a cura di Ennio Abate
Marco Baldino su Heidegger
Il senso di questa affermazione è il seguente: Heidegger fu antisemita non in ossequio alla dottrina del suo partito, suo occasionalmente e per incompetenza, ma, al contrario, egli aderì alla rivoluzione di quel movimento, proprio in quanto antisemita, non occasionalmente e per niente per incompetenza. Il silenzio di Heidegger sullo sterminio, ammesso che si possa ancora utilizzare questa espressione, non deriva dal desiderio di non lasciarsi più irretire dalla politica, che in generale lo aveva tanto deluso e tanto gli aveva nuociuto, ma dal fatto che se tutto, di quel movimento, andava infine rigettato (a causa del suo commercio con la metafisica universalistico-oggettivante, con il pensiero calcolante o scientifico o, nei termini Anni Trenta, con la «macchinazione»), una cosa gli andava però riconosciuta, il fatto di aver tentato, sia pure sotto lo stigma dell’errore biologista, di eliminare il “male radicale”, ossia il morbo (e l’agente patogeno) dello sradicamento mondialista. E questo non poteva esser detto, non subito, non mentre lui era ancora in vita. Lo dice però qui, nei «Quaderni neri», che vengono pubblicati oggi a quarant’anni dalla morte, come se il differimento dell’apparizione di queste note avesse potuto, in un’epoca in cui la colpa dell’ebreo sarebbe risultata chiara, manifestare la sua verità, come se “l’epoca non fosse stata pronta per capirlo”.
In ogni caso, il problema è che Heidegger insegna che l’opera è già sempre sporca di mondo, che non si ha mai a disposizione la verginità di uno sguardo ‘originario’, ma sempre solo uno sguardo imbrattato, velato di pre-concetti. Ora, ciò che del mondo imbratta il pensiero di Heidegger è il pre-concetto antisemita. Il problema dell’oblio dell’essere, con cui si apre «Essere e tempo», è già subito la trascrizione (ontologica) dell’anatema pronunciato dalla cultura conservatrice della destra tedesca, contraria alla Repubblica di Weimar, negli anni Venti, contro lo sradicamento mondialista, la cui figura concreta è l’ebreo.
L’immagine dell’ebreo che emerge dai Quaderni neri, non è né occasionale, né ingenua ed è riassunta da Donatella Di Cesare in termini inequivocabili: «Gli ebrei sono [per Heidegger] gli agenti della modernità; ne hanno diffuso i mali. Hanno deturpato lo “spirito” dell’Occidente, minandolo dall’interno. Complici della metafisica, hanno portato ovunque l’accelerazione della tecnica. Solo la Germania, grazie alla ferrea coesione del suo popolo, avrebbe potuto arginare gli effetti devastanti della tecnica. Ecco perché il conflitto planetario è stato anzitutto la guerra dei tedeschi contro gli ebrei».
(http://www.kasparhauser.net/CULTURE%20DESK/HeideggerNazismo/baldino-heideggerismo-naufragio.html)
Stralci da un’intervista ad Antonio Moresco
1. Come ci spiegano i fisici, noi della nostra vita e della materia conosciamo solo una parte piccolissima, forse il cinque percento. E le nostre visioni della vita sono esattamente dentro questo cinque percento. Bisogna cercare di oltrepassare queste colonne d’Ercole, ed è questo quello che io cerco di fare.
2. Oggi, sembra che se non ti limiti a fare il compitino, se sei attraversato da cose che vengono da fuori, da tutto quell’infinito di cose che non siamo e non sappiamo, non sei un bravo scrittore. Ma non è mai stato così: nei secoli passati gli scrittori avevano delle passioni incredibili, da Cervantes agli autori russi dell’Ottocento… Non erano degli abatini che curavano solo il loro orticello.
3. tra gli scrittori c’è sempre stata gente che ha fatto esperienze pazzesche—prendi Melville, che probabilmente se non fosse andato da ragazzo su una baleniera non avrebbe scritto Moby Dick; anche se è pur vero che c’è un sacco di gente che è stata sulle baleniere e non ha scritto Moby Dick. Ma c’è anche stata gente come Emily Dickinson o Kafka, che hanno fatto una vita ritirata—eppure hanno fatto fruttare in maniera pazzesca quel poco che la vita gli ha dato.
