Dopo la prima a Marina Pizzi (qui) e quella ad Annamaria De Pietro (qui) questa è la terza intervista che ho condotto negli ultimi mesi. Ho posto a Rita Simonitto domande riferite proprio a sue dichiarazioni di poetica o alla sua concezione della poesia ben nutrita dai saperi piscanalitici e dalla passione per i miti. Per intendere meglio la complessità delle sue risposte è bene rileggere almeno alcuni dei testi poetici, narrativi e saggistici che ha pubblicato su “Moltinpoesia”, “Poesia e Moltinpoesia” e Poliscritture”; senza dimenticare i numerosi e sempre densi interventi nello spazio dei commenti. Vedi in fondo a questa pagina le indicazioni per rintracciarli. [E. A.]
Ti sei definita “battitrice libera” in poesia. E in precedenti nostre discussioni (sul blog o per mail) hai detto che, in questo campo, parli «da osservatrice esterna». Quali le ragioni (immediate e profonde, credo) di questo modo di stare in poesia. Vuoi sottolineare che sei rimasta esterna (per scelta tua o ostacoli esterni?) ai gruppi che praticherebbero “con più diritto” la poesia? O che la poesia non è mai diventata il tuo campo di ricerca, una passione dominante , che la pratichi episodicamente e quindi ti senti quasi una “dilettante”?
Vorrei innanzitutto sgombrare il campo dagli equivoci che l’espressione “battitrice libera” porta con sé e che io stessa ho usato impropriamente riferendomi allo specifico della poesia. Ciò suggerirebbe che io sappia muovermi con destrezza nei vari ruoli di lettore, critico e poeta; mentre non è proprio così: ci vogliono competenza e dedizione per ognuno di questi ambiti (eh sì, anche per leggere). E ciò richiede tempo e sacrificio (nell’accezione del ‘sacro’): non si può fare tutto e fare tutto ‘bene’. Anche se al giorno d’oggi vige proprio questa fantasia: che si possa passare agevolmente da una posizione all’altra, da una disciplina all’altra quasi fossero equivalenti. C’è la pretesa che si possa parlare di tutto (tuttologia), dopo aver ingurgitato di tutto. Si è colmata l’ansia connessa alla paura di non-sapere equiparabile all’ansia bulimica legata alla paura di non avere di che mangiare. Il “work in progress” va nella direzione di una metodica che elimina le spigolosità o ciò che comporta il tempo lungo della riflessione. Messaggi veloci. L’esito che ne deriva è una specie di ‘medietà’, un ‘luogo comune diffuso’, sempre più esteso e nel quale ci si può riconoscere senza eccessivi conflitti.
Direi piuttosto che ho battuto vari campi del sapere attinenti alle discipline umanistiche, riconoscendo i miei limiti ma usando lo stesso un impegno curioso e libero, tentando di non avere preconcetti e/o pregiudizi, per quanto io provenga da una stagione storica in cui le imposizioni dottrinarie (Chiesa e Partito) andavano alla grande. Cantare fuori dal coro? In un certo senso, sì. Mi riservo la ‘follia’ di cogliere ciò che è disallineato, che non quadra, che non rientra nell’ordine della cultura dominante, del politically correct. Ma senza disdegnare l’unione corale che, quando è presente, mi affascina, mi prende e mi commuove – e che per fortuna sperimento nei vari team di lavoro. E’ che questa ‘follia’ costa in termini di isolamento; pesa in termini di solitudine; che non è certo quella della ‘solista’.
Poesia intesa come “passione dominante”, chiedi tu. Ebbene, sì. Per certi aspetti lo è, nel senso che occupa buona parte della mia configurazione mentale: la poesia per me attiene alla bellezza e alla parola e, di conseguenza, all’espressione iconica e alla comunicazione verbale. Comunicazione che non serve soltanto all’io per manifestarsi a se stesso, ma anche per mettersi in contatto con gli altri: la parola che mi costituisce è anche quella che mi ha costituito ed è importante che io la trasmetta. Solo per questa valenza ‘poietica’ parlerei di una poesia con la ‘P’ maiuscola, da cui poi discendono le varie ‘forme’ del poetare, del fare poesia.
E’ che per mettere in atto questa teorica potenzialità della poesia … ce ne corre. Praticarla al di là delle pure intenzioni soggettive esige una certa cura, una costanza … ma anche una attenzione continua al rapporto tra sé e il mondo. E oggi ciò è ancora più problematico perché c’è molta ambiguità: da un lato assistiamo ad un continuo movimento, e quindi il mondo non può essere più soltanto oggetto di contemplazione o di interrogazione sulla base degli antichi dilemmi: chi sono, da dove vengo, ecc. Dall’altro, si accompagna un pensiero stagnante che macina ancora granelli di conoscenza spolpati ormai di ogni senso; oppure vediamo presentare via via ogni fenomeno emergente come fosse di sicuro un elemento rivoluzionario… e rimanere poi legati al palo in modo gattopardesco.
