di Antonio Sagredo
“Spero di costruire una Poesia più mostruosa della mostruosità che mi circonda”, scrive Antonio Sagredo, inviandomi le sue “POESIE DALL’ANNO ZERO”, che hanno come sottotitolo “Ultime prove mostruose” e si possono leggere interamente sotto, in Appendice. Sul blog L’OMBRA DELLE PAROLE in un commento dichiara poi che probabilmente saranno le ultime che scriverà “intuendo o avendo la sensazione che la Poesia si trova in uno stato o posizione o ruolo di fine-inizio”. Impossibilitato a inoltrarmi in un’analisi degli otto complessi componimenti, metto in evidenza il quarto – quello intitolato “Futuri? Passati?” – che riassume al meglio, a mio parere, l’esito nichilista della sua poetica. Vorrei che lo si leggesse alla luce della discussione svoltasi su “Mie città” di Rita Simonitto nel post precedente (qui): per intendere vicinanze e distanze tra due modi diversi – approssimativamente: romantico/classico o ermetico/storico? – di affrontare la crisi o questa “fine-inizio” (la transizione a una nuova epoca, a una nuova poesia, a un nuovo mondo, a una nuova società?) che non riusciamo a capire e a nominare. [E. A.]
Levatrice dei morti —- la notte coi suoi gemiti e le stelle così lontane!
Non abbiamo parole noi – nella luce! Stiletti di pensiero sono infelici passi,
fitte delle nostre colpe i ritorni dell’eterno: rifugi, cisterne di insensati giorni.
Inconsapevoli in un qualcosa da cui nascemmo: senza una fine e un principio!
Ascoltare, dove non so e quando – da chi e da cosa? Insensata presenza il Nulla delle fedi del passato… è il nostro senso? Smarriti dagli occhi e dalle mani… sugli altari increduli di noi resteranno glorie declassate, tabule rase, apocalissi di pensiero, orienti e occidenti: spazi scellerati, paradisi infernali… aurore e
tramonti non ci saranno più… quali altri pensieri avremo che mai
conoscemmo e quali altre immagini ci domineranno, quali altre matematiche,
con quali occhi scriveremo un nuovo cominciamento… pace e guerra
conosceremo in altri non-quando e non-dove… e l’Io sarà un altro Io,
a noi – ignoto sarà il riso – senza… fine!
Sulle rive invano cercheremo un albero, un oceano, un cantuccio…
la distruzione sarà più che il nostro pane quotidiano…
sarà una tendenza – senza… fine!
Non si canta il nulla che non esiste – si canta quello che esiste – NOI!
Antonio Sagredo
Roma, 7/8 aprile 2015
APPENDICE
POESIE DALL’ ANNO ZERO
Ultime Prove mostruose
2015
prove mostruose
(1)
Il rintocco della memoria accusò il tramonto di simonia,
ma il concetto di blasfemia si ribellò al verso iniziale.
Mentendo alle leggi celebrò col sangue il diritto nuziale
e con l’occhio basedowico un guercio e sinistro Oriente…
spietato si trastullava con una scimitarra a mo’ di croce
e una testa ciondolante e lamentosa per formare una trinità
mostruosa di scellerati simboli… marchiata dal mio sputo e
disprezzo… l’umanità si giocano squartando il cuore del mattatoio!
Invano la sinistra guancia implorai di darsi pace sotto la cenere
per non generare con un rimorso deforme il 50° boia nel giorno
della Pentecoste… tre pellegrini infami negarono il pianto, il raccolto
e la rivelazione: finzioni della mietitura nell’ultimo giorno del cordoglio!
Nostra Signora del Lutto fece scempio delle primizie nell’assemblea plenaria e la pace del sacrificio si celebrò dietro una quinta d’avorio… per sanguinare nel tempio di pane lievito farina e grano s’impastò l’agnello che si mutò in leopardo – tromba franca e cavalli inglesi pavesarono di me la maschera –
di fiori e rami verdi!
Antonio Sagredo
Roma, 19 gennaio 2015
prove mostruose
(2)
Quella sera di biacca quand’io svernavo la mia inquietudine sotto la palma di un Oriente devastato… m’accesi… velenosa una lampada per oscurare la vanità di uno specchio doppio… una gloria sinistra e piombata come uno stendardo sull’osceno continente, commercio di colonia il tuo benestare quando forse tutte le stagioni
alzano a vessillo un nome e s’imbrunisce un core quando una qualunque primavera verrà a cancellare il tuo nome, Antonio! Ed io fui geloso mortale nella tua quinta e in quella scena dove mi uncinai ad una corda della tua voce oscillante, come una glottide ammainata per cantar letanie di rosari: luminosi fra le dita i grani accecati dal raccapriccio!
Avevo una gobba di madreperla, e un deserto di stiletti m’attraversava gli occhi pacifici… anelli, orbite…. croci nella palude lernea e scimitarre decollavano i mostri occidentali: non è più un teatro qualsiasi!… che non è più finta questa guerra vera? – io so adesso cos’è una Resurrezione senza fine, un traguardo di tramonto! Un’assenza d’aurore!
Ora non è più un sospetto il piacere di una barbarie recidiva, e l’attesa è la scrittura bianca su nero sfondo, come una finzione antica la smania nostra è la scosciata Europa: zoccola, chiavica che devasti senza rimorsi e requie! Leuca, luce di rivolta! Secolo di universali macelli, ridicoli uncini del passato… rovina mediterranea!
Canzoni, venite a placarmi questo caos del tempo come allora!… e tu giocavi alla crocefissione… ah, Cristo ’63! Un finto aborto, come la pietà Rondanini… la destra mano incapace d’inchiodarsi… disperazione europea!… femmina da bivio, trivio e quadrivio! Le scorregge notturne non sono gradite! Veronica: rovina mundi!
Antonio Sagredo
Roma, 21 gennaio 2015
(dall’ora terza alla quarta)
Prove mostruose
(3)
Adolf Hasse… miserere, Farinelli e viola d’amore… una corda
La tenuta dei fiati intonava una nota tenebrosa per voce bianca,
dai timbri raffiche di carne danzavano su un patetico registro.
Il trillo di una scala leggero come la grazia di un miserere
giocava d’agilità e tenerezza come l’epifania della metafora.
Ma quale estensione e dolcezza non sapevamo dei tasti ?
Se dalle corde d’amore di una viola d’amore dettata era
la sua voce, mentre i codici in rovina i misteri sulle dita
invano battevano in fuga gli occhi musicali fra le lacrime!
Lei era tutto quello che nei miei versi è scritto e non dettato.
Perché dovrei dividere col mondo la mia nascita dalle parole?
Cosa nasconde il mio cervello che io non debba mai sapere?
E perché quella materia che mi oscura si tiene all’ombra?
Ed io che avevo scritto di Eleusina senza sapere di Emilio… e lui che
mi urlava: Guarda che siamo di Eleusi. Torniamo a Eleusi: sotto, sotto, sotto…
E lei, Marina, col rosario di una corda intorno al collo,: Io che non so quel che vivo, io non so quel che muoio, quel deperire lento che è l’essere svegli dormendo!
Celebravo questo mondo coi versi miei, ma non è eguale a me! – mi dicevo.
La tua voce, Farinelli, che sapeva l’inchino e il pianto delle stelle mi confortava
sui gradini come un accattone, e con un miserere ti hanno scannato come
un angelo recidivo, proprio Tu che giocavi ai miracoli – sui patiboli!
Antonio Sagredo
Roma, 28 marzo 2015
Prove mostruose
(4)
Futuri? Passati?
Levatrice dei morti —- la notte coi suoi gemiti e le stelle così lontane!
