di Rita Simonitto
Amai la tua città perché ti amavo
le gocciole dei sensi sfiniti già
su balaustre e logori gradini e a rovescio
un cielo di pervinca intrecciava dita
con melangoli e odalische.
Nel cuore – tu lo facesti – avvenne la rapina
e lei mi prese e la conobbi guardandola dal basso
rutilanti vetri le infinite pagliuzze
dello sguardo del dio
la Martorana diede vampe fino alle cupole
arrossite non per la mia giovinezza
ma lo spudorato tramonto che era già
in combutta là coi frutti d’oro
all’estremo limite del mondo.
E la sua notte amai e il suo giorno.
Tessuto da Moire il tempo del ritorno
l’orrenda peste dei sentimenti.
Transfuga blu Matisse dei convolvoli
strangolata l’innocenza dei gelsomini
– inutile candore – azzerate le memorie
valigie vuote niente da dichiarare.
Nel dolore della chiesa sconsacrata
nei magnificat senza voci
nelle mani spellate sulle mura della Splendida
dove ghignano i diavoli imprendibili
in un lunedì che scaraventa e non resuscita
gli idilli morti al terzo giorno
spensi gli ultimi candelabri
inutili Vespri per chi non sa combattere.
Venne poi la Rambla, Ciutat Vella
e sciocca di romance abbracciai l’hidalgo
stanco sotto i platani .
E per Venezia la sontuosa amai e piansi
i nascondimenti tra le umide calli e il perdersi
di passi che solo i gatti sanno riconoscere.
Ma di Parigi dissi la più bella
la lingua arrotolava di parole
luminescenti le tane dei metrò e il sogno esploso
via sui boulevards sfidanti l’orizzonte.
Di tutto fu somma di storia e di memoria
compagni e citoyens e i pieds-noirs all’uscio.
Solo per me rabbiosità vana di versi
persi su scricchiolar di ghiaie di labirintici giardini
e l’orologio atomico del Beaubourg che pulsa
con noia sulle camaleontiche pareti.
Flash di letti disfatti, la Belle Dame sans Merci sempre alla porta
e poi pagine stracciate come briciole di vergogna
assieme ai petali rosa dei maroniers di maggio
risucchiati dai vortici dei bateaux mouches.
Ma le amai tutte perchè amavo la vita.
E poi da sola amai le altre, le infinite altre
quelle mai visitate o sfiorate appena
viaggi veloci di notti illuni.
Ora la vita è morte senza sudario
e come Argo la poesia si accuccia e annusa porte.
Ora vengono città che hanno voci di fontane
opacità che siedono nei sogni
spettatori inermi
esistenze stralunate nell’attesa
ah, sei tu, bisbigliano.
Non lo so più, rispondo,
non mi conosco.
R.S.
2014-2015
Rita,
favolosa Rita!
Quanto hai scritto di te per noi! Mi rivedo in altri luoghi diversi e simili, Parigi compresa.
Tutto partecipa quasi trionfante , indispensabile ad una vita che divora ogni attimo ,ogni bellezza, ne ho sentito persino i profumi sai….
Oggi è diverso? Sarà così …ma questo capolavoro è meraviglioso, per il resto…che t’importa!
Miao
…una poesia fatta di materia e di spirito, a dimostrare come ci facciamo in qualche misura modellare dalle città in cui siamo vissute. Non creta inerme in quanto l’amore e la giovinezza ci hanno attraversato, eppure le mura, la natura di quei luoghi ci hanno plasmato, le suggestioni romantiche ci hanno affascinato, la storia può averci indirizzato a scelte, a programmi di vita…intrecciando le nostre vite con quelle del passato…e tante tante poesie nella poesia, come scie luminose di strade seguite…Palermo, Barcellona, Venezia, Parigi: città da riconoscere e dove riconoscersi..ma quella ora abitata sembra disabitata, lei e lei hanno una volto triste, sono materiali inermi, non si plasmano a vicenda…Eppure, cara Rita, essere spettatori non è così male, quando finalmente aspettiamo che le cose vengano a noi…per farsi conoscere e parlarci magari in una lingua diversa dove rifletterci serenamente…Grazie
“Mie città” mi risuona come un percorso parallelo di Storia e Poesia.
Gli amori hanno mediato la ricchezza e l’immaginario depositato nella vita associata, Parigi “Di tutto fu somma di storia e di memoria” ma “Solo per me rabbiosità vana di versi … pagine stracciate come briciole di vergogna”. La lunga prima parte del testo e della giovinezza.