Dilettante, allora? Sì, senza dubbio nel senso di provarne diletto, ma non certo nell’accezione del passatempo, del coprire un buco in cui non si sa che cosa altro mettere. Ecco, piuttosto il mio modo di stare in poesia si avvicina a quell’episodicità cui tu accenni … anche se adesso questi momenti episodici si sono ulteriormente rarefatti, sia per ragioni personali che oggettive.
Sperimento, infatti, che gli incontri con un mondo parlante si sono trasformati in incontri con il ‘rumore’ che tende ad espellere le forme di pensiero. Per cui ho l’impressione di trovarmi su una piattaforma galleggiante in un lento vortice di separazione da altre piattaforme, cosa che non avrei mai immaginato potesse verificarsi.
Mi interrogo pure se, così dicendo, non mi stia dando una patina di snob, ma non c’è in me alcuna compiacenza in questo mio sentire. Tutt’altro. A volte mi chiedo se sto precipitando nel nichilismo: non credo, mantengo sempre la fiducia – che non è la ‘fede’ – che ‘qualche cosa di altro possa accadere’, anche se ‘io’ al momento non so di che cosa si tratterà… pur’anche un asteroide…. come quello che ha fatto scomparire la specie del Tyrannosaurus rex….
In una discussione sul blog “Moltinpoesia” (febbraio 2011) affacciasti – credo in modo critico – una interessante ipotesi a sfondo psicanalitico. Vedevi, cioè, la Poesia «come proveniente da una Grande Madre che accomuna e accoglie nel suo ampio ventre il mondo dei Poeti che si riconoscono in essa, nella sua Bellezza fondante». La Poesia, perciò, risulterebbe «una specie di creazione che si autofonda e non necessita di interventi esterni, si configura senza padri, ovvero senza storia e/o storie individuali». Potresti sviluppare questo pensiero e esplicitarne meglio il senso?
Adesso non ricordo bene il contesto in cui ho scritto quella frase. A volte mi capita di rispondere con una immagine che è pregnante e indicativa per quella situazione lì, valida o funzionale per ‘quel quadro lì’. E poi, cambiata la situazione, mi possono sfuggire alcuni passaggi. Comunque, da quella espressione di “Grande Madre”, si può sempre risalire ad una fantasia primigenia legata alla visione misterica di un utero gravido di ogni potenzialità. Là dove il sacerdote (amministratore del sacro e del mistero ad esso collegato) o l’artista (che ha il dono di accedere a quelle segrete stanze) hanno il privilegio di attingere sia alla Verità Vera e sia ad una fertilità edenica (1) antecedente alla conoscenza e al peccato che ne consegue. Un regno dove non c’è bisogno di alcun intervento esterno (o lavoro) per garantire la fertilità.
Mi vengono in mente due supporti, uno mitologico e l’altro psicoanalitico. Dal primo ne viene il mito di Eurinome, divinità cosmica, Dea di Tutte le Cose. Nel mito pelasgico della creazione (uno dei più antichi assieme a quello orfico) si rifletteva una struttura sociale di tipo matriarcale. La donna dominava l’uomo che le era assoggettato: poteva anche avere dei poteri e regnare accanto a lei salvo poi venire sacrificato nelle feste rituali di passaggio – o stagionali o annuali – per fare posto ad un successore. Il sesso maschile non era funzionale alla riproduzione ma al piacere. Non c’era l’idea dell’apporto fecondante del maschio: la donna rimaneva incinta per le virtù ingravidanti del vento, così come le cavalle, accarezzate dal soffio del Vento del Nord (Borea) concepivano puledri senza l’aiuto dello stallone. Ragion per cui la paternità non era tenuta in alcun conto, la successione era matrilineare, né c’era l’idea di una coppia generatrice. Così il mito racconta di Eurinome che emerse nuda dal Caos, giocò e danzò con Borea in una danza vorticosa e seduttiva che FECE APPARIRE il grande serpente Ofione, il quale, avvolgendola nelle sue spire, si accoppiò con lei. Da questo accoppiamento fu deposto un uovo che Ofione covò; e quand’esso si schiuse ne uscirono tutte le cose esistenti, figlie di Eurinome. Ma quando il grande serpente si vantò di essere lui il creatore del mondo la Grande Dea si scocciò, gli mollò uno sganassone che gli fece perdere tutti i denti che caddero sul suolo dell’Arcadia. La leggenda narra che da essi nacquero i pelasgi, figli di Ofione, il serpente prodigioso.