4. A chi dice che bisogna fare esperienza per parlare in modo veridico delle cose, io rispondo: Ma scusa, ma Kafka non ha avuto bisogno di essere un insetto per scrivere La metamorfosi. Collodi non ha avuto bisogno di essere un burattino per entrare nella sua mente.
5. anche dentro di noi è così, anche le nostre conoscenze: quel poco che abbiamo è tutto dentro il buio.
6. E allora quando tu scrivi un libro—soprattutto oggi, in un momento in cui siamo a un certo livello di conoscenze scientifiche—non puoi fare finta di niente: devi avventurarti. La letteratura è rischio, è esplorazione; gli scrittori sono degli esploratori che strappano dei territori al buio.
7. Questa roba qui per me non si riduce all’esplorazione della psiche, io non ho un approccio di tipo introspettivo o psicanalitico. Anzi, penso—a torto o a ragione—che quella roba lì possa essere la peste per la letteratura. Perché ti dà l’illusione di avvicinarti sempre di più a qualcosa, ma in realtà il prezzo è che ti allontana da qualcosa d’altro e di infinitamente più vasto.
8. Io voglio aprire a un’altra cosa, qualcosa che misura tutte le cose all’interno di questa bilancia della vita e della morte e legge in questa maniera l’economia, la politica, la società, la rivoluzione, la pubblicità, le teorie scientifiche dell’evoluzione.
9. Mi spiace dirlo, ma ci sono persone che più leggono e più diventano inerti. Però c’è da portare il terremoto lì dentro, perché ci possa essere una scintilla di abrasione reale con quello che uno fa. Se no viene preso tutto all’interno di una sorta di vuoto gioco mentale che si perpetua sempre più. Io non è che leggo per aumentare astrattamente la massa di informazioni in cui già è soffocata la mia mente. Io leggo perché cerco dei varchi, perché cerco dei varchi nel buio.
10. È questo che viene cancellato: si ha paura dell’incontrollabilità che si scatena dentro la vita. Ma è di questo che abbiamo bisogno. Cos’è la nostra vita se le togli questa possibilità, questa potenzialità?
11. credo che questa cosa qui, questo sonnambulismo, sia una cosa che hanno conosciuto gli scrittori—che nel momento in cui entrano dentro questa zona fluida riescono a sopravanzare se stessi, a dire cose che sono al di là e al di sopra delle loro possibilità.
12. ho bisogno di ritornare il più possibile sotto terra, ricongiungermi con il luogo da dove sono venuto. Perché lì c’è la mia forza. Io devo tornare lì, da dove si è liberata questa concentrazione—in quel lunghissimo periodo della mia vita in cui ero inerme, sotto terra, sconosciuto ma infinitamente vicino a me stesso.
(http://www.vice.com/it/read/intervista-antonio-moresco-432)
Pier Vincenzo Mengaldo su Tolstoj
Gli anni che fanno capo al ’59 sono per Tolstòj anni di meditazione ossessiva sulla questione dell’amore e del matrimonio, come ci testimoniano il suo Diario e una serie di lettere, fra le quali ricordo in particolare quelle alla prozia Alexsandra Andréievna [Alexandrine] Tolstàja, su cui si esprimerà così: “Chi cerca la mia autobiografia legga [queste] lettere. Tutto ciò che è possibile esprimere con parole intorno alla propria anima, io l’ho confessato a quella donna”. Tolstòj vuole sposarsi a tutti i costi (nel Diario, il primo giorno del ’59: “Bisogna che mi sposi: quest’anno o mai più”), e fra parentesi lo spinge in tal senso anche Turgénev: ma ogni tentativo va, sintomaticamente, fallito, e comunque non si tratta di sposarsi necessariamente per amore, perché “l’amore consiste nel desiderio di dimenticarsi”, ed è comunque immaginario, un inganno; la vera felicità sta nel rendere il più possibile felici i propri contadini e in genere nel vivere per gli altri (lettera del maggio ‘59 ad Alexandrine; “bisogna vivere per gli altri se si vuole essere felici eternamente”) e nel contentarsi di un matrimonio tiepido (“il piacere d’un tranquillo amore”) senza “passi falsi” ecc. Il tutto non impedì però allora all’ardente Conte di coltivare fra l’altro una appassionata relazione con una contadina sposata. Tutti gli spunti citati o simili tornano nella Felicità familiare, in bocca però di Sergèj Michàjlic: da un lato la critica all’amore come concepito in genere in un celebre passo dell’opera “questo [l’amore] sarà sempre menzogna”, inganno e autoinganno ecc.; dall’altro la propria realizzazione vista in un matrimonio tranquillo e diciamo pure convenzionale e nella dedizione agli “altri”, prima di tutto i contadini o mujikì. E anche quest’ultimo motivo è curioso, o meglio già si rivela come un pensiero fisso del Conte, se si tiene conto che tre anni prima Tolstòj aveva tentato un’emancipazione dei propri contadini, che costoro avevano rifiutato per ottusità, malizia, tradizionalismo ecc., e il tutto era stato puntualmente e immediatamente registrato da lui nel racconto La giornata di un possidente (chiamato Nechljùdov come poi anche nel racconto Lucerna e in Resurrezione: il “possidente” è convinto: “devo dare il bene per essere felice” ecc.).