Poi, da sola, legata ai luoghi umani in “viaggi veloci di notti illuni”, sperimenti lontananza di te stessa “e come Argo la poesia si accuccia e annusa porte”, e estraneità dalla amata storia: le città si presentano alla tua mente profonda, sei riconosciuta e chiamata sottovoce ma il tuo isolamento non permette il legame.
Questo significato mi ha comunicato la tua poesia, in accordo mi sembra con le tue note estive sulla poesia esodante.
Come in bilico tra vita e morte, tra passato e presente – dove il passato è vita e il presente non si sa, ” non mi riconosco” – . Una bella poesia, resa bella dai luoghi e dalle parole che meglio li rappresentano, percorsa da amore e malinconia. Così pare anche a me l’Europa: un paese che manifesta la propria interiorità, che la provoca in ogni luogo, piazza o vicolo. Eppure un’illustre sconosciuta, un po’ come i suoi abitanti ( qui ci va il noi), artisti musicanti, blasonati e scaltri guerrafondai… qui vedi nascere le stagioni della vita, la trasformazione dei volti giorno per giorno, tutto il male e il bene del tempo, dei secoli che sfidano l’eternità. Qui, dove ogni cosa è stata scritta.
Viene male al pensiero del futuro che si restringe, all’impoverimento della sua giovinezza… è un po’ tutto questo, mi pare, che la “Mia città” riesce ad evocare. Stilisticamente con qualche scarto (che apprezzo), dovuto all’agilità discorsiva di Rita, umanamente restia a cedere al sentimentalismo ( – inutile candore – azzerate le memorie / valigie vuote niente da dichiarare). Notevole anche “come Argo la poesia si accuccia e annusa porte”.
“ah, sei tu, bisbigliano.” e pare di essere in una cantina, sotto i bombardamenti. Pare soltanto perché fuori mancano le macerie, anzi pare ancora viva la promessa Per sempre (in corsivo) di un ostinato amore. Anche se “Non lo so più”.
Complimenti davvero.
Certo che anche tu, Rita, avrai il tuo bel da fare per destreggiarti tra prosa e poesia. Le hai entrambe nell’animo. Resta da capire quali siano le dinamiche di questo rapporto: se la prosa sia funzionale alla poesia o viceversa. A me sembra che il linguaggio della prosa sia più in sintonia con la contemporaneità; e non lo dico pensando al marketing, al venduto, nemmeno per il fatto che la prosa è tutto sommato rappresentazione, più che accadimento, quindi fa Più spettacolo (in corsivo), ma perché mi sembra che nella prosa si rifletta meglio il desiderio di voler comunicare da parte degli esclusi: desiderio chiaramente espresso dall’affollamento nei network. Comincia quindi a delinearsi il profilo di un metalinguaggio con il quale dovremmo far i conti, se poeti. Questo pone in discussione molti aspetti della scrittura poetica, secondo me; a partire dalla lunghezza del verso: la prosa fatica a stare nel breve, e personalmente mi sembra ridicola se frantumata dagli a capo (se gli a capo non portano silenzi). Quindi anche il verso libero, che, se scenografico, secondo me volge al tramonto. E’ come se toccasse alla parola scritta di mettersi sotto esame. Questo è da sempre lavoro per poeti, ma se non viene fatto non si salva nessuno; nemmeno chi l’aveva previsto, nemmeno Fortini perché non bastano le idee. Mi fermo qui, spero che Ennio vorrà intervenire.
@ tutti, grazie per la vostra attenzione.
Al di là delle esperienze personali – che fanno da base – e al di là del fatto che nulla di quello che andrò a dire adesso era consapevolmente presente al momento della ‘posa in opera’ del mio lavoro, è come se questi versi intendessero rappresentare – oltre a loro stessi – una sfaccettatura del problema del rapporto con la cosiddetta realtà. Rapporto che è fatto per la maggior parte di proiezioni di nostri vissuti (amare qualcosa attraverso la mediazione di qualcuno) e del fatto che noi tendiamo a relazionarci con quelle proiezioni dimenticando che c’è un’altra realtà. Così mi è venuto (da non so dove), quasi a rendere più facile capire di che cosa si tratta, di parlare di città, così sfuggevoli nella loro concretezza al punto che ognuno ha la ‘sua’ Palermo, la ‘sua’ Barcellona, ecc. ecc.
Quando permane questa sovrapposizione proiettiva, i luoghi diventano allora solo vuoti simulacri di fantasmi, *compagni, citoyens*, ma in tal caso, come pieds noirs, si gode soltanto di un diritto di cittadinanza, non il pieno titolo di appartenenza (che significa, appunto, storia, cultura, natura).
