Intervista di Redazione a Luca Lenzini curatore dell’Oscar Mondadori “Franco Fortini, Tutte le poesie”
Questa intervista a Luca Lenzini, il curatore dell’Oscar Mondadori (LXIV-858 p.) uscito nel 2014, che per la prima volta raccoglie tutte le poesie di Franco Fortini, fa ancora una volta il punto su uno scrittore, la cui lezione – posso dire con orgoglio – è presenza costante in molti discorsi che facciamo su «Poliscritture» (cartaceo e sito). Nelle sue risposte Lenzini tocca i temi dibattuti col pubblico che ha seguito le presentazioni del volume a Milano, Firenze, Torino e Roma tra il novembre 2014 e il maggio 2015: l’uscita in ritardo delle poesie di Fortini; l’«oscuramento» della sua immagine; l’inattualità (il suo essere «fuori tempo») della sua posizione culturale (il marxismo critico) in Italia minoritaria e apprezzata, dunque, soltanto da «una cerchia ristrettissima di lettori»; il recente interesse di studiosi stranieri “post-coloniali” per il Fortini “politico”; il fondamentale «tratto utopico», «sempre in cammino» e di un’«alterità irriducibile» della sua poesia. Pur ammirando la serietà e la competenza del lavoro critico di Lenzini – il più tenace e preparato tra i “fortiniani” che ho conosciuto in questi vent’anni che ci separano dalla morte dello scrittore – mi pare giusto – anche per avviare un confronto con Lenzini stesso ed altri – esprimere in questa breve introduzione all’intervista le mie fraterne riserve su due punti del suo bilancio: – è vero che la popolarità di uno scrittore può farlo diventare una “icona” mediatica logora (com’è accaduto a Pasolini), ma non credo che la circolazione negli ultimi anni quasi clandestina dell’opera di Fortini gli abbia paradossalmente giovato; e perciò credo che si debbano cercare le vie per far sì che la sua «alterità irriducibile» parli se non a tutti a molti (come del resto questo Oscar Mondadori pare stia ottenendo); – temo che la lettura che Guido Mazzoni fece di Fortini e della sua opera al convegno senese del 2004 sia stata l’inizio di una liquidazione della «alterità irriducibile» che fu non solo di Fortini ma di tanti; e il recente libro di Mazzoni, «I destini generali», di cui si sta discutendo sul blog «La letteratura e noi», sembra una conferma [E.A.].
Perché si è dovuto aspettare così a lungo per trovare in libreria l’opera in versi di Fortini, un autore scomparso da vent’anni, studiato negli atenei, tradotto in più lingue e a parere di critici illustri tra i poeti più importanti del secondo Novecento?
Una risposta univoca a questa domanda non è facile a darsi. Sarebbe troppo semplice attribuire questo vistoso ritardo al fatto che Fortini è stato uno dei poeti più esposti nel dibattito ideologico e propriamente politico dei suoi anni, e che pertanto la sua ricezione in tempi di disimpegno e di cinismo postmoderno ne ha risentito negativamente. Certamente questo ha influito, per Fortini come per tanti altri, soprattutto lungo gli anni Novanta. Ma c’è ormai un rifiuto che investe, in realtà, le radici stesse della modernità, ma non necessariamente assume la forma della censura diretta: è il meccanismo, non editoriale ma più vasto, per cui tutti e nessuno hanno importanza, una liquidazione che passa attraverso il “todos caballeros”. Ma forse non basta, nel caso di Fortini, far appello alle mode e al contesto epocale, per misurarne l’oscuramento. Il nucleo indurito e di lungo periodo del conformismo e dell’indifferenza, non più riferibile né a una “destra” né a una “sinistra”, preferisce coltivare lo stereotipo del “bastian contrario”, dell’eretico, del polemista, la figurina che gira per le redazioni: questa sì, la riduzione che adegua tutto al consumo e tutto riduce ai suoi standard, è a mio avviso una forma efficace di rimozione ad personam.
Qualcuno di recente ha osservato, in contrasto con un denso e militante intervento di Romano Luperini di qualche anno fa (Il momento di Fortini), che di Fortini poeta non è mai arrivato il momento; anzi che Fortini è un poeta tale, per cui il suo momento non può esserci, è il poeta per eccellenza senza momento, per natura “fuori tempo”. Condividi questa opinione?
