di Luciano Aguzzi
Leandro Fossi, Anche questa è vita, Robin edizioni, Torino 2015
Nella vita di Leandro Fossi, ripercorsa alla luce della sua opera letteraria, la data periodizzante che più conta è il 2001. In quell’anno gli venne diagnosticato un tumore. È poi vissuto ancora dodici anni (è morto a Milano il 17 agosto 2013), passando attraverso otto operazioni, ripetute degenze ospedaliere, cicli di chemioterapia e l’alternarsi continuo di speranza di guarigione e terapie sempre più invasive e condizionanti.
Leandro ha saputo reagire decidendo di dedicare ciò che gli restava di energie e di tempo alla realizzazione di una sua antica, giovanile aspirazione, mai, però, concretamente perseguita: voleva essere uno scrittore.
Dedicarsi alla scrittura era per lui non solo quell’hobby, consigliatogli dai medici e dallo psicologo, per non deprimersi e reagire positivamente alla malattia, ma un riscoprire se stesso, un rivivere letterariamente quella vita mai vissuta, parallela a quella da lui realmente vissuta.
Nel 2005, trovandomi a chiacchierando con Leandro dopo l’uscita del suo primo libro, l’amico mi fece una singolare confidenza: “Vorrei essere ricordato − mi disse − non come commercialista ma come scrittore”. Certamente non rinnegava l’attività professionale svolta, di cui era contento, ma sentiva in sé che se quella rappresentava il necessario per vivere dignitosamente, la scrittura rappresentava il suo io, la sua vera identità. E aggiunse, senza eufemismi, nel linguaggio diretto proprio dello “stile fanese”: “Prima di crepare, vorrei avere il tempo di scrivere altri due o tre libri”.
Con ammirabile e rara tenacia perseguì questo obiettivo e, dopo il primo, pubblicò altri due volumi e lasciò pronto per la stampa il quarto, dal titolo emblematico “Anche questa è vita”.
Ci lavorò, a questo suo ultimo racconto autobiografico, fino all’ultimo giorno. Si può anzi dire che riuscì a trattenere la morte sull’uscio finché non ebbe terminato il libro. Nell’ultimo anno, ormai malato senza speranza e senza possibilità di cure, con una prospettiva di vita di pochi mesi, rifiutò il soggiorno in una di quelle cliniche specializzate che accompagnano i malati terminali alla morte, con l’assistenza medica, psicologica e morale necessaria sia per affrontare il dolore fisico sia per accettare ciò che si sa inevitabile.
Preferì resistere e sopportare il dolore a casa, incollato al suo computer per terminare il lavoro.
Leandro Fossi era marchigiano di origine e milanese di adozione. Tipico rappresentante della buona borghesia delle professioni, persona discreta, fedele al proprio lavoro, a cui si dedicava con quella puntualità e onestà sempre più rare nel nostro Paese. Però senza enfasi, anzi con intelligenza, arguzia e distaccata ironia, talvolta pronta a trasformarsi in una battutaccia alla fanese.
Egli, che si è sempre considerato fanese e milanese, era però nato a Villanova, frazione del comune di Montemaggiore al Metauro (provincia di Pesaro e Urbino), il 10 maggio 1937 e a Fano si era trasferito nel 1951. Nella città marchigiana fece i suoi studi, fino alla maturità, al liceo scientifico; poi, grazie a una borsa di studio, pur essendo di famiglia povera, poté trasferirsi al Collegio Universitario don Nicola Mazza di Padova per frequentare la facoltà di Economia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove si laureò nel 1961.
Dopo la laurea non tornò a Fano come i genitori avrebbero voluto, ma dove le possibilità di lavoro e di carriera erano scarse; si trasferì a Milano. Qui trovò subito un impiego alla Edison (1962-1963) e poco dopo al Comune di Milano (1963-1970). Con l’istituzione delle Regioni nel 1970, Piero Bassetti, primo presidente della Regione Lombardia, che già conosceva e apprezzava l’economista fanese, lo volle con sé. Così Leandro Fossi fece parte di quel primo gruppo di funzionari che prepararono le strutture della nascente Regione Lombardia, la quale, dopo la legge istitutiva, aveva bisogno dell’organizzazione degli uffici, degli studi preparatori di attività e della redazione del primo Statuto regionale.
In seguito Fossi rimase alla Regione Lombardia, come funzionario, fino al 1995, quando si mise in pensione con qualche anno di anticipo; non però per starsene in riposo ma per dedicarsi alla libera professione, come commercialista. Si aggregò quindi a un noto studio al centro di Milano, osservatorio ideale per conoscere il mondo milanese degli affari e degli intrighi, che poi ci mostrerà nel suo terzo libro.