Non abbiamo parole noi – nella luce! Stiletti di pensiero sono infelici passi,
fitte delle nostre colpe i ritorni dell’eterno: rifugi, cisterne di insensati giorni.
Inconsapevoli in un qualcosa da cui nascemmo: senza una fine e un principio!
Ascoltare, dove non so e quando – da chi e da cosa? Insensata presenza il Nulla delle fedi del passato… è il nostro senso? Smarriti dagli occhi e dalle mani… sugli altari increduli di noi resteranno glorie declassate, tabule rase, apocalissi di pensiero, orienti e occidenti: spazi scellerati, paradisi infernali… aurore e
tramonti non ci saranno più… quali altri pensieri avremo che mai
conoscemmo e quali altre immagini ci domineranno, quali altre matematiche,
con quali occhi scriveremo un nuovo cominciamento… pace e guerra
conosceremo in altri non-quando e non-dove… e l’Io sarà un altro Io,
a noi – ignoto sarà il riso – senza… fine!
Sulle rive invano cercheremo un albero, un oceano, un cantuccio…
la distruzione sarà più che il nostro pane quotidiano…
sarà una tendenza – senza… fine!
Non si canta il nulla che non esiste – si canta quello che esiste – NOI!
Antonio Sagredo
Roma, 7/8 aprile 2015
Prove mostruose
(5) (panic)
Si frantumò il tramonto in una tazza d’oriente e volò via con le ali a pezzi,
imitando la colomba del Moncayo che uno specchio barattò per una fittizia falce,
come una voluta bianca e trasparente la maschera che da una vacua alcova tradusse Amore in cenere… un’urna esterrefatta ospitò a malincuore la diastole,
come un accattone! E non sopporto più di abbandonare l’inferno al suo destino, il nostro sguardo è differente nella somiglianza, le figure e gli stupori non protetti
mirabilmente dall’ostinata pece del pensiero che m’indubbia – tutti gli istanti
annullano il tempo per divorare gli avanzi dei miei giorni e delle mie disabitudini.
Ennio, se dici: all’inizio e alla fine abbiamo il mistero – non dici nulla!
Se dici: Potremmo dire che abbiamo il disegno di Dio – sul Nulla cominci a ragionare!
Se dici: A questo mistero la matematica ci avvicina, senza penetrarlo – non abbiamo più nulla da dirci! – Dove c’è la Matematica, non c’è Dio! – … sono Finzioni!
Ma una solitudine più chiara di una fornace mi accecò come l’occhio di uno squalo al morso di una gorgiera, che in delirio luminò come un’armilla il mosaico dei tuoi legnosi gesti… ah, il conteggio dei numeri immaginari celebrò un festino per chi nel cerebro degli dei disperava una più alta legge della fede umana!
Miei cari, non mi servono le vostre carezze da morto! Non mi dovete carezzare i malleoli! Non mi inchinerò! Non vi chiederò: ridatemi gli occhi! Le mie ossa brillano più delle vostre vite! Non chiederò agli angeli scannati la farsa delle resurrezioni! Perché dai trionfi delle catastrofi accetterò soltanto gli stermini recidivi… e la mia fine!
Antonio Sagredo
Maruggio-Campomarino, maggio-giugno 2015
(dall’ora decima all’ora seconda)
Prove mostruose
(6)
Si svegliò sui gradini di un sacrario, le ossa forzavano il midollo ad un zigzagare
e a precipizio nei labirinti scorrevano i gridi angolari dei corvi e delle cornacchie.
Io sapevo che gli specchi nelle profondità ossute di Psiche erano pelosi,
come gli sguardi di Narciso che invano una selce barbarica radeva perché la
parola fosse circoncisa dalla Storia nel suo originario decantare. Il dubbio acheronteo era uno stillicidio per le onde e per le anime migranti che la Morte per acqua temevano più delle loro lacrime – per questo sghignazzava un verdastro Vodník su uno scoglio simile al dente del giudizio – e beffava di Orfeo la maschera
cartapestata e lacrimosa,
e il suo rifiuto alla proposta scellerata del voltarsi indietro: il miserabile era un portoghese,
non poteva traghettare il proprio corpo evanescente che si sbriciolava davanti ai furori delle
braci… negli occhi-uncini di Diomede! – il panico si sciolse in sogni speranzosi: tornare, forse?! – ma il battello andava, errante… sulla riva le orme erranti degli sguardi sbigottiti!
e la marina… ondosa di sessi vaganti… di risacche – di gemiti!, e sfinimenti… arenosi.
Antonio Sagredo
Campomarino-Maruggio
26 giugno 2015
(un notturno sul molo dall’ora terza alla quarta)
Prove mostruose
(7)
a Antonio Dattis *
Questa sera ho stretto la mano di Antonio e ho fatto una salto dal medioevo al settecento!
Mi sono arroventato le mani al contatto e i legni smaniosi hanno sragionato per tallonare
il suo ingegno! Non avevo che da rimproverarmi la precisione del mio cerebro e il calibrato furore delle mie mani, e delle dita che lo guidavano… non possedevo che quest’arte, io!
E alla malora il Tempo e il Labor che non volevano finire: chiedevano un’assemblea plenaria ai gesti, agli strumenti, ai disegni, ai pizzicati suoni… a che le corde fossero stonate perché mai la fine accadesse tanto presto, e supplicare così la durata della passione divorante nel laboratorio… la testimonianza ricordava quello del Padre mio fra trucioli e colla cervone…
Io, bambino, l’ammiravo…
ma qui, al savese, dobbiamo un inchino immortale, e non lo sconforto dell’anonimato!
Antonio Sagredo
Sava/Campomarino, 5 luglio 2015
* vedi internet, ebanista…
Prove mostruose
(8)
La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterrò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…
Miris è davvero morto!
E quella rosa d’inverno come mi ricorda le mie Rose conquistate!
Rose di Praga fra la neve imminente… rose di Keplero e di pietra!
Annamaria è un Vesuvio di rose! Rose di lava vesuviana!
Lingue di lava di rose! Rose che vincono tutte le battaglie!
Dialetto rossolavico di rose rosse e invernali e… non so che dire… altro…
Rose dei crocicchi, dei trivi, rose sfogliate e invogliate, rose – su tutto!
Così cantavano i miei passi…e le orbite volate via!… e su tutti i ponti gli occhi e le visioni
di un’altra creatura che mi tallonava… accanto, e mi assillavano le sue letanie
di voler esistere tramando come un refrain la mia vita su un arazzo sfilacciato di Gobelin:
come è artificiale questo sole che si riposerà e modellerà i nostri volti col gelo –
di una maschera!
E dopo il gelo, che saremo? Chi di noi sarà come prima, mostruosa Poesia !
Antonio Sagredo
Campomarino, 13 luglio 2015
Aggiunta il 26 ag 2015:
Prove mostruose
(9)
Il suono della Cenere
Ascese a me la parola intatta dai miei fili inconsapevoli e sul palco il canto
e il suono della Cenere smorzato da serrate labbra e orecchie inascoltate.
Al poeta fu detto: non ti basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie!
Nemmeno un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.
Cieche, come tritoni nel calvario di luminose oscurità, le stanze se ne andarono
via da me lentamente battelli in fuga dai moli e dai marosi! Muti gli stendardi.
Non avevo che da stordire i gridi dei gabbiani che invano beccavano il sangue
dei tramonti i rostri pregarono le polene deformi di non sbattere sulle spume.
Come una mazzata disattesa mi crollò quel sangue dal futuro – creature albine
di conoscenza e di fede mi dissero tutto ciò che non ci sconvolse da tutte le disfatte
e le condanne e mi dissero gementi che m’avrebbero restituito gli occhi, ma non
le mie visioni! Ero l’unico sano in un cottolengo di dislocati cerebri!
