di Luciano Aguzzi
Un fenomeno letterario che si sviluppa sempre più grazie al concorrere di almeno tre fattori, quali sono le scuole di scrittura, la facilità di pubblicare (anche e soprattutto a pagamento, ma a costi contenuti) e l’allungarsi della vita, è quello di una intensa produzione di libri di narrativa scritti da professionisti che si accostano all’attività letteraria solo quando sono in pensione o comunque ad età avanzata.
Tralasciando gli aspetti psicologici e sociologici del fenomeno, ed anche quelli editoriali, ricordo solo che fra i tantissimi libri in uscita quotidiana sono sempre più quelli di buona qualità e davvero meritevoli di pubblicazione, pur non raggiungendo il livello di libri di diffusione nazionale. La «Repubblica delle lettere», insomma, nonostante tutte le crisi attraversate, si arricchisce, e se mancano i capolavori assoluti, i grandi libri che durano per sempre, non mancano i buoni libri.
Vorrei qui parlare di un nuovo autore, appartenente a questa categoria di professionisti in pensione. Nino Smacchia che ha pubblicato La Pieve e la sua gente (Città di Castello, Perugia, LuoghInteriori, 2014, pp. 127. Collana: Narrativa. Interline@). La quarta di copertina ci dice che Smacchia è nato ad Acqualagna, in provincia di Pesaro e Urbino, nel 1948; che si è diplomato perito chimico all’ITIS di Urbino e si è poi trasferito a Milano dove si è laureato in Scienze Biologiche e ha quindi percorso la sua carriera di tecnico e ricercatore di laboratorio, prima «presso il Laboratorio Chimico Farmaceutico Zoja e, successivamente, presso il Centro Trasfusionale della Fondazione IRCCS [istituto di ricovero e cura a carattere scientifico] Ca’ Granda dell’Ospedale Policlinico di Milano».
Nato in una famiglia di contadini mezzadri, i primi vent’anni della sua vita li ha passati in campagna. Il libro autobiografico che ha ora pubblicato ci parla proprio di questi due decenni. L’indicazione «romanzo» che si legge in copertina non deve ingannarci. Probabilmente l’autore ha cambiato i nomi delle persone e magari anche quelli di alcuni luoghi ed è intervenuto in altri modi nella narrazione, ma sostanzialmente il suo libro non è un romanzo ma un racconto autobiografico, o, se si vuole, un romanzo scritto come se fosse un fedele resoconto autobiografico.
Se si trattasse davvero di un romanzo, dovremmo dire che riprende molti moduli narrativi del periodo del neorealismo. Le pagine offerte al lettore hanno il loro punto di maggiore interesse non nella trama o nell’intrigo, inesistente, e nemmeno nella delineazione psicologica dei personaggi, ma proprio nell’accento di verità e di documentazione nel descrivere la vita contadina e le dinamiche private interne a una famiglia e quelle più generali di una zona delle campagne di Urbania in relazione proprio alle problematiche delle campagne nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta.
Tutto, nell’ambito del racconto, è finalizzato a questa progressiva rievocazione della vita agricola degli anni della sua giovinezza: dall’attenta e puntuale descrizione dei fondi agricoli, dei lavori che si succedono nelle stagioni dell’anno, dei problemi economici, della delineazione dei caratteri dei protagonisti: il nonno, i genitori, il fratello minore, altri parenti e amici e, richiamati magari con un solo accenno, i vicini di casa, il medico, i proprietari, i fattori, i sacerdoti e così via. Insomma, è l’intero mondo contadino vissuto che si anima nel racconto.
Lo spessore psicologico dei principali protagonisti è solido e il lettore riesce a immaginarsi il loro ritratto fisico e morale, soprattutto se ha qualche esperienza della vita di campagna e dei luoghi in cui la vicenda si svolge; tuttavia, il ritratto, non è quasi mai dato direttamente, ma costruito pezzo per pezzo mostrandoci i personaggi nella loro vita quotidiana.
Il racconto risulta animato da almeno quattro filoni tematici strettamente legati. Il primo, di documentazione, è la descrizioni dei campi, delle coltivazioni, dei lavori stagionali e di alcuni momenti di vita contadina. Il secondo filone riguarda le vicende familiari, il trasferimento da un podere a un altro, il nonno, la morte di uno zio, i genitori, i vicini di casa. Vicende capaci di commuovere perché svelano destini personali vissuti e raccontati con intensità. Il terzo filone è quello della formazione del giovane protagonista e narratore che, oggi nonno, si racconta al nipote Marco. Formazione, insieme, strettamente personale e però anche emblematica di analoghi destini di tanti giovani che, nei primi decenni del dopoguerra, maturano il desiderio di una vita diversa da quella di cui i genitori e i nonni fornivano loro l’esempio.
