di Luciano Aguzzi
Pubblico l’appassionata e approfondita relazione sulla poesia di Eugenio Grandinetti, amico e spesso ospite del sito di Poliscritture, che Luciano Aguzzi ha preparato (e solo in parte riferito) per la la serata in suo onore (23 settembre 2015) coordinata da Giuseppe Deiana al Centro Puecher di Milano.[E.A.]
Parlare di un poeta vivente, in sua presenza, da amico e fra amici, potrebbe porre qualche problema imbarazzante. Imbarazzante per l’oratore che non volesse limitarsi a un omaggio all’amico e al poeta, a una esposizione estrinseca e a una valutazione in cui cogliere solo gli aspetti più superficiali e positivi. Che vorrebbe invece cogliere l’occasione per una lettura della poesia più approfondita, nei suoi contenuti anche intimi, perché sempre la poesia ci parla dell’autore, dei suoi pensieri più palesi ma anche dei più riposti e ne mette a nudo l’animo e le sue segrete stanze. Che ne vorrebbe inoltre esaminare anche la qualità letteraria, sia nei suoi momenti più alti, più riusciti, ma anche in quelli più deboli, e cercare di capire, di entrambi, le linee di composizione, le coerenze, i perché.
Tuttavia è un imbarazzo da vincere, per avvicinarsi di più alla verità di contenuti: pensieri, sentimenti, momenti autobiografici, valori estetici, coerenze e contraddizioni. Alla verità, insomma, che la poesia ci comunica, al di là, talvolta, delle stesse intenzioni coscienti dell’autore. Verità soggettiva, naturalmente, che, proprio come la poesia è la verità soggettiva del poeta, si presenta come costruzione soggettiva del lettore, come interpretazione mimetica e parallela di quella stessa poesia.
Soggettiva e, va da sé, parziale e sottoposta al rischio dell’errore.
Vorrei infatti prescindere, per quanto possibile, dal rapporto di amicizia, di stima e di affetto, per leggere la poesia di Grandinetti, e gli stessi risvolti biografici che in essa si rivelano o che ad essa sono collegati, con criteri ermeneutici il più possibile oggettivi, così come si legge la poesia di poeti che non si conoscono personalmente o dei classici.
Con questo non voglio mettere da parte l’amicizia, ma anzi valorizzarla, perché l’amicizia comporta l’omaggio e l’accettazione dell’amico nell’insieme della sua personalità, ma anche il coraggio e la confidenza di dirsi, reciprocamente, il vero, compresi quei veri crudeli e inusitati che Grandinetti, riecheggiando in questo concetto Giacomo Leopardi, presenta nelle sue poesie.
Nella sua raccolta I nodi, edita parzialmente online nel sito Poliscritture, si legge una poesia intitolata proprio «Inusitati veri», che dice:
Ora lo so che inusitati veri
sono in agguato dietro le parole
che s’assiepano informi lungo gli argini
instabili della vita.
E i veri che cercammo, quelli ch’erano
razionali o almeno ragionevoli
erano suoni d’eco e si perdevano
come fumo nell’aria senza vento.
Le parole non comunicano mai un messaggio chiaro, non per cattiva volontà del parlante, ma per la natura stessa della comunicazione. Nella quale, ciò che è chiaro per chi parla, quasi mai viene recepito come chiaro da chi ascolta. Le parole tendono agguati, costruiscono immagini che sono fantasmi, sono avvolte dalla nebbia, si sgretolano in sillabe e perdono significato, seguono un loro viaggio di cui non sempre si comprende la ragione e la destinazione.
Questa, della parola e della incomunicabilità, o estrema difficoltà nel comunicare, è un tema ricorrente nella poesia di Grandinetti. Il termine «parola» è usato spessissimo, come il termine «nebbia» e altri che suggeriscono la difficoltà di intendersi, di capirsi, di concordare, di farsi amici e fratelli. Grandinetti, quindi, dà già per scontato che il rapporto fra gli individui è pieno di equivoci, di malintesi, di finzioni, di apparenze, di tratti inutili e sterili.
Spero che il mio discorso non accresca questa sua convinzione.
1. 40 anni di poesia.
Innanzitutto cerchiamo di capire di che cosa stiamo parlando.
L’argomento del discorso è la poesia di Grandinetti, racchiusa – temporalmente e materialmente racchiusa, direi – in quarant’anni di scrittura poetica che ha prodotto oltre quaranta raccolte, volumi, il che vuol dire, a occhio e croce, qualcosa come 3.500/4.000 poesie, da quelle brevissime di quattro o cinque versi, che potremmo definire epigrammi, nel senso classico del termine, a quelle più lunghe, talvolta di diverse pagine, che potremmo definire poemetti o canzoni in senso leopardiano.
Forse nemmeno Grandinetti conosce il numero esatto delle raccolte scritte. Io, mettendo insieme i titoli delle raccolte che possiedo in formato cartaceo, di quelle che possiedo in formato digitale, come file di documento, di quelle che ho letto in Internet, pubblicate parzialmente in diversi siti, di quelle che non ho mai visto ma che ho trovato citate, sono arrivato a 43 titoli. Ma probabilmente ne esistono altre che Eugenio Grandinetti non ha ancora mai comunicato, nemmeno per estratti, oppure, se l’ha fatto, non me n’è arrivata notizia.
E si tratta solo di poesia adulta, scritta fra il 1973 circa e oggi. Grandinetti mi ha dichiarato, in una conversazione privata, di avere distrutto o perduto tutto ciò che aveva scritto prima, che vuol dire tutte le poesie scritte da ragazzo, da giovane e da adulto fino ai 42 anni circa. Su questo problema egli stesso racconta, nella «Premessa» al suo ultimo libro uscito poche settimane fa col titolo La Gabbia della Luna:
«Io scrivo versi da sempre, ma i versi puerili e quelli adolescenziali ed anche quelli della giovinezza, se non si sono perduti in occasione del mio trasferimento dalla Calabria a Milano, li ho distrutti o ho cercato comunque di dimenticarli perché rappresentavano un periodo molto triste della vita. […] Nell’età adulta il lavoro e lo studio mi hanno tenuto molto impegnato ed inoltre l’attività politica, mediante la quale pensavo di poter modificare l’organizzazione sociale attraverso la modificazione della scuola, che era il campo dove io operavo, mi ha distolto dall’attività poetica.
Scuola e società poi si sono modificate ma per altre spinte e in tutt’altra direzione da come io avrei voluto, ed allora a partire grosso modo dalla metà degli anni settanta del secolo scorso, sono tornato a scrivere versi, senza rinunziare alla visione utopistica di una società di uguali».
In questo squarcio autobiografico troviamo i segni di molteplici ferite che ritornano nella poesia di Grandinetti, come motivi di fondo, direi anzi come ossessioni che spingono alla ripetizione e variazione continua di temi che ora assumono la sentenziosità di un pensiero filosofico, ora la vibrazione malinconica e disperata del sentimento.
C’è dunque un periodo molto triste della vita di Grandinetti, di cui egli preferisce non ricordare e non scrivere (anche se poi, come vedremo, qualcosa trapela qua e là); c’è poi un periodo di impegno politico e culturale che lo ha lasciato deluso; come conseguenza si apre un terzo periodo in cui riprende a scrivere versi, affidando a questi le esperienze, i pensieri, le amarezze, le delusioni, le speranze della sua vita. Una poesia adulta, pertanto, che da un lato non ci permette più, per mancanza dei documenti precedenti, di ricostruire, se non a grandissime linee, la graduale evoluzione e trasformazione della sua poetica, dall’altro è, in un certo senso, una poesia sostitutiva di altre forme di attività, una poesia che, esistenzialisticamente, possiamo definire di ripiego.
In questa poesia adulta troviamo quindi ciò che Grandinetti è diventato attraverso le esperienze dei primi quarant’anni di vita, e ciò che di nuovo ha maturato; insieme a ciò che della vita precedente ha voluto conservare, in forma di ricordi, di memoria, di immagini, di fantasmi del passato, di sentimenti e desideri che talvolta ritornano, non più veramente vivi, ma come residuo che resiste alla cancellazione.
Nella stessa «Premessa» citata giustifica il fatto di non avere messo un titolo alle poesie di quella raccolta, con questa affermazione:
«Mi pareva che non fossero ognuna un discorso compiuto ma che tutte insieme facessero parte di un discorso comune tendente a rappresentare la realtà come frutto di una grande, inquieta solitudine».
Ciò che dice per questa raccolta, vale, a mio parere, per tutta la sua produzione, che con titoli o senza che sia, tende tutta «a rappresentare la realtà come frutto di una grande, inquieta solitudine».
La parola «solitudine» è un altro fra i termini più usati da Grandinetti.