Gli amori, le passioni diventano sterili letti sfatti, la creatività paralizzata dalla Belle Dame sans Merci (vedere la ballata di J. Keats) che irretisce con la sua bellezza ma poi tutto unifica e appiattisce. E la poesia non può che ‘stracciarsi le vesti’ dalla vergogna perché senza passato su cui si è illusa (*valigie vuote, niente da dichiarare*) e senza futuro (inutili Vespri per chi non sa combattere). E’, da un lato, come un Don Chisciotte stanco e, dall’altro, un Argo fedele che aspetta che qualcuno sbaragli la reggia dai Proci. E dove la ‘modernità’ (l’orologio atomico del Beaubourg) camuffa la realtà in modo che, anche da quel versante e non solo dalle nostre proiezioni, diventi irriconoscibile (*non mi conosco*).
E’ un po’ come dire (per rispondere a Mayoor a proposito di ‘poesia o prosa?’) che c’è un certo bisogno di interpretare la realtà, ma con quali strumenti? E strumenti che attingono a quali fasci di osservazione? Scientifico? Artistico?
Certo che l’arte avrebbe più frecce al suo arco, sia come pittura che come poesia o prosa. Senz’altro anche come musica, ma ne so poco. E’ che la prosa dilata, la poesia stringe. Solo che in quello ‘stringere’, in quel lavoro di condensazione, come direbbe Freud a proposito del sogno, devono starci molte più cose, devono essere presenti molti piani di lettura, molte zolle tettoniche.
Restano nei sogni
zolle di vita
gocce di tristezza
luci ombre di noi
che stanchi
portiamo nel sonno
ciò che siamo stati
senza guerre o pentimenti
e le rose che non profumano
hanno il viso di una madre.
Ciao Rita…che mi faipensare…
D’accordo, ma allora perché non dirlo chiaramente?
La metafora non è sinonimo di poesia: prima o poi qualcuno dovrà pur assegnarle il posto che le compete: fra le strumentazioni. Non trovi?
E cos’è il linguaggio metaforico: non sarà una derivante delle pratiche di Milton Erickson ma ha a che fare con il sogno… penso a Milosz, alla sua concretezza; e subito dopo a Tranströmer per come riesce a combinare sogno e realtà (dove il sogno è linguaggio)…
Scusami, non vorrei che la tua poesia ci andasse di mezzo. Forse servirebbe un nuovo post su questo argomento. E’ che faticosamente s’aggiungono aspetti diversi su quanto s’è detto a proposito della poesia esodante proposta da Ennio.
…la poesia di Rita, alla luce di quello che lei stessa dice, mi sembra di poterla rileggere diversamente: le città citate in sè si allontanano, perdono consistenza le loro storie, cultura e natura, anche se colori, profumi, rimembranze si affacciano come lo sfondo di un paesaggio o la tapezzeria di una camera, mentre in primo piano scorgo la storia di chi vi ha vissuto, le sue passioni, le delusioni d’amore, le rivalse, le aspirazioni, i rifugi, insomma le sue “proiezioni” in un contesto forse meno significante, dove non è maturato un senso di appartenenza e sconosciuta resta “la realtà”, sia esterna che interiore, “…ah,, sei tu, bisbigliano./ Non lo so più, rispondo,/ non mi conosco…”. mi sembra questo dire molto coraggioso…ovviamente so che anche i miei pensieri sono proiezioni, ma spero sempre che quando finisco di complicarmi la vita con le mie complicazioni, una realtà più condivisa si affacci a darmi un senso di appartenenza…Anch’io ti ringrazio Rita per quel farci pensare…
@ Annamaria
* la poesia di Rita, alla luce di quello che lei stessa dice, mi sembra di poterla rileggere diversamente:
* spero sempre che quando finisco di complicarmi la vita con le mie complicazioni, una realtà più condivisa si affacci a darmi un senso di appartenenza…
Ma la poesia è la stessa, cambia solo la angolazione da cui la stai guardando e i nuovi stimoli che ti vengono dalla nuova visione. Sei tu che, attraverso questo nuovo fascio di luce, acquisisci altri aspetti e accresci la conoscenza della molte forme attraverso le quali il reale si presenta. Ma poichè questo passaggio non è facile (dobbiamo sostenere il peso della plurivocità) allora si fa entrare in ballo il concetto di ‘complicato’… ed è invece così che ci complichiamo davvero la vita!
Più fasci ci sono più ci si arricchisce. Così come è valida l’angolazione di Cristiana che scrive: * “Mie città” mi risuona come un percorso parallelo di Storia e Poesia… La lunga prima parte del testo e della giovinezza…Poi, da sola, legata ai luoghi umani in “viaggi veloci di notti illuni”, sperimenti lontananza di te stessa “e come Argo la poesia si accuccia e annusa porte”*.