Nella cosmogonia omerica le cose vanno diversamente. C’è l’indice di un passaggio ad una società patriarcale. Anche se vediamo ancora le resistenze al confermarsi di questo nuovo sistema attraverso la figura di Hera, sorella e moglie di Zeus. Ella ostacolava gli amori del suo consorte che si accoppiava senza fare distinzione di classe (!) anche con donne mortali. E ciò non tanto o soltanto per gelosia, ma più per paura dei figli che avrebbero potuto rivendicare il trono divino (memore com’era dell’esperienza personale che i figli detronizzano i padri, come aveva fatto Zeus, suo fratello e marito). Inoltre Hera voleva preservare il potere divino e contrastare l’avvento degli umani e perciò il suo odio verso Eracle (figlio di Zeus e di Alcmena) era proverbiale.
Sul versante psicoanalitico, penso invece alle fantasie legate ad imprigionamenti mentali – nel senso che portano alla reiterazione dello status quo e non allo sviluppo – ben descritti dallo psicoanalista D. Meltzer
in “Claustrum”. I soggetti implicati hanno la fantasia profonda di condividere un luogo psichico che agli altri è interdetto, un regno particolare che li rende partecipi del godimento materno, un seno inesauribile che non sfiorisce mai, a condizione di essergli sempre fedeli e sottomessi. Sottomissione che viene negata a livello conscio o variamente dribblata attraverso forme ideologiche che, negandone la prigionia, ne esaltano i privilegi. Forme la cui essenza si trova espressa nella frase “voi non sapete di quale Bellezza noi possiamo godere”. E se si condivide l’affermazione di J. Keats, “la Bellezza è Verità, la Verità è Bellezza”, il gioco è fatto. E’ difficile fare breccia in questa struttura – che viene propagandata appunto come coincidenza piena di Verità e Bellezza – anche perché il vantaggio effettivo di questa visione onnipotente è quello di evitare ai partecipanti il confronto con la depressione legata alla perdita del giardino dell’Eden (ben rappresentato dal pittore H. Bosch nel suo “Giardino delle delizie”), ma anche l’assunzione di responsabilità in sostituzione della persecutorietà della colpa dove il debito non viene mai saldato perché mai riconosciuto.
Un altro vantaggio di non poco conto per coloro che condividono questa visione è che si configura, fra loro, una specularità narcisistica – non priva di tensioni infantili – che gli permette di riconoscersi reciprocamente, ‘a naso’, in quanto diventano portatori dello stesso codice linguistico. Vale a dire che essi si svincolano da qualsiasi confronto con l’ordine esterno (simbolizzato dal codice paterno, per intenderci) perché sono loro che istituiscono la Legge. Nulla di nuovo sotto il sole se pensiamo anche alle dinamiche di gruppo (vedi i lavori dello psicoanalista W.R.Bion). Quei gruppi (per lo più formati da intellettuali) in cui tutti si conoscono tra loro (in senso lato e a volte anche in senso intimo) … non c’è meeting a cui non partecipino…. i dibattiti si sprecano nel senso che si sa già come andrà a finire: con un nulla di fatto….Non sto dicendo che non ci siano anche altri gruppi a cui va tutto il mio rispetto, ma volevo parlare di quell’altra tipologia.
Un’altra tua affermazione: «Credo che sia proprio il fatto di poter stimolare delle domande e/o riflessioni a rendere ‘politica’ la poesia. Non è dunque soltanto perché parla di fatti politici presi nella loro concretezza ma nella misura in cui pone nel rapporto sentimento-ragione una apertura di senso al visibile, connotandolo di un significato». Ti chiedo degli esempi e qualche ulteriore approfondimento.
La prendo alla lontana rispetto al rapporto sentimento-ragione. E da due tagli prospettici che hanno a che vedere con il limite, la funzione del limite. Da un lato, la parola è il segno percepibile a livello concreto e simbolico del limite. Essa è l’indice di una parzializzazione e di un tradimento: attraverso la parola ci si fa ‘due’, si rompe una Unità. Pensiamo al racconto biblico. YHWH non avrebbe avuto bisogno di chiedere ad Adamo dove si stava nascondendo dopo aver mangiato dall’albero della Conoscenza (e nemmeno successivamente chiedere a Caino che cosa ne avesse fatto di Abele): in quanto onnipresente e onnisciente lo sapeva benissimo. Però attraverso quella verbalizzazione si istituisce una ‘differenza’ fra un prima e un dopo (“Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò”), nonché un segnale di non partecipazione totale tra il Dio e la sua creatura che ha disobbedito. Dall’altro lato, per diventare umani, c’è la necessità di confrontarci con il limite. Dobbiamo sacrificare l’unione con l’assoluto per poterci esprimere nella nostra singolarità sia nel nostro essere e sia nelle nostre opere. Questa operazione di separazione del sé dai propri manufatti ci toglie da una visione monolitica (spesse volte sentiamo dire “tu sei quello che mangi”, “i genitori buoni creano figli buoni”, ecc.). Visione che ha sì delle funzioni tranquillizzanti, ma impedisce il contatto con la complessità e poliedricità del reale e la conseguente articolazione del grado di giudizio. Nello stesso tempo, se separare il prodotto dal suo creatore permette di poter osservare l’oggetto ‘creato’ dotato di una certa ‘inseità’, dobbiamo sempre ricordare l’operazione che abbiamo fatto a monte, cioè che abbiamo operato un taglio, una cesura, per facilitarci questo compito. In quell’oggetto non è espressa che una parte, più o meno significativa, di noi. Motivo per cui dopo dobbiamo ricomporre e capire “da quale luogo” si parla: se dall’intero o dalla parte. Non possiamo dimenticare artisti (e pensatori) le cui opere furono esaltate o esecrate a partire dalla posizione politica dei loro artefici. E qui entrano in gioco le ideologie che guidano e orientano le valutazioni.