E non pregavano per coloro che non c’erano, soltanto gli assenti non ci stupirono.
Noi che dovremo in questo secolo di genocidi senza fine ristabilire la dolcezza
e sui moli sorridere ai suoni e ai rintocchi della Cenere, proprio noi gli assassinati
da Dio, dobbiamo scannare gli angeli per definizione come in un alogico assioma
interdetto alla finzione! Il suono – di me – della Rovina – in me dai miei gesti
genera le stazioni degli Ossari avanzi di città noi canteremo non
riconosceremo più i sobborghi dalle macerie, dai suoi fanali arsi di visioni
novembre degli arcobaleni mai è stato il mese dei morti!… è tutto l’anno in un
secolo s’è ristretto come la legge delle visioni arse dagli occhi – e non mi silenzia
il rumore di Dio! Il mio nobile disprezzo per la Storia! Il madrigale s’è oscurato
per la Conoscenza! Oriente e Occidente non hanno più i monistici princìpi! E il suono
della Cenere è crollato come il sangue dalle sorde ottave alle alcove gemens, gemens!
Credevo la Conoscenza una presenza di fedeltà, non una figura o una finzione,
ma è un assassinio, un condursi alla forca o al rogo per soltanto dire andiamo
a morire da Poeti! Si ritrassero le stelle dalla propria luce, l’acqua, il fuoco e l’aria
dalla Terra, e l’uomo dagli dei il Nulla si ritrasse da se stesso, come il Tutto!
Non sono un cinico, disse Ruben, sono assente come una metafora le figure sono
una tortura e non conosco la differenza fra le macerie! Accidia è là dove mi sorprendono
con un Pensiero! Il resto non è nemmeno un delirio o un caos non ho che la mia presenza:
vivo per vivere e non per prepararmi a vivere!
Basta con Dio e gli Dei! Con queste fandonie!… sono questi pastori che generano
stermini: trionfi dei genocidi e delle Ceneri! Vedrete che mattanza questo secolo!
Ci sarà da ridere come in una finzione di cartone, mi diranno solo su un palco è possibile!
La realtà è altra cosa ma i divani sanguinano è ora di finirla con
questa Terra! È una caduta di stile il Tempo! Come il mancato volo della mia Parola!
Al poeta, si disse, non basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie! Nemmeno
un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.
Tento di piantare nel mio giardino un frutteto come Astrov, o come Antonio!
Maruggio/Campomarino, 4/11/15 agosto 2015
(dal 4 agosto in treno Rm-Br)
Poesia per sguardi sconfinati, non rivolti all’orizzonte ma alla totalità del tempo che accerchia. Sembra provenire da lì, la parola – rumore del tuono!
Come al cinema ci si dimentica ( “non è più un teatro qualsiasi!”), che poi ci aspetta un cheeseburger. Non sarebbe una profanazione, tutto è possibile; tranne per il luogo, che sarà inadatto alla solennità.
Resi derelitti ma solenni. Da questa solennità il NOI! detto senza tante discussioni (da un IO assai pervasivo).
La postura da guerriero, può bastare? Può servire.
Sagredo tenta umanamente una sacra scrittura. E questo gli va riconosciuto. Come il fatto d’essere solo nel farlo. Che io sappia, l’unico. Agli altri, se va bene, resta il dettato.
Spero anch’io che, dopo il gelo, nulla sarà come prima. “Senza… fine”. Anzi, mi sento al punto che invocherei una soluzione biblica.
…i poeti hanno come maturato un senso chiarissimo della fine incombente come di un inizio dai contorni vaghissimi : il “luogo” del “non quando e non dove”… non io. Non NOI. Eppure nei versi di Antonio Sagredo ricorre un abisso tra la fine e l’inizio ma anche una solenne sospensione, come un sacro presagio (sono d’accordo con Mayoor), per cui quei puntini in “senza…fine” possono assumere una doppia valenza. L’amore e l’odio si affrontano in una battaglia titanica che potrebbe portare ad un azzeramento reciproco, ma dall’esito non scontato. In altri versi di Antonio Sagredo l’attaccamento alla vita, al mondo dei sentimenti e l’amarezza per la fine che è nel destino umano fanno emergere una malinconia romantica ma stemperata in un mondo di ricordi…il che non è da tutti. Colpisce il commento dell’autore alle sue stesse poesie: “Spero di costruire una Poesia più mostruosa della mostruosità che mi circonda”, la Poesia che arriva a combattere il nemico con le sue stesse armi, da guerriera disposta a morire sulle barricate per difendere un’umanità in via di estinzione…
« Sagredo tenta umanamente una sacra scrittura» (Mayoor)
Questo è il punto. Sagredo è un “ateo devoto”? Disprezza Dio, ma appunto «tenta una sacra scrittura»…senza Dio. Come il suo maestro (implicito) Nietzsche. E il suo « IO assai pervasivo» al pari del suo «NOI» più che solenne contengono quel “superomismo” (individualistico e stirneriano nel suo caso) che conserva troppi tratti “divini” per non far pensare – cosa che ho sempre cercato di ricordargli ma egli smentisce troppo categoricamente – a una nostalgia inconscia, atemporale e più che metafisica che lo inchioda a Quel che nega invece di liberarlo veramente. È come se dalla gabbia “religiosa”, che l’ossessiona indipendentemente dall’aver o meno ricevuto una educazione religiosa, si fosse liberato ma trascinandosela dietro.
«Postura del guerriero»? Sì, ma postura. Un titanismo “troppo” teatrale che quasi distrae da quella (meridionale) « malinconia romantica ma stemperata in un mondo di ricordi» (Locatelli). Con effetti poetici comunque alti, cosa che è fuori discussione per me.
Sul motto « Spero di costruire una Poesia più mostruosa della mostruosità che mi circonda» ho tante riserve. Significa in fondo accettazione della “mostruosità” come orizzonte invalicabile. In un mondo dominato da mostri bisogna farsi mostri. Anzi più mostri di altri. È in termini più storici l’accettazione del darwinismo sociale. L’antitesi di quella *poesia esodante* che vado cercando.
In linea di principio, e per necessità, sono d’accordo con te, Ennio. Ma un buon poeta tenterà sempre di misurarsi con la Divina C, anche se a sua insaputa. A maggior ragione capisco che potrebbe misurarsi con un capolavoro poetico assai superiore a questa, dove viene scritto:
Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.
Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre;
e chiamò la luce giorno e le tenebre notte.
E fu sera e fu mattina.
Sono versi di qualità eccezionale, non c’è che dire. Al punto che pochi hanno capito che si tratta di un poema! Anzi, ci hanno creduto; e così oggi è il libro che sta sul comodino di tutti i Paperoni del mondo (perché fatti a somiglianza…), che è come dire che sta sul comodino di tutti. Ma Sagredo è pulito, e forse ha anche ragione; nel senso che sbagliavo io a ritenere, fino qualche tempo fa, che il bene e il male fossero temi sorpassati, perché sufficientemente dibattuti nel secolo del Romanticismo. E invece il tentativo di una parola alta, altissima, andrebbe apprezzato, a patto che aiuti a disvelare il sogno obnubilante nel quale ci troviamo a vivere. Utile perché, oltre alla finanza internazionale, purtroppo abbiamo ancora a che fare con Dio, in tutte le salse, e sembra che da qui l’umanità non si voglia schiodare. Ora, Sagredo in queste poesie non tratta questi temi, ma il tono della sua voce sembra volersi misurare con tale… solennità. Questo può confonderci, quindi serve una lettura più approfondita dei suoi testi, che a ben vedere non mancano di schiarite sul quotidiano.