***
Tutta questa enorme produzione poetica che è spesso di alta qualità, di alto livello letterario, purtroppo è poco conosciuta e non è mai stata presa in considerazione dai critici letterari professionisti. Le ragioni possono essere tante, ma la prima è indubbiamente il fatto che Grandinetti stesso sembra non avere mai creduto veramente nella possibilità e nell’importanza di diffondere più largamente la sua poesia. Come egli stesso afferma in alcuni interventi inseriti in un blog di poesia, non ha mai voluto piegarsi alla commercializzazione editoriale, alla competizione per emergere, alla ricerca di aiuti, occasioni e raccomandazioni.
Egli, disgustato del mondo, sia in senso lato, esistenziale e filosofico, sia in senso politico e sociale, ha preferito piuttosto ripiegarsi su se stesso e rinunciare, che dedicarsi ad una battaglia forse ritenuta inutile e perduta in partenza.
Nella sua poesia trapela una contraddizione, che è quella fra lo scrivere per comunicare e la scarsa fiducia che ha nella comunicazione e nella disponibilità della società a recepire il suo messaggio e la sua poesia. Questo dà alla sua poesia quasi il senso di un messaggio in una bottiglia, affidato alle onde, cioè a circostanze non certo favorevoli perché il messaggio giunga al lettore.
Non so esattamente quando Grandinetti inizia a far circolare le poesie che scrive da anni. Nelle mie mani arriva, ai primi di gennaio 1993, la sua raccolta Dal Sud dell’anima, confezionata da lui stesso in poche copie, con le pagine stampate con una stampante ad aghi e rilegate a libro. Questa è la prima forma in cui dà veste pubblica – a un pubblico molto ristretto – di una quindicina di raccolte, ciascuna confezionata in dieci/quindici copie.
In parallelo legge pubblicamente alcune poesie in circoli di lettura di poesie. Ma si tratta pur sempre di una circolazione molto ristretta, che non ha ancora le caratteristiche della pubblicazione vera e propria.
Il primo volume a stampa lo realizza nel giugno 2001, con la raccolta La liturgia del dolore, pubblicato da Lineacultura, piccola sigla editoriale milanese. Si tratta in realtà di una scelta parziale della raccolta con quel titolo, perché la pubblicazione, gratuita, come premio assegnato a un concorso di poesia, non deve superare un limitato numero di pagine. Si tratta di un’edizione commercio, di duecento esemplari.
Nel 2005, 2007 e 2013 pubblica, sempre in edizioni fuori commercio, stampate da Barbie, un tipografo di Cosenza legato a Eugenio da un rapporto di parentela e amicizia, tre raccolte più sostanziose, con i titoli Il grande fiume, Malesseri e inquietudini, Alla rinfusa.
Solo in tempi più recenti pubblica altre tre raccolte, avvalendosi dell’ormai diffusa editoria detta di autoproduzione, in cui l’editore fornisce solo la stampa, la collocazione in vendita e il codice ISBN, ma non servizi editoriali veri e propri, limitandosi a stampare il file inviato dall’autore, senza nessuna operazione di editing e in una grafica a basso costo. In questa forma escono i titoli Calabria nei miei pensieri (Youcanprint) e Viaggi (Ilmiolibro) nel 2014, e il nuovo, La Gabbia della Luna, nel 2015 (Youcanprint).
Questi ultimi tre libri possono essere acquistati, o attraverso ordinazioni direttamente in Internet o attraverso qualcuna delle maggiori librerie che possono procurarseli, su richiesta, nel giro di un paio di settimane. Ma non sono però immediatamente reperibili in libreria, perché la stampa di un numero ridotto di coppie non permette la normale distribuzione cartacea come per i libri degli editori di maggior peso.
Quindi, in totale, Grandinetti ha pubblicato sette raccolte di poesie, ma tutte in modo tale da garantirgli una maggiore diffusione fra amici e conoscenti, ma non un’effettiva circolazione al di là di questa cerchia e l’attenzione dei critici letterari.
Fra i lettori forti di poesia, inoltre, Grandinetti ha diffuso altri gruppi di sue poesie pubblicandoli su alcune riviste e su alcuni siti in Internet. In questo modo, indubbiamente, la sua poesia è entrata nel giro ristretto degli appassionati di poesia che frequentano i blog dedicati a essa, acquistandosi estimatori e amici. La risposta dei lettori – di questi lettori come di quella degli uditori nelle letture pubbliche – è stata in genere molto positiva.
E mi auguro che il favore cresca gradualmente fino ad arrivare alla stampa e all’editoria della circolazione maggiore. E mi auguro anche che possano vedere la luce, in forma di libro, le altre molte raccolte che per il momento restano inedite.
2. Dalla poesia alla biografia
Percorrere la folta produzione poetica di Grandinetti è da un lato difficile, perché cospicua per la mole e per la densità di pensiero, ma dall’altro facile, perché i temi di fondo sono sempre gli stessi. Nelle poche righe premesse al volume Alla rinfusa egli stesso afferma:
«È possibile trovare nella raccolta poesie basate su concetti ripetuti e addirittura espressi con frasi e con parole simili». Infatti, alcuni temi sono trattati in centinaia di poesie, ognuna delle quali presenta delle varianti, un’infinità ricchissima di varianti, in cui il concetto o il sentimento di fondo si coniuga di volta in volta in circostanze, atteggiamenti psicologici, paragoni, metafore diversi, con un arricchimento che nasce da una continua e quotidiana esplorazione di se stesso e del suo mondo.
Si potrebbe dire, senza sbagliare di molto, che basta prendere una diecina di poesie a caso, qua e là, per rintracciare, con la loro lettura e interpretazione, lo schema di fondo della poesia di Grandinetti. Ma lo schema, naturalmente, non potrebbe restituirci tutta la ricchezza che si ha nella serie lunghissima di variazioni del tema.
Fra le molte metafore che Grandinetti usa per indicare il percorso della vita degli individui, e quindi sua, torna con insistenza quella del viaggio e quella della navigazione. Leggiamo pertanto una sua poesia a p. 59 di La Gabbia della Luna:
E continuiamo ancora a fare il punto
senza renderci conto
di non avere più riferimenti,
di navigare
alla cieca in un mare senza approdi,
eppure continuando
a mantenere in ordine la nave,
a disporre le guardie ed a tracciare
rotte impossibili, a compilare
il diario di bordo, ogni giorno, scrivendo
speranze aleatorie
e fingendo di credere
che sia possibile che si avverino.
(pag. 59)
Ecco, a me sembra che la fitta scrittura poetica di Grandinetti, praticamente un esercizio quotidiano, rappresenti proprio il «diario di bordo» della sua navigazione in quel mare che è la vita. Navigazione alla cieca, senza riferimenti precisi per determinare la rotta, senza mete sicure da raggiungere, senza approdi in cui cercare rifugio.
Il navigante, in sostanza, è solo con se stesso. Alle spalle ha ricordi, memorie, fantasmi che anziché aiutarlo, gli sono di ostacolo, perché ormai sono ridotti a epigrafi tombali. Di fronte ha uno spazio indeterminato, reso imperscrutabile dalla nebbia e dalla notte. Per compagni ha dunque la solitudine, la disperazione o la rassegnazione, il senso di dignità e di dovere che nonostante tutto lo spingono a «mantenere in ordine la nave», e l’illusione, ormai scoperta ma ancora pregnante, delle «speranze aleatorie» e della finzione di «credere / che sia possibile che si avverino».
Il quadro è desolante. E lo diventa ancora di più se ci rendiamo conto che la navigazione alla cieca non è frutto di un errore del marinaio o di una combinazione casuale delle circostanze, ma è un dato proprio, direi ontologico, fondante, dell’essere del cosmo. La navigazione assume allora la forma ripetitiva del percorso attorno a una circonferenza.
Leggiamo in un’altra poesia della stessa raccolta:
Sulla circonferenza non si trovano
l’origine e il termine: c’è un ordine
chiuso che si ripete. Ma si vedono
punti dove la mano che tracciava
la linea aveva qualche esitazione,
fors’anche qualche intoppo,
ma dopo un poco riprendeva ancora
a fatica l’inutile percorso.
(p. 62)
Soffermiamoci su quelle «esitazioni» e su quegli «intoppi», perché sono proprio questi, e solo questi, che differenziano di volta in volta il ciclo sempre uguale e ripetitivo della natura. I caratteri individuali e tutto ciò che è proprio dell’individuo, dall’io alla coscienza di sé, dalla creatività al suo interiore di sentimenti, speranze, desideri, battaglie, sconfitte, non sono altro che provvisorie esitazioni lungo la linea della circonferenza, che presto scompaiono, perché nella continua morte e rinascita degli esseri sono proprio le qualità individuali che si perdono per sempre.