Il quarto filone è il fenomeno più complessivo di abbandono delle campagne da parte di molte famiglie contadine. Nell’arco di una diecina d’anni, all’incirca fra il 1955 e il 1965, ci fu un vero esodo di massa dalle campagne. L’agricoltura passò da oltre il 50% della forza lavoro a meno del 20%. Anche in questo caso, l’autore documenta una situazione attraverso il racconto di vicende personali capaci di coinvolgere il lettore.
Il nodo psicologico di tutta la materia del libro si trova nella figura del padre del narratore che, nella sua indomita fierezza di contadino che non vuole lasciare la terra, nonostante le difficoltà del lavoro e le avversità economiche, non esprime solo – come forse sembrava al ragazzo degli anni Sessanta – la testardaggine e la chiusura culturale del contadino, ma anche e soprattutto – come ricorda oggi rivalutandone la figura il figlio diventato a sua volta padre e nonno – il sentimento di indipendenza, di libertà, di rapporto quotidiano con la natura, di vitalità e soddisfazione per quel lavoro che consiste nell’aiutare la terra a produrre il pane, il vino e tutto ciò che è la base della vita.
Insomma, un uomo libero e un creatore fra cielo e terra, non un numero fra i tanti. Così risponde quel contadino alla moglie e ai figli che vorrebbero lasciare i campi: «Io non vado a fare il miserabile tra i vicoli del paese, a mendicare qualche lavoro, dove sarei comunque sempre una nullità!» (pag. 121). E, commenta di seguito l’autore: «A lui questa idea di lasciare il podere sembrava una cosa assurda. Faceva il suo lavoro con passione, conosceva ogni angolo dei suoi campi e godeva di una libertà invidiabile. […] Che vantaggio avrebbe avuto a lasciare il podere? La sua libertà e il lavorare con gusto erano un bene prezioso che avrebbe difeso con tutte le sue forze. […] Alle volte si sentiva un sopravvissuto, eppure non si rimproverava nulla, non sarebbe stato capace di far qualcosa che non fosse per passione e lui la passione la provava solo per il mestiere che faceva. Tanti vicini se ne erano andati, ma lui li considerava persone che avevano svenduto la propria dignità per conformarsi alla nuova mentalità» (pp. 121-122).
Dignità, libertà, passione, amore per il proprio lavoro: ecco i cardini della rivalutazione odierna di quella mentalità contadina che resisteva contro la nuova mentalità attratta dalle lusinghe del lavoro in fabbrica o in ufficio, dalla vita più comoda delle città e dalla maggiore agiatezza di un lavoro meglio retribuito. Lusinghe, speranze e promesse che poi, nei fatti, non sempre si traducevano in un reale miglioramento del tenore di vita e, soprattutto, in una equivalente o migliore qualità esistenziale in termini di armonia e completezza psicologica e morale.
Il nuovo stile di vita, esemplificato nella progressiva conquista del frigorifero, della lavatrice, del televisore, dell’automobile, comportava aspetti negativi che il vecchio contadino non poteva accettare, come, ad esempio, il venir meno dell’unità delle famiglie e l’attenuarsi dei valori morali e religiosi e di solidarietà fra i vicini.
La scrittura di Nino Smacchia è semplice, essenziale, gradevole e, come si dice, si fa leggere con piacere. I suoi pregi migliori sono la correttezza e la precisione, funzionali al carattere del racconto autobiografico aderente alla realtà e alla concretezza delle cose. Usa, pertanto, un linguaggio con pochi aggettivi, diretto, fatto di nomi di cose e di azioni. Si noti ad esempio l’uso dei nomi propri, sia dei toponimi (nomi di città, paesi, frazioni, località, vocaboli prediali e strade viciniori) sia delle persone (nomi e cognomi), tutti veri o verosimili, dall’inconfondibile carattere proprio delle Marche settentrionali e del Montefeltro. Come quelli dei fratelli di una stessa famiglia, chiamati Primo, Secondo e Terzo (in ordine di nascita), uso che può sembrare bizzarro e di fantasia, mentre è spesso ricorrente nei nomi delle famiglie contadine dell’Ottocento e della prima metà del Novecento.
Libro, dunque, di narrativa e di colore locale, ma che può essere letto con utilità e piacere da tutti, purché si ami leggere di cose vere.