Aggiungo una frase tratta dalla Trilogia di Valis (P. K. Dick), che ho postato malamente stamattina, in fondo a un post precedente:
“Se riesci a mettere in circolazione una quantità sufficiente di disinformazione, annulli i contatti di tutti con la realtà, probabilmente anche i tuoi”.
Sono sicuro che Sagredo ne terrà conto.
Sul collegamento tra la mostruosa Poesia di Antonio Sagredo e Mie città di Rita Simonitto.
C’è in Sagredo un affastellamento di luoghi e memorie, cioè di “loci” dell’immaginario, che è anche restare dentro un cerchio più o meno largo, più o meno ritornante su di sè. Per questo mi è piaciuto molto il pezzo sulle rose nell’ultima poesia, in cui questo giro pieno di aperture e di fughe – come tangenti di un moto circolare, fughe di energia da una spirale – è perfettamente rappresentato:
“E quella rosa d’inverno come mi ricorda le mie Rose conquistate!
Rose di Praga fra la neve imminente… rose di Keplero e di pietra!
Annamaria è un Vesuvio di rose! Rose di lava vesuviana!
Lingue di lava di rose! Rose che vincono tutte le battaglie!
Dialetto rossolavico di rose rosse e invernali e… non so che dire… altro…
Rose dei crocicchi, dei trivi, rose sfogliate e invogliate, rose- su tutto!”
Mi chiedo: Sagredo resta nel “gioco combinatorio dell’immaginario, fantastico e reale” di Rita Simonitto (23 agosto 0.53)? Ma Rita aveva già avvertito (alle 11.25): “Quando permane questa sovrapposizione proiettiva, i luoghi diventano allora solo vuoti simulacri di fantasmi” e la poesia non può che stracciarsi le vesti dalla vergogna perché (diventa) senza passato e senza futuro.
L’immaginario in sè è una strategia conoscitiva perchè è una strategia costruttiva, per esempio la Martorana fa sognare la mente nella poesia di Rita, perchè la ha sognata il costruttore (vale anche al plurale).
L’immaginario è però del soggetto, all’incrocio tra eredità e soggettività personale.
Il postmoderno ha tagliato il rapporto con il reale, resta a fissare l’immaginario: una rosa è una rosa una rosa è realismo, è l’empirismo di Gertrude Stein mentre il giro di rose di Sagredo sta in letteratura.
Fin dove ci si può spingere con la vita personale nell’immaginario? Quanto dei propri bisogni soggettivi e di intersoggettività è possibile inserire nel quadro postmoderno?
L’immaginario non è il reale ma mai avremo il reale se non rappresentato, tuttavia le città multiple di Rita, vissute con amori, hanno una postazione geografica e perfino delle guide che ne fanno conoscere la storia l’urbanistica i poteri, ecc.
Su questo tema si sono svolti una serie di post tra Rita Simonitto e Ennio Abate, che fondamentalmente convergono.
Ennio (23 agosto alle 22,19, punto 4, 5, 7, 8 ): “Posso sbagliare ad accostare la mia esigenza … alla posizione di Rita; e non voglio mettere i suoi buoi davanti al mio carro. E però le sue intenzioni sembrano andare nella medesima direzione, se i suoi versi intendono ‘rappresentare – oltre a loro stessi – una sfaccettatura del problema del rapporto con la cosiddetta realtà’. Cosa non pacifica e non facile da ottenersi. Poiché, come lei sottolinea, non è certo che la poesia questo rapporto lo stabilisca *in automatico* … l’immagine poetica, necessariamente soggettiva di una città (della ‘realtà’) … quanto dimentica o quanto afferra della ‘realtà’ (della città e non solo)? …
Forse c’è bisogno di una nuova e rigorosa *verifica dei poteri* di tutti gli strumenti: sia della poesia che dell’arte che delle scienze … mi pare giusto richiedere che la poesia, pur stringendo, dimostri che in quel suo ‘lavoro di condensazione, come direbbe Freud a proposito del sogno’ ci faccia stare ‘molte più cose’ (un po’ più di ‘realtà’, insomma…). E che la stessa cosa vada richiesta al prosatore. E allo scienziato.”
Rita è d’accordo (24 agosto alle 1.10): “effettivamente, siccome le ‘città dell’anima’ godono di un certo statuto di ‘eternità’, ovvero di essere poco suscettibili al cambiamento, ciò rischia di essere proiettato sulle città reali di modo che le trasformazioni di fatto vengono scotomizzate. O, per dirla diversamente, si continua a rapportarsi con l’ideale e non con il reale.
Quanto allo stimolo a porvi rimedio ciò attiene un po’ a quel *Forse c’è bisogno di una nuova e rigorosa *verifica dei poteri* di tutti gli strumenti: sia della poesia che dell’arte che delle scienze*.
D’accordo. E che non si può limitare agli strumenti citati ma deve assolutamente coinvolgere lo ‘strumento principe’, ovvero il ‘soggetto’ il quale dovrebbe operare maggiormente un lavoro di riflessione su di sé. E questo lavoro di riflessione non può che essere fatto attraverso il confronto con gli altri.”
Sagredo è preso dalle immagini, abita nelle frasi, nei luoghi condensati della memoria, (Mayoor commenta: “Poesia per sguardi sconfinati, non rivolti all’orizzonte ma alla totalità del tempo che accerchia. Sembra provenire da lì, la parola – rumore del tuono!”)
La parola non vuole potenza astrattiva, è già piena, è raggruppamento e moltiplicarsi di figure. L’esito nichilistico -secondo Ennio- è un troppo pieno:
“Ennio, se dici: all’inizio e alla fine abbiamo il mistero- non dici nulla!/ Se dici: Potremmo dire che abbiamo il disegno di Dio- sul Nulla cominci a ragionare! /Se dici: A questo mistero la matematica ci avvicina, senza penetrarlo- non abbiamo più nulla da dirci!- Dove c’è la Matematica, non c’è Dio!- … sono Finzioni!”
Il Nulla è pieno di Dio, e nulla e tutto coincidono, come da Parmenide in poi. Il problema è: che cos’è il tutto? l’immaginario consegnato o una rosa, che è *una* rosa, *una* rosa concrete, per volta, da piantare o raccogliere o che?
Il nichilismo di Sagredo è il troppo pieno, è l’esaurito, è l’oscurità che confonde, è il tutto già detto, è Argo dai cento occhi… che per Rita si ferma davanti alla porta. Avevo già notato (22 agosto 10.12) che Argo che si accuccia e annusa porte figura la poesia esodante.
Ancora: cos’è il gelo che immobilizzerà i volti con una maschera? Still life? wunderkammer? e la mostruosa Poesia si riferisce al passato o al futuro? o ad ambedue, e in questo caso Sagredo immagina una possibilità di continuità (e quindi continuerà anche a scrivere)?
Però sul gelo e sulle prove mostruose credo si agganci un altro tema, quello della forma e della bellezza. Ove occorrerà un altro discorso.
Ho aggiunto nel post ma metto anche qui nello spazio dei commenti la nona delle “Prove mostruose” inviatami nel frattempo da Sagredo. Forse complica la discussione sulla natura della sua poesia e sui problemi che essa pone, ma mai dimenticare che nel parlarne è sempre dai testi che dobbiamo partire.
*
Prove mostruose
(9)
Il suono della Cenere
Ascese a me la parola intatta dai miei fili inconsapevoli e sul palco il canto
e il suono della Cenere smorzato da serrate labbra e orecchie inascoltate.
Al poeta fu detto: non ti basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie!