Da questa irrimediabile perdita nasce la convinzione del poeta che la vita è ripetitiva, inutile e sterile, perché in essa conta solo il ciclo della natura, mentre le caratteristiche individuali sono, in definitiva, illusioni e inganni, sono mezzi e trucchi che la natura escogita per piegarci ai suoi voleri e fare di noi un essere fungibile, un albero fra gli alberi, un granello di sabbia nella sabbia, una mosca fra le mosche, la cui vita è dedicata al compito assegnatogli dalla natura, mentre i sogni individuali sono solo fonte di disillusione e dolore.
Noi non viviamo per realizzare un nostro progetto, ma per servire da strumento al progetto della natura, se pure esiste un tale progetto e non tutto è semplicemente caso e non senso.
****
L’età in cui è più forte la fiducia nella propria autonomia e possibilità di realizzare i sogni è, naturalmente, l’infanzia e la giovinezza. In alcune poesie Grandinetti accenna, infatti, a un periodo in qualche modo felice della sua infanzia. Questa sarebbe l’età della scoperta del mondo, dei sogni e dei progetti, l’età della fantasia, potremmo dire col Vico e con il Leopardi, alla quale succede l’età della lotta e della rabbia, del fallimento e della delusione.
Nella poesia di Grandinetti, prima di arrivare all’età adulta, pare di cogliere, qua e là, l’eco di traumi della giovinezza, di quel «periodo molto triste della vita» di cui ho già parlato sopra. Per traumi si dovrà presumibilmente intendere sia fatti concreti, avvenimenti vissuti come tragici, sia l’atteggiamento psicologico che porta alcuni individui, più di altri, a subire come traumatici avvenimenti analoghi.
A questo punto forse può esserci di aiuto ricordare sommariamente le linee della biografia di Eugenio Grandinetti, senza però dimenticare che il modo come si vive e interiorizza la propria vita è, in definitiva, un fatto psicologico ed esistenziale, più che un oggettivo fatto storico.
Eugenio Grandinetti è nato a Belsito, piccolo paese calabrese in provincia di Cosenza, il 20 marzo 1931. La famiglia era di condizioni economiche benestanti, relativamente allo standard di quel paese e di quel tempo. La madre, Ebe Fera, veniva da una famiglia di tradizioni repubblicane e mazziniane che diede un politico quale Luigi Fera, più volte ministro nel periodo giolittiano. Eugenio era molto attaccato alla madre la cui morte, a 51 anni nel 1951, lo lasciò, come lui stesso si è espresso, per «due anni senza mondo». Nel 1956, a 69 anni, morì il padre, Silvio, detto Giuseppe, socialista, di carattere mite, emigrato negli Stati Uniti e poi, tornato provvisoriamente in Italia, bloccato dal fascismo e non più autorizzato a ritornare negli Usa. Il forzato soggiorno in Italia venne vissuto come una specie di esilio in patria, con tristezza e senso di umiliazione.
Eugenio visse una prima infanzia felice, fra i boschi e con gli amici di Belsito, interrotta però dal trasferimento a Cosenza nel 1938, che lui visse come doloroso distacco dalla natura e dalla società semplice ma – secondo la sua descrizione – sana e ricca di legami sociali, del paese natio. Nella raccolta di poesie Calabria nei miei pensieri si avverte qua e là la descrizione di questi anni a Belsito, sempre con nostalgia, come di una specie di paradiso perduto. In seguito frequentò il liceo classico «Bernardino Telesio» di Cosenza e successivamente si laureò in giurisprudenza, nel 1953, all’università «Federico II» di Napoli.
Si avviò, a Cosenza, alla carriera di avvocato, ma non si trovò a suo agio. Aveva già maturato uno spirito anarchico e non se la sentiva di difendere gli interessi dei «padroni». Nel 1957, poco dopo la morte del padre, si trasferì a Milano, dove lavorò per qualche tempo presso lo studio legale dell’avv. Carnazzi e poi presso una compagnia di assicurazioni nel reparto liquidazione sinistri. Nel frattempo studiò Lettere alla Cattolica e si laureò nel 1966 con una tesi sul poeta calabrese Galeazzo di Tarsia, con il prof. Mario Apollonio come relatore.
Ancora prima di laurearsi aveva iniziato a insegnare materie letterarie, come supplente, nelle scuole medie. In seguitò passò di ruolo e insegnò in scuole medie, in un istituto magistrale, in uno tecnico industriale e, dal 1982 fino al pensionamento, al liceo scientifico «Salvador Allende».
Contemporaneamente si è interessato di linguistica applicata e ha elaborato un modello linguistico per l’insegnamento ai sordomuti, collaborando con l’istituto per sordomuti «Giulio Tarra». Ha illustrato il modello in varie province della Lombardia e in corsi di aggiornamento organizzati dall’IRRSAE (Istituti di ricerca regionali, di sperimentazione e aggiornamento educativi) di Milano.
L’esperienza si è conclusa con la pubblicazione del volume, insieme a Irene Menegoi Buzzi, Per l’educazione del bambino non udente – modello linguistico e unità didattiche. A cura dell’Irrsae è uscita anche un’altra pubblicazione di carattere didattico.
***
Questi pochi cenni biografici ci parlano, solo superficialmente, di una persona mite, impegnata civilmente sul fronte dell’educazione e della cultura, alieno dal sostenere la competizione per emergere, per il successo, per la carriera. Di idee anarchiche, ma la cui anarchia, più che a spingerlo alla lotta di piazza, lo spinge piuttosto al ritiro da ciò che non ama, al ripiegare nell’interiorità, al rifiutare ogni compromesso, anche nello stile personale, quotidiano, di vita. Ciò lo porta a un certo isolamento che affronta come necessità.
Leggiamo ora una poesia in cui parla del padre; una delle poche poesie che non parlano in generale, per sentenze, simboli e metafore, ma in cui è individuabile concretamente la persona di cui si parla:
SENZA GRATITUDINE
Dicono che la vita è un dono
– anche se infine poi risulti un peso –
e che perciò dobbiamo essere grati
a chi ci ha generati.
Io non ho gratitudine per te, ma pure
amo la tua memoria, però solo
perché sei stato un cuore accanto al cuore,
non un’epigrafe
di fredde perfezioni.
Se tu fossi stato un padre che chiedeva
d’essere amato, non perché sapesse
dare amore, ma solo per il fatto
d’essere il padre-dio, che potesse
punire anche i pensieri, che potesse
dettare a suo piacere le regole e pretendere
solo ubbidienza
ora che non ci sei più sarei me stesso
e non mi sentirei mutilo e solo
per un’assenza che non so colmare.
Cerco di richiamare alla memoria
la tua voce, i tuoi gesti, la tua immagine,
ma sei tu che mi manchi, il tuo guardare
con occhi miti,
il tuo giungere piano che i tuoi passi
non si avvertissero,
la tua voce dimessa, i tuoi silenzi
attenti, le tue reticenze. Ora mi pare
di sapere di te soltanto quello
che non dicesti: i tuoi stupori
ingenui, il tuo essere
mite e in disparte, i tuoi pensieri,
segreti, di speranza.
E so che sei la cosa che mi manca
di più, per quanto più discreta
era la tua presenza.
Ma non ti sono grato, e forse tu
nemmeno lo vorresti,
che non chiedevi niente, che volevi
essere solo un cuore accanto a un cuore
ed essere uno sguardo
che s’appagava solo d’uno sguardo.
[«Viaggi», p. 69-70]
Nostalgia del padre, non a causa dei legami di sangue, ma per la sintonia e l’amore che lo legava a lui. Si noti, fra l’altro, che questa è una delle pochissime ricorrenze della parola «amore», una delle meno usate da Grandinetti. In altra poesia si coglie ancora meglio il legame con il padre, insieme al quale inizia ad affrontare la vita, che era allora «come un campo aperto»:
COME TE
Ero con te, padre, nell’attesa
di sempre nuove meraviglie e gli occhi
si spargevano intorno come l’acqua
di un fiume che tracimi e allaghi piane
aride e le fecondi.
Era la vita come un campo aperto e tu,
con l’incoscienza di un fanciullo,
passavi tra roveti ispidi e ostacoli
incurante di graffi e di cadute. Poi venne
la caduta ultima, quella
da cui non ci si rialza. Ed io
cerco di ritrovarti e non ti vedo
e non so più dove cercarti:
visito i luoghi della mente, attento
a ogni sporgenza minima, a ogni
avvallamento ma tutto è irto d’ostacoli,
ed io mi sento vecchio e non m’attento
di rischiare. E resto fermo e attendo
che non accada ormai più niente.