Nino Smacchia non è uno scrittore di professione, credo, anzi, che questo sia il suo primo e per ora unico libro. È, si potrebbe dire, senza nessuna intenzione di biasimo e tanto meno di offesa, uno dei tanti che, raggiunta una certa età, alla fine della carriera o già in pensione, scopre di avere qualcosa da dire, desidera dirlo e trova i mezzi per farlo. Sono autori colti i quali, pur avendo seguito carriere non letterarie, da sé, o passando attraverso la frequenza di una delle tante scuole di scrittura creativa attive a Milano e altrove, hanno maturato una capacità di scrittura dignitosa e pubblicano libri utili e spesso anche piacevoli. Si tratta di opere i cui autori, pur senza rivendicare particolari qualità letterarie (né aspirare a scrivere un bestseller), emergono dalla marea dei tanti libri «a pagamento» che l’editoria cosiddetta minore sforna quotidianamente e che trovano la loro giusta collocazione presso un pubblico di lettori in qualche modo di «nicchia», formato in genere da tre tipologie: quella dei parenti, amici e conoscenti; quella locale degli abitanti nei luoghi narrati; quella dei lettori interessati a questa letteratura autobiografica e di documentazione narrativa (e poetica) che contribuisce non poco a restituirci la realtà storica dell’Italia del passato.
Non si tratta, pertanto, di scrittori minori o minimi, che però nutrono le stesse aspirazioni letterarie dei grandi, ma di professionisti che si raccontano, conservando la concretezza delle abitudini professionali. Si raccontano non perché vogliano evadere nella finzione letteraria, magari scontenti di una vita professionale che tende a spersonalizzare l’io interiore, ma perché sembra loro di dover trasmettere ai figli e nipoti (in senso letterale e in senso metaforico) la storia della propria esperienza e della realtà, delle tradizioni, dei valori da cui provengono. Si assumono un compito di testimonianza proprio delle persone vissute e più anziane. Naturalmente, in ciò, c’è anche la nostalgia della giovinezza e delle tante cose che potevano essere e non sono state. Perché, dopotutto, chi racconta si rivolge sempre, innanzitutto, a se stesso, per vivere e rivivere nel proprio racconto.
In una lettera privata diretta a chi scrive Smacchia confida che La Pieve e la sua gente «ha significato per me ritrovare le mie radici e riconciliarmi con quel mondo contadino in cui ho vissuto la mia giovinezza e da cui, per l’impazienza giovanile, mi sono staccato un po’ bruscamente».
Il lavoro è stato selezionato al concorso letterario Città di Castello e pubblicato dalla giovane casa editrice di quella città, LuoghInteriori, che giustamente, com’è del resto tipico di tante case editrici minori (per capacità economica, non per impegno culturale) a diffusione prevalentemente locale, dedica in particolare la propria attenzione alla storia, ai problemi e agli autori della zona in cui opera. Città di Castello, com’è noto, è una cittadina umbra, ma ai confini con le Marche e con quel territorio dell’alta Valtiberina storicamente spartito fra più province (Perugia, Pesaro e Urbino, Arezzo) e vicino alle zone storiche del Montefeltro e della Romagna (provincia di Rimini).
…penso che molti di noi sono toccati da questo racconto di N. Smacchia, così chiaramente presentato da L. Aguzzi, perché vi leggono un’esperienza che nonni e genitori hanno vissuto dopo la guerra: l’abbandono della terra. Uno snodo da cui, a catena, si sono srotolate molte tragedie. Mio padre, in famiglia, è stato il primo, in età giovanissima, poi ne hanno seguito l’esempio anche gli altri fratelli, che, pur rimanendo più vicini alla campagna, se ne erano sostanzialmente allontanati, perdendo la fierezza di essere contadini, come bagaglio di libertà e di passione…Anche perché venivano presi in giro nei loro spostamenti in città, sentendosi apostrofare dai coetanei: “arrivano i famei…” ( cioè quelli che lavorano nelle stalle, cioè sporchi). L’ondata nera delle illusioni non aveva confini…Gli ultimi irriducibili sono stati proprio i miei nonni…Poi qualche ritorno c’è stato, fornendo esempi ibridi e molto malinconici. Mi ci posso collocare anch’io. Ma forse oggi si guarda con più positività e concretezza alle possibilità di lavoro che il ritorno alla terra può offrire…
La Pieve e la sua gente: non è un titolo modesto perché fa pensare a una testimonianza che mancava, ma di interesse localistico, che non brilla; fa di più Narrativa di un professionista in pensione, che è tutto dire se si pensa alla genericità dei tre sostantivi, che però sommati riescono per lo meno a creare una curiosa anomalia, diciamo così, giornalistica. Peccato perché si sa che i lettori di narrativa amano le saghe familiari: grazie a queste storie imparano a conoscere meglio aspetti della storia, oltre la loro anche della società intera (Ken Follet, se mi passate l’esempio, per non dire dei Cent’anni di solitudine e di moltissimi altri).