Nemmeno un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.
Cieche, come tritoni nel calvario di luminose oscurità, le stanze se ne andarono
via da me lentamente battelli in fuga dai moli e dai marosi! Muti gli stendardi.
Non avevo che da stordire i gridi dei gabbiani che invano beccavano il sangue
dei tramonti i rostri pregarono le polene deformi di non sbattere sulle spume.
Come una mazzata disattesa mi crollò quel sangue dal futuro – creature albine
di conoscenza e di fede mi dissero tutto ciò che non ci sconvolse da tutte le disfatte
e le condanne e mi dissero gementi che m’avrebbero restituito gli occhi, ma non
le mie visioni! Ero l’unico sano in un cottolengo di dislocati cerebri!
E non pregavano per coloro che non c’erano, soltanto gli assenti non ci stupirono.
Noi che dovremo in questo secolo di genocidi senza fine ristabilire la dolcezza
e sui moli sorridere ai suoni e ai rintocchi della Cenere, proprio noi gli assassinati
da Dio, dobbiamo scannare gli angeli per definizione come in un alogico assioma
interdetto alla finzione! Il suono – di me – della Rovina – in me dai miei gesti
genera le stazioni degli Ossari avanzi di città noi canteremo non
riconosceremo più i sobborghi dalle macerie, dai suoi fanali arsi di visioni
novembre degli arcobaleni mai è stato il mese dei morti!… è tutto l’anno in un
secolo s’è ristretto come la legge delle visioni arse dagli occhi – e non mi silenzia
il rumore di Dio! Il mio nobile disprezzo per la Storia! Il madrigale s’è oscurato
per la Conoscenza! Oriente e Occidente non hanno più i monistici princìpi! E il suono
della Cenere è crollato come il sangue dalle sorde ottave alle alcove gemens, gemens!
Credevo la Conoscenza una presenza di fedeltà, non una figura o una finzione,
ma è un assassinio, un condursi alla forca o al rogo per soltanto dire andiamo
a morire da Poeti! Si ritrassero le stelle dalla propria luce, l’acqua, il fuoco e l’aria
dalla Terra, e l’uomo dagli dei il Nulla si ritrasse da se stesso, come il Tutto!
Non sono un cinico, disse Ruben, sono assente come una metafora le figure sono
una tortura e non conosco la differenza fra le macerie! Accidia è là dove mi sorprendono
con un Pensiero! Il resto non è nemmeno un delirio o un caos non ho che la mia presenza:
vivo per vivere e non per prepararmi a vivere!
Basta con Dio e gli Dei! Con queste fandonie!… sono questi pastori che generano
stermini: trionfi dei genocidi e delle Ceneri! Vedrete che mattanza questo secolo!
Ci sarà da ridere come in una finzione di cartone, mi diranno solo su un palco è possibile!
La realtà è altra cosa ma i divani sanguinano è ora di finirla con
questa Terra! È una caduta di stile il Tempo! Come il mancato volo della mia Parola!
Al poeta, si disse, non basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie! Nemmeno
un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.
Tento di piantare nel mio giardino un frutteto come Astrov, o come Antonio!
Maruggio/Campomarino, 4/11/15 agosto 2015
(dal 4 agosto in treno Rm-Br)
“Basta con Dio e gli Dei! Con queste fandonie!… sono questi pastori che generano
stermini: trionfi dei genocidi e delle Ceneri! Vedrete che mattanza questo secolo!”
Beh, direi che ci siamo (Isis e quant’altro). Certo è che leggere Sagredo è come entrare in una jungla: bisogna farsi strada, per poi trovare molti frutti e laghetti immacolati… versi lunghi ma nessun cedimento al prosastico, metafore a caterve ( innamorato com’è del futurismo russo, allora la metafora era davvero rivoluzionaria)… insomma, non è una lettura facile, anche perché i rimandi e le citazioni abbondano, il linguaggio non manca di barocchismo e questo non aiuta lo scambio comunicativo.
“Tento di piantare nel mio giardino un frutteto come Astrov, o come Antonio!” non è rinuncia, a me sembra una constatazione obiettiva del ruolo del poeta, e in ogni caso esprime instancabile operatività.
@ Ennio: Sagredo ti ha mandato questa ultima dopo avere letto dei commenti? voglio dire, è una risposta a qualcuno? o è -solo- un interno procedere su una linea di riflessione?
@ Fischer
Non credo che la cosa cambi di molto. Comunque non lo so neppure io.
P.s.
Ricontrollo il commento di Sagredo su L’OMBRA DELLE PAROLE e lo riporto:
antonio sagredo
24 agosto 2015 alle 6:01
Ho intitolato la raccolta – probabilmente le mie ultime poesie – nel gennaio di questo anno 2015 : “Poesie dell’anno zero” (con la variante di una vocale – ancora aperta di “dall’anno” (col sottotitolo “Ulitime poesie mostruose”), intuendo o avendo la sensazione che la Poesia si trova in uno stato o posizione o ruolo di fine-inizio. Il buon Linguaglossa riferisce “che bisogna ricominciare da zero”: e ha ragione!, ma mi perdoni la “mia” precedenza, che tra l’altro ha nel titolo della mia raccolta una testimonianza ufficiale, ma che nella mia storia di uno che “fa versi” data il 1989 e precisamente con i versi delle mie “Legioni”, che significò non solo per me la fine di una epoca della Poesia del ‘900 e il cominciamento di una nuova e che trova nel verso dell’ultima delle 10 Legioni “Narciso, affossa gli specchi e scanna l’angelo” una sorta di manifesto che dichiara la fine di una poiesis, prendendo di mira la figura dell’angelo (e non solo) e di tutti i suoi cantori novecenteschi, cominciando da Rilke in poi! —– Quanto al fatto che il“ Sistema Poesia non è riformabile” ho già risposto.
Antonio Sagredo
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Basta con Dio e gli Dei! Con queste fandonie!… sono questi pastori che generano stermini: trionfi dei genocidi e delle Ceneri! Vedrete che mattanza questo secolo! Ci sarà da ridere come in una finzione di cartone, mi diranno solo su un palco è possibile! La realtà è altra cosa… ma i divani sanguinano… è ora di finirla con
questa Terra! È una caduta di stile il Tempo! Come il mancato volo della mia Parola! Al poeta, si disse, non basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie! Nemmeno un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.
Tento di piantare nel mio giardino un frutteto come Astrov, o come Antonio!
Antonio Sagredo
Maruggio/Campomarino, 4/11/15 agosto 2015
normale procedere
…quest’ultima poesia o “Prova mostruosa” mi sembra nascere dalla totale sfiducia del poeta nei confronti della conoscenza umana, quindi per ogni creatura del Pensiero, comprese, anzi soprattutto, le costruzioni più alte :”Basta con Dio e gli Dei!”Il sacrificio non serve, “…i gradini sono divorati dalle soglie…”, cioè (forse) il tutto sprofonda come una nave attaccata nelle sue radici, il suono della Cenere deila cenere è pervasivo…
Sempre forse, per il poeta solo “un Pensiero vegetale” potrà rinascere sulle ceneri : “Tento di piantare nel mio giardino un frutteto come Astrov, o come Antonio”..
L’ultima poesia, la 9, mi appare come una decodificazione delle precedenti, ove il tratto superomista dell’io si fa più netto: dall’attacco “Ascese a me la parola intatta dai miei fili inconsapevoli e sul palco il canto/e il suono della Cenere”, a un désespoir egoriferito “Come una mazzata disattesa mi crollò quel sangue dal futuro” e “creature albine (cioè senza sangue) di conoscenza e di fede … m’avrebbero restituito gli occhi, ma non le mie visioni”.