[«Lo scorrere della sabbia», Poliscritture, 7 aprile 2015]
La breve poesia intitolata «La fine dell’adolescenza» ci dà il senso di una profonda caduta dall’infanzia felice a un tempo successivo di rancore e silenzio:
Passato è il tempo breve dei richiami
segreti e del ritrarsi.
Ora un rancore freddo ci trascina
in un baratro oscuro o ci disperde
per lande di silenzio
dove non c’è ritorno e non c’è ascolto.
[«Lo scorrere della sabbia», Poliscritture, 7 aprile 2015]
3. Lo schema filosofico
Dal punto di vista dell’analisi critica, si sono occupati di Grandinetti Paolo Giovannetti, che ha scritto una breve introduzione alla sua prima raccolta pubblicata a stampa nel 2001, e Ennio Abate, curatore del sito «Poliscritture», che ha ospitato molte poesie di Grandinetti e su una delle sue raccolte, Viaggi del 2014, ha pubblicato una lunga, analitica e a tratti aspramente critica recensione (qui). Allo scritto di Ennio Abate sono seguiti oltre cinquanta interventi di lettori, di botta e risposta su alcune questioni aperte, in cui sono intervenuto anch’io, riassumendo poi la mia valutazione della poesia di Grandinetti in uno scritto pubblicato dallo stesso sito il 15 febbraio 2015 (qui) e che qui, ora, in parte riprendo ampliandolo e approfondendolo.
Sono due i punti critici discussi più lungamente in quel dibattito. Uno riguarda il rapporto fra la poesia di Grandinetti e la modernità, che qui tralascio completamente perché troppo lungo da affrontare e non troppo interessante in questa sede. Il secondo riguarda il pensiero, cioè il «livello razionale» della poesia di Grandinetti.
Ennio Abate vi trova, e queste sono sue considerazioni e in qualche modo anche constatazioni critiche, «solipsismo», cioè un’introspezione dell’io che si chiude in se stesso, il che lo porta a dimenticare, trascurare, disprezzare il mondo e a diminuire anche l’importanza della storia e della lotta politica. Il solipsismo porterebbe, e si legherebbe, a uno «sfondo “nichilista emozionale”» e ad un pessimismo sistematico.
Anche la natura, così presente nella poesia di Grandinetti, il quale, sia detto fra parentesi, è un appassionato cultore di studi botanici e in particolare di micologia, verrebbe ridotta a un fantasma, perché pura metafora, con il quale intrecciare un dialogo ossessivo per parlare in realtà dell’uomo. Inoltre, aggiunge Abate, la visione materialistica, più che rifarsi al materialismo classico, in particolare colto negli scritti di Lucrezio, autore molto amato da Grandinetti, sembrerebbe rifarsi al Qoelet o Ecclesiaste, il famoso libro della Bibbia dove si afferma che tutto è vanità. In conclusione, afferma Abate, che pur apprezza la poesia di Grandinetti ma non ne condivide questo suo schema filosofico, sembra che il poeta, considerando tutto inganno, illusione e dolore, voglia «farsi di pietra».
Ennio Abate, militante marxista che nella progressione dei tempi non ha rinunciato alla memoria delle convinzioni passate e tanto meno al loro svilimento storico e culturale, non accetta il «primato dell’io rispetto al noi».
Rispondendo ad Abate o facendo proprie autonome considerazioni, altri hanno risposto affermando che un poeta non è mai un vero nichilista, perché il nichilista distrugge, il poeta costruisce. Che il pessimismo può essere considerato testimonianza di uno stato di cose, cioè di una realtà sociale non accettata, non amata. Che in Grandinetti si coglie, più che nichilismo e pessimismo, un atteggiamento contemplativo, quasi da misticismo laico.
Paolo Giovannetti, rispondendo in modo aspramente polemico, considera la critica di Abate un’aggressione ideologica e invita a un maggior rispetto della dignità poetica di Grandinetti di cui suggerisce una lettura improntata a «delicatezza ermeneutica», di cui però non dà degli esempi.
Tutti questi punti di vista contengono una parte di ragione (e la lettura di Abate, anche nelle parti non convincenti, rimane istruttiva e stimolante), cogliendo l’uno o l’altro aspetto della poesia di Grandinetti. Io però non voglio imbarcarmi in una disputa sul pessimismo e sul nichilismo, ma piuttosto, evitando questo tipo di giudizi generali, cercare di cogliere nell’opera di Grandinetti ciò che c’è e ciò che non c’è, lasciando ad altri trarne conclusioni di tipo ideologico.
Nella poesia di Grandinetti c’è con evidenza una palese e necessaria contraddizione. Dico necessaria, perché implicita nella sua personalità e, anche, in qualche misura, nelle cose della vita. Il marinaio che naviga alla cieca nel suo diario di bordo scrive ciò che vede, o che gli sembra di vedere, e di giorno in giorno narra la tragedia del suo viaggio. Ma in questa volontà di narrare, in questa ossessione di dover narrare e comunicare, in questa disperazione di non riuscire a farlo davvero, o comunque non quanto vorrebbe, egli, in parallelo, scrive, narra e comunica la sua ribellione all’essere costretto a viaggiare alla cieca, rivela i suoi sogni, i suoi desideri, le sue speranze, le sue utopie.
Vi è pertanto un profondo nucleo tragico. Il poeta è consapevole delle proprie sconfitte e dei propri fallimenti e in un certo modo è ormai rassegnato a non vedere altro nella propria vita; e persino i ricordi di altri tempi e di altre speranze non gli danno conforto ma dolore, perché gli rinfacciano i fallimenti subiti. Tuttavia la rassegnazione non è quieta, pacificata, non è ancora diventata di pietra. La rassegnazione è solo apparente, perché inquieta e dolorosa, perché non è ancora rinuncia completa, perché permane la scintilla che dà ancora sprazzi di luce e di calore.
***
Il fallimento di Grandinetti, che dà alla sua poesia una tensione tragica anche nei momenti di apparente serenità, è triplice. Dal punto di vista “normale”, a cui probabilmente molti di noi si rifarebbero, Grandinetti non ha motivo di considerarsi un fallito: ha scelto e perseguito una sua strada, vivendo, tutto sommato, come ha scelto di vivere – nell’ambito del possibile, naturalmente -; ha meritato e conquistato credito culturale e professionale, stima e affetto; è stato un buon insegnante ed è un ottimo poeta. Che cosa volere di più? verrebbe da dire.
Ma ognuno di noi, nel suo intimo, nel suo viaggio esistenziale, non si confronta con il parere degli altri ma piuttosto con il proprio ideale, con il proprio io, con il proprio bagaglio di esperienze e di desideri. Pertanto, sulla scorta delle poesie di Grandinetti, rintracciamo i tre livelli di fallimento.
1. a) Il primo è quello cosmico, quello assoluto. Grandinetti, ateo e materialista, non ha trovato il senso, o un senso, del tutto. La navigazione alla cieca denuncia la mancanza di senso. Ma la mancanza di senso, forse, rimanda a qualcosa di ancora più grave, che, in termini teologici, è il problema della salvezza. Cioè il problema soteriologico di come essere salvati dal male e dall’ira di Dio e il problema escatologico del destino dell’uomo dopo la morte.
Il disprezzo del mondo di Qoelet o quello dei mistici religiosi, cristiani o buddisti o di altre religioni ancora, è molto diversa da quello di Grandinetti. Perché il «tutto è vanità» di Qoelet o l’annientamento mondano del mistico è solo un gradino della scala che porta a Dio, e in Dio c’è la salvezza. Mentre il disprezzo del mondo di Grandinetti non porta a nessun tipo di salvezza, anzi porta a negarla.
Tuttavia ciò non avviene a causa dell’ateismo e del materialismo, perché la storia ci presenta figure di atei e materialisti del tutto diverse; ciò avviene solo a causa della storia esistenziale e del modo di pensare di Grandinetti. Pertanto, più che un problema filosofico, è un problema ideologico, attinente cioè all’insieme delle idee che un individuo si forma nel corso della sua vita, di cui solo una parte rientrano nel campo della filosofia, mentre le altre rientrano nel campo delle credenze, delle abitudine, dei sentimenti, delle passioni ecc.
Detto altrimenti, voglio significare che l’atteggiamento filosofico di Grandinetti, come quello di Leopardi, non nasce da un percorso cognitivo rigoroso che si rifà ad un metodo logico-scientifico, ma da un percorso cognitivo che nasce da esperienze esistenziali. Con ciò mi guardo bene dal cadere nell’accusa mossa dal Tommaseo al Leopardi, cioè che la sua filosofia nasce dalla sua gobba. Certamente nel Leopardi, come in Grandinetti, la filosofia nasce da un percorso razionale e si eleva molto al di sopra di un mero rancore individuale, ma di una razionalità basata più sul sentimento che sull’analisi rigorosa e analitica dei concetti e delle dottrine.