L’osservazione mi sembra, tutto sommato, realistica, ad uno sguardo consuntivo: c‘è qualcosa in Fortini che resiste a esser inquadrato, a esser collocato in uno schema, ad adattarsi al gusto o ai gusti prevalenti, specie nel nostro paese, non solo qui e ora. La sua opera resta, in questo senso, come un masso erratico, senza un approdo definito o definibile, ma proprio per questo in movimento. E penso anche al suo rigorismo “protestante”, alla sobrietà del suo stile di vita, ma anche alla capacità di reazione, perfino travolgente, sopra le righe talora (anzi spesso!), con cui ogni volta controbatteva e metteva in discussione le idées reçues, e tendeva a revocare le convenzioni sottintese, le complicità a ogni livello. Per non parlare del fatto che l’edonismo, il consumismo, il qualunquismo, tutto quello che oggi è dilagante, è agli antipodi di Fortini. Questo però riguarda in primo luogo la sua persona e di nuovo il contesto culturale, più che la poesia, dove il discorso è più complesso.
A proposito di complicità e di poesia: dieci anni fa, nel decennale della morte di Fortini, 2004, uno dei critici più acuti in circolazione, Guido Mazzoni, osservò che «ciò che rende peculiare la posizione di Fortini nella storia della poesia italiana contemporanea, e instabile il suo posto nel canone, è il tipo di complicità richiesta al lettore». Cosa pensi al riguardo?
Non mi è possibile ora dar conto delle argomentazioni di Mazzoni, che hanno vaste implicazioni e sono in larga parte, a parer mio, condivisibili. In ogni caso, sì: c’è sicuramente una instabilità di Fortini rispetto ai canoni, una sua precarietà di fondo. Ma al tempo stesso, va aggiunto che il tipo di complicità di cui parla Mazzoni è di ambito latamente ideologico, e comporta tutta una serie di nozioni riportabili ad una tradizione di pensiero, ad una data “costellazione”; quella in cui convivono – diciamo molto sommariamente – un orizzonte hegelo-marxista ed una opzione di stampo etico-religioso. Anche sul piano letterario, la distanza della poesia fortiniana dalla vulgata del modello lirico è molto sensibile (ne ho parlato nell’introduzione all’Oscar e non solo lì; né solo io del resto). Di qui, l’instabilità di Fortini nel canone, in quanto quest’ultimo è il precipitato di una cultura egemone. E certamente, se guardiamo ai giorni nostri e all’ultimo trentennio, una complicità con la cultura di Fortini, con quell’ambito di riferimenti e con il suo stesso modo d’intendere la cultura, poesia inclusa, è un fatto ormai del tutto minoritario, prerogativa di una cerchia ristrettissima di lettori, quasi una tribù in via d’estinzione. Con l’ironia facile dei liquidatori, c’è chi parla di una setta di reduci o belligeranti simili ai famosi samurai delle infinite guerriglie nipponiche. O si pensi, ancora e per rincarare la dose, a combriccole del tipo di quelle di cui parlò un grande storico inglese, E. M. Thompson, a proposito di William Blake: i “muggletoniani”, cristiani del Seicento inglese, o i rosacrociani, o i seguaci del mesmerismo, o magari gli swedemborghiani… In questi termini, provocatori ma forse non troppo, una lettura complice di Fortini può solo ribadirne la distanza, l’irrecuperabilità non solo nel canone poetico ma nella cultura odierna tout court. Con l’avviso a naviganti e ironizzanti, da parte mia, che studiare i “muggletoniani” per capire Blake è senza dubbio utilissimo, ma i significati (uso il plurale, e ci tengo) della sua poesia non coincidono semplicemente con le intenzioni di quei tipi alquanto originali, estranei a ogni “mainstream” e per questo (almeno per me) non poco simpatici e interessanti.
Dobbiamo forse accettare il dato dell’estraneità come insuperabile, e identificarlo globalmente con la “peculiarità” di Fortini?