I richiami alla religione sono tradizionali: “proprio noi/gli assassinati da Dio” relazione di Dio con Noi in primo e unico piano, un Dio piuttosto privato e ristretto; “Oriente e Occidente non hanno più i monistici princìpi” come se un tempo li avessero avuti e mai idolatrie; ricorre al Nulla e al Tutto per dire invece di stelle, acqua, fuoco e l’umanità sulla terra; e “non conosco la differenza tra le macerie” equivale a “vivo per vivere e non prepararmi a vivere!”.
La visione complessiva è sempre più catastrofica “è ora di finirla con //questa Terra! È una caduta di stile il Tempo! Come il mancato volo della mia Parola!” ove la sua parola vale il Tempo e la Terra.
Ma mi rendo conto che sono MORALISTA! Che ambisco invece a collocare il poeta Sagredo in mezzo agli altri, a noi. Non accetto che egli si separi da tutti, insieme condannandoli al nichilismo come fa con se stesso, o schierandoli tra creature albine o addirittura maschere di gesso e di grassa gelatina.
Mi sembra che lo stesso sdegno sia di Annamaria Locatelli “totale sfiducia del poeta nei confronti della conoscenza umana, quindi per ogni creatura del Pensiero, comprese, anzi soprattutto, le costruzioni più alte”, e anch’io come lei trovo nel richiamo al giardino non solo il ripiegamento di Candide, ma addirittura alla vita vegetale.
E se il mio moralismo fosse una simmetrica schivata del suo, di moralismo?
Oriente-Occidente sono in me presenti fin dall’infanzia, quando avevo 8/9 anni visitai Otranto, la cripta della cattedrale … in tante cose anticipato dal”amato Bene: esperienze similari ci distinguono dagli altri… orfani di un delirio che ci ha tallonato incombente…
…cercando di interpretare il poeta, ma senza sdegno, potrebbe essere che Antonio Sagredo, catastrofico quello sì, immagini l’eruzione di un vesuvio di dimensioni bibliche a seppellire con lava, lapilli e Cenere (le nostre) tutto il pianeta, le sue forme “non degne” di vita e di pensiero…forse da esse, le ceneri, un giorno spunteranno giardini, orti…Ma la prima persona nel verso: “Tento di piantare…” sembra riferirsi ad un compito assunto dallo stesso poeta…La speranza per una seconda vita, vegetale come ai primordi, ma anche contadina affidata alla poesia?
“Ma mi rendo conto che sono MORALISTA! Che ambisco invece a collocare il poeta Sagredo in mezzo agli altri, a noi. Non accetto che egli si separi da tutti, insieme condannandoli al nichilismo come fa con se stesso, o schierandoli tra creature albine o addirittura maschere di gesso e di grassa gelatina.
Mi sembra che lo stesso sdegno sia di Annamaria Locatelli “totale sfiducia del poeta nei confronti della conoscenza umana, quindi per ogni creatura del Pensiero, comprese, anzi soprattutto, le costruzioni più alte”, e anch’io come lei trovo nel richiamo al giardino non solo il ripiegamento di Candide, ma addirittura alla vita vegetale.
E se il mio moralismo fosse una simmetrica schivata del suo, di moralismo?” (Fischer)
Eh, sì. Credo proprio che non si debba contrapporre moralismo ad altro moralismo o immoralismo o amoralismo ( non so quale concetto si adatti meglio alla *postura* del Poeta Sagredo).
Perché non accettare che “egli si separi da tutti” o sdegnarsi? (Tra l’altro gli serve per far poesia, la *sua* poesia; se si sentisse “umano, troppo umano” forse non riuscirebbe più a scriverne e non avrebbe a portata di mano qualcosa con cui sostituirla).
Lui va per la sua strada e noi o ciascuno di noi va per la sua o le sue. Il confronto possibile tra diverse impostazioni non deve comportare tentativi di assimilazione.
E poi il nichilismo ha una nobile tradizione e le sue ragioni. Per contrastarne o indebolirne la presa, quelli che ne diffidano hanno solo da procedere sui terreni che esso esclude e sperare di trovare lì quello che il nichilismo nega ci sia. Ma sappiamo tutti quanto ci muoviamo al buio…
La posizione “moralista” non è psicologismo, è l’abbraccio laico e comunitario che assume una postura scettica verso l’individualismo tragico.
Molto simpaticamente Sagredo risponde con un argomento in cui ironia si somma a reticenza: la visita anni fa alla cripta della cattedrale di Otranto ha reso lui e l’amato Bene “orfani di un delirio che ci ha tallonato incombente”…
Tutte le diffuse analisi su queste sue 9 poesie… che originano in quella esperienza infantile (e nel sud leccese)… ci ha mandato affettuosamente a quel paese, no?
Temo che l’approfondimento sul rapporto tra poesia (e immaginario) e realtà dovrà aspettare ancora.
p.s. non occorre che tu mi suggerisca che la sua postura gli serve per far poesia, io l’ho sempre esplicitamente apprezzata
… e comunque per discutere della poesia e della poetica di Sagredo ( e delle nostre) è sempre bene tener conto del contesto.
Che, ad es. viene ricordato abbastanza bene ( al di là di alcuni punti su cui si potrebbe fare le pulci) da questa breve sintesi di Luciano Canfora:
C’è vita a Sinistra?
Che fare. Tra nuove schiavitù e sfruttamento intellettuale. [Luciano Canfora]
Per scegliere come agire conviene partire dalla conoscenza dei dati di fatto. Eccone alcuni, a mio avviso rilevanti:
a) Sta tornando, anche nel cuore di società ricche, la schiavitù; secondo una stima della Cgil in tale condizione si trovano (ma le stime sono riferite a ciò che è visibile, non al sommerso) già 400.000 esseri umani, in larga parte extracomunitari; il “profitto” se ne giova enormemente.
b) Strettamente connesso è il potere incontrastato dei grandi e meno grandi centri mafiosi equamente diffusi nel pianeta. (Con la vittoria della “libertà” a Mosca, anche Mosca è diventato un epicentro mafioso). Le banche riciclano indisturbate il “denaro sporco”, di cui droga, prostituzione, caporalato, ecc. sono l’alimento. Così l’intreccio tra capitale finanziario e malavita si è compiuto. Nella totale passività e complicità dei poteri politici.
c) Il cosiddetto fenomeno migratorio ha carattere strutturale ed epocale. Ogni trovata mirante a interromperlo (respingimenti, interventi nei luoghi di partenza) è risibile. E’ come voler svuotare il mare col mestolo. L’Occidente – fabbricanti di armi sempre pronti a commuoversi, interventi imperiali in Irak, Siria, Libia ecc. – ha creato i disastri, una cui conseguenza è tale migrazione di popoli.
d) La mutazione della Cina in paese ipercapitalistico a carattere nazionalsocialista ha chiuso il ciclo novecentesco del “socialismo”.
e) La fine del movimento comunista ha comportato anche il declino delle socialdemocrazie.
f) Il meccanismo elettorale pluripartitico (caratteristica e vanto dell’Occidente) è defunto. Ciò grazie a dinamiche liberticide irreversibili: delega dei poteri decisionali a strutture tecniche non elettive, e per di più massiccia introduzione di sistemi elettorali di tipo maggioritario. Il de profundis è stato il formale misconoscimento della volontà espressa dal referendum greco di luglio da parte dello stesso governo che lo aveva indetto. Ciò, per ordine e ricatto di una entità priva di qualunque legittimazione elettorale quale l’Eurogruppo.
k) Nell’epoca del dominio mondiale del capitale finanziario, “il nemico” è quasi invisibile.