Voglio anche dire che essere ateo e materialista non impedisce di formarsi una concezione che dia senso e salvezza alla vita. Basti citare la figura dei cosiddetti «santi laici», ai quali Grandinetti si avvicina per qualche aspetto, fuorché per la solidità della fede. Per questi, la funzione che per i religiosi ha Dio viene svolta dalla natura, o da un ideale, ad esempio il progresso dell’umanità intesa come una futura unione fra fratelli.
Ma per Grandinetti, come per Leopardi, queste sono illusioni e favole che l’uomo inventa perché non vuole accettare la crudele verità. Ma si può aggiungere di più, cioè vedere come anche uomini che non credono che il tutto abbia un senso, trovino nell’universo tante meraviglie, tanta bellezza, tanta ricchezza e varietà di piaceri da concludere che vivere è bello e piacevole, e questa conclusione determina il senso e la salvezza della vita.
L’atteggiamento di Grandinetti va dunque preso, a mio parere, non come verità filosofica, perché sarebbe troppo facile dimostrare il contrario, ma come verità del suo mondo soggettivo che diventa motivo guida della sua poetica. In quanto tale non è né da condannare né da approvare, ma solo da cogliere e valutare nei suoi risultati artistici.
1. b) Il secondo fallimento è quello politico, che consiste nella mancata realizzazione dei suoi ideali sociali e nella perdita di fiducia nella possibilità di realizzarli, non però nel loro valore intrinseco. In una poesia che credo inedita e che Eugenio mi ha dato nel novembre 2014, leggiamo:
LA PIETRA FILOSOFALE
Non cercavo la pietra che cambiasse
in oro ogni metallo: mi bastava
soltanto trovare una ragione
per essere in pace con me stesso
senza sentirmi sempre inadeguato
e colpevole sempre. Non ci furono
forse nella mia vita le occasioni
per emergere sugli altri, per essere
un’isola sul mare o la vetta
in una catena di montagne. Ma non era
questa la cosa che cercavo: volevo
essere uguale agli altri, soddisfatto
d’essere, e solamente teso
a ricercare che la vita fosse
la migliore possibile per tutti.
Ma era forse debole il volere
e la voce era fievole e si perse
inascoltata in mezzo ad un deserto.
La vita invece è sempre
crudele con ogni essere: con gli alberi
costretti a contendere ad altri alberi
con le fronde eminenti il sole,
con le radici subdole gli umori
sotterranei, mentre i venti violenti
o i fulmini o gli uomini
li abbattono e le processionarie
ne dispogliano i rami
e le larve voraci dei cerambici
ne rodono le radici e il fusto;
o come gli animali, tra di loro
in perpetua lotta ognuno per la propria
sopravvivenza, tesi
sempre a scovar la preda che li sfugge
o ad evitare l’assalto del predatore
che li snida e l’insegue
e quando li raggiunge li dilania
ancora vivi, che sentano
il lento progredire della morte;
o con gli uomini, infidi, che si odiano
e si temono e cercano
di sopraffarsi a vicenda, di uccidersi
che non ci sia mai pace ma continuo
rancore e guerra inesauribile.
Ma anche ora,
che sono già giunto al margine ultimo
prima del baratro, io continuo
come un vecchio alchimista a mescolare
sogni ed ideali alla ricerca utopica
di una diversa pietra filosofale
che muti l’odio in solidarietà.
[Ricevuta via mail venerdì 14 novembre 2014]
Ecco, questo ideale di mutare l’odio in solidarietà non si è realizzato, o almeno non si è realizzato abbastanza da soddisfare il poeta. Nella poesia si notano diversi temi ricorrenti in Grandinetti: la violenza è dovunque, la vita è sempre lotta per la sopravvivenza, è crudeltà e dolore. Questi sono temi a più livelli, perché riguardano sia la struttura ontologica della realtà cosmica sia quella della realtà sociale.
1. c) Il terzo fallimento è quello personale. Costretto a vivere una vita senza senso e vedere i suoi ideali non realizzati, Grandinetti si sente, anche come individuo, un sopravvissuto. Molto diverso da quello che era e da quello che avrebbe voluto essere. Si scopre in una condizione di solitudine, di estraneità al mondo che lo circonda, si sente fuori posto, in attesa della morte, seppure con nel cuore ancora qualche speranza.
Su questo aspetto si potrebbe mettere insieme un’ampia antologia tratta dai versi di Eugenio. Mi limito qui a tre componimenti:
SPECCHIARSI
Caduta è la mia immagine nel fondo
d’acque stagnanti e agli occhi non ritorna
come se fosse ormai fuori dal mondo.
E a me non restano altro che parole
come queste acque: estranee, ambigue e torbide.
Gli occhi che non s’illudono non hanno
specchi in cui possano vedersi
magari solo per riflesso. Ma specchiarsi
senza veli frapposti è abbacinarsi
e non poter vedere più altre immagini
che quelle rinsecchite dei ricordi.
[«Lo scorrere della sabbia», Poliscritture, 7 aprile 2015]
SENZA ALIBI
Se tu avessi saputo che la vita
era solo disperdere innocenza,
e ferire e ferirsi e non capire,
e sentire la pelle farsi ruvida
di cicatrici e dura
come corteccia d’albero, ma fragile
come sabbia rappresa o come vetro;
se tu avessi saputo che era meglio
morire quando ancora ti sembrava
una promessa il tempo da venire,
e non capivi che quei vecchi ruvidi
di rughe e macerati
si guardavano in te come allo specchio
lontano del passato;
se tu avessi saputo com’è duro
vivere due vite separate,
quella dei sogni, chiusa, e quella esposta
a tutte le tempeste, avresti forse
rinunziato alla vita e non cercato
di confondere il vero e il falso e credere
il vero provvisorio e l’incredibile
più stabile vero nel futuro.
Ma il giorno da venire ora è timore
ed è rimorso il giorno ch’è trascorso
e la vita ristagna in una gora
oscura da cui non puoi fuggire.
Eppure è solo questo quel che resta
da fare: non cercare
alibi che t’illudano, ma fuggire
di nascosto come ospite sgradito
che si rammarichi d’essere venuto
ma che tema andandosene d’offendere,
e che cerchi una porta di servizio
– che nessuno s’accorga – e s’allontani
senza lasciare né portarsi appresso
il rancore o il rimpianto di chi resta.
[«Viaggi», p. 63]
Dalla lunga poesia intitolata a «Ugolino e Vadino Vivaldi», i due navigatori genovesi che due secoli prima di Cristoforo Colombo tentarono la via dell’Oriente viaggiando verso Occidente, e non fecero più ritorno, leggo solo pochi versi in cui ai navigatori che Grandinetti immagina incerti fra il tentare di andare avanti o il tentare di tornare indietro, dopo molti giorni di navigazione, si pone solo una alternativa:
«La sola scelta che ci è data è quella
tra una morte banale ed una morte
che tenga in vita un sogno.
Andremo avanti fino a che ci reggano
le forze».
E questo sembra un ultimo messaggio dello stesso poeta, che nella poesia di apertura della raccolta Alla rinfusa, intitolata «Alla periferia», così ricordava con rimpianto il passato:
E dove sei, speranza adolescente
che accompagnavi i nostri passi incerti
anche quando la luce s’oscurava
e gli occhi s’affannavano a cercare
all’orizzonte uno spiraglio d’alba?
E dove sei ideale che fingevi
un sole nuovo acceso a illuminare
l’alba di un mondo nuovo?
E dove sei più amore
che pensavamo che potesse dare
un senso ed una meta ai nostri giorni
ma come acqua morgana svaporavi
quando ormai pensavamo di raggiungerti?
Tutto si è fatto ormai precario e informe
e la sola certezza è l’appressarsi
del buio della notte, e già si avverte
il sonno gravare sulle palpebre.
[«Alla rinfusa», p. 5]
In quella domanda, «E dove sei più amore?», leggo una cifra esistenziale che forse meglio esprime il tormento e la disperazione che si coglie in tante poesie di Grandinetti: è la mancanza, nella sua intera produzione poetica, del tema dell’amore, dell’erotismo e della figura femminile, a cui solo raramente si accenna appena. Ciò può far pensare a tante cose, ma la mancanza assoluta di informazioni mi obbliga a fermarmi qui. Se anziché scrivere un discorso critico, dovessi scrivere un romanzo, potrei fare l’ipotesi di un grande e tragico amore giovanile finito male che ha spento in lui, per il resto della sua vita, l’interesse e la capacità di provare amore come passione, e non solo come affetto e solidarietà.