Direi che è di qui, invece, che comincia il discorso. C’è un bellissimo racconto di Osip Mandel’štam che s’intitola Il rumore del tempo. Il tempo vi è quello, remoto, della Russia a cavallo tra Otto e Novecento. Ma se c’è un rumore del Tempo con la T maiuscola, assoluto, verticale, ogni epoca ha poi il proprio rumore. E ora che il rumore di fondo, proprio ora che il fragore del Novecento si va spegnendo e si allontana definitivamente, per dar luogo a nuovi fragori – e quali e quanti ne sentiamo, ogni giorno – si vede meglio quel che sta succedendo, sul piano della ricezione, alla poesia di Fortini. Il suo destino sta ormai dentro un altro tempo, un tempo lungo, di cui possiamo cogliere dei segni, revocabili peraltro e incerti, ma che appartengono a un sistema non integralmente decodificabile secondo schemi di “setta” o, più propriamente e senza ironie, appartenenti a filoni di pensiero squisitamente novecenteschi, per quanto sia giusto e opportuno non dimenticarsene (come peraltro dei rosacrociani, etichetta che serviva non di rado a eliminare personaggi scomodi). A questo punto, continuare a parlare di “estraneità” non ha più tanto senso, perché i lineamenti stessi dell’opera mutano, e per così dire nemmeno lui stesso li riconoscerebbe (del che, sono sicuro, sarebbe contento). Non che, s’intende, improvvisamente la poesia di Fortini possa raggiungere audiences paragonabili a quelle di Montale oppure Luzi o Pasolini, che possono contare su biblioteche intere di commenti, su un consenso tanto vasto quanto, troppe volte, irriflesso e generico. Eppure circola, viene studiata e commentata anch’essa, e circolando cresce, aumenta di spessore, dispiega significati imprevisti, trova lettori nuovi e inattesi. Il libro di Tutte le poesie appartiene a questa fase, credo, e la incentiva, spero, o voglio immaginare.
Il 2014 era il ventennale della scomparsa: si può trarne un bilancio?
Ho visto molte facce giovani e attente, non più le solite, in occasione dell’uscita dell’Oscar e negli incontri per il ventennale, a cui abbiamo dato il titolo di un libretto dell’84, Memorie per dopo domani, come per una scommessa sui tempi lunghi, per rilanciare oltre il presente, che è quello che è, ma che pure è quello con cui dobbiamo misurarci. Qualcuno ha anche chiesto se, paradossalmente, la circolazione un po’ clandestina avuta fino a oggi dall’opera in versi sia stata soltanto dannosa, sottraendola al consumo che non sa più discernere; e se pensiamo a Pasolini e a quel che è avvenuto alla sua opera, vediamo in effetti che c’è pure un rischio nell’essere assunti a “icona” (come la foto di Guevara sulle t-shirts), per cui alla fine tutto diviene inerte e complice di uno sguardo standardizzato (proprio quello che Pasolini detestava), quindi un “mito” fungibile, intercambiabile, un luogo comune che si cita e si attraversa senza più pensarci. Può darsi sia inevitabile: da una parte lo specialismo accademico, dall’altra la chiacchiera indifferenziata: la compresenza di questi momenti tende ad annullare ogni distinzione, sottrae ogni possibile terreno di vero confronto. La tragicomica vicenda delle sinistre italiane (nessuna esclusa) ha dato il suo sostanzioso contributo, al riguardo, con l’accettazione di ogni parola d’ordine settimanale, la rinuncia a capire. Ma proprio per questo la parola di Fortini può oggi tornare a sollecitarci con forza, a misurarci e interrogarci. E l’aspetto su cui vorrei insistere è che nel suo dispiegarsi, l’opera fortiniana – mi riferisco in particolare all’opera in versi – supera anche gli stessi codici, significati e sistemi di allusioni implicite ed esplicite che lui stesso, Fortini, attribuiva alle poesie. I versi accedono nel tempo a una dimensione in cui anche la sua lucidissima intelligenza fa presa solo parzialmente, non basta. Ci sono nessi e articolazioni, contraddizioni e lacune, costanti e varianti che solo in presenza dell’intero organismo dell’opera si possono individuare. Che è quanto avviene ai maggiori, a quelli che restano.
Eppure se si pensa all’opera complessiva e in particolare ai saggi, per un certo periodo e per più di una generazione sono stati assai influenti nel quadro del dibattito culturale, almeno fin quando è esistito qualcosa del genere in Italia.