Mi viene in mente l’incisione ad acquaforte di F. Goya, (El sueño della razòn produce monstruos) e di come è stato interpretato univocamente: ‘il sonno della ragione produce mostri’, come se si trattasse di un attacco alla libertà di espressione, ad un ‘sentire’ al di fuori dei vincoli e del controllo dell’intelletto. Una ragione illuminista che non può andare ‘in sonno’ altrimenti si produrranno mostruosità! Mentre invece Goya, in un manoscritto conservato al museo del Prado, scrive “La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie”. Nulla, quindi di antitetico bensì complementare. Ciò vale anche quando il sogno non ha la libertà di esprimersi, ma rimane abbarbicato al mondo della ragione. Per questo, può solo riprodurre la realtà così com’è, non è in grado di ri-crearla. I sogni non sono più manifestazioni del ‘profondo’ ma si trasformano in specchi della realtà che riproducono, come fotocopie, le figure del giorno. Ed è questo che è ‘mostruoso’, perché non si è in grado di separare il sogno dalla realtà dando ad ognuno di questi regni il suo codice interpretativo.
Il poeta non può non tenere conto di tutto questo ‘lavoro’ che si svolge sul ‘limite’ tra realtà e immaginario e tra la parola e ciò che essa intende rappresentare. Lui sta in quella difficile posizione ma, assecondando la funzione critica (da ‘crisi’, ‘taglio’, ‘cesura’) della sua parola, può cogliere aspetti che gli altri non vedono. Ma non perché lui è un ispirato da chissacché o da chissacchì, uno ‘chiamato’ a mostrare la Verità Vera, ma perché interroga la realtà senza fermarsi al palese, al manifesto, ma cercando di sondare il nascosto. E, per sondare questo, è necessario che entri in contatto con il suo sentire. Quella, secondo me, è la funzione politica del poeta, non quella di ‘copiare’ la realtà producendone ‘mostri’, come diceva Goya.
Quanto ai “fatti politici presi nella loro concretezza”, ripeto che essi sono sempre mediati da una qualche ideologia. Perché dico ‘qualche’. Perché ho l’impressone che, accanto a quella che è appannaggio dei dominanti e che la usano in funzione di mantenere il dominio, se ne aggiunge un’altra di natura perversa che andrebbe nella direzione della ‘salvazione’ ma in realtà non salva un bel nulla. Una ideologia che si è fatta ‘cultura’ e che va dal presentare la ‘pappa pronta’ ai ‘dominati’, al dare le risposte ancor prima che si formulino le domande; al fornire un pensiero già confezionato a dovere con la giusta dose di emozioni. E di fronte a tutto questo gli interlocutori (se così si possono chiamare) possono inter-agire solo con dei suggelli ‘mi piace-non mi piace’; oppure partendo a testa bassa contro ogni foglia che si muova all’incontrario, secondo la visione del ‘o con me o contro di me’.
Ancora una tua affermazione riferita alla poesia intimistica (o del privato o dell’esposizione sulla scena dell’io): «Già ero ostile alla moda sessantottina della parola d’ordine “il privato è pubblico”, nonché ai gruppi di confessione/gestione della vita privata del singolo. A tutt’oggi continuo a ritenere che l’intimità sia qualche cosa di ‘sacro’, nel senso di tagliato, sacrificato, non accessibile a tutti».
Oggi siamo andati ben oltre la “moda sessantottina” (e basti vedere cosa passa su FB, che un po’ frequento), ma non c’era anche una ragione positiva in quella parola d’ordine? Quella sacralizzazione del privato (non accessibile a tutti, ma a chi allora?) non copriva zone di privilegio o di dominio? E, rendendole un tabù inconoscibile, non impediva la possibilità di dar loro una forma diversa e più giusta?