4. La scrittura poetica
Per dare un giudizio complessivo della scrittura di Grandinetti sarebbe necessaria una lunga riflessione sulla qualità e sulle forme letterarie, sulle tematiche affrontate, sulle ragioni (se esistono, come io credo) della sua prolificità che, con l’età e i molti problemi di salute, non si è attenuata, quasi ad esprimere un desiderio, forse una vera ansia, di dire tutto finché ha tempo, in una condizione in cui il tempo – per lui – sembra ormai identificarsi proprio con lo scrivere e l’esprimersi in versi. Nella sua poesia si avverte – come già detto – la concezione naturalistica – materialista – atea e il non credere a qualche tipo di senso e di salvezza che giustifichi e riscatti la vita e la morte. Da ciò deriva una tormentata tristezza che, a differenza del naturalismo ateo e materialistico classico al quale pure Grandinetti si rifà, non trova quiete nella contemplazione della natura e nella considerazione della necessità delle cose e del destino, ma anzi tende a interpretare il ciclo della natura come metafora di un eterno ripetersi senza scopo del mondo e della vita umana. Ripetersi aggravato, non arricchito, dalla consapevolezza (dai desideri, dalle passioni, dalle illusioni) da cui deriva la sofferenza che la natura inconsapevole, almeno, evita.
C’è però, implicita e per me evidente, una sensibilità che presuppone il cristianesimo, o almeno la sensibilità religiosa post-classica. Infatti spesso l’atteggiamento di Grandinetti sembra un rimprovero rivolto a qualcuno o a qualcosa che è colpevole della riduzione dell’uomo al nulla che la morte gli promette. La sua tematica allora diventa polemica, tormento e disperazione. C’è l’affermazione del nulla, ma anche, in qualche modo, la ribellione al nulla. È in questa chiave che si può leggere gran parte della produzione di Grandinetti e i suoi grandi cicli poetici: sulla natura (il fiume, il bosco ecc.), sui viaggi, sui ricordi e sul mondo della sua Calabria natìa, sulla storia, sulla religione dei Flamines, sui temi e personaggi classici, e altri ancora.
Grandinetti però si dimostra vitale, e tutt’altro che poeta fattosi pietra, in almeno tre momenti e filoni della sua poesia, che accompagnano e incrociano il tema fondamentale del «tutto è vanità», e anzi lo contraddicono.
Il primo è quello delle sue molte liriche brevi in cui la natura non è semplice metafora dell’inutile ripetersi della vita, ma anche bellezza, pura contemplazione e sintonia lirica. Qui Grandinetti, fra l’altro, valorizza la sua particolare e sapiente erudizione naturalistica, di esperto cultore di studi e osservazioni botaniche, che emerge anche nell’uso di rari vocaboli che rendono le sue descrizioni di un’accuratezza inarrivabile, riuscendo però quasi sempre ad evitare il tecnicismo.
La cultura classica (Grandinetti è stato docente di latino e italiano nei licei) si rivela poi in molteplici forme e innanzitutto nel linguaggio e in certe forme metriche. Il classicismo e il naturalismo fanno di molte sue liriche (liriche in senso proprio, direi quasi nel senso leopardiano dei piccoli Idilli) dei veri gioielli. Questa parte della sua produzione, a mio parere, è la migliore e la più poetica in ogni senso.
Leggo qui solo le prime due strofe di una lunga poesia, intitolata «Il mare», che potrebbe quasi dirsi una canzone leopardiana.
IL MARE
L’alba raffrena i passi, un’alba avara
di luce, che raggela l’alitare
delle correnti a cui s’affida il sole,
aerostato di fuoco, a risalire
l’arco dal doppio capo.
Cauti gli sguardi esplorano cercando
nel cielo ambiguo un corso che non segnino
sentieri già tracciati,
ma il sole in alto va, come guidato
da mano ferma, e alterna
giorni umidi e brevi ad altri aridi
e interminabili, quando
si desidera l’arrivo della sera.
[«Viaggi», pp. 43]
Il secondo filone è quello delle composizioni politiche, dove si trova indubbiamente energia polemica, ma minore valore letterario. L’insieme delle poesie politiche (a volte anche canzonette e filastrocche satiriche, sarcastiche, ed epigrammi) è, a mio parere, un aspetto minore della sua produzione, perché più legato a un’urgenza del momento e più frettolosa e approssimata anche nel dettato. La tematica politica, però, si estende anche in una parte della produzione di Grandinetti non direttamente politica, ma in senso più lato sociale e storica, dove ha una valenza che s’incrocia con le tematiche esistenziali fornendole di una robustezza di riflessione diversa da quella più filosofica e razionalizzante.
Fra le poesie più direttamente politiche, nelle quali spesso Grandinetti usa la metrica tradizionale, con versi rimati, per dargli un’aria più facile, orecchiabile e popolare, leggo la seguente.
LA BALLATA DELLA DEMOCRAZIA
Che bella parola DEMOCRAZIA
voglio gridarla in mezzo alla via,
voglio diffonderla in tutta la terra
anche a costo di fare la guerra.
Fare la guerra non è tanto un male
se si persegue il grande ideale
di assicurare l’egemonia
ai capitalisti di casa mia.
La sola cosa che oggi ha importanza
è l’andamento della finanza
che non dovrebbe aver cedimenti
perché i ricchi non si lamentino.
Che si lamenti la vile plebaglia
perché si mandano alla battaglia
soltanto i poveri e i diseredati
tanto per questo vengon pagati.
Vengon pagati con pochi contanti
che però a loro paiono tanti.
Paiono tanti perché col salario
si riesce a stento a sbarcare il lunario
ma chi delle armi esercita l’arte
mangia e mette qualcosa da parte.
Certo in guerra si può morire
e nessuno può aver da ridire
ma muore pure per qualche incidente
chi va a lavorare per poco o niente.
Quello che conta è che vada avanti
questo sistema di acquisto in contanti
d’uomini che vanno a lavorare
o vanno in guerra a farsi ammazzare.
[Poliscritture, febbraio 2015]
Il terzo filone è quello del ricordo, che spesso si fa nostalgia. Per quanto Grandinetti cerchi più volte di deprimere ed esorcizzare questo suo ritornare sul proprio passato, nel ricordo e nella nostalgia troviamo pur sempre, con insistenti ritorni in molte sue composizioni, l’immagine di quella specie di paradiso terrestre che è stata l’infanzia e la Calabria contadina e umana e ricca di contenuti sociali delle sue prime esperienze di vita. È esistito, in qualche modo, un paradiso terrestre da cui siamo stati cacciati. Di cui però Grandinetti conserva non solo il ricordo e la nostalgia, ma, nonostante tutto, anche l’aspirazione a ritrovarlo, che si traduce poi nei suoi ideali politici di anarchico che aspira a una società egualitaria di fratelli in cui i rapporti non siano più regolati dal potere e dalla ricchezza.
Dal punto di vista delle forme di scrittura queste tematiche si traducono in componimenti di vario tipo: da quelli brevi, puramente lirici, ad altri più lunghi di tipo narrativo, descrittivo, riflessivo e persino argomentativo, in cui il respiro lirico si attenua e a volte quasi si spegne, perché il messaggio prende il sopravvento e la forma tende allora alla maggiore semplicità e velocità della prosa. Tuttavia, spesso il senso innato e la forza della struttura poetica riprendono il sopravvento anche nelle lunghe narrazioni, se pure all’interno di una versificazione più discorsiva e prosaica: ciò accade, soprattutto, quando la narrazione stessa, anziché incentrata su qualche particolare messaggio che psicologicamente ed esistenzialmente si fa pressante e vuole traboccare nella scrittura, si ha l’incontro di ricordi e nostalgie, o di fantasie ed evocazioni (sovente del mondo classico e di eventi storici) che formano un groppo di emozioni che prende il sopravvento e si rivela in primo piano, velando o cacciando in secondo piano il “contenuto” specifico del messaggio.
In conclusione mi sembra che la poesia di Grandinetti presenti notevoli variazioni, tra liricità pura e forma prosaica o quasi prosa. Variazioni giustificate e prodotte dalla vasta gamma di temi trattati, ma anche dal momento psicologico (e dal taglio psicologico) in cui e con cui si produce.
Le sue scelte, che si ritrovano in varia misura in tutta la sua produzione, si concentrano sul linguaggio, che vuole comprensibile. Anche quando usa termini rari e difficili, gli sceglie dal lessico della tradizione (fra cui diversi latinismi), rifiutando gli sperimentalismi incomprensibili alla maggioranza dei lettori.
Tendenzialmente tradizionale è anche la struttura del verso, basata per lo più sull’endecasillabo sciolto, sia pure riutilizzato liberamente, senza nessuna pedissequa fedeltà alla metrica classica. Pertanto si può dire che si muove fra verso sciolto e verso libero, ma sempre ancorato a una metrica comprensibile.