(http://www.leparoleelecose.it/?p=18211)
Claudio Giunta sulla «Commedia» di Dante
La Commedia è stata scritta sette secoli fa. Com’è cambiata la vita da allora! E soprattutto: com’è cambiata la vita in quest’ultimo secolo! Non è forse vero che tra il mondo di Dante e quello dei nostri bisavoli o trisavoli, all’inizio del Novecento, c’è meno differenza di quanta ce ne sia tra questo mondo di “appena ieri” e il nostro mondo, oggi? Non hanno forse, la scienza e la tecnica, trasformato così radicalmente il paesaggio da rendere quasi imparagonabili questi orizzonti d’esperienza?
Molte delle cose che Dante descrive non sono più le cose che noi abbiamo davanti agli occhi. L’idea dell’esistenza che aveva non è più la nostra. Dante ha vissuto in un mondo i cui confini coincidevano praticamente con quelli dell’Europa centro-meridionale, un mondo nel quale le forze politiche più importanti erano l’impero tedesco e il papato. Al centro del cosmo stava, per lui, il pianeta Terra, con gli altri pianeti e col sole a girarle intorno. Non c’è cosa che sia rimasta intatta, da allora. E non si tratta soltanto dei massimi sistemi, ma anche della quotidiana esperienza della vita. Quando leggiamo i primi versi della Commedia, “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura”, dobbiamo fare un grosso sforzo per immaginare la paura che poteva avere un viandante che, nell’anno 1300, si fosse perduto in una di quelle foreste che cominciavano appena fuori dalle mura delle città e che erano davvero aspre, selvagge, e popolate da animali feroci. Molti dei lettori odierni della Commedia hanno a malapena visto un bosco, e lo hanno visto di giorno, camminando lungo un sentiero segnato. Smarrirsi ha, per loro, un significato molto diverso, molto meno sinistro, di quello che poteva avere per un lettore del tempo di Dante (ma mi è capitato di leggere questi versi dell’Inferno in Islanda, un pomeriggio d’inverno, col buio e il freddo fuori, e il deserto di lava a qualche centinaio di metri dal campus dell’università: li leggevo ad alta voce davanti ad alcuni studenti e posso assicurare che l’effetto era diverso rispetto a quello che si ottiene leggendoli in una scuola del centro di Roma o di Milano in una placida mattina di primavera: laggiù non ci sono selve, ma l’oscurità e la desolazione sì, e smarrirsi può ancora voler dire morire).
Si potrebbe dire che, durante i sette secoli che ci separano da Dante, sono rimaste intatte alcune fondamentali istanze umane: l’amore, l’odio, il dolore, la paura della morte… Questo è senz’altro vero, e ne parleremo più avanti. Ma consideriamo per esempio una delle più importanti fra queste istanze: la fede, la religione. Possiamo forse dire che, sotto questo aspetto, il nostro universo corrisponde ancora, almeno nelle sue linee essenziali, a quello di Dante? Dante credeva alla verità storica della Bibbia. Noi, o almeno la gran parte di noi, non ci crediamo. La fede di Dante non ha incertezze né incrinature: egli non è soltanto sicuro dell’esistenza di Dio ma è convinto di avere, con la sfera del divino, un rapporto privilegiato: è il tema che emerge a ogni passo della Vita nova e della Commedia. In linea di massima, le donne e gli uomini di oggi vivono la fede con molto più distacco: anche se sono religiosi, il peso che la religione ha nelle loro vite e nelle loro idee, opinioni, sentimenti, è molto inferiore al peso che la religione poteva avere per un cristiano del tempo di Dante. Non è dunque eccessivo dire che per questi lettori, per noi lettori di oggi, la Commedia ha cessato di essere vera. Non nel senso che noi non crediamo più alla verità del viaggio che Dante avrebbe fatto nell’aldilà: è chiaro, era già chiaro per i lettori del suo tempo che si tratta di un’invenzione, così come sono invenzioni quelle di Omero, di Shakespeare, di Cervantes. Non è più vera nel senso che la visione del mondo che si esprime nella Commedia – la dottrina, i dogmi, l’idea della Provvidenza che pervade ogni azione di Dante-personaggio e ogni affermazione di Dante-poeta – ci è diventata estranea. Si pone insomma – e si è posto in realtà a partire dal Rinascimento, e poi più decisamente da due secoli a questa parte – il problema della lettura di un’opera fortemente ideologica come la Commedia all’interno di una società come la nostra, che ha in buona misura superato quell’ideologia, che si è secolarizzata.