(26 agosto 2015)
(da http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=123199&typeb=0&c-e-vita-a-sinistra-)
terrificante freddante. l’umiliazione voi non la sentite? la rabbia inevitabile.
Sono prove davvero ‘mostruose’ quelle alle quali il lettore viene chiamato nell’accostarsi a “Poesie dall’anno zero” di A. Sagredo, il quale vuole *costruire una Poesia più mostruosa della mostruosità che mi circonda*, e dove io interpreto ‘mostruoso’ nella accezione di ‘monstrum’, prodigioso avvertimento.
D’altra parte questa caratteristica di ‘monstrum’, il prodigioso, è stata la cifra del poetare di A. Sagredo, perlomeno quello che ho potuto conoscere attraverso le segnalazioni di Ennio Abate. Un poetare i cui versi affascinano per la loro forma, aliena da qualsivoglia costrizione, l’uso di un linguaggio immaginifico che costringe il reale ad adattarvisi – un esempio per tutti * le ossa forzavano il midollo ad un zigzagare/e a precipizio nei labirinti scorrevano i gridi angolari dei corvi/ e delle cornacchie.* – e, nello stesso tempo, impegnano chi le legge – come è giusto che sia – nel dare una articolazione al loro senso.
Annamaria, nel suo commento, ci suggerisce che si tratta della *Poesia che arriva a combattere il nemico con le sue stesse armi, da guerriera disposta a morire sulle barricate per difendere un’umanità in via di estinzione*.
Il fatto è che le cosiddette *armi del nemico* sono diventate così distruttive da paralizzare ogni elemento di vitalità. Mentre la Poesia dovrebbe vitalizzare gli elementi che tocca.
Scrive Sagredo in Prova n. 8: * E dopo il gelo, che saremo? Chi di noi sarà come prima, mostruosa Poesia !*
Come si potranno recuperare le specificità della Poesia a partire dall’anno zero?
La poesia, come il sogno, è il regno del paradosso. Mayoor così commenta di Sagredo: *Poesia per sguardi sconfinati, non rivolti all’orizzonte ma alla totalità del tempo che accerchia*, paradosso legato alla contraddizione tra lo sconfinamento dello sguardo e un accerchiamento del tempo.
* Inconsapevoli in un qualcosa da cui nascemmo: senza una fine e un principio!*: così scrive A. Sagredo.
La poesia accompagna la conflittualità (non la risolve).
* La realtà è altra cosa ma i divani sanguinano*
Il sanguinamento sembra legato al dibattersi del poeta tra inquiete domande, frammenti di esperienze dolorose e destrutturanti storie personali:
*Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri… (Prova n. 8)*
*Perché dovrei dividere col mondo la mia nascita dalle parole?
Cosa nasconde il mio cervello che io non debba mai sapere?
E perché quella materia che mi oscura si tiene all’ombra?* (Prova n. 3)
Le sconvolgenti relazioni con l’altro da sé, la diversità dei linguaggi, le illusioni tutto si addensa attorno ad una realtà che si palesa e poi sfugge.
*E lei, Marina, col rosario di una corda intorno al collo,: Io che non so quel che vivo, io non so quel che muoio, quel deperire lento che è l’essere svegli dormendo!/ Celebravo questo mondo coi versi miei, ma non è eguale a me! – mi dicevo.* (Prova n. 3)
*Canzoni, venite a placarmi questo caos del tempo come allora!… e tu giocavi alla crocefissione… ah, Cristo ’63! Un finto aborto, come la pietà Rondanini… la destra mano incapace d’inchiodarsi… disperazione europea!… femmina da bivio, trivio e quadrivio! Le scorregge notturne non sono gradite! Veronica: rovina mundi!* (Prova n. 2)
Ma *la realtà è altra cosa*, ribadisce A. Sagredo.
Allora in quale modo la ‘canzone poetica’ può venire (e se può venire) in ausilio?
La domanda che oggi ci si potrebbe porre non sarebbe allora “qual è la realtà di cui deve trattare la poesia?” bensì come ci si può accostare ad essa realtà?
In modo “romantico/classico oppure ermetico/storico” come immagina Ennio *per affrontare la crisi o questa “fine-inizio”? Oppure meramente ‘descrittivo’?
Ma gli aspetti descrittivi sulla realtà ci hanno già ampiamente sconvolto le viscere senza raggiungere un bel niente: quell’*occhio basedowico un guercio e sinistro Oriente…* lo conosciamo già, così come *l’umanità si giocano squartando il cuore del mattatoio!* (Prova n. 1).
Analogamente, per il poeta, lo sguardo sulla realtà – e sulla poesia che ne è il compagno seduttore e sedotto – è stato fonte di amara delusione: *sugli altari increduli di noi resteranno glorie declassate, tabule rase, apocalissi di pensiero, orienti e occidenti: spazi scellerati, paradisi infernali… aurore e/tramonti non ci saranno più* (Prova n. 4)
Infatti sembra che la poesia di Sagredo voglia preconizzare la fine dello sguardo, quello sguardo che in questi ultimi tempi è diventato il motore della seduzione portando all’estremo eccesso narcisistico quel bisogno dello sguardo altrui che fa emergere la nostra esistenza al mondo e nello stesso tempo ci spoglia di un nostro privato.
Sappiamo che la realtà non la possiamo cogliere.
Allora qual è dunque la ‘mostruosa realtà’ del poeta alla quale egli vuol far corrispondere una poesia ancora più mostruosa?
Un ‘mostruoso’ (= monstrum) che certamente ha a che vedere con il ‘fascinans et tremendum’, che quindi contempla la bellezza che è nelle stesso tempo orrore (oltre che a venire poi tramutata in orrore tout court). Che implichi soprattutto lo sguardo, perchè sappiamo quanto l’occhio, il vedere abbiano una indubbia potenzialità di impatto e modificazione del reale.
In definitiva, dunque, il ‘monstrum’ riguarderebbe una realtà che non si lascia cogliere e quindi il modo in cui ci possiamo rapportare ad essa?
Queste implicazioni di ambiguità, di sguardo, di pietrificazione non possono non farci venire in mente il mito della Gorgone Medusa, la sua mostruosità, il suo sguardo che pietrifica chiunque lo incroci. (1)
Guardare negli occhi Medusa provoca una metamorfosi nel soggetto guardante, una rinuncia e una perdita di sé, un trasformarsi in pietra insensibile. Fissare la Medusa, e, per traslato, immergersi troppo nella realtà, significa farsi invadere, penetrare dalla figura che sta di fronte. Diventare ‘la cosa stessa’.
Una realtà ‘medusizzata’, resa solo mostruosa, non può comunicare con lo sguardo o essere osservata, né tantomeno può cercare lo sguardo altrui: ogni tentativo di contatto è destinato a naufragare nella pietrificazione dell’artista.
Ma la ‘Medusa’ con cui entra in contatto A. Sagredo non è quella romantica di P.B. Shelley, cioè la Medusa di Leonardo da Vinci (2), corrispondente ad una realtà che si può cogliere ‘di sorpresa’, quand’essa è ‘dormiente’.
Piuttosto, pensando alle sue parole sulla Conoscenza (*Credevo la Conoscenza una presenza di fedeltà, non una figura o una finzione*), si avvicinerebbe di più a quel potere dell’artista, in grado di dominare il reale attraverso la propria opera, come si evidenzia meglio nell’opera di Benvenuto Cellini, Perseo e la Medusa decapitata.
Se da Oriente a Occidente non ci sono più luoghi con i quali il poeta possa interagire con la sua forma poetica – Solo sangue…divani sanguinano -, lo sforzo del poeta, come vediamo in A. Sagredo, sarebbe quello di ‘cantare’ la follia, il delirio del mondo senza diventare deliranti.