L’uso prevalente, poi, di un linguaggio e di un verso discorsivi, con andatura narrativa e di bassa musicalità, deriva da una consapevole scelta di discorso colloquiale dove il messaggio tende ad assumere più importanza della forma che lo contiene, perché è il messaggio, e non gli ingredienti retorici del discorso, che devono emozionare e catturare il lettore. Ciò determina il fatto che la lirica, e la liricità, è solo un’opzione, ma non la prevalente, nella poesia di Grandinetti.
La bassa musicalità è poi dovuta anche a due elementi concorrenti fra loro. Il primo è la preferenza data a un ritmo duro, rotto, che volutamente evita i suoni melodici e ripetitivi preferendo quelli più aspri. Si tratta di una caratteristica (ma ripeto, non sempre è così: nelle poesie più brevi e di più intenso movimento lirico si ha una musicalità più accesa) voluta e in sintonia con il contenuto poetico, per cui non è, di per sé, un difetto.
Il secondo, che è invece un difetto, è dato dalle cadute di tono di certi versi, frequenti anche se non determinanti nel complesso. Si tratta di versi ipo o ipermetrici (rispetto al ritmo scelto da Grandinetti, non rispetto alla metrica classica), dissonanti, che abbassano la qualità del dettato come se si trattasse di errori. E infatti, io credo, si tratta proprio di errori, dovuti all’intensa e vasta produzione e all’uso non abbastanza intenso del lavoro di lima.
In proposito, a un mio appunto critico su questo aspetto, mosso pubblicamente in un sito Internet, Eugenio ha risposto nella stessa sede scrivendo: «Accetto i rilievi di Luciano sul mio modo di lavorare e sulla scarsa pazienza rispetto al labor limae improbus [scadente lavoro di lima]».
Ma tutto questo, oltre a cause contingenti, trova una causa più determinante in quello che dicevo sopra. Spesso – leggendo le poesie di Grandinetti – mi sembra di cogliere una certa trascuratezza nella forma, non perché sia voluta, ma perché l’urgenza di esprimersi e scrivere non gli concede tempo di rivedere con sufficiente calma ciò che scrive (né interesse a farlo). Questo, a mio parere, sottintende sia la volontà di comunicare e lasciare il suo messaggio, sia la sfiducia che ha nella sua utilità effettiva. Egli cerca di comunicare da vivo per i vivi, non preoccupandosi di ciò che sarà la sua poesia fra cinquanta o cento anni. Il messaggio, pertanto, non la correttezza e la bella forma, prende il sopravvento, nella pessimistica convinzione (dichiarata in tante sue poesie) che comunque la comunicazione è un parlare fra sordi isolati e solitari che non si capiscono né vogliono capirsi.
Ma in proposito si può leggere un’ultima poesia, intitolata «Omero», ed è tutto dire:
OMERO
Omero morì povero e mendico
consumando il suo genio e la sua vita
nelle fiere di paese a raccontare
in cambio di un’elemosina le favole
di guerre interminabili, di viaggi
per terre ignote, attraversando strade
liquide e senz’argini.
E nelle piazze stavano incantati
ragazzi ad ascoltare,
e nei loro sogni si facevano
eroi temerari che lottavano
contro mille nemici o contro il Fato
per conquistare un sogno o per morire.
Ma i cittadini ricchi ed i mercanti
non avevano il tempo di ascoltare
un vecchio cieco, ed alla fine l’obolo
era sempre più misero.
Un poeta
non ha nulla da vendere, ha soltanto
parole come nuvole che vanno
senza posa nell’aria, che ci appaiono
mutevoli ad ogni alito, a ogni sguardo,
che si perdono
per orizzonti incerti e poi ritornano
a ogni soffio di vento a farsi immagini,
a farsi iridi al sole, a farsi sogni.
Un poeta
non ha voce che conti, non ha peso.
Passa con volo di farfalla e coglie
solo sguardi smarriti che non sanno
dove posarsi.
Un poeta
è come le sue favole: una cosa
inutile, un fiore sterile
che non sa dare al mondo altro che petali
variopinti ma fragili.
[Raccolta inedita «I cercatori di funghi», p. 85-86]
Chiudo dicendo all’amico e poeta Eugenio: nonostante la quantità di versi e lo scadente lavoro di lima, la tua poesia non è non sarà mai un quarto fallimento, ma il tuo migliore risultato e contributo al viaggio della tua e nostra vita, al senso e alla salvezza del nostro navigare.
Ringrazio Luciano Aguzzi per questa lunga presentazione, che ha certo anche il merito di mettere ordine tra i tanti commenti che hanno accompagnato le poesie di Grandinetti, almeno quelle apparse su questo blog. Ricordo di aver scritto a più riprese che non sempre la sua forma poetica, così pacata e spesso descrittiva, sia da considerarsi poesia; almeno non per chi, come me, cercasse l’acuto di un verso o di una metafora spiazzante. Ma devo ricredermi: siamo in presenza di una poetica che si è andata formando, o stratificando, nel tempo, ancora viva, e per niente calcificata. Ho conservato il ricordo di certe immagini di natura, lente abbastanza da accompagnarsi al ritmo naturale di luoghi e atmosfere; di uno sguardo che non prevarica quel che vede, ma l’asseconda; uno sguardo meditativo, non necessariamente filosofico. Questo suo tempo “interiore” a me sembra essere la nota che lo contraddistingue, più di ogni altra. Non mi meraviglia affatto che Grandinetti si sia interessato al linguaggio dei sordomuti; che le immagini abbiano tanta importanza in sé, e che le sue considerazioni sembrino più degli stati d’animo che delle congetture filosofiche. Sono sensi, più che pensieri: senso della vacuità, della malinconia, del ricordo, dell’inesprimibile (perché muti) e dell’insondabile ( perché sordi). A questo sto pensando. Se lette da questo punto di vista non meraviglia la mancanza di comunicazione, di scambio tra la modernità e quel che si sente dentro; G. sembra proporci una lettura sensoriale, non concettuale; e spero con tutto il cuore di avere ragione, perché in questo caso la sua sarebbe, all’opposto di quanto sembri, una disperata ricerca di contatto e di comunicazione, derivata da uno stato di insopportabile silenzio. Se così, spero che malgrado la veneranda età gli resti molto altro tempo per portare a termine, ad ulteriore maturazione, la sua ricerca, togliendo quel che non le è necessario.
Vorrei mettere in rilievo due punti per me importanti di questo vero e proprio studio “positivistico” (cioè giustamente attento ai dati concreti) di Luciano Aguzzi sulla poesia e sulla persona di Eugenio Grandinetti:
1. La sua attenzione alla vicenda “editoriale” delle raccolte di Grandinetti. Aguzzi ha ricostruito rigorosamente le tappe percorse da Eugenio dall’autostampa all’edizione fuori commercio, all’«editoria detta di autoproduzione» (comunque a circolazione prevalentemente amicale), alla pubblicazione su riviste e Web indicando i meccanismi di ambivalenze e i dilemmi (nei confronti dei critici, dell’editoria e degli stessi lettori) in cui si è venuto a trovare un autore schivo e concentrato sulla sua ricerca poetica come Eugenio. Non credo sia difficile riconoscerci in tanti/e in questa che, non per partito preso, indicherei come la tipica *condizione dei moltinpoesia*. E mi chiederei quali riflessi condizionanti ha avuto sulla stessa intima ricerca poetica di Eugenio, sulla sua stessa *solitudine/inquietudine* questa Macchina o Muro invalicabile (di fatto rappresentato da editori, critici e lettori irraggiungibili) che ti/ci ignora. O, più terra terra, quale spinta in più gli sia venuta a chiudersi nel suo immaginario nutrito sempre più esclusivamente, specie dopo il periodo delle “speranze politiche” fallite, dalla passione per il mondo antico e dalla memoria del passato calabrese, diventati col tempo sempre più *miraggi* del tutto separati e contrapposti all’ esistenza quotidiana ( e metropolitana) di ben quarant’anni (appunto!).
2. L’importanza, dunque, del passo compiuto da Luciano Aguzzi di sollevare il velo sulla biografia di Eugenio riportando notizie che non solo io, pure amico da decenni di Eugenio, ignoravo ma che davvero – come ho sempre un po’ sospettato – non *spiegheranno* la sua poesia, il suo stile, la sua poetica; ma potrebbero, se indagate attentamente e rispettosamente e con gli strumenti ermeneutici necessari, rendere più visibili e concreti i fili che, secondo me, legano le parole e le immagini *sensoriali* (Mayoor) di questa poesia proprio al fondo *concettuale* dei pensieri e dei riferimenti colti (nichilistici o meno, lasciamo aperta la questione…).