Torniamo ancora al ‘limite’. E, ovviamente, parlo per me. Pur non cogliendo la portata problematica a livello di dinamiche psichiche, fin da allora mi spaventava l’abolizione del limite. Ma più per l’idealizzazione/generalizzazione che supportava questo progetto: un conto è rifiutare una regola, un limite, e altro è rifiutare il concetto stesso di regola e di limite. Era come prendere una parte trattandola da tutto. Se devo essere sincera, non solo mi spaventava ma anche mi attraeva: ad esempio, abolire le frontiere non poteva non riempire di entusiasmo (dimenticando quanto quella abolizione facesse già parte del processo capitalistico verso il mercato globale). Non importava che cosa sarebbe successo poi, l’importante era farlo succedere. Così anch’io cantavo “nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà, ed un pensiero ribelle in cor ci sta”. Lo cantavo e ci credevo, anche. Ma ci credeva quella parte di me che aveva bisogno di credere negli Assoluti: l’Uomo, l’Arte, la Poesia, la Psicoanalisi, il Comunismo e poi la Lotta di Classe, ecc. ecc. … in tutto ciò che, anche se messo così alla rinfusa, poteva farci uscire dalla ‘tirannia’ (?!) di tutto ciò che avevamo alle spalle. O, anche, come hai scritto tu da qualche parte, che ci muovesse verso un luogo (un’Utopia?) che trattava di “cose, persone o mondi che allo stesso tempo ci apparivano (o credevamo potessero essere) belli e buoni e giusti e umani o magari santi”. Per attuare questo ‘progetto’ tutto doveva essere di conseguenza limpido, chiaro. Una glasnost che partiva dall’idea che l’intimità significasse ‘segretezza’, una ‘segretezza perniciosa’ che in quanto tale andava smantellata verso una ‘trasparenza’ che, al pari del termine ‘democrazia’, non era che la penosa ecolalia di se stessa. Per perseguire questo intento si assisteva, il più delle volte, a degli autodafé umilianti. Le ‘spoliazioni’ del passato parevano dei necessari rituali a cui bisognava sottoporsi per poter accedere al ‘mondo nuovo’ che si stava producendo e che non doveva avere ombre. Io credo che per maturare l’intimità con le cose, raggiungere il loro ‘cuore’, sia necessario un lavoro di pazienza e che il privato vada osservato con occhiali specifici e con la cura necessaria: non si va dall’ingegnere perché si ha mal di pancia o mal d’amore.
Il limite appartiene al sacro, ed è importante la sussunzione di una fondazione ‘sacra’ la cui valenza simbolica è quella di permetterci di stabilire le differenze. Proprio perché la struttura del ‘sacro’ è unitaria e duale nel contempo: un elemento divino – dove per divino non si intende nulla che ha a che fare con la divinità bensì con il mistero e la inconoscibilità – e uno umano si interfacciano in reciprocità.
Il ‘profano’ non è soltanto ciò che ‘sta fuori del recinto sacro’, fuori del tempio, ma è anche ciò che si para, si mette ‘davanti alla luce’ (Fanes, o uovo cosmico). E’ ciò che rivela e mistifica nello stesso tempo: una raffigurazione parziale dell’integrità (che contempla appunto la derivazione dal sacro).
Oggi assistiamo alla tendenza paradossale dell’intimità diffusa, persone che parlano senza problemi dei loro affari personali invadendo con questi la privacy degli altri. Fino al selfie delle proprie parti intime fatto circolare in rete attraverso WhatsApp. Sembra abolito il limite tra interno-esterno: osservo i tatuaggi che prendono tutto il corpo come fossero dei vestiti, storie impresse sulla pelle, che diventano un ‘tu sei’ fissato nel tempo e che rimarrà indelebile per sempre. Un futuro negato perché già scritto, e non su una stele o su una roccia, ma su un corpo che dovrebbe essere espressione di movimento e di vita. A volte non si riesce a capire se siamo coinvolti in una fiction oppure in un fatto reale. Che significato dare a tutto questo cambiamento che sembra un palese sintomo regressivo? Perché accade questo mutamento oggi? Eppure dentro questa mutazione ci stiamo anche noi che, pur non partecipandoci, ci conviviamo. Questo potrebbe rappresentare uno stimolo politico per il poeta, cogliere ciò che di quella regressione può essere accettato per essere trasformato in un nuovo ‘avanti’. Parlare di politica, significherebbe continuare a pensare ancora in termini di ‘polis’ (che non c’è) e di cittadini. Ma la tendenza che colgo non mi pare vada nella direzione qualitativa dell’essere cittadino (troppo complessa come figura!) ma in quella più ‘lineare’ (e anche semplicistica, se vogliamo) di ‘appartenenza’, di fare gruppo, di fare squadra, di fare partito … di far parte, in definitiva, di una gestione contabile, dove esistono figuranti che si assemblano, si disassemblano, formano delle specie di colonie unite dalla conta dei ‘mi piace, non mi piace’. Il mondo della ‘quantità’. Rappresentare dei numeri, di ciò che ‘fa numero’, fa ‘percentuale’. Un consenso che si sostituisce ad una mente pensante.