Ma, si potrebbe obiettare, qualcosa del genere non si può dire di tutti i libri scritti nell’antichità, o nel medioevo, o… A che punto fermarsi? Da quando la letteratura comincia davvero a parlare di noi? È del tutto normale che un lettore di oggi trovi estranee alle sue idee e ai suoi gusti le opere del passato. Sono state concepite secondo canoni estetici diversi dai nostri, rispecchiano una visione del mondo che non può corrispondere alla nostra: per capirle, per farle parlare, dobbiamo cercare di avvicinarci a quella visione del mondo e a quelle consuetudini estetiche, e accettare per esempio che un racconto lungo possa essere scritto in versi e non in prosa, o che i suoi personaggi possano essere figure fantastiche come mostri, fate, dei, oppure che i cieli dei dipinti – perché naturalmente c’è una storia della pittura così come c’è una storia della letteratura – possano essere, anziché celesti, dorati.
Ma oltre a questa difficoltà, che condivide con tutte le opere d’arte del passato, la Commedia ne presenta una specifica. Gli autori di opere come il Roman de la Rose o l’Orlando furioso o il Don Chisciotte hanno un modo di vedere la realtà ovviamente molto diverso dal nostro. Ma ciò che ci sta a cuore e che stimola il nostro interesse, quando li leggiamo, è il racconto, la trama, il corso degli eventi, e questo – la curiosità di sapere se il protagonista del racconto conquisterà la rosa, che cosa faranno Orlando e Rinaldo, come se la caverà Don Chisciotte nella prossima avventura – ci aiuta a superare la distanza che separa la nostra visione del mondo dalla visione del mondo di quegli scrittori, e a disinteressarci dell’implausibilità delle cose che ci stanno raccontando: sono storie, un po’ più strane di quelle che racconteranno i romanzieri realisti a partire dal Settecento, ma storie che ci possono divertire, interessare, commuovere, e nelle quali ci possiamo rispecchiare, anche se con uno sforzo molto maggiore di quello che ci verrà richiesto più tardi da Balzac o da Proust.
Ma ecco la differenza. Nella Commedia, la prospettiva sulle cose è importante almeno quanto le cose stesse. Dante-autore è sempre in campo, la sua visione del mondo, che è così diversa dalla nostra, viene sempre sollecitata. Non veniamo lasciati soli neanche per un attimo, non possiamo mai abbandonarci all’ascolto della storia: ogni rappresentazione cela un concetto. In altre parole, nella Commedia c’è una dimensione dottrinale, teoretica che nelle altre grandi opere della narrativa premoderna non c’è, e questa dottrina non è qualcosa che si possa separare facilmente dal racconto: perché il racconto non è fine a se stesso come nel Roman de la Rose o nel Furioso o nel Don Chisciotte ma è funzionale a una dimostrazione, mira a istruire e a persuadere piuttosto che a intrattenere, ed è pieno di faticosi passaggi nei quali i vari commi della dimostrazione vengono illustrati, come in un trattato filosofico o, per l’appunto, teologico.