Il primo impatto alla lettura di questo post, è stato quello di sperimentare una felicità triste.
Mi sono compiaciuta per il lavoro di L. Aguzzi che è riuscito a rappresentare, nei limiti di una presentazione pubblica, il mondo poetico di E. Grandinetti e contenta per gli approfondimenti fatti su questo Poeta (la maiuscola è d’obbligo) che ho conosciuto e apprezzato dalle pagine di Poliscritture.
E, infine, stimolata dalla possibilità di portare al pubblico quel discorso complesso relativo alla poesia, alle sue motivazioni e alla sua funzione e farlo in modo semplice e significativo come ha fatto L. Aguzzi, in ciò aiutato, senza alcun dubbio, dalla personalità e dal poetare di E. Grandinetti che hanno costituito l’ossatura di un modello esemplificativo.
Il dispiacere è legato alla constatazione (già segnalata a suo tempo in Poliscritture) concernente *Tutta questa enorme produzione poetica [di E. Grandinetti] che è spesso di alta qualità, di alto livello letterario, purtroppo è poco conosciuta e non è mai stata presa in considerazione dai critici letterari professionisti* (L.Aguzzi).
E qui si apre tutta una serie di domande che Ennio ha anche ventilato qui sopra.
E mi sono sentita triste (ma questa, ovviamente, rappresenta la mia lettura), perché questo ‘modello’ – se per semplicità così lo vogliamo chiamare – rappresenta nel bene e nel male, nella ricchezza e anche nella caduta, il destino della poesia oggi.
Non è da tutti il coraggio di raccontare la ‘illusione’ (*i veri che cercammo*), la ‘delusione’ dei *suoni d’eco [..] si perdevano
come fumo nell’aria senza vento* e ciononostante di procedere.
Se L. Aguzzi parla di una incomunicabilità denunciata:
a) *Nella sua [di E. Grandinetti] poesia trapela una contraddizione, che è quella fra lo scrivere per comunicare e la scarsa fiducia che ha nella comunicazione e nella disponibilità della società a recepire il suo messaggio e la sua poesia*
b) * “Grandinetti, quindi, dà già per scontato che il rapporto fra gli individui è pieno di equivoci, di malintesi, di finzioni, di apparenze, di tratti inutili e sterili.”*)
non per questo percepisco attivate nel poeta risposte rinunciatarie o nichiliste se non come ‘artificio letterario’ che serve essenzialmente alla comunicazione.
Né, da quel poco che ho letto, ho percepito quanto sembra affermare L. Aguzzi : *Egli, disgustato del mondo, sia in senso lato, esistenziale e filosofico, sia in senso politico e sociale, ha preferito piuttosto ripiegarsi su se stesso e rinunciare, che dedicarsi ad una battaglia forse ritenuta inutile e perduta in partenza*, perché mi sembra che permanga nel Poeta – e L. Aguzzi stesso lo rileva – un *sentimento di fondo [che] si coniuga di volta in volta in circostanze, atteggiamenti psicologici, paragoni, metafore diversi, con un arricchimento che nasce da una continua e quotidiana esplorazione di se stesso e del suo mondo *.
E’ in quel terreno lì che E. Grandinetti conduce, come poeta, la sua battaglia.
Concordo invece perfettamente con L. Aguzzi quando sottolinea la tragicità del Poeta ed è lì che, credo, si celi la sua grandezza:
*Vi è pertanto un profondo nucleo tragico. Il poeta è consapevole delle proprie sconfitte e dei propri fallimenti e in un certo modo è ormai rassegnato a non vedere altro nella propria vita; e persino i ricordi di altri tempi e di altre speranze non gli danno conforto ma dolore, perché gli rinfacciano i fallimenti subiti. Tuttavia la rassegnazione non è quieta, pacificata, non è ancora diventata di pietra. La rassegnazione è solo apparente, perché inquieta e dolorosa, perché non è ancora rinuncia completa, perché permane la scintilla che dà ancora sprazzi di luce e di calore* (L. Aguzzi)
Come anche ritengo importante questa precisazione (che vale anche per estensione):
*L’atteggiamento di Grandinetti va dunque preso, a mio parere, non come verità filosofica, perché sarebbe troppo facile dimostrare il contrario, ma come verità del suo mondo soggettivo che diventa motivo guida della sua poetica. In quanto tale non è né da condannare né da approvare, ma solo da cogliere e valutare nei suoi risultati artistici*(L. Aguzzi).
Grazie a tutti.
R.S.
Le poesie di Eugenio Grandinetti, accendono e spengono con estrema delicatezza.
Resta in me un grande desiderio di rileggerle di entrare nel suo mondo fatto di esperienza e di grande interesse per la poesia. La poesia “Il mare” mi porta con sé (anche se non è pubblicata completamente).E’ una lotta la sua, un credo che non si perde nel tempo.
La delusione è evidente ma meravigliosamente descritta con metafore che portano a dire:questa è Poesia.
“Un poeta
non ha voce che conti, non ha peso.
Passa con volo di farfalla e coglie
solo sguardi smarriti che non sanno
dove posarsi.
Un poeta
è come le sue favole: una cosa
inutile, un fiore sterile
che non sa dare al mondo altro che petali
variopinti ma fragili.”
Grazie Eugenio!
…ringrazio L. Aguzzi per la presentazione ricca di informzioni e complessa del poeta E. Grandinetti. Devo dire, come lettrice, che si tratta di un poeta capace di trasmettere profonde emozioni…La prima poesia da me letta: “Il mare”, mi sono sentita del tutto inadeguata a commentarla: il viaggio di un Ulisse solitario in un immenso mare ostile, distante, distante da ogni possibile approdo. Ecco per me è stato subito il poeta della incolmabile distanza tra sè e un mondo lasciato alle spalle, tra sè e i sogni, le ilusioni, le speranze, tra sè e gli altri…Eppure c’è sempre uno sforzo titanico nella poesia, come nella vita credo, di E. Grandinetti a superare questo baratro…Lo esprime bene nella poesia dedicata al padre, nella cui figura forse si identifica: “…che non chiedevi niente, che volevi/ essere solo un cuore accanto a un cuore/ ed essere uno sguardo/ che s’appaga solo d’uno sguardo”…Da ciò potrebbe derivare l’essere così appartato da parte del poeta, non avere, ma anche non ricercare gloria e successo (“Omero”), sono altre le cose che lo interessano…Il suo volersi avvicinare ai poveri è espresso in molte poesie, come al mondo della malattia, nulla distanzia maggiormente dagli altri come il non udire, da qui l’impegno a ricercare un metodo per l’insegnamento ai non udenti…Penso che lo sguardo di E. Grandinetti sia quello del poeta, ma anche dello scienziato e del medico, che, lucidissimo, non si nasconde lo stato di gravità della condizione umana, tuttavia continua a lottare con la testimonianza e l’impegno…
Caro Eugenio ci conosciamo da tempo e so quanto vali. La stima per te l’ho dimostrata
nei miei interventi durante le tue letture poetiche. Io sono “diverso”: Le mie poesie lasciano un segno “reale” e descrivono anche le miserie terrene e le nefandezze sociali!
Se vuoi ti ospito nei miei blog. Con Stima e affetto.
Grazie a L. Aguzzi per questo ampio e illuminante studio sulla poesia di E. Grandinetti che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere negli incontri di Moltinpoesia ,di apprezzare la profondità di pensiero e la cultura negli inteventi in quella sede e sul blog.
La sua produzione poetica,interessante sotto ogni aspetto, a me sembra particolarmente riuscita quando si accosta alla natura e agli affetti familiari, oltre che al mondo classico.
Mi emoziona meno nei componimenti di denunucia dove prevale un certo stile prosastico.
Una cometa per te, con affetto:
NON TI ILLUSERO I BOSCHI
(A Eugenio Grandinetti)
Non t’illusero i boschi di Belsito
che a un tempo miti e violenti mostravano
tra le sterpaglie e il sentiero smarrito
perché due cuori congiunti tacevano
quell’accordo abissale e doloroso
che il “figliopadre” e il figlio intravedevano
lungo il cerchio ontologico a ritroso.
Fu poi la scuola bella di Telesio,
a Cosenza, a chiarire l’ingegnoso,
fine artificio, contro ogni vanesio
immaginare il mondo,
che natura ripete
– non sempre eguale! -, sicché furibondo
fa chi col dogma vuol spenta ogni sete.
Ma tu anarchico mite
ai sordomuti un meteorite
accendi di parole
mai udite sotto il sole,
per un sorriso forse mai più spento
“come fumo nell’aria senza vento”.
Paolo Ottaviani
ringrazio paolo ottaviani per la poesia.se gli fa piacere mantenersi in contatto la mia
e mail è la seguente:ge.grandinetti@alice.it