Che implicazioni può avere questa nuova visione dell’intimità nell’essere poeta o nel fare poesia? Ho l’impressione che si vada nella direzione di creare una certa compiacenza di tipo isteroide, la recita drammatica di una interiorità a beneficio del pubblico sempre più smanioso di sapere (o di impossessarsi) delle vite degli altri. Mi si dirà che anche fare questo tipo di ‘recita’ è fare poesia: non recitano, forse, anche gli attori sulla scena? Ma, al di là dei criteri di buon gusto e di misura che comunque vengono reclutati per giudicare la validità del lavoro artistico, rimane l’impressione di un circolo vizioso improntato esclusivamente sul vedere-essere visti, dove di necessità cambiano le forme (o le mode) linguistiche ma non cambia la sostanza. E dove per sostanza non si intende il prodotto poetico ma il rapporto ‘autentico’ tra il mezzo poetico e l’oggetto che intende rappresentare e/o penetrare. E, ancora, dove l’oggetto che si cerca di conoscere ha ben poco a che fare con la ‘concretezza’ (così si entra nel registro della pornografia che ‘mostra’ gli organi sessuali così come sono nel loro funzionamento meccanico), ma con il mistero e la complessità delle relazioni. La laicizzazione sfrenata, quasi dovesse essere una ‘divisa’ di riconoscimento, ha molto a che vedere con le ansie legate all’abolizione del sacro nel senso di cui sopra.
«Il fatto è che i miei inizi non affondano nello scrivere versi. Ci sono arrivata tardi, alle medie. E chi fu il cantore che mi introdusse a questa magia? Omero: “Cantami o Diva del Pelide Achille…”. Vorrei che facessi un po’ la storia dei tuoi modi di stare in poesia, delle varie fasi e dell’interferenza della ricerca poetica con la prosa o altre attività (politica, professione).
A quanto hai riportato tu (“Il fatto è che i miei inizi non affondano nello scrivere versi”) aggiungerei questa precisazione: “nel senso di avere consapevolezza di che cosa significasse poetare”. Certo, quando mi chiedevano che cosa avrei voluto fare da grande dicevo “il poeta”, ma non avevo cognizione alcuna di ciò che comportasse: era una risposta che non solo colmava il vuoto conoscitivo del richiedente ma anche il mio. E, oltretutto, pensavo che fare il poeta significasse continuare a fare ciò che sapevo e mi piaceva fare; e cioè scrivere. E non soltanto versi ma anche raccontare storie. Non mi chiedevo agli inizi se ci dovesse essere qualche altra interrogazione sul senso da dare allo scrivere al di là di un piacere espressivo e di gioco imitativo. Non conoscevo per nulla il significato profondo della domanda lirica, che è una domanda senza risposta, senza un interlocutore concreto, eppure non vuota; è una domanda che trasforma le percezioni in sensazioni emotive, mediante una resa verbale e scritta più o meno soddisfacente. E non mi era chiaro che questo articolarsi di domande si esprime con più pregnanza in poesia che in prosa.
Parlare degli inizi significa parlare di una confluenza, o una costellazione, che può dare un panorama del mio ‘orientamento’ letterario, fatto di esperienze ‘naturali’, legate alla crescita, e occasionali, legate a situazioni fortuite. Anche se enfatizzata, come avviene con i ricordi, ho trattenuto dentro di me la memoria dell’eccitazione provata nel mio primo impatto con la parola.
Mi spiace ‘copiare’ Dio ma, come diceva W. Allen, a qualcuno bisognerà pur ispirarsi. Né vorrei essere blasfema. Ma sono sicura che quando disse “sia luce” e luce fu, avesse goduto di una emozione grandissima, divina. Senza dubbio, al paragone, la mia era di gran lunga più piccola, infinitesima direi, ma il concetto e la qualità del godimento erano quelli, ovvero trovare la corrispondenza del verbo alla realtà. Creare la realtà con la parola. Successivamente scoprii, a mie spese, che la funzione della parola non era proprio quella ‘creatrice’ ma piuttosto ‘evocatrice’, sia nel senso di chiamare a sé che nel senso di comunicare. E, anche in quel caso lì, quando ti andava bene… Perché a volte evocavi, evocavi ma non succedeva niente. Però intanto fu una scoperta.
