, della guerra, come strumenti di regolazione dei rapporti fra estranei e, per converso, il rinserramento nelle identità ataviche a tutela di interessi materiali che atavici non sono, bensì frutti avvelenati della modernità, la resurrezione prepotente del nemico che è “legittimo” annientare: sono tutti sintomi inquietanti di un regresso della nostra civiltà, capace di metterne a rischio la sopravvivenza. L’esaltazione della disuguaglianza e l’ossessione per il diverso non ne sono che una delle conseguenze più insidiose e distruttive.
(Da http://www.sinistrainrete.info/societa/4840-lapo-berti-il-grande-freddo.html)
“dirò che E.A., nonostante gli apprezzabili sforzi di equilibrio, sensibilità e controllo critico, che gli vanno ampiamente riconosciuti, non è esente da reminiscenze ideologiche, come, fra l’altro – a mio parere, magari errato, ma così però mi sembra – lo dimostrano anche i diversi richiami fatti, proprio nella discussione in corso, a Marx, Horkheimer, Adorno e Fortini, giganti della cultura che vanno studiati ma che non mi sembrano, come invece, se non ho capito male, sembrano a E.A., maestri ancora oggi attuali” (Aguzzi)
SEGNALAZIONE
ROBERTO FINELLI A PROPOSITO DI “ATTACCAMENTO” A MARX
“È dunque il pensiero francese, da Althusser a Foucault, a spostare il vertice del pensare dalla dialettica alla differenza, sottraendo centralità al concetto marxiano di prassi e moltiplicandone il senso in una congerie di pratiche eterogenee. Ed è in tale radicalizzarsi di una concettualizzazione antidialettica che si svolge l’ultimo episodio del marxismo italiano teorico-politico che qui vogliamo considerare, qual è il traghettamento di buona parte dell’intellettualità italiana di massa alla metafisica della differenza ontologica di Martin Heidegger, compiuta dagli enfantes terribles dell’operaismo italiano.
[…]
A me sembra che l’ispirazione dell’operaismo italiano, fin dalla prima versione di Mario Tronti e Antonio Negri, sia sempre stata assai più prossima alla filosofia dell’atto e della primazia del soggetto sull’oggetto di Giovanni Gentile che non alla dialettica hegelo-marxiana della totalizzazione e del nesso essenza-apparenza. Tanto da concepire la modernità capitalistica come inaugurata e scandita, di volta in volta, dall’iniziativa della soggettività operaia, cui il capitale avrebbe fatto sempre seguito, adattandovisi e rispondendo con le diverse fasi di razionalizzazione tecnologica e burocratico-politica:
Cacciari in primis come filosofo di spicco – e poi, tra gli altri, Agamben e altri – non hanno avuto troppe perplessità nel lasciare un Marx, forse mai troppo profondamente frequentato, per assumere il pensatore della Foresta Nera come massimo interprete della modernità e come nuovo vertice teorico a cui fedelmente ispirarsi per interpretare e trasformare autenticamente la realtà
[…]
Così, se è vero che alla fine degli anni ’80 gli intellettuali italiani hanno preso definitivamente congedo dal marxismo, la mutazione genetica che ne è seguita è andata assai più verso un’antropologia dell’anaffettività culturale e del vuoto esistenziale che non verso una rinnovata stagione delle passioni e delle idee.”
(Da http://www.sinistrainrete.info/marxismo/4862-roberto-finelli-il-disagio-della-qtotalitaq-e-i-marxismi-italiani-degli-anni-70.html)