Leandro si era sposato nel 1967 con Ambretta Manna, marchigiana di San Costanzo (Pesaro e Urbino), a Milano dal 1963, impiegata in una compagnia di assicurazioni. Nacquero due figli: Andrea nel 1970 (laureato in Economia e commercio, esperto in diritto tributario) e Davide nel 1971 (ingegnere meccanico). Tutto sembrava filar liscio. La vita aveva però in serbo per Leandro una nuova e drammatica svolta e, inaspettatamente, anche l’opportunità di realizzare il suo sogno giovanile.
Persona colta, amante della letteratura, dell’arte e della musica, fin da ragazzo aveva nutrito il desiderio di scrivere e diventare scrittore. Ma in pratica, preso dalla necessità di lavorare per vivere e in seguito assorbito completamente dal lavoro, non aveva mai coltivato quella giovanile inclinazione. La scrittura non gli era ignota, perché nel suo lavoro aveva prodotto migliaia di pagine di relazioni, paper, un libro di argomento economico e giuridico e diversi articoli pubblicati su un quotidiano economico nazionale.
Ma scrivere per raccontare era tutt’altra cosa! Le collaborazioni giornalistiche su argomenti economici e giuridici non avevano niente a che fare con la voglia di scrivere racconti e romanzi. Alla prima operazione nel novembre 2001 seguì un periodo di depressione, dal quale Leandro uscì proprio dedicandosi alla scrittura. Egli stesso racconta nei suoi libri, per accenni e passaggi veloci, il suo rapporto con la scrittura. Ad esempio, in questo suo ultimo libro leggiamo: “sono un dilettante, scrivo per non pensare alle mie disgrazie. In effetti, anche se ci avevo provato da quando ero ragazzo, avevo iniziato a scrivere con una certa continuità quando mi avevano diagnosticato una grave malattia. La notizia mi aveva turbato al punto da non riuscire a dormire. Lo psicologo dell’ospedale non aveva voluto prescrivermi dei tranquillanti, mi aveva consigliato di dedicare più tempo ai miei hobbies per smettere di piangermi addosso”.
E più avanti: “Poiché scrivere il mio primo libro mi aveva aiutato molto, iniziai a scriverne un altro. Esercitandomi quotidianamente acquisii una migliore sensibilità, apprezzai ancora di più la lettura e la musica. Leggere un libro o ascoltare una sinfonia mi provocavano emozioni intense. Anche il mio carattere migliorò”.
E ancora: “Dai tempi dell’università mi portavo appresso una cartella con abbozzi di racconti che non sapevo come concludere”. E infine, ecco il consiglio che dà a un aspirante scrittore: “Bisogna insistere, scriva tutto quello che ha in testa poi, rileggendo, lo riscriva se non le sembra che esprima quello che voleva dire. Alla fine vedrà che troverà le parole giuste. È una gran fatica, ma senza fatica non si ottiene niente”.
Però, come si è detto, per Leandro la scrittura non fu solo un hobby consolatorio, ma l’occasione per cambiare il suo destino. Gli antichi greci sostenevano che il destino di un uomo si rivela e assume senso solo alla morte. È il come si muore, non il come si vive, che fornisce la chiave di lettura di ciò che si era, che dà realtà e profondità a ciò che prima era forse solo apparenza o menzogna. La scrittura fu il mezzo con cui Leandro affrontò la morte e determinò il senso ultimo del suo destino.
Cominciò a frequentare due scuole di scrittura creativa e a scrivere racconti, alcuni pubblicati online fin dal 2004. Gli spunti tematici li traeva soprattutto dai ricordi dell’infanzia, ambientati nelle Marche, e da incontri ed episodi curiosi della vita milanese. L’autobiografia era il centro del suo lavoro. Come ha scritto Giuseppe Bonura − anche lui fanese e milanese e amico di Leandro da sempre − nella prefazione al secondo libro di Leandro (“La casa degli zii e altri racconti”, Milano, ExCogita, 2006): “Ci sono scritture che non riescono a uscire di casa. […] I temi sono i più vari, ma tutti hanno il crisma dell’esperienza personale. Potremmo dire con qualche verità che Fossi è un cronista di se stesso”.
Ciò è vero. Ma Fossi riuscì ad essere cronista di se stesso in modi diversi per ognuno dei suoi quattro libri, ognuno nuovo rispetto agli altri. Non si adagiò − come è tipico degli scrittori di ambito locale − sui ricordi, sulla nostalgia e sul bozzettismo. Scrivendo cercò in sé gli aspetti multiformi dell’esperienza combinandoli con un po’ di fantasia e con il proposito e lo sforzo consapevole di rinnovare di volta in volta anche la sua scrittura.