O, ancora, di Mayoor che fa delle associazioni con l’Europa: *Così pare anche a me l’Europa: un paese che manifesta la propria interiorità, che la provoca in ogni luogo, piazza o vicolo*, e ciò a partire dalla considerazione della poesia vissuta *Come in bilico tra vita e morte, tra passato e presente – dove il passato è vita e il presente non si sa, ” non mi riconosco*.
Oppure Emy, con la sua capacità di esperire con i sensi: *ne ho sentito persino i profumi sai….*
Metaforicamente (ecco la metafora, Mayoor) la città, si presta bene a rappresentare questo confluire di tante esperienze soggettive che però non ne possono stravolgere radicalmente l’essenza. A meno che non passiamo al gioco combinatorio dell’immaginario, fantastico e reale come nel libro di I. Calvino “Le città invisibili”. Dice Marco Polo, nel libro in questione: “Anche le città credono di essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tenere su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda”.
…cara Rita, penso che dalla visione delle diverse angolazioni da cui noi percepiamo il reale può derivare una maggiore conoscenza di noi stessi, degli altri, della “realtà” senza peraltro poterla mai completare, anzi spesso entrando in crisi sulle nostre convinzioni: “…non mi conosco.” Comunque il movimento è continuo… Tutti i “secondo me” mi arricchiscono della cultura, dell’esperienza, della sensibilità degli altri ed è per questo che leggo volentieri i post in prosa e in poesia, che sono altrettanti punti di vista, insieme ai commenti, interessantissimi perchè un po’ ho anche imparato a conoscervi e stimo molto la tua capacità, Rita, di coglierci nelle nostre peculiarità e diversità… mi chiedo soltanto e vi chiedo, non avendo risposte credimi, se questi innumerevoli fasci di luce che da diverse angolazioni si spostano diciamo sulla “città universale” possano arrivare a rischiarare una sorta di paesaggio comune…
@ Annamaria
*se questi innumerevoli fasci di luce che da diverse angolazioni si spostano diciamo sulla “città universale” possano arrivare a rischiarare una sorta di paesaggio comune*
… mi dispiace deluderti, ma al momento la risposta è abbastanza categorica: “NO”.
L’articolo di Marcello Foa che Ennio ha appena postato su Scrap-book dal Web, e che meriterebbe riflessioni molto complesse, mi fa dire che siamo ancora nel buio pesto e che procediamo a tentativi. A volte certi fasci di luce possono essere segnali ‘traditori’, come avveniva nelle favole: la casetta che sembrava essere approdo sicuro nel buio bosco è quella dell’orco.
Questo non significa certo ‘disperare’!
…speriamo per “la città futura”…
SUI PROBLEMI POSTI DA “MIE CITTA'” DI R. SIMONITTO
1.
Questa poesia di Rita Simonitto io la vedo innanzitutto come un sontuoso edificio carico di riferimenti coltissimi (ma vissuti) alla civiltà europea. Sembra riconfermare i modi idealizzati con cui i poeti di solito parlano della loro, o delle loro, città. E questo piacerà, credo, persino agli spiriti turistici a caccia di “vacanze intelligenti”. Ma c’è – in cauda venenum! – spiazzante e lucido quel finale severissimo ma non disperato, che riapre il discorso critico (e lo confermano gli autocommenti da lei aggiunti) sulla funzione (ambigua) della bellezza e della poesia.
2.
Quindi «favolosa Rita» (Banfi) sì. Ma soprattutto perché capace, dopo aver condotto per un bel pezzo il lettore nella favola («in altri luoghi diversi e simili, Parigi compresa»), di risvegliarlo e di farlo «pensare». E mi pare veda giusto anche Cristiana (Fischer): “Mie città” mette in parallelo «Storia e Poesia» e mostra che «gli amori hanno mediato la ricchezza e l’immaginario depositato nella vita associata». Né sbaglia Mayoor quando sente la poesia di Rita « percorsa da amore e malinconia». Però io tengo al finale, che prende le distanze da ogni facile sintesi tra io e noi, tra soggettività e realtà e sfugge alla visione conciliatrice e aconflittuale dei contrari:« qui vedi nascere le stagioni della vita, la trasformazione dei volti giorno per giorno, tutto il male e il bene del tempo, dei secoli che sfidano l’eternità» (Mayoor).
3.