Tempo fa mi capitò di “dover” leggere il libro di un parente, giornalista della televisione svizzera in pensione, appunto (Carlo Pozza si chiamava, ora è morto). Parlava della pesca alla trota in montagna, nei valloni svizzeri; niente di più noioso, pensavo, e invece mi appassionò al punto che a stento mi trattenni dal comprare una lenza… Devo dire che da quando ho lasciato Milano, quasi due anni fa, per vivere in campagna, in un paesino tra le risaie della pianura Padana, molte cose sono cambiate in me; ad esempio ho imparato a produrmi del cibo anziché dovermelo comprare; poche cose, per adesso solo pomodori e erbe aromatiche, ma un amico, contadino in pensione, mi sta insegnando quel che c’è da sapere. S’intende senza fretta, e per di più parlando d’arte e letteratura. Ne viene un’esperienza umana che va ben oltre il rapporto città campagna: capisco meglio la condizione di ricatto nella quale mi sono trovato a vivere per tanti anni e la mia critica al consumismo, che era di tipo rivendicativo, ha trovato più solide fondamenta.
Grazie per la segnalazione.
Scusate, questa è una delle rare volte in cui mi sento certo di aver scritto delle cretinate.
…sminuzzare la letteratura in una miriade infinita di testimonianze (l’ideale sarebbe quanti siamo noi…) mi sembra buona cosa. Lo scopo diventa più umano che letterario. Anche perché nessuno ci vieta di leggere i grandi della letteratura che, se tali, parlano comunque di noi. Insomma se la lettura e la scrittura ci aiutano in qualche modo a crescere ben venga. Comunque, Mayoor, le tue non sono mai cretinate, anche quando punzecchiano un po’…Un saluto alla tua campagna…
La presentazione del libro di Nino Smacchia è “corretta”, cioè allineata-con (etimologicamente) le convinzioni che L. Aguzzi ha esposto in precedenza sul mercato possibile a cui ogni libro si rivolge in realtà.
Forse Aguzzi avrebbe anche potuto segnalare, tra le qualità che spingono a leggere e scrivere un simile libro, non solo “ritrovare le mie radici e riconciliarmi con quel mondo contadino in cui ho vissuto la mia giovinezza”, e “attenzione alla storia, ai problemi e agli autori della zona in cui opera” (oltre la “capacità di scrittura dignitosa” che permette di trovare la “giusta collocazione presso un pubblico di lettori in qualche modo di ‘nicchia'”).
Racconta Mayoor: da quando mi sono trasferito in campagna “ho imparato a produrmi del cibo anziché dovermelo comprare; poche cose, per adesso solo pomodori e erbe aromatiche, ma un amico, contadino in pensione, mi sta insegnando quel che c’è da sapere. S’intende senza fretta, e per di più parlando d’arte e letteratura”.
La durata dei gesti, dei tempi, la necessità delle cose indipendenti da noi, gli scambi asimmetrici, e paritari, in cui si vive (in parte, in parte!) in un circuito non cittadino, attingono la materialità del nostro esistere.
Compresente al letto di Procuste in cui il mercato ci stringe, ma anche più radicale e ampia. Opportuno avere sempre presente che non siamo solo produttori/consumatori, che l’umanità viveva anche in altri modi di produzione e, si spera, in altri proseguirà. Il libro di Smacchia a questo doppio livello fa pensare, e se forse anche lo impegna sarebbe utile saperlo.
Ho conosciuto Nino attaverso questo suo libro. Non lo conoscevo pur essendo nati e vissuti lontani pochi chilometri, sia i primi 20 anni, nelle campagne tra Urbania ed Acqualagna,entrambi figli di mezzadri, sia dopo, a Milano, dove ci siamo trasferiti per lavoro.
Pochi anni ci dividono, le nostre comuni origini ci uniscono. Ci unisce l’amore nel raccontare e raccontarci gli anni della nostra giovinezza, di quella vita contadina di appena 50 anni fà, ma così lontana dai giorni nostri.
Anche io, come Nino, ho sentito la necessità di raccontarmi, penso con le stesse motivazioni che in fondo sono il pensare che il passato non va dimenticato, anzi proposto ai nostri figli ed ai nostri nipoti perchè “La persona è come una pianta e il suo passato sono le radici, che futuro può avere una pianta con le radici recise?”.
Nei miei due libri “Le mie origini, la mia storia”Oros & Ganos 2010 e “Sulle ali dei ricordi” Oros & Ganos 2011, ho cercato di trasmettere ciò, perchè l’oblio non cada sulla nostra storia ed i ricordi ci seguino nell’aldilà.
Penso che anche tu Nino,condivida ciò.