Senza dubbio. Ho cercato di darne un assaggio nel “Meridiano” del 2003 (Saggi ed epigrammi), ed è interessante l’attenzione che al Fortini più “politicamente scorretto” e meno inquadrabile negli schemi classici della sinistra tradizionale – quello di Verifica dei poteri, dei Cani del Sinai – si sta registrando oggi da parte di lettori stranieri che vi giungono attraverso gli studi cosiddetti “post-coloniali” o che si riferiscono alla “italian theory” di lontana matrice operaista: penso al lavoro di traduzione e introduzione di Fortini svolto da Alberto Toscano, che guarda a un pubblico anche geograficamente assai distante (le traduzioni stanno uscendo presso un editore anglo-indiano, Seagull). Sono segnali importanti, e non sarà un caso che non vengano dall’Italia: la deriva della massa erratica, di cui si diceva, incrocia nuove rotte… Ma se riprendiamo il discorso dal punto di vista dell’opera poetica, si può notare anche un aspetto in apparenza secondario, però significativo: al di là delle controversie contingenti, del momento polemico che origina gli interventi pubblici, la presa di parola nell’ambito della cultura e della “doxa”, vi sono saggi di Fortini tutti orientati sul versante sociale, innervati in profondità di tensione etica e attraversati da altrettanta radicalità di pensiero, stupefacenti per la libertà critica e l’inventiva teorica, che talora recano con sé, insieme alla decostruzione dell’apparenza e delle concrezioni storiche e ideologiche, anche delle indicazioni di “poetica”, delle “istruzioni per l’uso” dei versi. In generale, ciò succede con molti poeti, con quasi tutti gli artisti forse, ma in lui ciò assume un carattere particolare, quasi di tacito ultimatum: o con me, o contro di me… E questo non è in tutti, o non in queste modalità, data la sua lucidità nell’interpretazione del mondo circostante, alla quale non è stato facile per nessuno sottrarsi. Per dirla in altro modo e ancora approssimativamente, alcuni saggi, o meglio certi momenti della scrittura, si pongono come legittimazioni indirette del fare poetico, del lavoro estetico-formale e insieme soggettivo, individuale, proprio mentre rischiarano crudamente il presente, affrontandolo frontalmente nei suoi aspetti più aspri, negativi e disperanti. Quegli accenni, spesso affioranti in una chiusa, in un rinvio in nota o in un “a parte”, si possono considerare non tanto giustificazioni “autoriali”, quanto per così dire un accompagnamento (o un appello) per la radicale solitudine del poeta, per la sua separazione e impotenza, che la presenza del negativo, dell’informe, dell’anomico, senza riscatto, ribadisce continuamente. Il tratto utopico proprio della poesia e dell’arte contiene, allora, la sola risposta a tutto ciò, rinviando a qualcosa che, decisivamente, sta prima e dopo la letteratura, “una volta per sempre”, come per un patto esigente, assoluto, che informa lo stesso linguaggio. Chi ha parlato con più acutezza di questo nodo è a mio avviso un altro poeta, Andrea Zanzotto. Ora, questo per l’appunto avviene, perché avverte la necessità di legittimare il proprio operare, di situarlo ogni volta, di statuire un patto, senza dare per scontato niente – a cominciare da una audience consenziente – chi è sempre in cammino (on the road) e ha fortissimo il senso dell’illegittimità, chi sa di essere un outcast e di non avere complicità, di non disporre di un habitat confortevole, ben frequentato, solidale. Né a Firenze né a Milano, né da giovane né da vecchio, e nemmeno con i propri compagni.
La solitudine di Fortini, dunque, di nuovo.