Quel finale fa parte integrante della poesia (come “la morale” alla fine degli idilli leopardiani). Non è un semplice correttivo “esterno” della ragione ai voli della fantasia, ma afferma con forza – e qui interpreto in modo diverso da Annamaria Locatelli – che no, non ci facciamo soltanto «modellare dalle città in cui siamo vissute» (o vissuti); e che «essere spettatori» (o essere stati modellati/e ) non basta; ed è forse un pensiero consolatorio da respingere. Anche a costo di non riconoscersi più: «ah, sei tu, bisbigliano./ Non lo so più, rispondo,/ non mi conosco». Posizione che molto si avvicina, secondo me, all’atteggiamento esodante (la «brutta parola» che spaventa Ottaviani!).
4.
Posso sbagliare ad accostare la mia esigenza (« almeno un po’ di “realtà” deve entrarci nel nostro modo di pensarla [la poesia]» alla posizione di Rita; e non voglio mettere i suoi buoi davanti al mio carro. E però le sue intenzioni sembrano andare nella medesima direzione, se i suoi versi intendono «rappresentare – oltre a loro stessi – una sfaccettatura del problema del rapporto con la cosiddetta realtà». Cosa non pacifica e non facile da ottenersi. Poiché, come lei sottolinea, non è certo che la poesia questo rapporto lo stabilisca *in automatico*.
5.
E fa bene a ricordarci che la poesia ( la sua, la mia, quella di altri/e) cede spesso alle «proiezioni di nostri vissuti (amare qualcosa attraverso la mediazione di qualcuno)»; e che a volte o spesso «noi tendiamo a relazionarci con quelle proiezioni dimenticando che c’è un’altra realtà». Fino al punto che delle città (tema della sua poesia e che qui possono stare, in generale, anche per un pezzo della “realtà”) diventano «così sfuggevoli nella loro concretezza al punto che ognuno ha la ‘sua’ Palermo, la ‘sua’ Barcellona, ecc. ecc». Diventano soltanto “città dell’anima”, dunque. Sospese cioè nell’immaginario soggettivo; e che attirano su di sé altri immaginari altrettanto soggettivi che vi si riconoscono. Mentre le città reali vanno per la loro strada, si modificano, si complicano. E tale scarto tra soggettività e “realtà” ripropone un problema: l’immagine poetica, necessariamente soggettiva di una città (della “realtà”) – si pensi ad es. a A. Sagredo e alla “sua” Lecce nei post intitolati «Il poeta e la sua città», coi quali anche questo di Rita potrebbe stare – quanto dimentica o quanto afferra della “realtà” (della città e non solo)?
Se, usando le parole di Rita, «quando permane questa sovrapposizione proiettiva, i luoghi diventano allora solo vuoti simulacri di fantasmi», la poesia davvero rischia di diventare la «Belle Dame sans Merci (vedere la ballata di J. Keats) che irretisce con la sua bellezza ma poi tutto unifica e appiattisce». E qui Rita riecheggia a modo suo, ma l’ha detto anche esplicitamente in un precedente commento parlando della poesia come di una « grande puttana» (16 agosto 2015 alle 17:20 ), le riserve e gli avvertimenti critici (non l’ostilità!) verso la poesia, che spesso ho ricordato da parte di Fortini.
6.
Ora io non so dire se la poesia oggi debba «‘stracciarsi le vesti’ dalla vergogna» solo perché rimasta «senza passato su cui si è illusa (*valigie vuote, niente da dichiarare*) e senza futuro (inutili Vespri per chi non sa combattere)»; e se sia davvero ridotta a «Don Chisciotte stanco» o ad «Argo fedele che aspetta che qualcuno sbaragli la reggia dai Proci», mentre altri, i “moderni” o i falsi moderni camuffano «la realtà in modo che, anche da quel versante e non solo dalle nostre proiezioni, diventi irriconoscibile». Sono però convinto, a differenza di Mayoor che (se non sbaglio) sembra voler scommettere soprattutto sulla poesia-metafora (alla Linguaglossa) e fin quasi a identificare poesia e metafora o sulla poesia-sogno, che ci sia «un certo bisogno di interpretare la realtà» (Rita). E che, messi sul tavolo tutti gli strumenti di cui in teoria disporremmo (scientifici e artistici), dobbiamo provare a vedere, ma senza partito preso a priori, quale di essi ci approssima di più ad essa “realtà”.
7.