(http://www.internazionale.it/weekend/2015/03/15/perche-leggere-dante-commedia)
Andrea Cortellessa su Amelia Rosselli (stralci):
1. Un «Meridiano», insomma, può rivelarsi la più lussuosa delle pietre tombali. In altri casi, invece, la sua pubblicazione coincide con una «presenza» effettiva, dinamica, dell’opera cui si riferisce: per esempio – termometro, questo, pressoché infallibile – come modello di autori più giovani. E allora il lavoro di sistemazione e storicizzazione, così spesso straordinario, che gli apparati di questi volumi contengono rappresenta piuttosto, dell’opera cui si riferiscono, il miglior trampolino di rilancio
2. La sua «presenza» postuma è eccezionale: per qualità non meno che per quantità. Non è un caso che tutti coloro che firmano le interpretazioni della sua opera, di cui si parla negli articoli qui raccolti, siano a loro volta autori, di diverse generazioni, in versi (Annovi, Bergamasco, Scappettone), in prosa (Barile) o in videopoesia (Loreto): che tutti s’ispirano all’opera rosselliana ben guardandosi, peraltro, dal tentare d’imitarla.
3. Nell’ultima straordinaria lassa di Impromptu – ultima opera data alle stampe da Amelia Rosselli, e che possiamo ora ascoltare dalla voce di Bergamasco nell’antologia da lei incisa su cd –, come spiega benissimo Annovi, Rosselli ironizza – col suo sorriso lieve e micidiale – sul diverso significato, in italiano, del lessema storia. Da un lato quella con la maiuscola, dall’altro quella con la minuscola (anche nel senso di «storia d’amore»): da un lato cioè la vicenda collettiva, il «secolo-cane lupo» di Mandel’štam; dall’altro quella personale, la biografia. Nel suo caso (che infatti al peso schiacciante della prima cercava in tutti i modi di sottrarsi: nei suoi testi, per quanto possibile, negando accesso alla seconda), tragicamente coincidenti. Nell’intreccio stritolante delle storie, e della Storia, così conclude Rosselli – idealmente – la propria opera in versi:
[…] E se paesani
zoppicanti sono questi versi è
perché siamo pronti per un’altra
storia di cui sappiamo benissimo
faremo al dunque a meno, perso
l’istinto per l’istantanea rima
perché il ritmo t’aveva al dunque
già occhieggiata da prima.
La perdita dell’istinto per la rima evoca lo spettro del silenzio creativo, che a lungo aveva assillato Rosselli già negli anni precedenti, e dal quale il rigoglio euforico di Impromptu – poemetto composto per intero, a suo dire, in un’unica mattinata esaltante – era, lo sentiva, una rondine che non poteva fare primavera.
4. Giusto l’anno prima di quell’exploit aveva confessato al fratello John di provare un’autentica «nausea for poetry» e – in un’intervista rilasciata lo stesso anno a Sandra Petrignani – aveva spiegato, con quieta terribilità: «Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere. Per questo tanti poeti muoiono giovani o suicidi»
5. L’altra storia (che peraltro, sa benissimo, non è suo destino vedere personalmente: al dunque, appunto, dovrà farne a meno) è quella a venire. Quel futuro che lei non potrà vedere, s’è detto, ma che evoca – consegnandolo ai «non borghesi» ai quali sin dall’incipit il poemetto è dedicato – nell’ottava stanza di Impromptu: «nella lontananza ora // vedo un futuro, è fatto di questa / gente che proprio non ne sa niente».
(http://www.alfabeta2.it/2015/03/14/siamo-pronti-per-unaltra-storia/)
…talmente interessanti queste letture che Ennio ci propone e con molti agganci comuni, secondo me. Uno mi sembra riferirsi al tema : la Storia, le storie…La prima riferita alla vicenda collettiva,includendo la storia del pensiero, della filosofia, della scienza… l’altra sarebbe la vicenda personale, raccontata attraverso biografie, autobiografie, cronache…”Storie” che hanno come strumento di ricerca la ragione, secondo me, anche quando fanno riferimento alla religione o alla psicanalisi…Invece mi sembra che alcuni autori citati (Dante, A. Rosselli, A. Moresco…) mettano in luce una terza via di intendere la storia, dove lo strumento di ricerca è un insieme di visione (“cerco varchi nel buio”dice Antonio Moresco) e scienza (della materia, ancora tanto sconosciuta, dice lo stesso autore), cioè la possibilità di scendere nel profondo (anche il viaggio di Dante lo è stato), strumenti che permetterebbero di dialogare con le ombre, abbattere le colonne ed estendere la conoscenza…Gli ultimi versi citati di A. Rosselli dicono : “nella lontananza ora// vedo un futuro, è fatto di questa// gente che proprio non ne sa niente” e così mi sembra la pensasse anche G. Leopardi (da un altro articolo letto sul blog di recente…), cioè di gente che ricominciare da zero…