di Lucio Mayoor Tosi
Riporto in evidenza il commento lasciato da Lucio qui. [E. A.]
Tre mesi fa è morto un mio vecchio amico, è morto al Sacco di Milano. Aveva trascorso gli ultimi due anni della sua vita tra i senza tetto, era uno di loro. Vendeva i suoi disegni in via Madonnina, a Brera. Era un bravissimo artista ma gli è andato tutto storto. Sapeva come me la passavo, così si preoccupava di istruirmi: di fame oggi non si muore, diceva. Il problema è la notte, e quando fa freddo. Ti rubano le scarpe e ti ammali. Era certo che prima o poi l’avrei raggiunto. Ci sono stati giorni in cui ne ridevamo. Però io avevo ancora sigarette e potevo anche offrire da bere. Poi è andata com’è andata: lui se n’è andato e io mi sono ripreso un po’. Poco tempo prima ero finito a San Vittore, per una scemenza, e anche lì ho familiarizzato con i detenuti. Se dico che sono uno di loro so quel che dico. C’è di peggio? Sì sì, ma dove sta la differenza, nei numeri?
Kalì.
Mi disse che la vita nelle carceri deve essere scomoda, ben al di sotto del più basso livello di chi sta fuori. Altrimenti ci verrebbero tutti, mi disse.
Ma io ciondolavo appeso alle mie idee, già nel futuro, stringendo nel pugno il cartiglio delle mie condanne al recupero.
Avveniva nel bianco salone espositivo di una mostra dedicata alle spose insanguinate, idee per un mondo impoverito dalle certezze.
Il pachiderma passò sfrugugliando le sue sentenze, schiacciando il bianco delle cornee a chi lo guardava e mostrando
l’immenso suo fondoschiena, un baule di carta tricolore dove il bianco si perdeva, tra il rosso delle ferite e il verde militare.
Avevo creato una figurina povera, povera dalla nascita: Tamara Lopez, un nome da film Hollywoodiano sul Bronx
di Cinisello Balsamo; condannata per furto, recidiva, e per oltraggio alle forze dell’ordine. Tutto per una bottiglia di Deutz
che non era riuscita a vendere. La pena sarebbe stata piuttosto semplice: ogni mattina, fuori dal carcere
uno chauffeur con limousine l’avrebbe portata a fare compere lungo le vie del centro: per darle quel che desiderava, una specie di risarcimento.
Poteva fare acquisti, che poi, a sua insaputa, sarebbero stati restituiti. Pomeriggio in sauna, con i serial killer.
Son trascorsi due anni. Non fosse arrivato quel pachiderma, oggi Tamara sarebbe fuori e vivrebbe col vitalizio
messo a disposizione dalle Belle Arti, che nel mio cartiglio avrebbero il compito di occuparsi di ogni cosa riguardi la bellezza.
Bellezza e ricchezza sono signorine dell’alta società, un po’ puttanelle, più volte divorziate, praticamente zitelle.
Ma non rubano, disse il pachiderma.
Bellezza forse no, ma che mi dite di Ricchezza? Quella, se le conviene, è disposta ad ammazzarvi!
A lasciar morire, disse lui. Non è reato, non è come una mancanza di soccorso. E poi dei ricchi si ha bisogno, se no
come farebbero i poveri a tirare avanti?
A questo non avevo pensato. Io sono un artista, mi occupo di quel che è bene. A far del male pensate voi.
Ho trascorso una notte in carcere. Non per avergli detto questo, ma per aver coltivato alcune piantine di marijuana sul balcone.
Mancava poco a Natale e volevo farne dei regali, per gli amici più cari. Ma l’avvocato mi proibì di dirlo.
Dì che le hai coltivate per uso personale. Sembrava che tutti sapessero la verità e quasi ne ridevano. Avran capito
che non sono uno spacciatore, pensai. Ho la fedina pulita, sono nato innocente. Scrivo ancora poesie,
ragni e formiche li porto fuori, anche se aprendo la finestra, per una che esce dieci ne entrano. Io non ammazzo.
Per niente facile.
Un tempo avevo cento braccia.
…con queste facce
di cartapecora,
una mano allungata,
appoggiata la vecchiaia ai bastoni
-parenti te li sogni-
marroni tabarri e visi,
noi uomini dai copricapi…Che avete da guardarci?
Voi dell’altra
alta, altissima parte…immacolati?
Vi piacciono i nostri colori
rosicchiati al tempo ingrato o in gattabuia?
Sì, abbiamo anche rubato
e lo vedete quanto,
gli abiti stupendi, la magnifica dimora.
Ma diteci di voi…
Non mettetevi comodi,
siam caporali, ministri, generali,
non potremmo sporcarci le mani
con furti e ammazzamenti,
certo comandarli, perchè no?
salviamo inanzitutto le anime belle…
E lasciar morire, poi
è savia cosa.
Non lo fa anche dio sulle strade e negli ospedali?
Siamo ammirati, pluridecorati
vincenti insomma
E lasciar morire poi
è savia cosa
non lo fa anche dio sulle strade e negli ospedali?
Siam ammirati, pluridecorati
vincenti insomma.
Se volete, potete sognarci…
Mi è piaciuta molto questa poesia che è riuscita a includere anche la parte pittorica in quella specie di dialogo visivo-poetico, tipico di Mayoor.
Un bell’omaggio!
Rita
…ti ringrazio, Rita, per il sorriso e Mayoor per l’abbraccio…
…scusate, alla fine ho ripetuto gli stessi versi..
Il noi porta inevitabilmente al voi. Come non capire che manca un elemento essenziale? Nemmeno Majakovskij dedicò tanti versi al noi, eppure aveva un grande progetto da inseguire…
…eppure c’è un io nascosto e ripiegato…realtà e soggettività non si incontrano? Sarà per quando rinasco poeta…Per me un progetto, non certo grande, è quello di continuare a vivere e penso che valga anche per te se dici: “…e io mi sono ripreso un po'”
Ma certo, Annamaria. Ti abbraccio.
Nell’abbraccio l’io scompare… se è un abbraccio vero. Ma è vero anche quando confonde. Quante cose abbiamo ancora da dire, e da scrivere!
Aiutatemi: voglio liberarmi di Philip Dick (letto per la prima volta quest’anno); mi piace troppo, ma mi porta a scrivere in prosa. Devo liberarmene!
“Il mondo è orribile” Sì, mi dissi mentre correvo sul Bay Bridge infischiandomene nella maniera più totale della velocità che tenevo, questo dice tutto. E’ arte somma: il mondo è orribile. Una summa perfetta. E’ per questo che paghiamo compositori e pittori e grandi scrittori: perché ce lo dicano. Si guadagnano da vivere grazie al fatto di essere arrivati a questa consapevolezza. Quale comprensione geniale, incisiva. Quale penetrante intelligenza. Un topo di fogna potrebbe dirti la stessa cosa, se sapesse parlare. Se i topi sapessero parlare, io farei tutto quello che dicono. ”
(PKDick)