Non sono sicuro – lo dico lealmente – che la poesia sia *sempre e in ogni caso* lo strumento che alla “realtà” ci approssima di più. Non è detto che la “realtà” sia più facilmente accostabile solo per via di metafora o per via di sogno. (Il sogno, tra l’altro, non può essere condiviso se tutti fossero soltanto sognatori; e ha valore se narrato a persone “sveglie” che sappiano interpretarlo!). E a scanso di equivoci chiarisco: con “realtà” non intendo obbligatoriamente quella che ci passa la scienza o quella che l’esperienza individuale o sociale comunemente indica come tale. Dico pure che, se ci sono limiti proiettivi in cui può cadere la poesia, ci sono anche quelli oggettivistici in cui può cadere la scienza. E allora quella “essenza” (?), quella che chiamiamo “realtà”, chi la sfora davvero di più? Il problema è apertissimo. Trovo che a volte su di essa mi apre di più gli occhi un poeta o un pittore, talvolta uno scienziato, tal’altra un politico o un filosofo.
8.
Forse c’è bisogno di una nuova e rigorosa *verifica dei poteri* di tutti gli strumenti: sia della poesia che dell’arte che delle scienze. E non concedo (spesso lo facciamo in astratto e senza rifletterci) all’arte (sia come pittura che come poesia o prosa) «più frecce al suo arco» (Rita). Dicendo questo, non voglio mettere tutti i saperi su uno stesso astratto piano. Per me vanno commisurati agli obiettivi che ho o mi pongo. Certo « molte [sono le] forme attraverso le quali il reale si presenta» (Simonitto), ma possiamo non chiederci quanto e se quelle che afferra il poeta stanno in rapporto (in accordo o contrasto?) con quelle afferrate dallo scienziato, dal politico, dal religioso, dagli uomini “comuni”, ecc.?
9.
E con queste domande in testa dico qualcosa su poesia e prosa. Mayoor non mi pare troppo convinto di quel «destreggiarsi” tra prosa e poesia che attribuisce a Rita. Vuole capire « se la prosa sia funzionale alla poesia o viceversa». Ma non è un problema posto troppo in astratto? E quel concedere importanza alla prosa solo perché sarebbe (per sua natura?) « più in sintonia con la contemporaneità» e in essa si rifletterebbe « meglio il desiderio di voler comunicare da parte degli esclusi» non mi convince. È poi davvero questione di brevità o lunghezza del verso? O di prosa che faticherebbe «a stare nel breve»? E perché il compito di mettere sotto esame la parola scritta dovrebbe essere «lavoro per poeti» e non dei prosatori? E non dei parlanti stessi? Sento un ripiego tecnicistico nel suo discorso. Come se la questione fosse da smazzare fra addetti ai lavori (cosa in parte lecita). Come se non contasse alla fine vedere cosa ricaviamo usando certi strumenti e non altri, la prosa o la poesia. E ci lasciassimo prendere dal discorso astratto sugli strumenti in sé. Che per me ha un senso solo se arriva a una conclusione e non si chiuda in bizantinismi da specialisti. «La prosa dilata, la poesia stringe»( Rita)? Sì, come il martello batte i chiodi e le tenaglie li estraggono. Tutto sta a vedere che mobile abbiamo da costruire. E se poesia vogliamo fare, comunque mi pare giusto richiedere che la poesia, pur stringendo, dimostri che in quel suo «lavoro di condensazione, come direbbe Freud a proposito del sogno» ci faccia stare «molte più cose» (un po’ più di “realtà”, insomma…). E che la stessa cosa vada richiesta al prosatore. E allo scienziato.
10.
Interrogata la “realtà” dalle diverse angolazioni, essa continuerà a sfuggirci. E la speranza di Annamaria Locatelli (« diverse angolazioni da cui noi percepiamo il reale può derivare una maggiore conoscenza di noi stessi, degli altri, della “realtà” senza peraltro poterla mai completare, anzi spesso entrando in crisi sulle nostre convinzioni») va conservata. E però: davvero « tutti i “secondo me” mi arricchiscono»? Davvero ci sarà questa «“città universale”»? Meglio non illudersi e non dimenticare che «siamo ancora nel buio pesto e che procediamo a tentativi» ( Rita).
Grazie a Ennio non solo per la sua particolareggiata disamina che – oltre a raccogliere e a dare un ulteriore contributo ai vari commenti – ha ampliato di senso il “di per suo” di “Mie città”.
Ma anche perché ha messo il dito su due problemi che mi sono balzati improvvisamente agli occhi e che concernono un rischio, da una parte, e uno stimolo a porvi rimedio, dall’altra.