La tappa successiva toccò la lettura. Quelle ‘formiche’ che sembravano stare ferme sui fogli di carta in realtà si muovevano dentro la mente fornendo significati. Lo scoprii che ero abbastanza piccola e ci fu un certo sconcerto. Non so dire se ciò fosse dovuto anche al fatto che in quel momento mia madre era presa dallo spiumare una gallina. Però, quando le compitai la parola ‘Messaggero’ (la testata del quotidiano locale dentro il quale era stata avvolta la povera bestiola), vidi sul suo volto una emozione paragonabile alla mia. Da allora si convinse di avere davanti un piccolo genio, ma è noto che ogni scarrafone è bello a mamma soja, anche se poi la nomea si estese a scuola accompagnandomi fino ad elementari concluse. Ma si sa che muore giovane chi è caro agli dei, e così la mia vena geniale subì un funerale silenzioso all’inizio dell’adolescenza. Allora, per sapersi gestire nel mondo dei pari, occorrevano ben altri ‘articoli’ che non la capacità di scrivere e di leggere con enfasi retorica le poesie nelle varie ricorrenze patronali davanti a Suore, Prelati e Dame di San Vincenzo. E così passai dall’essere ‘genietto’, ma solo perché incanalavo alcune mie risorse come mi veniva richiesto di fare, alla anarchia emotiva. Credo che fu questa la ragione per cui fu fatale il mio incontro con l’Alfieri, sì il Vittorio del “Volli, volli sempre, fortissimamente volli”. Certo, non era più il tempo di giocare con le bambole (e con una sola, per di più!) e il ritratto in bianco e nero di quel bell’uomo che guardava con sfida il mondo mi incantò. L’immagine era posta in alto, occhieggiava da un tondo sopra il titolo di un libro da lui scritto “Il Saul” (grande tragedia!). Un libro già ingiallito allora, e che io dovevo ricopertinare, uno dei miei compiti estivi affidatimi dalla Scuola Media alla quale avrei avuto accesso nell’autunno di quell’anno. Con la scusa che la copertinatura era delicata mi portai l’Alfieri a casa: ci capivo poco o nulla del Saul ma mi colpiva la potenza del suo scrivere. Non perché utilizzasse immagini (da unire a quelle del sentire come avrei trovato poi in Omero e in Shakespeare, successivamente) ma per le passioni espresse in una declamazione enfatica, caricata anche da un uso della lingua che mi risultava difficile e perciò stesso stimolante. Andò un po’ meglio con i Sonetti; ma anche lì la parte epica, eroica anche nel trattare i sentimenti d’amore, di delusione e di solitudine, aveva la meglio. Per ‘stemperare’ tutta questa ‘tragedia’ mi suddividevo, quasi equamente, con Sergio Tofano, illustratore e scrittore del “Corriere dei Piccoli”, meritorio settimanale a fumetti che accompagnò buona parte della mia infanzia e adolescenza. La giocosità delle rime e il non sense delle filastrocche del Signor Bonaventura venivano così ad affiancarsi agli endecasillabi e ai toni epici dei sonetti di Vittorio Alfieri, anche quelli trafugati temporaneamente dalla Biblioteca, e che io tentavo di emulare. Più tardi, confrontandomi con questo autore, questo ‘rivoluzionario senza rivoluzione’, scoprii che la mia propensione verso il mondo classico (e gli studi che poi avrei seguito) aveva avuto attraverso lui una spinta aggiuntiva. Ciò che mi si era chiarito meglio era l’importanza di un dialogo interiore con vari personaggi che non appartenevano soltanto alla quotidianità ma anche alla storia passata. Conversazioni, riflessioni, stati emotivi che, quando non potevano essere tradotti o in qualche frammento versificato, o in una piccola narrazione o in una memoria diaristica, rimanevano comunque dentro di me come esperienze che mi facevano sentire meno sola. Non c’era una predilezione aprioristica per una forma espressiva invece di un’altra. Dipendeva dallo stato del momento. Il comun denominatore era che nulla di tutto questo aveva una funzione ‘pubblica’: tant’è che quando, ormai grandicella, mi fu chiesto da un poeta (sedicente?) di fargli leggere qualche cosa di mio e lui mi disse che erano lavori così densi di sofferenza che lo avevano sconvolto, mi riconfermai nell’idea che era meglio che continuassi a tenere tutto per me.
Interferenze? Facilitazioni? Ad essere sincera non mi avevano infastidito le costrizioni religiose, libri all’indice da una parte e obbligo di lettura di libri agiografici di santi e sante: in fondo bastava glissare sulla lettura dei primi, mostrando competenza sui secondi che, depurati dalla loro ideologia, trattavano anche di storie interessanti. Mi aveva disturbato molto di più l’interferenza della ‘Chiesa Partito’ che non vedeva di buon occhio le ‘debolezze poetiche’. O almeno accadeva così dalle mie parti: forse nelle grandi città c’era una maggiore tolleranza. Infatti, quando vidi che un compagno milanese si leggeva tranquillo un libro di poesie negli intervalli di un convegno, tirai fuori senza remore il mio Garcia Lorca: perché con quel poeta avevo sperimentato la commozione pura e temevo di non reggere il confronto con eventuali ostilità. Anche in quel caso, l’incontro con il poeta andaluso era avvenuto in un contesto storico particolare quando anch’io avevo chiuso la mia finestra perché non volevo udire il pianto. (“Ho chiuso la mia finestra/perché non voglio udire il pianto,/ ma dietro i grigi muri/ altro non s’ode che il pianto”. F. Garcia Lorca).