Ad esempio il suo primo libro, “Fuga in Oriente” (Milano, ExCogita, 2005), rappresenta un’emblematica crasi (incrocio, fusione) fra due filoni tematici e due atteggiamenti mentali e di vita: quello del ritorno alle radici dell’infanzia e quello della fuga esotica. Il termine “fuga” del titolo preferito a “viaggio”, che sembrerebbe più appropriato, già esprime la duplice fuga di Fossi dalla realtà, di commercialista e di ammalato in fase di chemioterapia, verso la letteratura e verso un mondo esotico. Esotico, ma reale, non inventato.
Fossi aveva avuto da ragazzo, a Fano, come proprio oculista il prof. Giuseppe Biozzi (1905-1992), singolare e bizzarra figura di medico, molto colto e preparato, la cui vita era stata segnata irrimediabilmente dalla passione per l’Oriente e dai cinque anni passati in Cina fra il 1937 e il 1942. Dopo il suo ritorno in Italia rinunciò alla possibile carriera universitaria per rifugiarsi nell’anonimato della professione in provincia, in pratica vivendo di ricordi e di nostalgia per i suoi anni cinesi. Negli ultimi anni, sempre invaso dalla febbre per l’Oriente, si decise a scrivere un grosso libro di “Memorie di Estremo Oriente”, stampato in edizione privata fuori commercio nel 1992. Questo libro, passato inosservato e distribuito in poche copie, sebbene assai vivo e veritiero e scritto bene, nonostante lo stile un po’ antiquato, capitò casualmente nelle mani di Leandro proprio nel 2001 e gli rivelò aspetti del tutto sconosciuti della vita del suo antico oculista.
Da qui nacque sia il ricordo dei suoi primi incontri con Biozzi, quando, ragazzino miope, aveva cominciato a portare gli occhiali, sia la “fuga in Oriente”. Le vicende narrate si svolgono in quattro tappe: la prima è la premessa e si svolge a Fano, la seconda e la terza sono il racconto di due viaggi che Fossi ha fatto in Cina nel 1985 e nel 1994, ora “rielabo¬rati” con la mediazione della scrittura letteraria. La quarta tappa, la più lunga come numero di pagine, è il riassunto e la riscrittura del libro di Biozzi. Non si tratta di un “plagio”, ma di una vera riscrittura e appropriazione, ricca anche di rimandi simbolici, attraverso cui l’esperienza di Biozzi si identifica con quella − reale e immaginaria − di Fossi.
Il libro è scritto con una prosa piana, lessicalmente precisa, distaccata e a tratti ironica, di gradevole lettura.
L’anno dopo Fossi pubblica “La casa degli zii”, che comprende il racconto lungo del titolo e altri 13 pezzi. Rispetto al primo, il secondo libro è più maturo, la prosa è letterariamente più curata. Si sente la maggiore esperienza. È un libro quasi tutto autobiografico, dove si ritrovano molti suoi ricordi reali (anche se preferisce usare nomi fittizi di luoghi e di persone), organizzati a catena, quasi capitoli dello stesso racconto. Alcuni racconti però si sottraggono ai ricordi marchigiani per affrontare qualche aspetto marginale dell’esperienza milanese dell’autore.
Se i primi due libri erano ancora molto legati alla propria autobiografia, il che ne circoscriveva l’orizzonte, il terzo, pubblicato nel marzo 2001, è un romanzo vero e proprio, intitolato “Un passo troppo lungo” (Roma, Robin Edizioni, 2011, pp. 250). Ci sono gli elementi del thriller (traffico d’armi, alcune vittime), ma il tema vero del romanzo è l’intreccio fra affari e potere, fra cinismo di colletti bianchi senza scrupoli e magistrati e politici senza etica professionale. Il vero interesse di Leandro Fossi è la descrizione, sempre un po’ sottotraccia, mantenuta a basso profilo, con scetticismo, arguzia e ironia, di questo stralcio del mondo degli affari e del lavoro con vista su Milano. Nel descrivere questo ambiente di affaristi senza scrupoli, l’autore assume il punto di vista dei suoi personaggi principali. È una Milano vista, in un certo senso, nella sua banalità quotidiana del malaffare.