Il primo si riferisce a quell’osservazione: *Diventano soltanto “città dell’anima”, dunque. Sospese cioè nell’immaginario soggettivo; e che attirano su di sé altri immaginari altrettanto soggettivi che vi si riconoscono. *****Mentre le città reali vanno per la loro strada, si modificano, si complicano*****. E tale scarto tra soggettività e “realtà” ripropone un problema: l’immagine poetica, necessariamente soggettiva di una città (della “realtà”) [….] quanto dimentica o quanto afferra della “realtà” (della città e non solo)?*
Ed effettivamente, siccome le “città dell’anima” godono di un certo statuto di ‘eternità’, ovvero di essere poco suscettibili al cambiamento, ciò rischia di essere proiettato sulle città reali di modo che le trasformazioni di fatto vengono scotomizzate. O, per dirla diversamente, si continua a rapportarsi con l’ideale e non con il reale.
Quanto allo stimolo a porvi rimedio ciò attiene un po’ a quel *Forse c’è bisogno di una nuova e rigorosa *verifica dei poteri* di tutti gli strumenti: sia della poesia che dell’arte che delle scienze*.
D’accordo. E che non si può limitare agli strumenti citati ma deve assolutamente coinvolgere lo ‘strumento principe’, ovvero il ‘soggetto’ il quale dovrebbe operare maggiormente un lavoro di riflessione su di sé. E questo lavoro di riflessione non può che essere fatto attraverso il confronto con gli altri.
R.S.
“coinvolgere lo ‘strumento principe’, ovvero il ‘soggetto’ il quale dovrebbe operare maggiormente un lavoro di riflessione su di sé. E questo lavoro di riflessione non può che essere fatto attraverso il confronto con gli altri.”
Il lavoro di riflessione su di sé, e il confronto con gli altri:
Il lavoro di riflessione è la domanda che va posta al diverso pensare della poesia, il sé non potrebbe rispondere se non alla maniera convenuta, quasi sempre dalla logica. Senza dire poi del soggettivismo, che allora sì, può avvantaggiarsi del confronto con gli altri. Ma saremmo fuori dalla poesia, ed è di questa che stiamo parlando.
La maggior riflessione è lo sforzo che contrasta il vuoto del non ancora scritto. Se ci affidassimo interamente al vuoto i significati sarebbero sempre molteplici, e di conseguenza anche le interpretazioni del lettore.
In “Mie città”, Rita affida la domanda alle città; la poesia risponde qui:
(Ora) la vita è morte senza sudario
e come Argo la poesia si accuccia e annusa porte.
Ora vengono città che hanno voci di fontane
opacità che siedono nei sogni
spettatori inermi
esistenze stralunate nell’attesa
ah, sei tu, bisbigliano.
Non lo so più, rispondo,
non mi conosco.
Sono versi che potrebbero benissimo vivere da soli.
Questo mi porta a riflettere su quanto sia inconciliabile la poesia con la prosa, e avvalora quanto dicevo a proposito della prosa come Strumento (corsivo).
Con questo non voglio dire che la prima parte della poesia di Rita sia in prosa, non l’ho detto, mi sono limitato a dire della metafora, altro strumento, che rafforzando le immagini confonde i domini e fa sì che sembri poesia quel che poesia non è: si continua cioè a confondere la poesia con la sua forma.
Credo così di rispondere anche a Ennio, che ringrazio perché mi consente di chiarire ulteriormente: che non sono per niente un sostenitore della metafora… anche se questo mi dà sconcerto (anche da qui i ricorsi alla prosa, per il vuoto lasciato dalle metafore). Le novità che mi sostengono, le mie uniche, come ho detto stanno in alcune poesie di Milosz, interamente scritte senza metafore, e altre di Tranströmer, a mio giudizio l’unico che abbia saputo trasformare la metafora in altro linguaggio, in immagini dette con lingua reinventata.
Arrivo a dire che la metafora, proprio perché nel Novecento si è notevolmente raffinata, evoluta grazie all’abbandono del Come questo e come quello, tanto frequente in Pasternak (fino alla noia), ha finito col diventare sinonimo di poesia. Quando invece si tratta di semplice rafforzativo, o abbellimento. Insomma, un semplice strumento.
Ci sono parecchi refusi, ma ho scritto di getto.
Nota di E.A.
Li ho corretti. Scrivete di getto, ma rileggete due volte prima di inviare!
…spesso la realtà non concede
il tempo e l’umore
per girotondi soggettivi
nè per favolose memorie
di un passato di genti
ove pur ti rifletti
un pugno nello stomaco
qui e ora
e gridi “ho fame!”
un colpo in testa
e urli: “muoio!”
Città universali sofferenti
s’inpongono nomadi
attraversando deserti e mari
giungono, in decimate fila,
ove inganni e veli
occultano morti dorate…
Le mie città di Rita Simonitto.