Questo per dire che sì, è ovvio che c’erano le letture scolastiche di poeti e scrittori previsti dal programma ministeriale: autori anch’essi amati (e a volte imitati). Ma non ‘scelti’ autonomamente, come se ciò rispondesse ad un richiamo, o a un bisogno, interiore. E credo che accada così, come per gli incontri importanti della vita.
E, per finire, un incontro altrettanto particolare e importante per me, è stato di recente quello con “Moltinpoesia” che mi aveva aperto ad una visione più integrata tra il fare poesia e ciò su cui si fa poesia. Non si trattava più di relazionarsi con un poeta e con quello che egli rappresenta sia nel suo apporto storico che individuale, ma con una visione corale. Né si trattava di intraprendere una sperimentazione con il poetare inteso come una tecnica che si apprende o una scuola per diventare ‘bravi poeti’ quanto, piuttosto, cimentarsi con l’arduo confronto con tutto quello che sta intorno e dentro il poetare stesso. Che significa fare i conti politici (e poetici) con il ‘come siamo noi oggi’ e le difficili prove che ci attendono.
(1) vedi J. Milton, “Il paradiso perduto”
* Le poesie e i numerosi interventi critici di Rita Simonitto sui blog (vecchi e nuovi) “Moltinpoesia” e “Poliscritture” si possono leggere andando in ‘ARCHIVI POLISCRITTURE E MOLTINPOESIA’ (prima riga sotto il titolone del sito) e scrivendo il suo nome e cognome in ‘cerca’.
Grazie Ennio!
Bellissima intervista, come al solito Rita Simonitto dona ampiezze a chi legge e ristruttura il cuore.
Anche qui l’inchino è inevitabile.
…sembra anche a me, Emy…appena ti metti a leggere Rita, si muove qualcosa dentro e non sono solo le cellule grigie…forse non a caso la sua prima parola letta è stata “Messaggero”, le è stata consegnata. Quel suo essere sospesa tra realtà e sogno, tra ragione ed immaginazione, abbatte i confini del limite, che è umano, spostandolo sempre un po’ verso “il sacro”, tuttavia irraggiungibile…Nell’intervista mi colpisce il suo animo libero da esploratrice, riservato, che si tiene lontano dalla frenesia del voler sapere e fare tutto, tuttavia molto aperto agli altri, anche se dice “…ho l’impressione di trovarmi su una piattaforma galleggiante in un lento vortice di separazione da altre piattaforme…”. Il sentirsi soli nel nostro tempo, questo se mai ci avvicina…
Ho letto sul blog diverse poesie e racconti di Rita e vorrei aggiungere qualcosa sul linguaggio, che lei cura come fosse un giardino, trasforma le parole immettendo linfa : insieme alla penna usa gli strumenti del botanico, il pennello del pittore e, a volte, la lama per farle sanguinare…Allora grazie a Rita e ed Ennio per l’intervista
Come mi piace questa intervista, opportune domande per chiare risposte, a Rita Simonitto! Perché RS espone la sua po-etica, vale a dire posizioni di equilibrio dinamico in capo all’attività intellettuale. Parla di “follia” ed è funzione critica, parla di “sacro” e lo collega a limite, a stabilire differenze, in sé struttura unitaria e duale, tra umano e divino (cioè l’inconoscibile, il mistero).
Questa posizione di equilibrio è la “valenza poietica” della Poesia, la “teorica potenzialità della poesia”, la parola che sta nell’equilibrio della follia-critica, nell’equilibrio del sacro unitario e duale: non trascendenza ma reale apertura, non “claustrum” ma comunicazione.
E perfino fiducia che qualcosa di nuovo possa accadere… come l’asteroide che portò alla distruzione del Tyrannosaurusrex… giusto per credere che la “valenza poietica” possa contribuire a corrodere dall’interno il “consenso” che si sostituisce alla “mente pensante”.
L’ascolto porta alla comprensione, sintetizzo così il viaggio nella parola di Rita Simonitto, un viaggio a volte faticoso eppure affascinante. Il divario tra l’origine matriarcale e quella patriarcale della concezione del mondo che la scrittura racchiude al suo interno, quasi come fatto costitutivo, è solo una tra le tante particelle di questo dialogo con Ennio (e con tutti noi), così denso e ricco, che vanno meditate invece con grande attenzione, un invito per ritrovare «il tempo lungo della riflessione».
Nessuna nota snob nelle tue parole, Rita, solo il senso di un lavoro incessante e la ricerca coraggiosa dei perché, a dispetto delle difficoltà, anche enormi, che non nascondi di incontrare e da cui siamo circondati: «la parola che mi costituisce è anche quella che mi ha costituito ed è importante che io la trasmetta». Grazie Rita.
GDL