Attaccare gli Dei, come Diomede, senza venirne distrutti.
Quindi l’assalto all’ultimo ‘mostro’: Dio e gli Dei corruttori di speranze.
*e non mi silenzia/il rumore di Dio! Il mio nobile disprezzo per la Storia! Il madrigale s’è oscurato/per la Conoscenza! Oriente e Occidente non hanno più i monistici princìpi* (Prova n. 9)
Ma non vedo in questo un nichilismo, o, come scrive Cristiana, un *nichilismo come troppo pieno, l’esaurito, l’oscurità che confonde*.
*Noi che dovremo in questo secolo di genocidi senza fine ristabilire la dolcezza*
*Basta con Dio e gli Dei! Con queste fandonie* (Prova n. 9)
Non c’è Dio: quale blasfemia ! (* ma il concetto di blasfemia si ribellò al verso iniziale* Prove n. 2).
Allora non possiamo che aspettarci scene apocalittiche fra cui la punizione data alla blasfemia dell’Olandese Volante, condannato a girare a vuoto per i mari procellosi con il suo Vascello fantasma e a non toccare mai la terra, ovvero la ‘realtà’, detto fuor di metafora. Come a me hanno suggerito questi versi – che per Sagredo avranno naturalmente altro significato:
*non poteva traghettare il proprio corpo evanescente che si sbriciolava davanti ai furori delle/braci… negli occhi-uncini di Diomede! – il panico si sciolse in sogni speranzosi: tornare, forse?! – ma il battello andava, errante… sulla riva le orme erranti degli sguardi sbigottiti!//e la marina… ondosa di sessi vaganti… di risacche – di gemiti!, e sfinimenti… arenosi.* (Prova n.8)
Oppure, in un altro ‘attacco al cielo’: *La realtà è altra cosa ma i divani sanguinano è ora di finirla con //questa Terra! È una caduta di stile il Tempo! Come il mancato volo della mia/ Parola!* (Prova n. 9).
Una Parola-sfida che come Ulisse, con il suo folle volo, si è mostrata perdente.
E’ che il Mito ci presenta la terza possibilità e cioè di guardare la Gorgone né direttamente né cogliendola nel sonno ma attraverso uno sguardo riflesso, il filtro dello specchio di Athena.
Questa è anche la specificità della poesia di godere del doppio registro dello sguardo diretto, personale, e quello mediato, riflesso, della storia propria e della storia altrui.
Note:
(1) Da Apollodoro e da Ovidio, si narra di Medusa la giovane Gorgone, affascinante, desiderosa di rivaleggiare su questo piano con le dee più belle (cfr. Apollodoro, II, 4, 3 e Ovidio, Metamorfosi, IV, 795 s.). Fu punita da Athena in quanto giacque con il Dio Poseidone (divinità ctonia) nel tempio a lei dedicato. A seguito di questo affronto la Dea trasformò la bellissima Gorgone in un volto orrendo, dalla testa piena di serpi e dallo sguardo mortale che pietrificava chiunque si trovasse ad incrociarlo. Perseo, per evitare la frontalità di quello sguardo e poter tagliarle la testa, utilizzò uno specchio datogli da Athena, da dove poteva scorgere la Gorgone riflessa e orientare i suoi movimenti a partire da quel rispecchiamento.
– Dante Alighieri nel IX canto dell’Inferno (51-57) si esprime così: “Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso: che se il Gorgon si mostra, e tu il vedessi, nulla sarebbe del tornar mai suso”.
– Al di là del senso freudiano che aveva fatto di Medusa l’espressione dell’orrore della castrazione, ella rappresenta anche l’orror vacui, il contatto con la morte che pietrifica l’osservatore. E, anche, il terrore del caos, lo smarrimento di fronte al non-senso.
– Ma anche la sfida alla ‘sapienza’ e ‘ragione’ (cioè alla Dea Athena) per affidarsi completamente alle forze del profondo (Poseidone). Che è ciò a cui aspira l’arte (poeta compreso): porsi fuori dall’umano – Medusa era la sola Gorgone ad essere mortale – per accedere all’arcano.
(2) Nel 1819 Shelley vide per la prima volta il quadro della Medusa (1598) negli Uffizi di Firenze e, di fronte a tanto pietrificante orrore, intravide “la tempestosa leggiadria del terrore” da cui si sprigiona il fascino di tutto ciò che contiene in sé un difetto, una bellezza tormentata e contaminata: il bello meduseo dove l’orrore e la bellezza si incontrano nella sfera del divino.
In quella visione romantica, nel suo “Sulla Medusa di Leonardo da Vinci”, dello stesso anno, veniva sostenuta la non pericolosità del mostro. Il poeta sosteneva che la “grazia del terrore” che la contraddistingueva si poteva incontrare solo ad occhi chiusi, impalpabile ed incorporea come le visioni notturne.
R.S.
“Beh, direi che ci siamo (Isis e quant’altro)” [Mayoor];
già da tanto tempo sapevo…… :
————————————————
da: > Europa!Europa!
” A oriente, in direzione obliqua, una massa
d’uomini ogni tanto fa rivolte:
una libertà strana, vera che sussulta
poi si calma e pare morta.” (1970)
—
Io voglio un cielo… di sangue!
Più rosso di tutte le aurore e le rugiade d’oriente!
Oceani d’argento
universi d’argento
finte lune come le nostre vite
(1976)
———
Oriente…
Occidente…
carcasse senza coda né testa!
Io mi canto il serpente e lo specchio!
(1980)
—-
Accendo caroselli e feste di giada,
specchi, destini, rughe!
Oriente, occidente…
Carcasse!
(1980)
————————
X variante
L’oriente scivolava sulla pagina
e dileguava ripreso dalla rotazione,
come figura di un testo geologico
tu stesso scatenando l’occidente.
(1981)
———————-
E non domandarmi:”la morte è questa
occhiata fissa ai tuoi cortili?”. Ora è scritto,
memoria, che i cani a oriente sgozzano
per crociate infanti stragi stendardi.
Poi sei venuta, tu, con umidi progetti a salmodiare ossa,
come una donna dissestata dalle notti e dai convegni,
a consultare piaceri o passioni sulla soglia
dove io rabbrividisco – senza carne! – contro il tuo respiro.
(1997)
——
Nutrivo di radici immaginarie le brughiere,
i miei occhi infanti, di pietra!, sono esplosi,
esplosi i vessilli su torri saracene!
Io, 12 enne: Padre mio, quando ritorna Oriente?
(2003)
——-
ecc. ecc.
Ciao Caro Antonio, Caro amico d’infanzia, Fratello lontano ma sempre “accanto…”
ho letto con curiosità e divertimento queste valutazioni che riguardano le esternazioni della sensibilità che ti appartiene, custode di un passato trasmesso, di uno respirato nella tua infanzia e adolescenza e di un “duro” presente che prevede un futuro inquietante…Altro te lo dirò personalmente…
Ma non riesco a trattenermi dallo scriverti…:”Ma a questi nomi”altisonanti” della poesia…forse è sfuggito che, probabilmente, potrebbero aver interpretato cose che non erano nei tuoi pensieri?…
@ Favetto
Qui siamo tutti “bassisonanti” e se, come lettori, interpretiamo cose che non erano nei pensieri di Antonio è perché non siamo pigri. E poi si ricordi la poesia è – “altisonanti” adesso! – *polisemica*.
E infine: Antonio è anche per noi un “fratello lontano”.
Lontanissimo… perché non siete pigri.
…lontano…lontanissimo…ma siamo tutti sullo stesso pianeta