Leandro ha lavorato a lungo al romanzo, riscrivendolo più volte da capo a fondo. L’esperienza personale viene qui interamente calata nel racconto e non più data come ricordo autobiografico. Il libro ha potuto così avere una circolazione più vasta e ha riscosso giudizi positivi da parte dei lettori e dei critici. La scrittura si è fatta più limpida e scorrevole, senza perdere la precisione, la concretezza, e quel misto di distacco, di disincanto e di ironia che è proprio dello stile di Fossi.
Nei due anni che Nostra Signora Morte gli ha concesso di vivere ancora dopo la pubblicazione del romanzo, Leandro ha finito di scrivere il quarto libro. Questa volta l’argomento è esplicitamente autobiografico, ma non si tratta più di ricordi dell’infanzia e della giovinezza, bensì del racconto del suo lungo ricovero ospedaliero dell’estate del 2008, in cui Leandro ha subito l’ennesima operazione. Col titolo “Anche questa è vita”, l’autore condensa, in una specie di diario ospedaliero, esperienze e osservazioni raccolte anche negli altri periodi di ricovero, prima e dopo il 2008. Con un linguaggio estremamente piano, essenziale e asciutto, quasi da relazione informativa, ma animato da argute osservazioni, da battute, da ritrattini di medici, infermieri e ricoverati che dividono con lui la stanza, il libro cresce emotivamente a poco a poco e coinvolge gradualmente il lettore che alla fine si immedesima un po’ nell’ammalato. Il quale ci offre un ritratto di se stesso aperto e a tratti indiscreto fin quasi all’impudicizia, però, al di fuori dei riferimenti e dei dettagli della malattia, mostra anche − e perfino ci scherza sopra − il proprio carattere timido, discreto, e la paura. Non solo paura della malattia, ma paura di perdere decoro e dignità in quella lotta quotidiana in cui il corpo non obbedisce più alla mente, ma è questa che deve mettersi al servizio del corpo e delle cure e adattarsi alle più umili necessità del proprio fisico. Il vero soggetto del libro, al di là della malattia e dell’ospedale, è l’esperienza esistenziale vissuta in quelle particolari condizioni.
Emerge il ritratto a tutto tondo di questo borghese, fifone e coraggioso insieme, timido e un po’ individualista fin quasi all’autoisolamento, che però si apre pian piano, con sensibilità e umanità, all’incontro con gli altri ammalati. Ed emerge il bel rapporto con la moglie, con i figli e le nuore. Tutto senza un filo di enfasi o di retorica, anzi narrato sottotraccia, attento a non cadere nel sentimentale o addirittura scadere nel patetico. Leandro non vuole suscitare pietà o sentimenti da melodramma, anzi guarda la morte con realismo e crudezza, con l’ironia che è propria del suo stile, ma insieme con speranza e paura, cioè con quella “normale” umanità che è sottintesa nei suoi scritti. Quando un velo di tristezza prende il lettore alla gola, non si tratta di piagnistei per la malattia, ma di pagine commoventi in cui si descrivono le bellezze della natura o la tenerezza della compagnia delle nipotine Valentina e Benedetta, ed è come − pur senza dirlo esplicitamente − un addio a ciò che la vita ha di più bello.
Rispetto alla ormai consistente letteratura di malati terminali che raccontano la propria esperienza, il libro di Fossi si distingue nettamente, sia perché non racconta la malattia terminale, ma la condizione ospedaliera nel suo farsi comunità di persone vive, sofferenti ma vive, fra le quali nascono legami di amicizia e solidarietà, sia perché non assume mai il tono didascalico e consolatorio o quello della fuga verso la speranza religiosa di una vita ultraterrena. Fossi, pur essendo cattolico praticante, mantiene il suo racconto tutto nell’ambito “terrestre”.
Del resto gli accenni alla fede che si leggono nel suo libro non sono mai esenti da un filo di ironia e di perplessità. Leggiamo infatti passi come questi: “Credo in pochissime cose, soprattutto in quelle che riesco a vedere e toccare”; “Mi professo credente ma mi meraviglio che persone adulte possano trascorrere giorni interi a pregare e a meditare, a meno che non siano dei religiosi”; “Mi faceva piacere credere nell’esistenza di un essere superiore, ma non ci credevo sino in fondo”.
Nel realistico, autoironico e umanissimo ritratto che Fossi ci dà di se stesso, sta forse il meglio del suo lascito letterario. Come ha voluto − e lavorato sodo per conseguirlo − nel necrologio pubblicato su un giornale nazionale non si legge “commercialista” ma “stimato scrittore fanese”.
Ed è così che sarà ricordato dai suoi lettori.