Questo discorso si può declinare in tanti modi: esistenziale, psicologico, sociale, storico; ma la cosa più conveniente, secondo me, è ragionare in termini di tradizione, senza troppi schemi o astrazioni preconcette. Per certi periodi, Fortini è stato tutt’altro che un solitario, anche se è quasi sempre all’interno di piccoli gruppi, soprattutto di giovani la cui coscienza era in via di formazione, che ha dato il suo meglio. Ma il perenne esilio di Fortini, il suo esodo e la lontananza e infine la sua mancanza di “momento”, di complicità, vanno collocati in un contesto più ampio. Ora che il suo stesso comunismo fa emergere i lineamenti biblici che lo sorreggono, dentro quel tempo lungo di cui dicevo prima, possiamo scorgere in Fortini un’alterità irriducibile, che passa per la metrica, per la pronuncia, per la sintassi; è la lingua di uno straniero in patria, di un predicatore in partibus infidelium. Di uno che la tradizione deve costruirsela e anche la stessa audience, cercando appoggi nelle zone meno frequentate, più lontane o rimosse, magari arcaiche, sempre con un che di non conciliato, di renitente, di irredento. Uno che non vuole essere accomodante né indulgente, e invece vuole scuotere la coscienza, mettere in moto le intelligenze, arrestare il fluire inerziale dei pensieri, la passiva obbedienza ai luoghi comuni, le complicità passive o implicite, le rassegnazioni epocali e i facili disincanti. Il tratto “sapienziale” è inseparabile dalla dimensione della ricerca, dall’interrogazione, e dalla visione dell’orrore, che è tanto più stridente quanto meno abolisce la speranza. E a proposito di tradizione, a me sembra straordinario soprattutto il fatto che questo poeta così colto, così ricco di risorse intellettuali, culturali, formali, abbia fino in fondo fatto risuonare nella sua pagina la voce di quelli a cui la voce è stata tolta, dei vinti di ogni tempo. L’ironia del suo stile tardo va letta dentro questa tradizione, non è per nulla un nichilismo senile.
Si apre una nuova pagina, allora, per la storia di questo autore?
Me lo auguro. Da parte mia, ho forse già scritto e detto troppo su Franco Fortini, lungo questi ultimi vent’anni, e ci vorrà tempo, ancora, perché il dispiegarsi a cui accennavo si renda pienamente manifesto, e si compia un rischiaramento del potenziale che l’ospite ingrato (così si definì, in uno dei suoi libri più belli) ha dissimulato in ogni singolo verso, in ogni cadenza di esilio, nei suoi reiterati congedi e nelle amare invettive che tanto ci ricordano Giobbe. Per quanto mi riguarda e per il momento, sono contento che intanto i versi circolino così, ancora per un po’, senza commenti, senza apparati, in un grosso paperback; ostici spesso, refrattari a ogni connivenza equivoca o compiacente, ma fermi nella loro attesa, nel loro esilio. E come suggerimento per i nuovi lettori di Fortini, concluderei citando il passo di una tarda intervista, che Daniele Balicco ha messo in epigrafe al suo bel libro di qualche anno fa, Non parlo per tutti: «Vi consiglio di prendere le cose che ho detto e di buttarne via più della metà, ma la parte che resta tenetevela dentro e fatela vostra, trasformatela. Combattete.»
…non sono una giovane lettrice, però da poco tempo ha affrontato le poesie di Franco Fortini e devo dire che la loro lettura, anche se per ora parziale, mi ha davvero colto di sorpresa e in qualche modo frastornata…certo lo stereotipo sull’autore mi aveva raggiunto e non preparato alla sua grandezza. Ora, viceversa, che sono raggiunta dai versi del poeta ( ma anche dai riferimenti a lui dedicati su questo blog e dagli incontri sull’autore) mi sembra incredibile che non circolino di più nelle scuole, tra i lettori in generale…ma in riferimento all’opera del poeta, “…Il suo destino sta ormai dentro un altro tempo, un tempo lungo…”come dice giustamente Luca Lenzini rispondendo all’intervista di Ennio Abate…Un aspetto del poeta F. Fortini che mi colpisce in particolare è quel contrasto, anzi connubio, tra il suo incarnare sostanzialmente l’uomo “primitivo” nel rapporto con le cose, le persone che vede attraverso la trasparenza di una pietra antica, e sente in un contatto diretto, senza mediazioni, e la sua lucidissima intelligenza e grande cultura…Ciò si riflette anche nello straordinario paesaggio, crudo essenziale ma sempre im movimento, quasi umanizzato che fa da sfondo al passo cadenzato di partigiani, deportati, prigionieri per valli, per monti, sempre con la morte come compagna…Ia faina e il lupo sono gli alleati e la città è da evitare, la grande nemica…Mi riferisco alla sua prima raccolta di poesie “Foglio di via” che certamente fu scritta durante il periodo della guerra e della resistenza, dove già è chiaro come F. Fortini “abbia fino in fondo fatto risuonare nella sua pagina la voce di quelli a cui la voce è tata tolta , dei vinti di ogni tempo” (Luca Lenzini)…