1.
Per una curiosa e felice coincidenza ho incrociato nelle mie letture il testo di Rita Simonitto – che saluto – e il saggio di Mario Maffi: Città di memoria ( Ed Il Saggiatore 2014 ).
Raccomando la lettura di quest’ultimo libro, molto interessante e la segnalazione valga – estrapolata – come contenuto della nostra ( di Poliscritture ) sezione “ Cosa stiamo leggendo “
2.
Sul testo poetico di R.S si sono scritte molte cose giuste ed acute. Ad esse vorrei aggiungere qualche osservazione più di “ contenuto “ che di “forma”,scusandomi per l’abusata distinzione.
Ma non posso dimenticare la splendida apertura “….amai la tua città perché ti amavo….. “
Perché questo giudizio? In primo luogo ( ma non vuole essere un richiamo riduttivo dato che leggiamo in un poeta tutta la poesia dei poeti precedenti ) perché mi viene alla mente l’altrettanto splendida apertura di Dino Campana: “ Vi amai nella città dove per sole – strade
si posa il passo illanguidito ….” ( Vi amai nella città dove per sole in D.C Canti orfici – Vallecchi 1966 pag. 266 ). In secondo luogo perché nel formalmente perfetto incipit è contenuta una sorta di proposta di meditazione che deve essere approfondita.
3.
Il nesso causale tra l’amore per la città e l’amore per la persona sottolinea – in modo nient’affatto retorico – il nodo reale ( dunque d’esperienza umana ) tra lo spazio e il luogo.Non si amano mai le cose ( e la città senza abitatori è solo una cosa ) ma ciò che le collega ad altro e dà ad esse un significato. La vita delle città come di qualunque oggetto è la vita di chi le abita o lo usa. La follia che travolge alcuni soggetti per la perdita di un oggetto ancorchè di modesto valore è solo l’estremizzazione di tale nesso. La piccola che stringe a sé l’orsacchiotto è la originaria dimostrazione della genuinità di tale rapporto.
4.
Come potremmo vivere le città se non vivere i suoi abitanti e la sua storia, alla fine ? E’ stata richiamata giustamente la polarità cultura –storia, la prima ,credo, come SE’ dalle molteplici sfaccettature dell’esperienza soggettiva e la seconda come attualità da noi subita ma anche alla fine da noi prodotta. I termini e oserei dire le quantità assunte in un testo poetico rispettivamente dall’una o dall’altra deriva da una sorta di “ scelta “ operata dal poeta.
Si può forse definire una poesia soggettiva ( romantica, intimista,lirica etc… ) ovvero oggettiva ( politica,civile,storica,filosofica ) a seconda del prevalere di una o dell’altra delle due componenti ? E’ un’idea da sviluppare,forse.
5.
Nella poesia di R.S non mancano – mi pare – richiami ad una dimensione collettivo-storica del
Luogo Città accanto a quella più palese o più palesemente espresso del “ sentimento individuale “ ( amore, desiderio etc ) .Li ravviso nei versi : Nel dolore della chiesa…. L’hidalgo stanco sotto i platani….Di tutto fu somma di storia e memoria ( e qui, dico, forse fin troppo esplicito ed enunciativo ).Resta ,dunque, questo circuito meditato e suggestivo del quale mi rallegro e mi interesso.
G.M
@ G. Mannacio
Ringrazio Giorgio innanzitutto per il saluto che ricambio affettuosamente e grazie anche per la segnalazione del libro di Maffi che mi procurerò senz’altro.
Rimane aperta la domanda: * Si può forse definire una poesia soggettiva ( romantica, intimista,lirica etc… ) ovvero oggettiva ( politica,civile,storica,filosofica ) a seconda del prevalere di una o dell’altra delle due componenti ? E’ un’idea da sviluppare,forse*.
Secondo il mio punto di vista, ritenendo io il soggetto ‘un’ punto di concrezione di soggettivo e oggettivo – che lui lo voglia o no, ne sia consapevole o meno, è sempre portatore di quel dato momento storico sia nella sua accettazione che nel suo rifiuto -, la definizione di cui sopra può avere un valore più ‘pratico’ (ovvero come catalogare determinate poesie) che ‘definitorio’. Certamente che può cambiare la forma espressiva in funzione del suo contenuto, o l’uso di una certa terminologia in luogo di un’altra, ma si può dire di politica e di storia anche ‘intimisticamente’. E il ‘romantico’ di oggi ben si differenzia dal romanticismo passato. Non ci si bagna due volte nello stesso fiume.
Grazie ancora per l’attenzione.
R.S.