Luciano Aguzzi conferma, se ce ne fosse bisogno (per me) la trascendenza immediata della vita, che nominiamo “il simbolico”. Quello che, nella presentazione di Leandro Fossi, ci in-forma e ra-coglie la concretezza storica dei suoi dati vitali: la moglie dei paesi suoi, la carriera lavorativa nello scambio tra privato e pubblico (nell’epoca in cui il femminismo scopriva che il privato è politico), la svolta (nuova e drammatica) nel corpo (e la scrittura non gli era ignota nel suo lavoro).
Scrivere e raccontare… altra cosa nella storia umana senza essere ammalati, voglio concludere che no, il senso di una vita si ottiene alla morte, ma non nel come bensì alla conclusione, che non ha nessun senso, e non dà luce, se non come la fine, che non fa parte della storia.
Entra Il Critico. Il primo libro è fuga verso un mondo esotico, la mediazione simbolica di un maestro, l’oriente immaginato- ricordato non è plagio solo appropriazione. L’esperienza di scrittura del secondo sostituisce allo sconfinamento nell’irrealtà storica un affisare la storia che si incarna nel suo presente.
Il terzo libro “è un romanzo vero e proprio”, immaginando una scena e una trama, ma “gli altri sono come me”. E ci credo, visto che lo ha riscritto più volte da capo a fondo!
Nel quarto finalmente si avvicina a sé, sé come gli altri, malato tra i malati e i curanderos, tra i mortali mortale. Fin quasi all’impudicizia, finalmente! Il ritratto di questo borghese, che si è avvicinato al suo essere umano, e ci mancherebbe anche l’enfasi retorica, è patetico quando occorre guardare la morte “con realismo e crudezza” spirituale (che l’ironia arma e conforta).
La fuga verso la speranza religiosa? Ma di che cavolo si parla? Ognuno se la vede tra sé e sé a quel punto. Perché l’unico aldilà è conficcato nella mortalità, e non c’è prova contraria.
Trovo toccante la testimonianza che Luciano Aguzzi fa di Leandro Fossi, per l’affetto che ci leggo e, anche, per una sorta di ‘riconoscenza’ verso il suo amico.
Avere coscienza della morte ha permesso a Fossi di realizzare il suo desiderio di scrittore, cosa che aveva rimandato sempre prima.
Due cose in particolare mi colpiscono della storia di Leandro Fossi: la casualità del ritrovamento del libro del suo antico medico, quasi che quella sua passione per la scrittura aspettasse qualcosa di tangibile per prendere forma; la seconda è l’affermazione di Aguzzi sul legame vita-morte:
*per Leandro la scrittura non fu solo un hobby consolatorio, ma l’occasione per cambiare il suo destino. Gli antichi greci sostenevano che il destino di un uomo si rivela e assume senso solo alla morte. È il come si muore, non il come si vive, che fornisce la chiave di lettura di ciò che si era, che dà realtà e profondità a ciò che prima era forse solo apparenza o menzogna. La scrittura fu il mezzo con cui Leandro affrontò la morte e determinò il senso ultimo del suo destino.*
Se la scrittura ha avuto il potere di *cambiare* il destino aiutandolo ad affrontare la morte, non farebbe male credere che sia stata la strada giusta per trovare “la porta” (il riferimento è ad una poesia di Simone Weil).
…tempo fa è comparso sul blog un post in cui l’autore (non ricordo il nome) affermava che mentre generalmente si separa l’umanità (per i conflitti, i contrasti o semplicemente per le diversità) in poveri e ricchi, donne e uomini, giovani e vecchi, giusti e ingiusti… lui riteneva che la vera linea di demarcazione fosse tra sani e malati. La malattia vista come mondo a parte, che spariglia le carte del gioco… Questa affermazione mi aveva colpito, ma mi aveva suscitato dubbi. La malattia non annulla l’estrazione sociale, che conta in queste circostanze, modifica solo in parte il carattere, crea un certo isolamente e distacco dalla vita attiva, ma crea le condizioni per un’altra di qualità diversa…Come conferma il significato del racconto molto partecipato di Luciano Aguzzi in riferimento alle scelte di un suo amico, Leandro Fossi che, scopertosi gravemente malato, intraprende un percorso di conoscenza di sè e degli altri, attraverso la scrittura…Se mai una vita più intensa nella malattia, infatti il titolo del suo ultimo romanzo è “Anche questa è vita”. Nelle mie esperienze ho avuto anch’io modo di convincermi che spesso la malattia libera lo spazio ( forza? coraggio? nuova prospettiva?) alla “verità”…Ci sono purtroppo anche malattie che colpiscono la mente e rendono difficile la consapevolezza, ma anche in questi casi emergono inaspettatamente nella persona barlumi di “verità”…E comunque niente ci deve essere dimostrato